Ecobonus, a picco il diesel. Auto elettriche al lumicino

Poche settimane fa il ministero dello Sviluppo economico ha ufficializzato lo sblocco di 40 milioni di euro residui sul totale dei 60 destinati all’ecobonus (partito il primo marzo, ma diventato operativo solo 40 giorni dopo), vale a dire l’incentivo da un minimo di 1.500 euro a un massimo di 6mila valido fino al 2021 per chi acquista un’auto nuova con emissioni di anidride carbonica fino a 70 g/km e prezzo di listino fino a 50 mila euro (compresa l’Iva). Nuovi fondi a disposizione che, tuttavia, non devono trarre in inganno: a cinque mesi dal varo, il bonus-malus conferma la sua scarsa efficacia.

L’operazione non ha spostato granché gli equilibri di un mercato malato e in calo a causa dell’incertezza economica, la guerra dei dazi, i limiti alle emissioni di CO2 e la contrazione di diversi mercati importanti (Cina in primis) che minano un settore di 5 mila imprese e 100 miliardi di fatturato. Tant’è che finora dei fondi a disposizione entro il 20 novembre 2019 ne sono stati richiesti solo poco più della metà: al 6 agosto quelli rimanenti sono 36.645.500 euro. Più grave è la situazione di ciclomotori e motocicli: dei 10 milioni a loro riservati ce ne sono ancora a disposizione 9,4 milioni di euro. Non a caso dallo scorso mese è stata ampliata la platea delle due ruote che possono beneficiare dell’ecobonus.

Anche se si tratta di un cospicuo tesoretto, gli incentivi incidono ancora troppo poco sulla riduzione delle emissioni di un parco circolante di quasi 40 milioni di auto troppo vetuste (una su 2 ha più di 10 anni) e perché – lamentano le associazioni di categoria – i bonus riguardano un numero ancora troppo limitato dei modelli. Non ci si deve, quindi, stupire se a luglio, secondo l’Anfia (la Confindustria dell’automotive), dopo tre mesi di piena operatività dell’ecobonus, le vendite confermano un trend negativo: il diesel continua a perdere terreno (-24% nel primo semestre del 2019 con una quota di mercato del 37%) e le benzina si fanno sempre più diffuse (+35% con una quota del 44,8%). Con un picco per le elettriche del 104%. Percentuali assolute che, però, non riflettono, la realtà: le immatricolazioni delle emissioni zero sono 5.912, contro le 2.901 del 2018, pari allo 0,5% di tutta la quota di mercato. Tanto che a luglio, per intenderci, sono state acquistate in tutta Italia 940 vetture elettriche (di cui 240 Zoe della Renault) contro le 10.684 Panda, che si conferma l’auto più venduta. Insomma un’inezia: l’elettrico deve ancora esplodere e, per ora, non è l’ecobonus a far scattare la miccia.

Crescono, invece, le alimentazioni alternative spinte anche da gpl e metano che, però, non incidono sulla diminuzione delle emissioni medie di CO2 delle auto vendute, con la benzina che (assai più inquinante del diesel), nei primi 6 mesi dell’anno, ha superato il diesel di oltre un punto percentuale: 43,5% contro il 42% delle immatricolazioni in Italia. Inoltre, sommando all’elettrico puro le vendite di veicoli ibridi plug-in (quelli benzina-diesel con batterie ricaricabili alla presa di corrente) la situazione cambia di poco, perché anche in questo caso non si arriva all’1% del totale. Numeri che non fanno scontenti solo i produttori, ma anche l’Erario: da gennaio a luglio sono di quest’anno stati incassati 4,9 miliardi di euro in Iva sulla vendita di nuove auto, il 2% in meno dell’anno scorso. Sul fronte del malus, la tassa d’acquisto che va da 1.100 a 2.500 euro per le vetture oltre i 160 grammi/km, prevale un paradosso: quasi nessuno la sta pagando. I concessionari hanno anticipato a inizio anno le immatricolazioni per avere la certezza di sottrarre più vetture possibile alla nuova gabella. E poi ci sono anche quelli che s’accollano il pagamento della tassa pur di vendere. Il piatto piange e l’ambiente pure.

Molti amici, tanti affari, zero guai. Cosa fa e quanto vale Almaviva

L’emorragia di licenziati Almaviva continua, ma il suo fatturato cresce, la società si espande a livello internazionale e le gare – milionarie – vinte nel settore pubblico aumentano. Eppure, come si diceva, dopo le 1.666 teste tagliate nella sede romana, adesso tocca a Palermo con 1.660 persone, che a settembre rischiano di perdere il lavoro. Il tavolo di fine luglio convocato al Mise, e disertato da Luigi Di Maio, si è concluso con un nulla di fatto e gli ammortizzatori sociali, concessi generosamente nel corso degli anni, sono scaduti a giugno. Com’è possibile che un’azienda florida dia il via a massicci licenziamenti – e con modalità non proprio commendevoli (a Roma dopo il rifiuto di ridursi lo stipendio) – e contemporaneamente continui a fare milioni grazie alla P.A. come se nulla fosse?

La cosa ha a che fare col fatto che Almaviva è assai più di quel che sembra. La crisi nel settore dei call center, lamenta l’azienda, è da imputare alla delocalizzazione: peccato che la stessa Almaviva risponda alle chiamate delle principali commesse palermitane, Tim e Wind3, anche dalle sue sedi rumene. Due in tutto, risulta dalla brochure aziendale che descrive il “Gruppo”, su un totale di 62 sedi dislocate in 8 Paesi sparsi in quattro continenti (niente Oceania per ora) con 45mila dipendenti totali. E non si parla certo di soli call center, perché il vero core business della multinazionale di proprietà della famiglia Tripi è tutt’altro: il “gruppo” si vanta di aver raggiunto 823 milioni di fatturato nel 2018 per lo più dall’Information Technology.

Ma andiamo con ordine. Il fatturato di Almaviva Contact – la società che si occupa di call center e ha in appalto commesse di società ed enti pubblici come Eni, Enel, Poste, Trenitalia e Inps – è di circa 144 milioni, il 17% del totale: il settore, secondo la stima del gruppo, crescerà dell’1,8% quest’anno, ma il bilancio 2018 si è chiuso in perdita per quasi 14 milioni. Colpa, elencano i revisori, dei costi per l’apertura del nuovo sito, del ritardo nell’inizio dell’attività per i nuovi clienti e del rinnovo dei contratti di lavoro (per cui si auspica una riduzione dei costi a Palermo e s’è visto come). Nuovi margini di guadagno però, secondo la società, sono in arrivo grazie ai servizi digitali alternativi alla voce come i software per il riconoscimento vocale e l’analisi dei dati (speech e data analytics) e le chat bot (le risposte date in automatico dagli assistenti digitali) in cui Almaviva prevede nuovi investimenti.

E qui si torna all’Information Technology (IT) che, in sostanza, si occupa dello sviluppo, gestione e analisi delle informazioni digitali presenti all’interno di una struttura. Connettendo informazioni, creando software ad hoc e così via. Principale cliente italiano di questo gigantesco ramo della società è la Pubblica amministrazione, locale e nazionale, di cui Almaviva gestisce l’Agenda digitale per cui nel 2017 ha vinto, con altre società, una gara da 850 milioni. Qui invece i bilanci (separati) sorridono: Almaviva Spa, per dire, dai suoi 434 milioni di fatturato nel 2018 ha tirato fuori utili per 25 milioni (quasi raddoppiati in un anno) e la Almaviva Technologies ne aggiunge altri 11,3 milioni, quasi triplicati rispetto ai 2,9 del 2017.

Una manna dovuta in gran parte allo Stato. Ecco un breve elenco dei soggetti interessati. Intanto i ministeri: Esteri, Giustizia, Interno, Difesa, Sanità, Economia, Lavoro, Beni Culturali, Istruzione, Agricoltura. A cui si aggiungono le Regioni Veneto, Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Calabria, Puglia, Sardegna e Sicilia. E ancora: Anac, Consip, Equitalia, Inps, Sogei e pure la Corte dei Conti, che nel 2013 multò la Gmatica, società del gioco d’azzardo controllata da Almaviva fino al 2011, per lo scandalo delle slot machine rimaste per anni scollegate dal sistema informatico del fisco (ovvero Sogei) per un danno erariale miliardario. Gmatica ne uscì con una penale di qualche milione di euro, scontata più volte e calcolata nella fase iniziale da una commissione del ministero dell’Economia dove sedeva Andrea Monorchio, ex Ragioniere generale dello Stato ed ex componente (parliamo del 2006) del cda proprio di Almaviva.

E se oggi sia Corte dei Conti che Sogei sono clienti della società – si tratta di gare d’appalto, sia chiaro, indette da Consip (altra cliente) – dopo quasi una decade nel portafogli Almaviva c’è ancora, in raggruppamento d’impresa, il call center dell’Inps: lo stesso ente previdenziale che nel 2017 ha dovuto bussare alla porta di Almaviva per ottenere, rateizzato, il versamento di qualche milione di contributi mancanti. Tutto saldato, sia chiaro.

Tratteggiato per sommi capi il business, è bene fare un po’ di storia. Il vero boom dell’azienda – il cui nome riunisce quelli della famiglia proprietaria: Alberto, Marco, Viviana e Valeria – è piuttosto recente e risale ai primi anni 2000. In precedenza, quando ancora si chiamava Cos Communication services, vendeva computer. L’idea venne nel 1983 ad Alberto Tripi, ingegnere, un ventennio all’Ibm prima come sistemista e poi come responsabile del settore commerciale in Europa e Medio Oriente. Tra i soci Luigi Abete e Vittorio Merloni, tutti in Confindustria come Tripi (oggi delegato per la cyber security).

A metà degli anni 90 Cos entra nel business dei call center, mentre il suo patron approda, siamo nel 1997, nel consiglio d’amministrazione dell’Iri, dove siede per cinque anni fino allo scioglimento. L’anno prima aiuta il suo ex presidente, nonché amico, Romano Prodi, a trovare una sede per il neonato Ulivo, che si stabilisce in piazza Santi Apostoli a Roma, proprio accanto al suo ufficio.

Tripi ci sa fare con le amicizie, che coltiva a livello trasversale in affari e politica. Frequenta alternativamente prodiani e berlusconiani come Gianni Letta e Maurizio Sacconi, entrando nelle grazie di Marco Tronchetti Provera che lo sostiene nella candidatura, andata male, a presidente di Confindustria. Ed è proprio Tronchetti che dà l’abbrivio alla società di Tripi all’epoca della sua presidenza Telecom. Nel 2004 cede a Cos l’80% di Atesia, il più grande call center d’Europa, dopo aver scorporato la piccola Telecontact, rimasta all’ex monopolista. Nel 2005 gli vende per 160 milioni Finsiel, un ex gruppo di dieci società – tra cui figurava anche Sogei, ceduta al Tesoro nel 2002 – che si occupa di software e consulenza informatica (cioè è specializzata in IT).

Finsiel lavora massicciamente per la P. A. centrale e locale, e per i settori bancario, assicurativo e dei trasporti. Controllata inizialmente dall’Iri (sotto la presidenza dell’amico Prodi) e Bankitalia, nel 1992 passa a Stet (poi Telecom dopo la privatizzazione del presidente, stavolta del Consiglio, Romano Prodi), transita per le mani di Tronchetti Provera per arrivare infine all’ingegner Tripi che la fonde con la sua società, creando Almaviva. Quindici anni prima un altro ingegnere, Carlo De Benedetti, aveva tentato la stessa operazione con Olivetti, ma la faccenda era naufragata dopo il rifiuto dell’Iri.

Finsiel è la pietra miliare dell’impero di Tripi, che ne continua il lavoro anche nello sviluppo di software come il riconoscimento delle impronte digitali o il braccialetto elettronico per detenuti. Un’apripista per Almaviva che inizia a espandersi aprendo la prima sede estera in Brasile, a cui seguiranno quelle in Colombia, Usa (nella Silicon Valley), Belgio, Romania, Tunisia e Cina. I rapporti con l’Unione europea sono gestiti da Bruxelles, dove a luglio, insieme ad altre imprese, Almaviva ha vinto l’appalto per la consulenza e la gestione dei servizi dell’area doganale Ue: 95 milioni in 5 anni. Per la Tunisia ha realizzato il portale del Parlamento e in Cina si occupa di IT in società con un gruppo controllato dal governo di Pechino.

In Italia i sistemi informatici della famiglia Tripi servono allo Stato per emettere milioni di stipendi e pensioni; sorvegliare stazioni ferroviarie e aeroporti (controllandone pure il traffico); rilasciare permessi di soggiorno, passaporti digitali e visti; erogare 5 miliardi di fondi europei; gestire la sorveglianza terrestre, navale e aerea (settore in cui lavora anche per altri paesi Nato); monitorare il territorio integrando cartografia e rilevazioni satellitari. Insomma, buona parte della nostra esistenza sembra essere gestita da Almaviva, che nei suoi server può immagazzinare in cloud fino a 7 petabyte di dati (per l’intero archivio radio-tv dell’Olanda ne basta poco più di uno). Non sfuggiamo neanche sui social perché la multinazionale di Tripi aiuta anche i privati nelle strategie di marketing analizzando le nostre interazioni su Facebook & C. Slogan: “Cosa pensano i vostri clienti? Noi lo sappiamo”.

Solo quest’anno Almaviva ha vinto (non da sola) almeno tre gare pubbliche: ad aprile quella da 180 milioni per il Sistema informativo agricolo nazionale, a giugno una analoga da 20 milioni per la Ragioneria dello Stato e qualche settimana fa un’ultima da 100 milioni per immagazzinare i dati della Lombardia. Senza contare i 10 milioni di contributi pubblici per sostenere i 1.666 licenziati del 2016 a Roma stanziati giusto a luglio.

Soldi pubblici, profitti privati, rischio d’impresa accollato ai lavoratori. Un modello perfetto e a prova di polemiche (e rappresaglie): specie se invece di lavorare per lo Stato, si finisce quasi per gestirlo.

Effetto Trump sulle valute: il nuovo caos

C’è ancora qualcuno in Italia che vede della strategia, o almeno del metodo, nella follia di Donald Trump in campo economico. Mettiamo in fila gli ultimi eventi nei quali soltanto un sovranista convinto può vedere un senso. Trump intima al suo banchiere centrale, Jerome Powell, di tagliare i tassi di interesse per sostenere l’economia ed evitare che gli Usa vadano in recessione nell’anno elettorale. La Federal Reserve esegue, anche se meno di quanto atteso dai mercati (soltanto un quarto di punto). Con quali motivazioni? C’è la piena occupazione e l’inflazione è vicina all’obiettivo del 2 per cento, ma ci sono incertezze sul futuro. Determinate, in gran parte, proprio dalla guerra commerciale scatenata da Trump che ha quindi creato sia il problema sia ordinato la sua soluzione (diciamo così). Ma il presidente non si accontenta di questo, annuncia tariffe su 300 miliardi di merci cinesi. Tariffe che, lo ricordiamo, vengono pagate dagli americani con prezzi più alti sulle importazioni, non dai cinesi che si limitano a esportare meno. Pechino risponde ordinando alle sue imprese statali di non comprare più prodotti agricoli Usa, poi lascia svalutare la valuta sotto la quota simbolica di 7 renminbi (yuan) per dollaro, cosa che riduce l’effetto delle sanzioni commerciali americane. Trump allora accusa la Cina di essere un Paese “manipolatore di valuta”, anche se la decisione di politica monetaria cinese è una reazione proprio alla ostilità dell’amministrazione Usa. Per Pechino difendere il cambio nell’incertezza di questa guerra commerciale rischia di essere un salasso inutile in termini di riserve in valuta estera. Ora che Trump ha etichettato la Cina come “manipolatrice valutaria” ha nuovi argomenti per giustificare sanzioni che correggano le storture dovute a svalutazioni scorrette di Pechino. E così il ciclo di vendette può ricominciare, con Trump al centro come motore poco immobile. Come tutto questo promuova l’interesse nazionale americano, per non dire occidentale, lasciamo ai sovranisti l’arduo compito di provare ad argomentarlo.

Il falso mito dei servizi web gratis: Google&C. vogliono essere pagati

C’è una storia che tutti i fan del digitale e delle nuove tecnologie ripetono spesso per orientare le posizioni e le opinioni degli utenti che si interrogano sulla loro privacy: Google&C. forniscono un servizio gratis e, quindi, è normale che guadagnino sulle informazioni che gli utenti seminano navigando sulle loro piattaforme e utilizzando le loro funzioni. A ben vedere, però, le cose non stanno proprio così. I big stanno puntando sempre più sui prodotti a pagamento, alcuni servizi essenziali si esauriscono presto inducendo gli utenti a passare alla versione premium e all’improvviso si subiscono rincari unilaterali su piattaforme per le quali, ad esempio, si stava già pagando un abbonamento. Insomma, gratis (online) è morto o sta morendo. E gli utenti pagano anche gli interessi con i propri dati.

Un esempio: nei risultati del secondo trimestre del 2019, Alphabet – la holding che detiene Google – ha dichiarato ricavi per 38,9 miliardi di dollari superando le aspettative degli analisti di Wall Street (che si aspettavano mediamente 38,2 miliardi) con una crescita del 19 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il risultato finale ha visto 9,95 miliardi di guadagni netti invece degli 8,02 attesi. La maggior parte degli utili arriva dalla pubblicità (85%), ma il dato che spicca riguarda il cloud. L’ad Sundar Pichai ha infatti annunciato un fatturato in questo settore pari a 8 miliardi di dollari. A febbraio 2018, quando vi aveva fatto riferimento, si parlava di circa un miliardo. I servizi cloud di Google raccolgono tutto ciò che riguarda l’archiviazione: dalle mail alle foto, ai documenti di Google Drive. Chi utilizza questi strumenti giornalmente e per lavoro probabilmente è già stato costretto a sottoscrivere un abbonamento per aumentare lo spazio a disposizione. Un piano da 100 giga, ad esempio, costa 20 euro all’anno, 200 giga costano 30. A fine 2018, il pacchetto “G Suite di Google” (che fornisce spazio illimitato a pagamento) aveva raggiunto quota 5 milioni di utenti e l’azienda parla di rapidissime prospettive di crescita e di investimenti.

Anche Netflix, che offre solo servizi a pagamento, raccoglie dati: lo fa per migliorare il servizio, per suggerire quello che piace di più agli utenti, per trovare le giuste corrispondenze. Il vantaggio, però, sta anche nel sapere, senza dover commissionare sondaggi e analisi esterne, cosa va e cosa no, quali serie, film o documentari sia più vantaggioso acquistare e produrre e quali no. Un vantaggio competitivo con margine d’errore minimo. Nell’ultima trimestrale, la piattaforma ha dichiarato una crescita di utenti di 2,7 milioni di unità e un aumento dei ricavi del 26% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Il rincaro è stato attribuito al contemporaneo rallentamento degli utili, complici forti investimenti nel tentativo della piattaforma di diventare praticamente autonoma nella produzione. L’azienda prevede di recuperare. Intanto, però, gli abbonamenti sono saliti, con un aumento automatico da uno a tre euro.

Gratis, quindi, esiste sempre meno: la versione libera di Spotify ha gli annunci pubblicitari, quella a pagamento ha subito una rimodulazione con aumento incorporato (anche in questo caso la raccolta dati è simile a quella di Netflix). E ancora: Airbnb, Booking.com, Amazon. Tutti gli intermediari maturano utili sulle transazioni e le operazioni effettuate sulle loro piattaforme. Offrono un servizio, prendono una percentuale. Ma si prendono anche le informazioni, con cui ‘arrotondano’.

Nei termini di utilizzo di Airbnb, ad esempio, si legge che le informazioni raccolte possono servire per “inviarti messaggi promozionali, informazioni di marketing, pubblicità e altre informazioni che possono essere di tuo interesse in base alle tue preferenze e social media advertising attraverso piattaforme di social media (come Facebook o Google)” e “personalizzare, valutare e migliorare la nostra pubblicità”. Se gli si dà il consenso, i dati vengono utilizzati anche per veicolare al meglio il flusso dai social al sito. Evidentemente è una strategia che funziona, insieme al resto. Nel terzo trimestre del 2018, la società – che doveva sbarcare in borsa quest’anno, salvo poi smentire per far circolare la voce di un nuovo approdo nel 2020 – ha annunciato ricavi per oltre un miliardo di dollari. Guardiamo, poi, gli ultimi dati di Apple. La società di Cupertino continua a perdere colpi, con ricavi stabili (+1% su anno) e utili in calo del 13 per cento a 10,4 miliardi. Gli iPhone e i dispositivi continuano a essere in caduta (tranne quelli indossabili), le loro vendite per la prima volta rappresentano meno della metà delle entrate. Eppure c’è una voce che cresce più velocemente delle altre: i servizi a pagamento. Le attività riconducibili ai servizi hanno segnato un nuovo record con 11,45 miliardi di dollari rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, quattro miliardi in più se si considera il valore tendenziale sul semestre. Tanto che gli investimenti proseguono (sta per lanciare i suoi servizi di streaming a pagamento e anche una carta di credito). Mesi fa Spotify ha deciso di togliere l’opzione di abbonamento all’interno dell’App Store. “Questo perché – ha spiegato – Apple ha richiesto una commissione aggiuntiva oltre alla tariffa standard, per cui abbiamo deciso di non coinvolgere più l’intermediario e ridurre i costi per te”.

“L’India sta creando un’altra Palestina”

“L’ultimo messaggio dei miei genitori risale a domenica sera. Sentivamo che qualcosa stava per accadere, ma nessuno poteva immaginare questo”. Samreen Mushtaq è una ricercatrice indipendente kashmira che vive nella capitale, New Delhi. Al telefono, il suo stress è palese. Nella mattinata di lunedì il governo indiano, con una decisione senza precedenti, ha annunciato la revoca dello status speciale che la Costituzione attribuisce allo stato di Jammu & Kashmir – area contesa tra India e Pakistan da circa 70 anni. Mossa inattesa, ma anticipata negli ultimi dieci giorni da varie azioni, come l’invio di decine di migliaia di soldati, che si sono uniti alle centinaia di migliaia già presenti in uno degli angoli più militarizzati del pianeta. Studenti, turisti indiani e stranieri sono stati costretti a lasciare la regione, sono stati messi agli arresti domiciliari alcuni dei principali leader locali e, alla mezzanotte di domenica, i collegamenti telefonici e Internet sono stati interrotti: da quel momento nessuno ha più notizie dei 12 milioni di abitanti. “È chiaro che è stato tutto programmato. Parliamo di decisioni che modificheranno presente e futuro di uno Stato intero, prese senza il consenso dei cittadini che vi abitano, nel bel mezzo di un blackout totale delle comunicazioni”.

Il governo nazionalista induista guidato dal Bjp di Narendra Modi, cancellando il diritto di Jammu & Kashmir (unico a maggioranza musulmana d’India), ad avere ampi margini di autonomia, ha eliminato gli speciali diritti di proprietà: “Ora assisteremo ad un occupazione coloniale mirata a stravolgere il territorio, esattamente come in Palestina”. Le fa eco Antía Mato Bouzas, ricercatrice al Leibniz-Zentrum Moderner Orient di Berlino, una delle maggiori esperte della regione, al quale ha dedicato il libro Kashmir as a Borderland (Amsterdam University Press), in uscita settimana prossima: “L’agenda di Modi sul Kashmir è iniziata quando è stato eletto la prima volta, nel 2014. Il suo governo ha perseguito una politica di integrazione e divisione in Kashmir, ha portato avanti uno stato di tensione costante al confine, per alimentare lo sciovinismo nazionalista indiano, ma anche per alienare le popolazioni di confine, gruppi minoritari nella regione”. L’obiettivo è renderlo uno stato dell’Unione indiana come gli altri. “Ciò consentirà, ad esempio, a qualsiasi cittadino indiano di acquistarvi delle proprietà. Ci sono stati alcuni incidenti, come la creazione di colonie separate per il personale dell’esercito in pensione, che suggeriscono una politica di colonizzazione, simile a ciò che accade in Palestina”. Ma la questione è soprattutto regionale. Dopo la furibonda reazione pakistana – “L’esercito pakistano ribadisce che appoggerà i kashmiri nella loro battaglia fino alla fine” – è arrivata, durissima, la risposta cinese, che ha definito “inaccettabile” la decisione di New Delhi. Capire quanto si alzerà l’asticella della tensione è difficile: “L’insurrezione del Kashmir è stata piuttosto attiva negli ultimi anni e c’è una nuova generazione di militanti. Ora tutto dipende dalle reazioni nella valle”. Sulle quali, però, non potremo sapere nulla.

Il patriottismo del “NYTimes” sventato dai suoi stessi lettori

Di fronte a eventi tragici, che inducono all’unità d’intenti della Nazione, il richiamo patriottico è sempre forte per i media degli Stati Uniti: la risposta unitaria e bipartisan ad azioni terroristiche, come l’attacco all’America dell’11 Settembre 2001, o a catastrofi naturali, come l’uragano Katrina nel 2005, tende a prevalere, in un primo momento, sulle polemiche e sull’approfondimento dell’analisi e l’individuazione delle responsabilità. La successione di stragi a cavallo tra luglio e agosto, le sparatorie letali di Gilroy in California, El Paso in Texas e Dayton nell’Ohio e la sequela di ammazzamenti da armi da fuoco a Chicago – decine di morti, oltre venti solo a El Paso, dove c’era una palese matrice suprematista bianca anti-immigrati ispanici –, hanno fatto scattare il riflesso patriottico, almeno nei titolisti del New York Times. Ma i lettori, trovatisi di fronte a un titolo in prima pagina insolitamente neutro, nonostante un discorso alla Nazione intriso di banalità del presidente Trump, hanno protestato. E il giornale, in ribattuta, ha ritrovato lo spirito critico.

Il quotidiano newyorchese, tradizionalmente liberal e prevalentemente schierato — non solo nella sezione dei commenti — contro la presidenza Trump, titolava in prima di spalla con grande rilievo la sua prima edizione “Trump urges unity vs racism”, cioè “Trump esorta all’unità contro il razzismo”. In ribattuta, il titolo era però radicalmente diverso: “Assailing hate but not guns”, cioè “Prendersela con l’odio ma non con le armi”. Tra la prima e la seconda edizione, non è accaduto nulla di nuovo, a livello di cronaca. Ma sui social si sono fatti sentire i lettori del giornale. E la redazione ha recuperato grinta e senso della misura: la strage di El Paso è una tragedia, ma non è l’attacco di Pearl Harbor, e i fomentatori dell’odio come il magnate presidente non possono sbianchettarsi le responsabilità dalla coscienza con un discorsetto. Non sempre le cose vanno così in fretta. Dopo l’11 Settembre, l’imprinting patriottico fu a lungo un marchio indelebile della stampa Usa, anche di quella di qualità, che “si bevve” la storia delle armi di distruzione di massa possedute dall’Iraq di Saddam Hussein, anzi se ne fece megafono, e cominciò a porsi interrogativi e, soprattutto, a tirare fuori la verità solo una volta rieletto presidente George W. Bush, nonostante quelle armi non fossero mai state trovate. Certo l’11 Settembre ed El Paso non sono eventi confrontabili; e Bush, all’epoca da poco presidente, non s’era ancora rivelato in tutta la sua modestia, mentre i limiti di credibilità, affidabilità, sincerità e capacità di Trump sono palesi almeno a tutti i suoi contestatori, fra cui ci sono il New York Times e i suoi lettori.

La bufera sui social suscitata dal titolo della prima edizione è stata immediata e violenta: un titolo da moltissimi giudicato in stridente contrasto con le posizioni del giornale e con le polemiche sull’intervento del magnate. Tre i rilievi mossigli: non avere fatto autocritica sulla retorica incendiaria e anti-immigrati che innesca odio e violenza; non avere formulato alcuna proposta per una stretta sulla diffusione delle armi da fuoco in America; e avere sbandierato come una soluzione la pena di morte per i killer, che già c’è e che, inoltre, è in palese contraddizione con la sua tesi (se gli stragisti sono psicopatici, non sono perseguibili). La reazione alla “sciagurata scelta” del New York Times – la definizione è di un lettore – non si è fatta attendere: migliaia di lettori indignati e molti persino indotti a cancellare l’abbonamento; esponenti democratici in prima linea nella protesta, come i candidati alla nomination 2020 Beto O’Rourke, che è di El Paso, e Corey Booker, che invita il giornale “a fare meglio”. Alexandra Ocasio-Cortez, giovane “pasionaria” newyorchese di origini portoricane, denuncia la “vigliaccheria” delle istituzioni. Fra i primi a sollevare il caso, Nat Silver, un ex giornalista del New York Times, il “mago” che azzecca (quasi) sempre i risultati delle presidenziali. L’attenzione e la polemica si concentrano sul titolo in prima pagina, nonostante il resto del giornale sia ricco di spunti: dalla difficoltà di contrastare il terrorismo endogeno, anche perché l’opinione pubblica accetta misure di prevenzione solo se dirette contro l’integralismo islamico, al fatto che la strage di El Paso è il più sanguinoso episodio anti-ispanico in oltre un secolo di storia americana. Accade così che, in ribattuta, il titolo cambia, sulla stessa foto: fiori e biglietti e bandiere, tutti tributi spontanei alle vittime della sparatoria di El Paso. Dove Trump intende recarsi e dove pochi lo vogliono.

Addio Angela Merkel. Le ambizioni di AKK per la sua successione

Se il lungo addio di Angela Merkel al cancellierato non si è ancora concluso, la corsa alla sua successione invece è già iniziata. E porta il nome di Annegret Kramp-Karrenbauer, la presidente del partito conservatore tedesco e attuale ministra della Difesa. La strada verso la cancelleria della delfina della Merkel però si è rivelata finora più impervia del previsto e soprattutto più densa di sorprese: l’ultima è stata la nomina poche settimane fa a ministra della Difesa al posto di Ursula von der Leyen, nel frattempo diventata presidente della Commissione europea. A detta di molti analisti questo nuovo incarico ha salvato Annegret Kramp-Karrenbauer da una fine annunciata. A 62 anni, colei che è conosciuta con l’acronimo di AKK, è già una rediviva. Com’è potuto accadere in pochi mesi che l’astro nascente della Cdu sia caduta dalle stelle alle stalle?

La ragazza di provincia sulla carta ha una carriera politica così lineare da sembrare uscita dalla penna di un mediocre sceneggiatore. Entra nel Bundestag in quota Cdu nel 1998, a 36 anni e tre figli. Dopo vari incarichi, nel 2011 diventa governatore del Saarland dove resta finchè a febbraio 2018 la cancelliera Merkel la chiama a sé a Berlino e le affida un incarico importante, il più significativo dopo il suo, quello di segretaria generale della Cdu. Quando poi la cancelliera decide lo scorso autunno di non ricandidarsi più alla guida del suo partito, Akk fa il passo avanti: si candida e vince sul filo del rasoio le elezioni per la successione a leader della Cdu contro Friedrich Merz. Veni, vidi, vici.

Siamo nel dicembre 2018 e il passo successivo che tutti attendono a questo punto è la candidatura alla cancelleria. Le sue quotazioni nei sondaggi sono alle stelle, il suo gradimento altissimo. Da quel momento però l’astro nascente comincia ad offuscarsi. I suoi punti di forza cominciano a mostrarsi come punti di debolezza. Per prendere le distanze dall’ingombrante eredità della cancelliera e riunificare un partito diviso tra sostenitori e oppositori di Merkel, Kramp-Karrenbauer orienta il partito verso destra, cercando di riportare le lancette dell’orologio alla Cdu di Helmut Kohl. Il paese però non apprezza. Quando durante una manifestazione di carnevale Akk si lascia andare ad una rozza battuta sul terzo sesso, ridono in pochi. Le critiche invece arrivano ricche e copiose. Le prese di posizioni contro la politica sui migranti di Merkel e contro l’europeismo di Macron la rendono invisa a parte del suo stesso elettorato. “Il centralismo europeo, la collettivizzazione dei debiti, un’europeizzazione del sistema sociale e del salario minimo sarebbero la strada sbagliata” scrive chiaro chiaro Kramp-Karrenbauer, rispondendo alla lettera pubblicata sulla stampa dal presidente francese. Nei contenuti si tratta di un’opinione che non si allontana troppo dalla politica di Merkel, ma nei toni e nello stile è distante anni luce. Pochi temi come l’Europa sono diventati un dogma indiscusso per i tedeschi.

Il parlare chiaro di AKK si rivela dunque un boomerang, tanto che dopo le elezioni europee il suo gradimento crolla secondo un sondaggio al 22%, mentre a gennaio era al 46%.

Il disagio dell’elettorato si allarga al suo stesso partito. Di fronte alle critiche del giovanissimo blogger Rezo, che aveva invitato sulla rete a non votare per la Cdu, AKK replica dichiarandosi favorevole a maggiori regole per Internet. Parole in odore di censura che fanno precipitare Kramp-Karrenbauer e la Cdu in un attimo di nuovo in un polverone di critiche. Ma gli inciampi non finiscono qui: se dal suo partito iniziano ad emergere voci critiche sul suo futuro ruolo di candidata alla cancelleria, con gli alleati di governo socialdemocratici è quasi guerra aperta e contro i verdi è guerriglia. Dopo le elezioni di Brema il partito socialdemocratico si allea con i verdi e con la sinistra della Linke e la nuova coalizione rosso-rosso-verde prende la guida della città. Alla notizia AKK replica dicendo che “chi sogna un governo nuovo e vota verde, deve sapere che può risvegliare la Linke”. Non esattamente un modo per avere buone relazioni con i verdi, né con gli alleati socialdemocratici.

La nomina a ministra della Difesa arriva dunque in un momento difficile. “Il nuovo incarico è una liberazione” scrive Spiegel nel commentare l’incarico. La mossa di Merkel di farla entrare al governo si può interpretare come il tentativo di metterla “in sicurezza” ed evitare dopo la brillante ascesa un’altrettanto rapida discesa. D’ora in poi – commenta il settimanale di Amburgo – non dovrà più esprimere opinioni ma stringere mani, andare a trovare le truppe in giro per il mondo e visitare il quartier generale Nato a Bruxelles. Al tempo stesso per diventare una candidata-cancelliera credibile un incarico di governo non era solo conveniente ma necessario. Soprattutto in un settore come la difesa sempre più strategico e sempre più internazionale. Che la regia del nuovo incarico preluda a un addio anticipato della Merkel dal governo?

Mail Box

 

Il leader leghista rende ridicolo l’inno di Mameli

Da giornalisti di lungo corso, che hanno avuto anche le loro responsabilità sindacali, esprimiamo anzitutto la nostra più sincera e totale solidarietà al collega di Repubblica e a quanti sono stati offesi da questo incredibile ministro dell’Interno, mai visto sulla scena italiana, neppure negli anni peggiori, a petto del quale i vari Bossi e Maroni fanno la figura di autentici gentiluomini. Eppure l’Ordine dei giornalisti soprattutto ma pure la Federazione Nazionale della Stampa hanno reagito veramente soltanto dopo qualche giorno. Ora l’hanno fatto in modo chiaro e fermo. Siamo con loro. Ormai ci avviciniamo ad una vera e propria emergenza per la libertà di opinione garantita “a tutti” dall’art. 21 della Costituzione. Pensiamoci per tempo. L’ultima esibizione da spiaggia del sullodato con l’Inno nazionale – scritto dal ventenne Mameli morto due anni dopo combattendo per la Repubblica Romana del 1849 – in versione per cubiste leopardate ci fa ricordare, con acuto rimpianto, che fu un galantuomo, un uomo della Resistenza come Carlo Azeglio Ciampi ad incoraggiare gli italiani a cantarlo di nuovo, seriamente s’intende. Eppure davanti ad un tale sbracamento, letterale e intellettuale, che fa sprofondare l’Italia nell’umiliazione e nel ridicolo di fronte al mondo, le reazioni ci sono sembrate deboli, inadeguate. L’abbrutimento è così sfacciato, la sguaiataggine è così arrogante da diventare metodo di governo (o di sgoverno) e da esigere, a nostro avviso, risposte politiche, sindacali, professionali, morali ben più nette, irridenti e insieme costanti.

Stefania Conti, Pino Coscetta, Vittorio Emiliani, Gianni Giovannetti, Giuseppe Loteta

 

Quella tragica notte d’agosto del 1974 a bordo dell’Italicus

Una bomba piazzata sotto ad una carrozza del treno Italicus, 45 anni fa, poneva fine alla vita di 12 persone. Questa strage è stata sempre poco ricordata tanto da meritare la nomea di strage dimenticata. Ma io non dimentico. Non ti ho dimenticato Raffaella, non ho dimenticato i tuoi capelli ricci neri, i tuoi occhi blu, la tua vivacità e la tua gioia per una laurea appena conseguita con 110 e lode e pubblicazione della tesi. L’ultima volta che ci siamo viste era il 17 luglio 1974, il giorno in cui festeggiasti la tesi. Mi dicesti: “Sono felice, mi manca solo il merlo”, invece la tua vita è stata spezzata 17 giorni dopo a 22 anni. Con mia grande sorpresa, in questi giorni in tv hanno parlato di quella tragica notte. Addirittura il Cai di Bologna, al quale va il mio più sentito ringraziamento, ha organizzato una commemorazione sul posto. Di te hanno ritrovato solo il braccialetto e la cerniera dei pantaloni. A te hanno dilaniato il corpo, ai tuoi genitori l’anima. Io non dimentico e non essendo cattolica, non voglio sentir parlare di perdono. Faccio un appello al ministro della Giustizia, Bonafede, affinché faccia luce su questa orrenda vicendaCambiare significa anche questo.

Anna Maria Ciampolini

 

Cambiamenti climatici: serve una presa di coscienza dal basso

Il cambiamento climatico è un problema da cui tutto è destinato a dipendere. Bisogna reinventare le basi dell’agire politico. L’unica via percorribile è una forte presa di coscienza dal basso. Ci sono paesi, come l’Inghilterra, dove da oltre un decennio si sta sperimentando l’uscita dai combustibili fossili, con le Transition Towns, che pongono alternative alla mentalità consumistica e fanno rinascere il piacere di vivere in comunità. Anche i Distretti di economia solidale, in Trentino, Friuli Venezia Giulia e Emilia Romagna, vanno in questa direzione. La coscienza ambientalista deve far scaturire un nuovo patto, che leghi eletti ed elettori, sulla base del paradigma ecologico, onde evitare la catastrofe.

Francesca Gaspa

 

Si ostinano a bloccare i lavori ma la Gronda è necessaria

Ultimamente chi ci governa ha causato gravi danni all’economia, sottraendo serenità alle persone anziane e il futuro ai giovani. I ministri preposti si ostinano a bloccare lavori necessari, come la “Gronda” di Genova, ammesso che il nuovo ponte, a tre corsie per ogni senso di marcia, più la corsia di emergenza, abbia ad essere pronto nei tempi dichiarati dal commissario, Marco Bucci. Occorre accelerare.

Renzo Tassara

 

L’Italia non è uno stivale, per l’America è uno zerbino

Nicola Calipari venne ucciso da soldati americani, mentre portava in salvo la giornalista Sgrena, con l’auto crivellata da circa 400 colpi. Gli “alleati” dissero che non s’erano fermati ad un posto di blocco, ma un agente dei servizi segreti, che era al volante, e la stessa Sgrena li smentirono. Nel 1998 un aereo militare Usa, fregandosene dei divieti, trancia i cavi della funivia e uccide 20 persone. Uno dei piloti confessa di aver distrutto i nastri video. Qualche giorno fa, un carabiniere viene massacrato da “un bravo” studente che, poverino, temeva di essere strangolato dal militare. Adesso la famiglia del povero turista Usa pretende prove certe che sia stato lui e pretende che torni a casa. L’Italia è ha la forma di uno stivale, ma oltre oceano molti credono sia uno zerbino.

Franco Taccia

Venezuela. Gli Usa non ce l’hanno fatta con Guaidó, ora provano con l’embargo

 

Gentile redazione, ho letto con stupore, e anche con un certo sdegno, la notizia dell’embargo totale degli Stati Uniti di Trump nei confronti del Venezuela, equiparato così a Corea del Nord, Iran, Siria e Cuba. Trovo questa misura ingiusta e ingiustificata, oltretutto in un Paese già alla fame e sconvolto dai conflitti intestini tra Maduro e Guaidó.

Elvira Stefanetti

 

Dopo il fallimento dell’operazione Guaidó (il presidente dell’Assemblea nazionale che si era proclamato lo scorso gennaio presidente del Venezuela, sostenuto dagli Usa e dalla gran parte dei governi occidentali), Donald Trump torna ai vecchi metodi, ordinando il blocco dei beni del governo del Venezuela negli Stati Uniti e avviando la pratica dell’embargo totale al Paese sudamericano. Come lei scrive, il Venezuela è messo alla pari della Corea del Nord, dell’Iran, della Siria e di Cuba. Da Caracas è partita subito la risposta più ovvia, definire “terrorismo economico” l’iniziativa statunitense in quella che sarebbe “una nuova e grave aggressione dell’amministrazione Trump” con decisioni arbitrarie “contro il popolo del Venezuela”.

È la prima volta da trent’anni a questa parte che un Paese dell’emisfero occidentale è oggetto di un embargo e forse gli Usa dimenticano che nessuno dei Paesi oggetto della loro “attenzione” ha mai visto un rovesciamento del proprio regime politico. Corea del Nord e Iran non solo sono ancora lì, ma propongono trattative e anche il regime di Assad in Siria è vivo e vegeto. Quanto a Cuba, la vera analogia possibile con il Venezuela attuale, non se la passa certo bene, ma gli Usa non sono riusciti a piegarla. In realtà, l’embargo dichiara l’incapacità di Washington a operare scelte politiche che abbiano una certa influenza e un peso. Il tentativo operato con Guaidó ha dimostrato quanto fosse velleitario cercare di rovesciare la presidenza di Nicolas Maduro andando a distribuire soldi all’esercito fino alla beffa di una possibile inchiesta per corruzione nei confronti del presidente dell’Assemblea. Non funzionano i continui vertici come quello del “Gruppo di Lima” che si è riunito ieri in Perù dove circa una sessantina di Paesi hanno partecipato alla “Conferenza internazionale per la democrazia in Venezuela”. Tra le 62 delegazioni, però, tra cui il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, John Bolton, mancheranno Russia, Cina, Turchia e Cuba e, ovviamente, il Venezuela. Come si possa trovare una soluzione diplomatica senza mettersi a discutere è difficile capirlo. Ma agli Usa piacciono le maniere forti, la discussione viene dopo. Quando viene.

Salvatore Cannavò

Dj Ursus contro i pirati e la letterina del presidente

In attesa che la Consulta smantelli per quanto possibile la seconda puntata di Dj Ursus contro i pirati non governativi, opera d’arte nota ai più come decreto Sicurezza bis, l’attuale governo riesce nel non piccolo miracolo di modificare in senso reazionario tanto il codice Rocco di quando i treni arrivavano in orario che la legge Reale di Kossiga ai tempi in cui non si usava il piccone, ma il manganello e, se del caso, la pistola. Dopo la messa al bando dei blocchi stradali nella prima puntata (decreto di settembre), ora arrivano pene da rapina a mano armata per chi manifestando in piazza faccia qualunque cosa, persino dire a Salvini “ministraccio, ora arriva la ruspa” (minaccia a corpo politico). Fino al paradosso che esisterà pure il reato di condotta passiva: guai a te, delinquente, se stai seduto fuori dalla tua fabbrica senza far nulla e con questo impedisci all’eroico questurino di sgombrarti per far passare i camion o i crumiri al fine di garantire il profitto al padrone. Fortuna che ieri in treno abbiamo letto il titolone di Repubblica: “Salvini si mangia i 5 Stelle (ma non Mattarella)”. Ecco, meno male. E che farà il presidente? Ha dei dubbi “sui contenuti della legge, che non impedirà a Mattarella di promulgarla”. Alla fine, come quando firmò Ursus contro la protezione sussidiaria a ottobre, il presidente manderà una letterina per dire “vediamo di non esagerare, eh”. E vabbè, non si può avere tutto: d’altronde peggiorare il codice fascista non è mica grave come proporre un ministro dell’Economia che non piace ai mercati.