Se il governo cade vince Salvini, se non cade ci guadagna sempre lui

Se chiamiamo le cose col loro nome, i rapporti di forza sono un tipo abbastanza raffinato di ricatto. Esempio di scuola: se si votasse domani, Salvini farebbe il pieno e comanderebbe praticamente da solo (dicono i sondaggi), quindi, per evitare il rischio che Salvini faccia quello che vuole nel governo italiano dopo le elezioni, gli si consente di fare quello che vuole prima delle elezioni. Se il governo cade ci guadagna Salvini, se il governo sta in piedi ci guadagna Salvini. È per quello che il ministro dell’Interno balla seminudo nello stabilimento balneare di proprietà di uno che ha fatto eleggere al parlamento europeo: può fare – uso un francesismo – il cazzo che vuole, potendo contare sull’alleanza di un partito di maggioranza relativa che ormai è minoranza nel Paese (dicono i sondaggi e le recenti Europee).

A vedere il bicchiere mezzo pieno, i 5 Stelle se la sono giocata male, a vederlo mezzo vuoto non sanno nemmeno da che parte si comincia a giocare, a vederla tutta, Salvini si è fregato il bicchiere, la bottiglia e pure il tavolino, il bar è di un suo amico, gli avventori lo adorano e lui balla con le cubiste, intimidisce la stampa, irride gli avversari e fa la vittima.

E intanto si prepara al futuro, perché davanti, tipo iceberg, c’è una finanziaria che dovrà trovare chi dice trenta chi dice cinquanta miliardi, e non li troverà certo nelle tasche dei milionari o degli evasori fiscali (che anzi vengono perdonati e condonati), ma in quelle degli italiani che lavorano, che magari si incazzeranno un po’. È per quello, e non per qualche nave delle Ong, che ha voluto il decreto Sicurezza Uno e il Decreto Sicurezza Due: le norme sui cortei, sui blocchi stradali, sull’onnipotenza della celere nelle piazze, sulla repressione preventiva di qualunque protesta seria. Insomma, mentre tutti pensano che sia un cazzaro che balla in spiaggia, Salvini mostra una discreta lungimiranza: basti dire che il ministro dell’Interno non ha mai avuto tanto potere, e il ministro dell’Interno è lui.

Dunque se mettiamo in fila le forze che possono opporsi a Salvini, il quadro si fa ancora più buio. I 5 Stelle sono alleati molto affidabili e gli fanno passare tutto pur fingendo qualche mal di pancia, esternando spesso come se fossero all’opposizione, per poi votare come vuole lui. Se non lo fanno (il Tav), lui vota con gli altri, non c’è problema.

La sora Meloni non vede l’ora di sostenerlo, i brandelli del palloncino esploso di Forza Italia pure (e apprendiamo dell’esistenza dei totiani, in un primo momento ci eravamo rallegrati leggendo “totani”). Il Pd si distrae ogni tanto dalle sue liti interne, con un leader ostaggio del leader precedente che fa da tappo a qualunque iniziativa e che sta facendo i conti della serva sul suo nuovo partitino. Insomma, a parte la realtà economica e sociale del Paese, il suo malessere, la sua emigrazione all’estero in cerca di quell’ascensore sociale che qui è rotto da anni (e che di certo non riparerà Salvini), nessuno sembra opporsi al ballerino in topless, se non qualche intellettuale che tiene botta e non accetta la sua narrazione. Il dubbio è se farlo cadere consentendogli di prendere tutto il banco, o se farlo continuare in una situazione in cui tiene tutto il banco. È l’alternativa del diavolo.

Ma intanto, questo lo dicono i numeri, ci sono sei milioni di persone che in un anno (dalle politiche 2018 alle Europee 2019) hanno abbandonato i 5 Stelle, tanti quanti quelli che (dalle Europee del 2014 alle politiche del 2018) hanno abbandonato il Pd renzista. Sono italiani (tanti) in cerca di una casa, non a tutti piace quella che gli offre Salvini, ma pagheranno l’affitto comunque: dai trenta ai cinquanta miliardi con il solito metodo: meno sanità, meno scuola, meno diritti, nemmeno un buon contratto per le cubiste che ballano col lupo.

Il decreto inutile e la voglia di manganello

Nulla come le cattive abitudini produce assuefazione. Uno dei vizi più trasversali dei nostri governi è quello di abusare senza criterio dei decreti e delle questioni di fiducia. Esattamente lo schema che si è ripetuto l’altro giorno in Senato per l’inutile decreto sicurezza bis. Si è parlato molto in questi giorni delle presunte incongruenze costituzionali (oltre che la possibilità di violazione del diritto internazionale, nonostante il richiamo al rispetto delle norme del diritto del mare) rispetto al dovere di solidarietà. Tutto vero, ma c’è anche una questione preliminare: non si capisce dove si ravvisino i requisiti di necessità ed urgenza. Si obietterà: non ci sono mai. Giusto, ma questo non significa che non si possa opporre ad ogni singolo provvedimento l’assenza di condizioni straordinarie. Anzi. Osservando il quadro generale fornito dal ministero dell’Interno, mettendo a confronto il numero dei migranti sbarcati dal primo gennaio a ieri con lo stesso periodo dei due anni precedenti, si ottengono questi risultati: in rapporto al 2017 -95,83%; e con 2018 -78,72%. Quanto poi al numero dei salvati dalle Ong, qualche conto lo ha fatto l’Ispi: nei primi sei mesi del 2019 soltanto 248 migranti sono arrivati a bordo delle navi delle Ong, ovverosia circa l’8%. Come spiega il sito Linkiesta, “se si rifà il calcolo con gli ultimi dati del Viminale aggiornati al 5 agosto, la percentuale scende al 6%. Dall’inizio dell’anno le ong hanno compiuto sette missioni per soli 31 giorni di attività. Per molto tempo, il Mediterraneo centrale è rimasto senza la presenza di alcuna nave non governativa. Eppure gli sbarchi ci sono stati lo stesso: anzi, sono stati due in più, cioè 34, rispetto ai 32 del periodo in cui le ong erano presenti”. C’era davvero bisogno di multe fino a un milione di euro e dell’arresto in flagranza dei comandanti delle navi? Ovviamente no.

C’è una gran voglia di manganello a leggere questo decretino bis anche nelle parti in cui prevede l’inasprimento dei daspo ai tifosi recidivi e delle pene per i reati commessi durante manifestazioni di piazza (in un Paese che a distanza di 18 anni, non ha ancora fatto i conti col G8 di Genova). Ma soprattutto: sappiamo per certo che la sicurezza non è un’emergenza, se ci fidiamo dei dati che la direzione centrale della polizia ha reso noti a maggio. I delitti commessi diminuiscono del 15% nel raffronto tra i primi mesi del 2018 e quelli del 2019. Meno omicidi, furti, rapine e reati informatici, e soprattutto sono in forte calo gli stupri.

Tutto questo per dire – dati e norme alla mano – che si tratta di propaganda balneare: non basta bollare come disumano il provvedimento, indossando la maglietta dei buoni sentimenti contro la ferocia. La stampa sinceramente democratica c’informa che il presidente Mattarella avrebbe seri dubbi sul contenuto del provvedimento (in particolare sulle pene sproporzionate) perché è un cattolico democratico. Ora, al di là delle bandierine, il Presidente può fare molte cose (in occasione del precedente decreto mandò una lettera al governo). E non è vero che l’interventismo non è nel suo stile, se ci ricordiamo come agì quando Conte portò la prima lista dei ministri in cui il professor Savona era indicato come titolare dell’Economia (circostanza in cui andò ben oltre le sue prerogative). Ma probabilmente non farà nulla e firmerà. Andrà a finire che ci penserà la Corte costituzionale, sempre più supplente di una politica incapace di guardare oltre il proprio limitatissimo orizzonte, che è sempre la prossima elezione (sia detto per il dj leghista e pure per quel che resta degli alleati di governo).

Tav, il tunnel ad alta velocità (nel nulla)

I francesi chiamano in maniera corretta Tgv il treno ad alta velocità e Lgv le linee che il medesimo può percorrere sfruttando le sue potenzialità. Il primo acronimo sta infatti per Train à Grande Vitesse e il secondo per Lignes à Grande Vitesse. In Italia potremmo tranquillamente convertire i due acronimi in Tav e Lav invece usiamo Tav per identificare il progetto Torino-Lione che è una linea anziché un treno, non è ad alta velocità e non è pensata prioritariamente per i passeggeri bensì per le merci che come tutti sanno non han bisogno di viaggiare ad alta velocità e le poche che ne han bisogno non sono in grado di riempire treni. In Francia infatti, Paese di arrivo della Torino-Lione, le linee ad alta velocità sono state pensate esclusivamente per i passeggeri e i treni merci non vi hanno mai circolato. Ma in realtà quella di cui si sta parlando in questi giorni e che sarà oggetto di dibattito parlamentare nella settimana entrante non è neppure una linea ma solo un suo frammento limitato anche se costosissimo da realizzare: il tunnel sotto le Alpi di 57 km tra Bussoleno in Italia e St. Jean de Maurienne in Francia che è gran parte della tratta transfrontaliera assegnata in concessione di costruzione ed esercizio alla società pubblica binazionale Telt. Tutto ciò che viene prima dal lato italiano e soprattutto quello che viene dopo dal lato francese è totalmente al di fuori del dibattito corrente.

Non stiamo dunque parlando dell’intera linea tra Torino e Lione, che al momento misura 300 km di lunghezza, ma di un tunnel che ne rappresenta solo un quinto. Siamo di fronte a una sorta di sineddoche edilizia: la parte viene usata e dibattuta come se si trattasse del tutto, tuttavia nascondendo all’opinione pubblica che i costi della parte sono solo una frazione dei costi del tutto e propagandando i vantaggi sovrastimati del tutto senza precisare che si realizzeranno solo in quota molto ridotta con la costruzione della singola parte. È come se si volesse far credere che disporre di una cover equivale a disporre di uno smartphone perfettamente funzionante. Se a praticare questo giochino non fossero forze politiche ma imprese commerciali interverrebbe subito l’Antitrust ad applicare le sanzioni per pubblicità ingannevole.

Al fine di rimuovere per quanto possibile i rischi della disinformazione ai danni dell’opinione pubblica conviene pertanto far due conti molto semplici sui costi e sui benefici della parte. Quanto costa la tratta transfrontaliera? Per i lavori di costruzione si parte da una stima ufficiale di 8,6 miliardi, rivalutata dal nostro Cipe in 9,6 miliardi. Essa non comprende i costi sinora sostenuti per studi, progettazione e lavori preliminari pari almeno a 1,4 miliardi, pertanto arriviamo a un totale di 11. Si tratta di stime ex ante che vanno prese con beneficio d’inventario considerando che nessuna grande opera nota, a livello sia italiano che internazionale, ha mai rispettato le previsioni. Poiché lo scarto ha mediamente sfiorato il +50%, è ragionevole prevedere un costo finale di 16 miliardi. Ed esso è riferito non all’intera linea Torino-Lione ma solo al Tunnel ad Alta Velocità (ecco scoperto cosa vuol dire Tav…) sotto le Alpi? Quali vantaggi vi saranno in cambio? Per i passeggeri da Milano e Torino verso Lione e Parigi una riduzione dei tempi di percorrenza stimabili in 20-30 minuti, solo la metà del risparmio che si potrebbe ottenere già ora a costo zero se i Tgv dell’azienda francese Sncf, l’unica a coprire il collegamento, utilizzassero tra Milano e Torino la linea italiana ad alta velocità anziché quella tradizionale. Se per ipotesi la concessione venisse tolta a Telt e affidata a Mago Merlino e per magia domattina vi fosse non solo il tunnel ma tutta la Torino-Lione ad alta velocità perfettamente in funzione non vi sarebbe alcun treno ad alta velocità in grado di percorrerla in quanto quelli francesi non sono omologati in Italia e quelli italiani non sono omologati in Francia. Dovrebbero pertanto continuare a usare le linee vecchie. Evidentemente i treni ad alta velocità non hanno per i decisori pubblici altrettanta rilevanza delle linee infrastrutturali che essi dovrebbero usare.

Per i treni merci il risparmio di tempo, più piccolo perché non vanno alla stessa velocità dei passeggeri, sarebbe comunque irrilevante, tuttavia avrebbero il vantaggio dell’eliminazione dell’attuale pendenza e del non dover far ricorso alla doppia o tripla trazione se superiori a un certo peso. Ma stiamo comunque parlando di dieci treni attuali al giorno per direzione, uno in media ogni circa due ora e mezza. Per ottenerne di più bisognerà comperare più prodotti francesi e vendere ai francesi più prodotti italiani oppure sottrarre traffico ai trafori stradali. Ma per quali ragioni le merci dovrebbero spostarsi spontaneamente al ferro dalla gomma, assai più flessibile organizzativamente? Questo i sostenitori del tunnel non hanno ancora saputo spiegarlo.

Trinità dei Monti, vietato sedersi: arrivano i vigili urbani

Vietato sedersi sulla scalinata di Trinità dei Monti. Ieri la polizia urbana di Roma Capitale ha vigilato sulla celebre scalinata di piazza di Spagna a Roma applicando in modo più stringente il regolamento licenziato a luglio dal Campidoglio: sanzioni pecuniarie dai 250 ai 400 euro in caso di comportamenti gravi che danneggino e deturpino i 135 gradini, patrimonio Unesco. Sorpresi ma per lo più collaborativi i turisti invitati dagli agenti ad alzarsi.

Applicazione “troppo rigida della regola” per Giuseppe Roscioli presidente di Federalberghi Roma che auspica “si possa tornare indietro”. Per Viviana Di Capua presidente dell’Associazione abitanti centro storico: “Se una massa di persone pretende di sedersi e non lascia passare gli altri in qualche modo bisogna regolamentare l’accesso”. Già nel 2017 la sindaca Raggi aveva firmato una ordinanza per la “tutela delle principali fontane inclusi i loro basamenti e le relative aree di pertinenza”. Un provvedimento a garanzia del patrimonio storico, artistico e archeologico di Roma.

Delitto Cerciello: “C’è un video dell’incontro con i militari?”

Per la difesa di Finnegan Lee Elder – il 19enne americano in carcere per l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega – i video raccolti dalle telecamere presenti nella zona romana dove sono avvenuti i fatti potrebbero spiegare molte cose. Soprattutto una: chiarire se l’incontro tra i due americani e i carabinieri ci sia stato o meno.

“Abbiamo presentato una richiesta ufficiale e l’ha voluta sottoscrivere Elder per l’acquisizione di tutti i video della zona perché noi crediamo che attraverso i video possa essere fatta chiarezza su cosa sia effettivamente accaduto”, ha detto ieri l’avvocato Roberto Capra, legale di Elder. E ha aggiunto: “Confidiamo che vi sia il video del momento dell’incontro. È su quello che bisogna fare chiarezza”. Una circostanza finora sempre smentita dall’Arma, che durante la conferenza stampa dei giorni scorsi ha ribadito che non c’era alcuna telecamera puntata nella zona dove era avvenuta la colluttazione tra Elder, l’amico Christian Natale e i due carabinieri, Cerciello Rega e il collega Andrea Varriale.

Intanto ieri c’è stato un nuovo sopralluogo dei carabinieri del Ris nella stanza di albergo, in zona Prati, dove alloggiavano i due americani. Sul posto anche i legale dei 19enni. “I dati e i reperti raccolti questa mattina verranno adesso analizzati, per i risultati ci vorrà tempo”, ha detto Fabio Alonzi, difensore di Christian Natale. Per l’avvocato di Elder “L’accertamento di oggi – ha detto – non è così rilevante per capire cosa sia successo. È in corso un sopralluogo della procura al quale ovviamente abbiamo partecipato, ma non lo riteniamo importante”.

Sgarbi rischia il processo: “Quel quadro? Brucialo”

“Deficienti, criminali, delinquenti”. Vittorio Sgarbi ce l’aveva con i carabinieri. In una delle sue sfuriate finite tra gli atti di un’inchiesta giudiziaria e rimaste finora segrete, appella in ogni modo gli investigatori del Nucleo Tutela per il patrimonio Artistico dell’Arma colpevoli di aver sequestrato opere dell’artista scomparso nel 1998 Gino de Dominicis, ritenute false e di cui proprio Sgarbi aveva firmato l’autenticità. Un’operazione compiuta nel novembre 2018, ma di cui non sono mai emersi i dettagli.

La vicenda risale al 2018 quando la Procura chiede e ottiene i domiciliari per due persone e ne indaga altre 21. Tra queste Sgarbi, accusato di aver autenticato false opere d’arte. Le indagini sono proseguite e qualche mese fa l’inchiesta è stata chiusa: adesso il critico d’arte rischia il processo. I fatti contestati vanno da un periodo compreso tra il 2014 e il 2018.

È quindi il 2 luglio 2014 quando esplode la rabbia di Sgarbi, all’epoca presidente della Fondazione dedicata all’artista marchigiano. Mentre i carabinieri stanno sequestrando opere in diverse parti d’Italia, il critico d’arte sbotta e parlando al telefono con altri indagati urla di tutto: “Stronzi… cornuti”. Poi chiama i vertici dell’Arma dei carabinieri e persino la segreteria dell’allora ministro della difesa, Roberta Pinotti. Contatta i giornalisti, pianifica una controffensiva: “Sono in guerra, cioè questi devono morire”.

E dalle centinaia di pagine contenute nei faldoni dell’indagine che ha portato due persone ai domiciliari, emergono, oltre all’accusa nei confronti di Sgarbi, anche le modalità con cui gli altri indagati trafficavano. I carabinieri, ad esempio, documentano in un’occasione il trasporto di una delle opere attribuita a de Dominicis come un pacco qualunque: la presunta opera d’arte “sostanzialmente incustodita e senza alcuna particolare cautela” viene imbarcata nel vano bagagli di un autobus che da Macerata arriva a Roma. Per il giudice è un “ulteriore suggello dell’inverosimiglianza dell’autenticità dell’opera” che si aggiunge alle valutazioni del consulente della Procura, Isabella Quattrocchi, e agli altri riscontri dei militari. Per gli investigatori l’autorevolezza del critico d’arte è fondamentale per gli scopi dell’associazione a delinquere (di cui Sgarbi non fa parte) diretta da Marta Massaioli, vice presidente della Fondazione: un gruppo per l’accusa attivo già dal 2008 responsabile di “contraffazione, autenticazione, detenzione, commercializzazione, ricettazione e truffa di opere d’arte false attribuibili ed a firma dell’artista Gino de Dominicis, e di altri artisti contemporanei tra cui De Chirico, Fontana, Carrà, Capogrossi e altri”.

Oltre alle intercettazioni, secondo l’accusa, a dimostrare le responsabilità degli indagati ci sono anche servizi di appostamenti e filmati. Uno di questi è stato realizzato a giugno 2014 quando Sgarbi firma le autentiche delle opere che la Massaioli gli sottopone: “L’operazione di expertise – scrive il giudice nell’ordinanza – è avvenuta senza una visione diretta delle opere, ma al massimo attraverso una riproduzione fotografica delle medesime, in maniera del tutto inusuale, ovvero nella hall dell’albergo, con la Massaioli Marta seduta in ginocchio di fronte Sgarbi Vittorio, il quale firma le schede delle opere che di volta in volta vengono estratte dal raccoglitore dalla Massaioli. In un frangente – aggiunge il magistrato – viene addirittura ripreso Sgarbi Vittorio che, mentre parla al telefono, continua a firmare, in modo superficiale, senza cura e attenzione, le schede delle opere di Gino de Dominicis”.

Durante le indagini gli inquirenti sequestrano oltre 170 certificati di autentica di cui ben 119 firmati proprio da Sgarbi. E quando la notizia dei sequestri si diffonde, lui monta su tutte le furie: parlando al telefono con la compagna, la avverte che i militari potrebbero recarsi a casa sua per sequestrare un’opera che ha ricevuto come compenso per il suo ruolo di presidente della fondazione. “Potrebbero venire anche a casa eh! Non è escluso, mettilo non so che facciamo… mettilo in cantina, roba da pazzi! Hanno sequestrato un Trittico dove gli ho fatto un libro io, pensa… ma io ho chiamato, non so, adesso vado dal ministro della Difesa e mi faccio, non si sa come fare a resistere a questi ignoranti, incapaci, delinquenti”. E quando la donna chiede cosa fare del quadro, Sgarbi è lapidario: “Brucialo!”, salvo poi tornare sui suoi passi dicendo “No, non fare niente, se fanno una cosa a me diventa ancora peggio per loro, perché io li massacro, vado dai due ministri, poi mercoledì faccio la conferenza stampa, sputtanando i carabinieri per tutta la vita”.

Ed è su quel quadro che si sono addensate alcuni nubi: nell’inchiesta, infatti, il gip di Roma Daniela Caramico D’Auria, scrive che “di fatto, non è dato sapere se effettivamente l’opera sia stata in qualche modo occultata”, ma per il magistrato “l’affermazione evidenzia tuttavia la consapevolezza del critico d’arte che possa trattarsi di un’opera dubbia, verosimilmente falsa”.

Quando la vicenda arriva, qualche tempo dopo quelle telefonate agli organi di stampa Sgarbi ancora una volta si difende a modo suo. Attaccando. Se la prende ancora con i carabinieri, ma anche con il pm Laura Condemi che aveva coordinato l’inchiesta. Per il parlamentare quelle opere sono “autentiche” e “mai il nucleo di Tutela del patrimonio artistico dei Carabinieri era arrivato più in basso mettendo l’ignoranza al servizio della cecità e della mancanza di giudizio di un magistrato”.

Travolti da un Tir: due operai morti sull’autostrada A14

Due operai sono stati travolti da un Tir entrato nella zona di cantiere stradale che stavano finendo di allestire. È accaduto lungo la A14, all’altezza di Borgo Panigale in provincia di Bologna. Le vittime sono Antonio Pizzutelli (38 anni) e Salvatore Vani (46 anni)dipendenti di una ditta che lavora in regime di appalto per Autostrade. I due operai si stavano attrezzando per svolgere i lavori di rifacimento della segnaletica sull’asfalto. Un terzo collega si è riuscito a salvare gettandosi a lato della carreggiata in tempo per evitare il mezzo pesante guidato da un uomo di 62 anni di origine albanese, indagato per omicidio colposo. A un anno esatto dall’esplosione dell’autocisterna di Gpl quello stesso tratto autostradale è peraltro al centro del dibattito sul transito di mezzi pesanti tanto vicino alle abitazioni. Il 31 luglio scorso un altro scontro era avvenuto tra Tir. La morte dei due lavoratori riapre la questione dell’incolumità delle persone nei cantieri stradali nei periodi di intenso traffico: i sindacati rilanciano la proposta che alcuni tratti più a rischio, durante il periodo di manutenzione, vengano chiusi al traffico.

CasaPound toglie l’insegna “vietata”. Oggi l’avrebbe fatto il Campidoglio

L’insegna “CasaPound” non c’è più. Il partito di estrema destra ha dovuto rimuovere la scritta fuori dalla facciata della sua sede, il palazzo occupato dal 2003 a due passi dalla stazione Termini, a Roma. D’altra parte erano appena scaduti i termini stabiliti dal Comune, quando lo scorso 25 luglio Virginia Raggi insieme alla polizia locale aveva notificato ai neofascisti il provvedimento amministrativo che imponeva la rimozione dell’insegna in quanto “abusiva” entro dieci giorni da allora. In caso CasaPound non avesse rispettato i termini, l’atto stabiliva l’avvio della procedura coatta. Il Comune si sarebbe mosso questa mattina, tanto che ieri via Napoleone III, quella della sede occupata, era stata transennata. In questi casi non sono infatti le forze dell’ordine a intervenire in maniera autonoma: la polizia locale può muoversi per eseguire la rimozione soltanto su mandato del Comune, che formalmente non era ancora arrivato ma che “sarebbe arrivato presto”.

CasaPound ha anticipato la mossa, picconando l’insegna sotto gli occhi della sindaca, giunta sul posto: “La Raggi ha ragione – ironizza Gianluca Iannone, presidente del partito –, in una città diventata latrina e barzelletta d’Italia la bellezza di una scritta in marmo stona troppo. La togliamo momentaneamente in attesa della rinascita di Roma che avverrà il giorno in cui il flagello talebano della giunta Raggi sarà cacciato dalla nostra città”.

In effetti le ruggini con la Raggi partono da lontano: contro Casapound la sindaca aveva già messo la faccia in primavera, difendendo una famiglia rom a Casal Bruciato dall’assalto dei neofascisti che protestavano contro l’assegnazione di una casa popolare agli stranieri.

“È solo l’inizio – esulta adesso la sindaca – ora va sgomberato l’immobile e deve essere restituito a chi ne ha diritto. Va ripristinata la legalità. Fino in fondo”. Proprio sotto l’immobile la Raggi ha discusso a lungo con Andrea Antonini, vicepresidente di CasaPound: “Liberate l’immobile – ha attaccato la sindaca – e mettetevi in graduatoria come tutti gli altri”. Al partito non restano che uno striscione polemico (“Questo è il problema di Roma”) e un ricorso al Tar, anche se per ora il tribunale non ha imposto alcuna sospensiva. E così la scritta è sparita.

Sgombero dem a Bologna. “Le stesse ruspe della Lega”

Ruspe democratiche in azione per abbattere l’Xm24, storico centro sociale nel cuore della prima periferia, alla Bolognina. Dopo 17 anni di attività, all’indomani dell’approvazione del contestato decreto sicurezza bis, in città chiude l’ennesimo spazio autogestito sotto la guida del sindaco dem Virginio Merola. “Qui a Bologna sappiano benissimo cosa fare per garantire legalità e rispetto: lo facciamo con gli strumenti della buona amministrazione e senza avere bisogno del decreto sicurezza bis. Salvini pensi alle ruspe che non ha ancora mandato a sgomberare CasaPound. Abbiamo liberato l’immobile occupato con equilibrio e coerenza”. La rivendicazione del primo cittadino su Facebook scatena in poche ore un diluvio di commenti feroci che paragonano l’operato del Partito Democratico alla Lega. Un motivo in più per mandare Matteo Lepore, assessore alla Cultura, all’incontro pomeridiano con gli attivisti sgomberati. Indicato come sindaco in pectore, è stato già mediatore di successo in un altro post sgombero e ha chiuso positivamente anche questa vertenza. Il Comune non ha fatto retromarcia sull’azione di sgombero ma vista “l’importanza dello spazio pubblico Xm24 s’impegna a trovare una nuova sede”. Gli attivisti cantano vittoria, “ma non ci fidiamo – dicono –. Paragonare le ruspe su di noi a quelle eventuali per i fascisti di Casapound è terribile, non c’è differenza tra le ruspe della Giunta e quelle del ministro dell’Interno”.

Sono state tante le idee su cosa dovesse sorgere al posto dell’Xm24, prima una caserma poi un centro culturale e infine un cohousing. Tredici mini-appartamenti che verranno costruiti da Acer, società comunale. A dare un tocco di esotismo al casermone ci avrebbero pensato i murales dipinti dagli attivisti: “Vanno conservate le facciate – ha scritto la Soprintendenza – con mantenimento delle pitture murali esistenti quali espressioni di street art”. Ben venga la bandiera anarchica se riqualificata: la controcultura ma a pagamento. A poco più di un chilometro da qui nel 2020 verrà inaugurato lo Student Hotel di proprietà inglese, pubblicizzato come l’hotel “nella scena underground, tutta graffiti, musica punk rock e anticonformismo artistico applicato in ogni forma d’avanguardia”. Peccato che durante lo sgombero sia apparsa una scritta nuova: “Il cohousing è una cagata pazzesca”. L’omaggio, di fantozziana memoria, è stato sovrapposto ai graffiti “di valore” e potrebbe portare una denuncia per danneggiamento e imbrattamento aggravato. Un cortocircuito già visto in città nel 2016, quando l’artista di fama internazionale Blu cancellò le proprie opere murarie pur di sottrarle alla mostra sulla street-art ideata da Fabio Roversi Monaco, ex rettore ed ex numero uno della potente fondazione Carisbo.

L’ex mercato ortofrutticolo della Bolognina fu concesso dal primo, e finora unico, sindaco di centrodestra di Bologna, Giorgio Guazzaloca, nel 2002. La convenzione però è scaduta da due anni e non c’è un accordo su un immobile alternativo. Il pensiero corre al successore di “Guazza”, Sergio Cofferati, vero inventore delle ruspe democratiche che nel 2005 sgomberò alcune famiglie rom dagli argini del fiume Reno. Se lo ricorda bene Valerio Monteventi, ex consigliere comunale e colonna dei movimenti bolognesi: “La ruspa democratica è uguale alla ruspa di Salvini. Spiana la strada, verso il Papeete”. La stessa strada del decreto Minniti-Orlando. Quella che nella fredda Bologna del 2017 ha permesso di allontanare decine di senzatetto con un daspo perché impedivano “di fatto la fruizione del passaggio pedonale”. Piccoli episodi forse ma capaci di distruggere la già labile ipotesi di una lista di sinistra in sostegno del bis di Stefano Bonaccini alle Regionali dell’Emilia-Romagna previste in autunno.

Davanti all’Xm24 c’erano i consiglieri comunali di Coalizione Civica e Igor Taruffi, capogruppo di Sinistra Italiana in Regione: “Le questioni sociali non si risolvono con le forze dell’ordine ma con il dialogo. Lasciamo sia Salvini a giocare con le ruspe. Bologna e l’Emilia-Romagna sono e devono essere altro”. Solidarietà dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che rivendica di aver costruito “un percorso giuridico per rendere meritevoli di tutela” i centri sociali, senza sgomberi. Esulta la Lega con il ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Molto bene, la musica è cambiata, ordine, legalità e democratiche ruspe. Grazie ai Decreti Sicurezza abbiamo previsto interventi più incisivi contro le occupazioni illegali”. Un trionfo per la candidata leghista alla Regione, Lucia Borgonzoni, “Una giornata storica che aspettavamo da tempo”.

Barracciu, reato ma in senso lato

Francesca Barracciu. Mi ero dimenticato che esistesse. Sbagliando: perché rammentarla significa comprendere, come per visione, come si possa arrivare a votare per Matteo Salvini.

Ebbene, la sullodata mi rubrica tra gli intellettuali “falce e poltrona” perché “nominato nel consiglio degli Uffizi su indicazione diretta di ‘questa destra’ al governo”.

Cioè: la Barracciu (testé condannata in Corte d’appello a tre anni, tre mesi e venti giorni di reclusione per peculato: ovvero per “appropriazione indebita di denaro o altro bene mobile appartenente ad altri, commessa da un pubblico ufficiale che ne abbia il possesso in ragione del suo ufficio”) mi contesta una carica consultiva senza retribuzione.

Accettata solo per provare a limitare i danni provocati dalla riforma oscena del governo Renzi, in cui ella era (abisso!) sottosegretaria ai Beni Culturali.

In quella veste scrisse che un’assemblea dei lavoratori del Colosseo era “un reato”. “In senso lato”, dovette poi precisare: reato in senso lato. Dolce e un po’ salato.