Fotocamera con vista: è il libro l’ultimo feticcio di Instagram

Da circoli d’élite a comunità social: la rete ha aperto le porte degli esclusivi gruppi di lettura a un sempre crescente numero di lettori che usano i social network per scambiarsi impressioni ed emozioni, informazioni sugli autori preferiti (pubblicazioni, presentazioni e, perché no, gossip), suggerimenti e prove da critici letterari. Un fenomeno in continua espansione se si considerano i post, le stories, le foto che la rete ci restituisce come risultato di una ricerca semplice: basta digitare “#libri”, o “#book” e si entra in una biblioteca immensa e senza confini.

Oggi, poi, la socializzazione delle scelte letterarie è quasi un obbligo: su Instagram e Facebook, la foto con il libro o, nella stagione delle vacanze, la selezione da viaggio è un trend. Le piazze social sono ormai vetrine che gli autori gestiscono autonomamente: scrittori per professione o per hobby promuovono l’ultima fatica letteraria, invitando i propri lettori alla foto di rito con la copertina in primo piano, un modo per testare direttamente le vendite (e, in alcuni casi, anche l’affetto degli amici, diciamolo).

Ai social si è affidato anche il ministero dell’Istruzione per incoraggiare i ragazzi alla lettura estiva con l’iniziativa #AutoriVistaMare, invitandoli via Instagram alla riscoperta di 15 protagonisti della letteratura italiana e internazionale del XX e XXI secolo, da Grazia Deledda a Luigi Pirandello, da Jerome David Salinger a Harper Lee, fino a Cesare Pavese che ha inaugurato lunedì la “rassegna” virtuale. Ogni giorno, per tre settimane, sul profilo Instagram del Miur Social, vengono pubblicate alcune stories, dedicate a un autore e a una sua celebre opera, con curiosità aneddoti e piccoli quiz per sondare e ampliare la propria conoscenza.

La rete questa estate ha ospitato la celebrazione del lutto collettivo per la scomparsa di due voci letterarie popolari come Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo. Ma non è certamente merito del rito social la presenza del papà di Montalbano nelle top ten, con più di un titolo, delle classifiche dei libri più venduti. Montalbano è uno degli autori feticcio per una certa categoria di lettori, che lo trovano in libreria con Il cuoco dell’Alcyon, Conversazione su Tiresia (entrambi per Sellerio) e Ora dimmi di te. Lettera a Matilda (Bompiani).

Come un feticcio è diventata nel giro di due soli anni l’irlandese Sally Rooney: con il suo romanzo d’esordio, nel 2017, Parlarne tra amici si è conquistata il titolo di portavoce della Generazione Y, i millennial (la Bbc ne sta realizzando una serie tv), mentre un’onda di post e stories, soprattutto su Instagram, ha accolto l’uscita del nuovo libro, Persone normali (entrambi pubblicati da Einaudi).

Settore biografie: il tam tam via web segnala la storia del grande ballerino russo, tra arte e pop e la storia di un Paese: Nurayev. La vita di Julie Kavanagh (Nave di Teseo). Per chi non ama le classifiche o entra in confusione dinnanzi agli scaffali con le novità in libreria, i social offrono la consulenza di professionisti, che della propria passione per la letteratura hanno fatto un mestiere: i book blogger. Instagram è la loro vetrina d’elezione: in mostra le ultime letture, romanzi, saggi, biografie recensite per le case editrici d’appartenenza, oltre alle loro prove d’autore. Sul profilo Instagram di Petunia Ollister (@petuniaollister), al secolo Stefania Soma, il libro prescelto condivide sempre il set fotografico con il cibo, leggere e mangiare due piaceri che si accompagnano bene: La Felicità fa i Soldi, di Davide Francesco Sada ed Enrico Garzotto, è la sua proposta più recente, con caffè nero, pancake e cereali. Veronica Giuffrè, autrice del blog @icalzinispaiati, propone una selezione di ebook, condividendo l’esperimento che fa in prima persona e le consente di viaggiare leggera.

Qualche altro link utile: su @manumomelibri, Emanuela Sorrentino propone una coloratissima selezione di titoli Adelphi, mentre @conamoreesquallore di Ilenia Zodiaco, e @nuvoledinchiostro di Francesca Marson si va alla scoperta di autori e luoghi.

“Il linguaggio è potere e violenza”

 

Pubblichiamo stralci del discorso di Toni Morrison al conferimento del Nobel nel 1993.

 

Il saccheggio sistematico del linguaggio può essere riconosciuto dalla tendenza di coloro che lo utilizzano a rinunciare, per intimidazione e soggiogamento, alle sue molteplici sfumature, alle sue complessità, alle sue proprietà ostetriche.

Il linguaggio oppressivo fa più che rappresentare la violenza: è violenza; fa più che rappresentare i limiti della conoscenza: limita la conoscenza. Che sia l’oscurante linguaggio di stato o il linguaggio fantoccio di media dementi; che sia l’orgoglioso ma calcificato linguaggio dell’accademia o il linguaggio della scienza guidato dal mercato; che sia il linguaggio maligno della legge senza etica o quello designato all’emarginazione delle minoranze, che nasconde il saccheggio razzista nella sua sfrontatezza letteraria: in ogni caso, deve essere respinto, castrato e smascherato. È il linguaggio che beve sangue, che affonda i denti nei punti vulnerabili, che nasconde i suoi stivali fascisti sotto crinoline di rispettabilità e patriottismo mentre avanza inesorabile verso la linea di fondo e le menti che hanno toccato il fondo.

Linguaggio sessista, linguaggio razzista, linguaggio teistico: fanno tutti parte dei linguaggi della politica del dominio e non possono, e non intendono, permettere una nuova sapienza, né incoraggiare il reciproco scambio di idee… C’è e ci sarà un linguaggio sobillatore che incita i cittadini a tenersi armati e in armi, facendo sì che compiano e siano vittime di stragi in centri commerciali, tribunali, uffici postali, parchi giochi, camere da letto e viali; un toccante linguaggio commemorativo per mascherare la pietà e lo scempio di morti insensate. Continuerà a esistere un linguaggio diplomatico che induce a tollerare lo stupro, la tortura, l’omicidio.

Addio a Toni “Amatissima”. La prima afro da Nobel

Quando la comitiva si scioglieva, all’ora del pranzo, e ci spostavamo nella sala che era stata preparata in un cortile dell’Orangerie, la strategia era sempre la stessa. Umberto Eco e io ci saremmo tenuti accanto a Toni Morrison in modo da farla sedere al centro, appena trovato lo spazio giusto. I compagni di tavolo potevano essere Jorge Semprún, vecchio amico di entrambi fin dai primi viaggi da ragazzi a Parigi, Jacques Le Goff, grande amico di Eco, e mio, Mario Vargas Llosa.

Toni Morrison era un’amica da prima della sua celebrità, e qualche volta mi era riuscito di averla per una conversazione (erano belle, grandi, dolenti e allegre le sue conversazioni) all’Istituto Italiano di Cultura di New York, che allora dirigevo. Era una delle tre grandi conversatrici, con Vanessa Redgrave e Susan Sontag. Con il solo annuncio riempivi la sala fino alle scale. E cercavamo di avere sempre al nostro tavolo Luciano Berio, forse il compositore più noto e celebrato in quegli anni, in un mondo fondato sugli scambi di culture e di celebrazione dei confini aperti.

L’idea era di un libretto d’opera di Morrison per Berio. Ma l’occasione di cui sto parlando era speciale persino per persone come Toni Morrison. Era l’incontro annuale a Parigi, al Louvre, della Académie des Cultures, fondata da Elie Wiesel subito dopo il suo premio Nobel, con alcun altri Nobel, e un centinaio di autori, scrittori, filosofi, scienziati, (inclusi autori e poeti di Paesi islamici e di cultura asiatica), con lo scopo di elaborare forme di comunicazione e di insegnamento per sradicare il razzismo, scardinare il nazionalismo, cancellare i confini più pericolosi, quelli della cultura come barriera e come identità separata, facendo sempre in modo che fosse un varco all’incontro, allo scambio, al meticciato.

Il lettore si rende conto che stiamo parlando della parte di mondo (e dei suoi più appassionati protagonisti) che ha perso la guerra. Non quella del 1945, che ci aveva liberati e formati, ma quella dei tetri anni del suprematismo, anni che cominciano con l’attentato terroristico (americani contro americani) di Oklahoma City, con i suoi quasi 100 morti (40 bambini). E Toni Morrison (le cose che ha scritto, le cose che ha detto) lo sapeva benissimo, con la profonda tristezza di una grande donna nera.

A quel tempo Eco, Le Goff e io chiedevamo aiuto a Toni Morrison per il compito che l’Académie ci aveva affidato. Ho incorniciato la lettera in cui Wiesel ci dava l’incarico, dopo la votazione unanime dei membri, da Saramago ad Adonis, da Vargas Llosa e Soyinka: dare vita, in libri e in rete, a un’opera continua e interattiva sul tema “Accettare la diversità. Lotta permanente contro l’intolleranza, la xenofobia, e per la difesa dei diritti dell’uomo”.

Toni Morrisn, l’autrice di Song of Solomon e The bluest Eye, era la nostra consulente essenziale, la nostra guida, lei, autrice di Beloved (Amatissima) libro splendido e tragico (in cui la tragedia è tremenda e razziale) e simbolo americano tra i più alti, nella letteratura, nell’insegnamento (Princeton University), nella vita pubblica. Un impegno del genere che ho descritto è molto più di un lavoro e conteneva, nelle parole di Toni Morrison e nel tono netto e coraggioso (anche oltraggioso se necessario) che lei ci incitava ad avere, una sorta di profezia, di quello che sarebbe accaduto nel giro di pochi anni.

Aveva visto giusto il presidente Obama tenendosela vicina più di un consigliere politico. Ed è stata una fortuna grandissima poter incontrare ancora e ascoltare ancora Toni Morrison nei viaggi americani, anche dopo la scomparsa della Académie des Cultures e di Elie Wiesel.

Una frase dura e splendida tratta da suo lavoro (Beloved) va ripetuta oggi a chi legge queste righe nella confusa e crudele Italia sovranista che ha appena votato una legge disumana contro i migranti: “Nel mondo la sfortuna non esiste. Esiste solo l’uomo bianco.”

Heidi Klum non perde il vizio e ci ricasca, anzi si rituffa nelle acque proibite di Capri

Già l’anno scorso l’aveva fatto, Heidi Klum: incurante del divieto di balneazione, il 5 agosto 2018 si era tuffata nelle acque proibite dell’antro di Tiberio a Capri. E come ascoltando gli antichi romani che quest’isola la adoravano (secondo Svetonio in Vita di Cesare, quando l’imperatore Augusto sbarcò a Capri nel 29 a.C e alla sua presenza una quercia vecchissima cominciò a dar segni di vita, egli lesse in ciò il segno di una benevoleza e, per questo, se ne innamorò e la aureolò a sua isola prediletta), al motto latino repetita iuvant, ha pensato bene di ripetere, appunto, il ribelle gesto, stavolta insieme al neo marito, il musicista Tom Kaulitz (di sedici anni più giovane).

Reduci da un matrimonio sfarzoso celebrato sabato scorso a bordo dello yacht Christina O., la coppia ha raggiunto il mitico antro blu in compagnia di una ventina di ospiti tra amici e famigliari. Sulle caratteristiche barchette a remi, si sono approssimati all’interno della cavità naturale e, una volta dentro, bagni e tuffi per tutti.

Quest’anno, però, ad attenderli, sulla gradinata che via terra conduce alla grotta, era appostata una pattuglia dei carabinieri di Anacapri che ha verbalizzato l’infrazione e trasmesso la multa agli enti di competenza.

Certo, cosa saranno mai per la topmodel Heidi seimila euro di sanzione? Magari, già progetta un nuovo tuffo nel 2020 per festeggiare il primo anniversario di matrimonio.

A Bodrum noi stranieri accolti da un burqa

Ero assorto, in riva al mare con la mia ragazza, a leggere non ricordo cosa. Completamente assorto, quando dietro la pagina metto a fuoco una donna col burqa che si avvicina. Cammina sotto il sole cocente con una tazza di tè fumante. Ero in Turchia nel 2013, a Bodrum, località marittima stile Rimini: ogni sera discoteche strapiene. Per vendere gli ingressi serali, i gestori mandavano in giro, tutto il giorno, furgoncini carichi di ballerine semi-nude, a danzare sul retro con la musica a palla.

Non era raro vedere ragazze discinte accanto ad altre in tunica nera. Tradizione islamica e modernità occidentale andavano a braccetto. Ma quella mattina, sulle rive di Bodrum, io e la mia ragazza non avevamo voglia di modernità. Perciò eravamo approdati su una spiaggia libera, dopo aver evitato accuratamente tutti i lidi per turisti. E ora, nell’aria bollente, una donna col burqa avanzava verso di me con una tazza fumante. Mi agito subito. Rovisto nella mente a caccia di gentili parole inglesi per darmi alla fuga. Ma se lei non sapesse l’inglese? Solo grazie ai gesti, la sera prima avevo convinto un autista d’autobus a fine turno a riportarci in hotel, me e la mia ragazza. Lui parlava solo turco: ma era bastato sventolare una banconota e pronunciare la parola Bodrum, per farmi capire. Con la donna del tè, non avevo voglia di giocare ai mimi. Così, quando offrì la bevanda calda ce la bevemmo e iniziammo a parlare, non so se a gesti o a parole. Poi si avvicinò una famiglia con un piatto di salsicce. Un altro offrì pane e verdure, e per educazione non rifiutammo. Su quella spiaggia turca, tra i locali s’era innescata una gara all’accoglienza dello straniero. Alla fine alcuni sconosciuti ci diedero uno strappo in auto fino all’hotel. Mi chiedo sempre cosa accadrebbe se una donna col burqa fosse l’unica straniera su una spiaggia libera italiana.

“Io volere mangiare”. Le App per capire il menù (e le lingue)

Ci sono blog specializzati per chi viaggia da solo, o senza soldi, o per chi non prende l’aereo. Ma per loro – i viaggiatori che non parlano altra lingua se non la propria, magari una lingua minore – poco o nulla invece, solo consigli sparsi, accompagnati da moralistiche raccomandazioni a mettersi a studiare. Eppure in Italia non si tratta di un piccolo segmento, se è vero che solo il 16% degli italiani parla due lingue, ma a varcare la soglia dei confini nazionali (almeno una volta nella vita) è stato il 48% degli italiani. Al ritorno, molti di loro esprimono rammarico, più che per la difficoltà a reperire informazioni, soprattutto per l’impossibilità di interagire con le persone del luogo, come ha raccontato un sondaggio internazionale di due anni fa effettuato da Airbnb-Babbel su 17.500 intervistati. Il 63% ha rivelato di essersi trovato in situazioni imbarazzanti o equivoci, il 56% di essere incapace di leggere il menu.

Tra le tattiche di sopravvivenza per questi viaggiatori troneggia il linguaggio del corpo. A volte è semplice, come racconta sul sito “Travel Made Simple” una viaggiatrice che cercava in un rifugio la carta igienica e per ottenerla ha mimato con successo il gesto di pulirsi. Il problema, purtroppo, è che non tutti i gesti hanno lo stesso significato. Ad esempio nel libro Tra lingue e culture, edito dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, si spiega come il sorriso possa esprimere anche ironia o derisione, mentre l’uso smodato di gesti potrebbe essere interpretato da alcune culture come segnale di nervosismo o di aggressività.

Esistono però altri trucchi per il viaggiatore monoglotta: scrivere su un foglietto da portare con sé – insieme all’indirizzo di dove si pernotta – espressioni di base del tipo “au mac (how much)?”; ma anche fare foto del percorso (intersezioni, edifici, fermate della metro) per riuscire a tornare indietro. Soprattutto, a detta di tutti, il viaggiatore muto deve essere gentile, per attrarre a sé persone che possano aiutarlo.

Ma com’è cambiata la vita di chi viaggia senza saper parlare con l’avvento dei nuovi traduttori digitali? Sicuramente in meglio, tra varie app da scaricare – il più famoso è Google Translate, che traduce pure frasi fotografate o messaggi vocali, come fa anche iTranslate Voice – oppure veri traduttori portatili (ce ne sono di ogni prezzo, ma sempre meglio controllare che il database sia aggiornato e che le istruzioni non siano solo in cinese, capita). Si moltiplicano poi iniziative come quella dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto che grazie alla piattaforma “Dishcovery” consente ai turisti di capire il menu – ma anche la storia del piatto –avvicinando il telefono a un QR Code.

Ma l’avvento del digitale non ha risolto tutti i problemi. Il fatto è che per usare questi traduttori bisogna sapere come si scarica una app sul proprio telefono, oppure, nel caso di traduttori portatili, sapere cos’è un “hotspot” e poi collegarci il traduttore. Tutte cose scontate per i più giovani ma meno per chi è più anziano: proprio la fascia, appunto, che le lingue le parla di meno. Per loro, spostarsi resta complicato, anzi può avere esiti grotteschi: come nel caso, raccontato in un blog di viaggio, dei due coniugi russi, unica lingua parlata il cirillico, incapaci di raggiungere da Roma il gate del proprio volo. Alla fine, l’unica strada che i figli disperati hanno trovato per rimandarli in Russia è stata chiedere l’assistenza disabili alla compagnia aerea. Dunque, presi e portati su una sedia a rotelle, che quella – almeno – è uguale dappertutto.

Gomorra e poi muori: guai a sparare a pancia vuota

Che non fosse solo cinema si capì al penultimo giorno di riprese. Si girava la scena iniziale, destinata a cambiare per sempre il mafia movie per come lo conosciamo. Consapevole che “una delle grandi forze di questo film è che non lascia scampo”, e nemmeno alla fin lì consolidata antropologia visuale mafiosa, Martin Scorsese si concedette l’onore delle armi e prese congedo con i suoi Goodfellas: non era più tempo di polpette al sugo e retaggi, canzonatura e spietatezza, Joe Pesci e Bob De Niro. Serviva cambiare, giacché – avrebbero convenuto Roberto Saviano e Matteo Garrone – “oggi è il cinema a creare l’immaginario criminale e non viceversa”.

Le luci sono del solarium, ma l’esito autoptico: il vecchio boss è morto e sepolto, l’homo novus ha avuto licenza di ucciderlo. Garrone certifica il passaggio di testimone, meglio, il passaggio di stato dalla solidità tetragona di Quei bravi ragazzi all’aeriforme Gomorra: “I boss sono cambiati anche dal punto di vista antropologico, oggi vestono alla moda, frequentano i centri estetici, hanno un aspetto rassicurante e un sorriso accattivante. Fisicamente, oggi i boss di Scampia somigliano a Fabio Cannavaro”.

La forma cinematografica è destinata a plasmare la sostanza criminale, però tra realtà e finzione il rapporto è dapprima osmotico: né solido né gassoso, il set è liquido, chi dà consigli lo fa perché sa, perché è.

Dunque, il solarium al posto del ristorante, e una constatazione: la materia è estetica, la prassi di estetista. C’è l’eredità dei barber shop, l’iconico teatro delle ammazzatine dei gangster d’antan, certo, ma tra una doccia solare e una manicure al Villaggio Coppola va in scena la rivoluzione: con Mao, non è un pranzo di gala. E non è nemmeno un pasto nudo, è digiuno.

Le dodici settimane di lavorazione stanno per terminare, sono le 19.15 e la logica produttiva stabilisce di andare in pausa: ci si ferma, non c’è chi tra i mestieranti eccepisca. Anzi, no, c’è un attore che guarda tutti un po’ spiazzato e un po’ saccente: “Ma che fate, andate a cena? Ma siete matti!?”. Il perché è un coro, la risposta greca, nel senso di tragica: “Non si spara a stomaco pieno”. Osserveranno dalla troupe, è come un notaio che insorge di fronte a un protocollo sbagliato. E ha ragione lui: la scena dell’esecuzione multipla girata dopo cena non va, non viene. Il giorno dopo è quello giusto, perché è l’ultimo, perché non si può sbagliare: shoot, in inglese girare e sparare, dice tutto. Concentrati, coordinati e digiuni, cast e crew si muovono come i sicari della finzione: ciak e colpi andranno ugualmente a segno, Gomorra ha il suo inizio e la sua fine insieme.

A sparare è anche Salvatore Russo, il “notaio” che predica l’astinenza dal cibo: lo ritroveremo nella Storia di Marco e Ciro a tirare contro i ragazzini per testarne il coraggio dietro il giubbotto antiproiettile. Se il 26 febbraio del 2014 ad Arzano un duplice omicidio di camorra ha scelto un solarium analogo per location, lo stesso Russo eccede la finzione: nel novembre del 2016 finisce in manette per spaccio, piazza domiciliata al Lotto P di Scampia, le famigerate Case dei Puffi. Della serie, impara l’arte e mettila da parte.

Non è l’unico a fare di persona personaggio, e viceversa, e c’è chi scambia iterazione per maledizione, la maledizione di Gomorra.

Nel 2015 viene arrestato a Castel Volturno Pjamaa Azize, pusher non solo sullo schermo: tre anni prima era toccato a Nicola Battaglia, uno dei protagonisti del rituale di iniziazione di Russo. Sempre nel 2012 a Castel Volturno è la volta di una comparsa, Marcello D’Angelo. Come in un film, appunto, ci sono i ruoli principali: Giovanni Venosa, il capoclan che decreta la morte di Marco e Ciro, è condannato a tredici anni di reclusione per estorsione. Ancor più gravosa la pena comminata a Bernardino Terracciano, l’equipollente boss Zì Bernardino: ergastolo per duplice omicidio.

Peggio, ma la giustizia non c’entra nulla, è andata a Salvatore Cantalupo, morto a soli 59 anni il 13 agosto dell’anno scorso: attivo a teatro prima che al cinema, interprete sobrio e raffinato, per Garrone è stato il sarto Pasquale, a cui ha saputo dare nitore e ineluttabilità.

Del film, che fu Grand Prix a Cannes nel 2008, ebbe a dire anche l’exemplum Fabio Cannavaro: “Per l’Italia spero che Gomorra vinca l’Oscar. Ma non penso che gioverà all’immagine del nostro Paese nel mondo. Abbiamo già tante etichette negative”. Vincere, si capisce, non è tutto: siano gli Oscar o i Mondiali.

 

 

Una gestione a tre, ma sotto i turchi. Così Pernigotti resta a Novi Ligure

La Pernigotti di Novi Ligure non chiude, anzi ricomincia da tre. Nel senso che a tenere in funzione lo stabilimento piemontese, oltre alla casa madre, saranno due nuove aziende: la cooperativa torinese Spes, che si occuperà del cioccolato e dei torroni e l’impresa di Giordano Emendatori, pronto a rilevare la parte che prepara i gelati. Due soggetti già attivi nel settore: la Spes è una società torinese che unisce la pasticceria ai progetti sociali; Emendatori opera nel ramo gelati e ha fondato la Mec3. Entrambe continueranno a produrre sotto lo storico marchio di dolci made in Italy, che era e resterà in mano ai turchi della Toksoz. La gestione, insomma, sarà a tre.

Ieri, il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio ha illustrato i termini dell’accordo preliminare raggiunto. Per i 92 dipendenti, che a novembre 2018 erano stati messi alla porta dalla multinazionale, è stata una boccata d’ossigeno. Ora il cronoprogramma è fitto di scadenze: entro la terza settimana di settembre i sindacati torneranno al ministero per leggere il piano industriale. L’impegno è quello di non prevedere alcun esubero. Una piccola parte degli attuali lavoratori resterà con Pernigotti, gli altri saranno distribuiti tra le due nuove imprese. Così facendo sarebbero salvaguardati di fatto tutti i posti di lavoro che erano attivi a novembre, quando è stata comunicata la chiusura. Allora erano un centinaio, e qualcuno nel frattempo è andato in pensione con Quota 100. Insomma, nessuno si è fatto male. La Spes e l’Emendatori prenderanno in mano le redini della fabbrica dal primo ottobre. In un primo momento resteranno due entità separate che però opereranno sotto lo stesso tetto, lo stabilimento di Novi Ligure. “Questo pone diversi dubbi – spiega Sara Palazzoli della Flai Cgil – come si lavorerà con due proprietari differenti?”. In una seconda fase, però, tenteranno di costituire un’unica società, una newco. Il passaggio successivo, ambizioso ma anche necessario, sarà la creazione di un nuovo stabilimento, visto che l’attuale struttura è vetusta.

Una crisi che ha vagato nel buio per otto mesi vede quindi uno spiraglio. In questo tempo si sono rincorse voci su diverse aziende interessate a subentrare, senza però mai arrivare al dunque. In un primo momento la proprietà turca intendeva chiudere del tutto lo stabilimento e mandare tutti a casa. Dopo le proteste del governo e dei sindacati ha lasciato margini aperti solo a soggetti che fossero interessati a subentrare nella produzione senza acquisire il marchio. A febbraio è partita la cassa integrazione, mentre a luglio gli addetti – sia gli stabili sia gli interinali – sono tornati al lavoro per non perdere la stagione. Ora mancano gli ultimi passi per dare avvio a un nuovo corso.

La transizione energetica è un problema di classe

Il 20 giugno scorso, principalmente a causa dell’opposizione della Polonia, l’Unione europea non è riuscita ad approvare l’impegno alla “decarbonizzazione” totale entro il 2050. Fissare target per azzerare le emissioni nette di CO2, non è però la stessa cosa che spiegare il modo in cui queste emissioni saranno ridotte e con quali ricadute sul tenore di vita dei cittadini europei.

Le politiche energetiche dei governi europei, che oggi dipendono dall’importazione di petrolio e gas naturale per più del 55 per cento del proprio fabbisogno energetico, sono sempre più orientate a incentivare l’efficienza energetica e a utilizzare la leva fiscale per ridurre i consumi da fonti fossili. Queste politiche avvantaggiano da un lato chi può permettersi investimenti nel risparmio energetico (installazione di pannelli solari, materiali isolanti, automobili ibride, etc.), dall’altro i benestanti per i quali tasse e accise, come sulla benzina, pesano relativamente poco sul bilancio familiare.

Di fattole politiche attuali per la “transizione energetica” dalle fonti fossili si scaricheranno soprattutto sulle classi medie dei paesi occidentali. L’abbiamo potuto misurare con l’esplosione del movimento dei gilet jaunes in Francia: fenomeno nato come protesta all’aumento della fiscalità sulla benzina e poi dilagato in un movimento contro il verticismo dell’amministrazione francese e contro l’ingiustizia fiscale. Stessa situazione in Norvegia dove un vastissimo movimento di protesta contro il costante aumento dei pedaggi stradali (40 per cento di aumento in 4 anni con l’obiettivo di disincentivare il trasporto privato e finanziare quello pubblico e le ciclabili) ha rischiato di far cadere il Governo. Aumenti delle accise sulla benzina, carbon tax, incentivi alle rinnovabili, tasse d’accesso nei centri urbani, blocco alle auto diesel, sono tutte misure giuste per ridurre le emissioni nocive, ma inique se non accompagnate a massicci investimenti nella mobilità pubblica, a riduzione delle tariffe energetiche per chi consuma meno, e a una redistribuzione del carico fiscale complessivo. Sull’introduzione della carbon tax, per esempio, il dibattito è aperto. Thomas Piketty, criticando quella che definisce “l’illusione dell’ecologia entrista”, è tra i molti a proporre che gli introiti dall’introduzione della carbon tax vengano redistribuiti direttamente alle classi popolari. Durante la crisi energetica degli anni 70 il presidente americano Jimmy Carter aveva proposto la stessa cosa: aumentare il prezzo della benzina per scoraggiare il consumo di petrolio, tassando poi i maggiori profitti delle grandi società petrolifere redistribuendoli direttamente verso i ceti popolari. Non ha funzionato. L’opposizione alle sue politiche sull’energia è stata uno dei cavalli di battaglia della rivoluzione reaganiana. Nel 1986 Reagan ordinò la rimozione dei pannelli solari che Carter aveva fatto installare sulla Casa Bianca a suggellare la sua vittoria.

Insieme alla questione dell’equità sociale c’è poi quella della significativa dipendenza dei bilanci pubblici dalla fiscalità ambientale. La fiscalità “verde” rappresenta già oggi più del 6 per cento delle entrate dei governi dell’Unione europea. Una volta che spariranno le energie da fonti fossili, come farà lo Stato a recuperare una fetta così consistente delle sue entrate fiscali, per esempio quelle derivanti dalle accise sulla benzina? Siamo sicuri che l’energia prodotta da rinnovabili, oggi sovvenzionata, potrà trasformarsi in una nuova fonte di ingressi fiscali per lo Stato?

Supponendo che vengano risolte sia le questioni di equità sia quella del mancato gettito fiscale, resta ancora il problema che il passaggio alle rinnovabili non avrà ricadute eguali in tutta l’Unione europea. In particolare, chi produrrà le nuove tecnologie per le rinnovabili beneficerà della transizione assai di più dei paesi che resteranno dipendenti dalle importazioni di tecnologia energetica. I polacchi, per esempio, accusano i tedeschi di voler diventare ancora più ricchi esportando tecnologie rinnovabili mentre loro saranno costretti a chiudere le miniere (in Polonia il 4 dicembre è la festa nazionale per il Giorno del Minatore). C’è del vero. Progetti come la batteria europea per le vetture elettriche hanno carattere intergovernativo e sono principalmente guidati da Francia e Germania i cui governi stanno investendo nell’impresa poco meno di 6 miliardi di euro. Si pone dunque il problema di tecnologie europee che possano avere ricadute occupazionali in tutti i Paesi europei, così come si pone il problema di reti intelligenti europee pubbliche che possano razionalizzare i consumi a livello continentale. La transizione energetica potrebbe essere infatti un modo per rilanciare l’integrazione europea o, al contrario, potrà avere come effetto quello di aumentare ulteriormente il divario tra regione ricche e povere del continente.

Il problema fondamentale è che finché questi temi (il ruolo dello stato nella transizione, la giustizia distributiva dell’energia, le politiche industriali pubbliche europee) resteranno sullo sfondo, la rivolta delle classi medie contro la transizione non potrà che gonfiarsi, frapponendosi a una rapida riduzione dell’utilizzo dei combustibili fossili e dunque ad una rapida riduzione delle emissioni di CO2. Questo spiega gran parte delle prese di posizione contro Greta Thunberg (definita dai social sovranisti come uno strumento nelle mani delle élite globaliste). La transizione energetica non sarà un pranzo di gala. Non potrà basarsi solo sui buoni propositi di salvare il Pianeta. Dovrà essere concretamente vista come un modo per generare nuove opportunità di lavoro e per creare una società più giusta.

Cartelle esattoriali, dal 10 al 25 agosto sospeso il recapito di 800mila atti

Per 15 giorni, dal 10 al 25 agosto, l’Agenzia delle entrate-Riscossione, come di consueto ha deciso di sospendere l’attività di notifica di quasi 800mila atti che sarebbero stati altrimenti recapitati nelle due settimane centrali del mese, per evitare disagi ai contribuenti che in questo periodo sono in vacanza. Si tratta, in particolare, di 492.885 atti tra cartelle e avvisi che sarebbero arrivati per posta e 305.726 da notificare attraverso la Pec, per un totale di 798.611 comunicazioni che saranno temporaneamente congelate. La sospensione non riguarderà, invece, gli atti inderogabili (circa 25 mila) che saranno ugualmente notificati con la Pec o tramite gli operatori postali. Sul fronte territoriale, al primo posto c’è la Lombardia in cui saranno congelati 160.462 atti, seguita da

Lazio (89.910), Toscana (79.322), Campania (77.658). L’attività di notifica riprenderà regolarmente dopo il periodo di sospensione. I contribuenti possono utilizzare i servizi di Agenzia delle entrate-Riscossione, alternativi allo sportello, che consentono di evitare sorprese e di avere sempre sotto controllo la propria situazione debitoria. Nell’area riservata del portale di Agenzia delle entrate-Riscossione, e anche con l’app “Equiclick” per smartphone e tablet, è disponibile il servizio “Controlla la tua situazione-Estratto conto” con cui l’utente, accedendo con le credenziali personali, può verificare cartelle e avvisi a partire dall’anno 2000, i versamenti già effettuati o da effettuare, le rateizzazioni e le procedure in corso, nonché effettuare i pagamenti. È possibile controllare se ci sono cartelle in sospeso non solo sul web, ma anche agli sportelli bancomat abilitati dove il contribuente potrà con comodità procedere anche al pagamento di quanto dovuto.