Sport, governo piglia tutto: maxi-delega a tempo di record

Cambia lo sport. O meglio, cambierà: per ora il ddl approvato ieri in via definitiva al Senato prevede tutto e niente. Ma fra le tante novità il punto è sempre la riforma del Coni, svuotato di soldi e potere a favore della società governativa Sport e Salute. Nasce tutto da qui. La fretta dell’esecutivo, che ha voluto l’ok a tempo di record a costo di una forzatura parlamentare (una delega vaga non è passata in Commissione, ce ne sarebbe a sufficienza per un ricorso alla Consulta). Le proteste di Malagò. Il Comitato internazionale (Cio) che denuncia la violazione dell’autonomia sportiva e minaccia di sospendere l’Italia.

Intanto la riforma Lega-M5S è legge. Promette di rivoluzionare il settore. 9 articoli, altrettante deleghe: la più corposa per creare nuovi contratti e regimi fiscali per associazioni e lavoratori, ma anche scuola, casco sugli sci, stadi, azionariato popolare. 12 mesi per i decreti. Il problema è l’attacco al Coni: già fatto in manovra (il 90% dei fondi a Sport e salute), la delega serve per costruire il nuovo quadro normativo. Per i sottosegretari Giorgetti e Valente dovrà occuparsi solo dell’alto livello; il resto (scuola, sociale, federazioni) al governo. Ma per il Cio non si può fare (lo dice la Carta olimpica): ha inviato all’Italia una lettera in cui si dice “seriamente preoccupato”, minaccia provvedimenti. Un’arma per Malagò, l’ultima carta sulla trattativa ancora da fare. Il Cio chiede un incontro urgente, ma intanto la legge è approvata. Da Palazzo Chigi assicurano “massima disponibilità”: “Chiariremo, è solo un fraintendimento”, dice Giorgetti. In fondo dipende tutto dai decreti attuativi. Ma le sanzioni arrivano fino alla sospensione dell’Italia: significa esclusione dai Giochi di Tokyo 2020 (atleti senza bandiera, niente squadre), rischi persino per Milano-Cortina 2026. Scenario apocalittico, pochi precedenti: per ragioni politiche di recente è successo solo a India e Kuwait. Un paragone non proprio lusinghiero.

Rimborsi Lega, il reato di truffa per Bossi e Belsito è prescritto

Umberto Bossi e Francesco Belsito se la cavano in Cassazione solo grazie alla prescrizione, ma la Lega no. Resta per il Carroccio la confisca dei 49 milioni di euro da restituire in 76 anni per rimborsi elettorali indebiti. La Lega deve restituire i soldi perché i rimborsi li ha ricevuti anche con i segretari Roberto Maroni e Matteo Salvini. Dopo oltre quattro ore di camera di consiglio la sezione feriale della Cassazione presieduta da Fausto Izzo, relatore Piero Messini Dagostini, ha dichiarato la prescrizione del reato di truffa ai danni dello Stato.

Dal complesso dispositivo si evince che il reato è stato riconosciuto, come aveva chiesto il pg Marco Dall’Olio, ma la prescrizione ha salvato i due imputati anche dalle confische personali.

Il fondatore della Lega e l’ex tesoriere, erano stati condannati dalla Corte d’Appello di Genova , il 26 novembre scorso, per truffa ai danni dello Stato: Umberto Bossi a un anno e dieci mesi mentre Francesco Belsito a tre anni e nove mesi. L’udienza fissata ieri – si pensava – proprio per non far scattare la prescrizone, invece, il collegio dopo ore di discussione l’ha ravvisata: la sentenza è arrivata in chiusura di giornale; non sappiamo perché il collegio ha ritenuto che la prescrizione sia già scattata mentre si era detto in questi giorni che sarebbe scattata domani. Per Belsito, però, è stata confermata l’appropriazione indebita, ma la Corte d’Appello genovese dovrà rideterminare la pena.

Durante la requisitoria, il pg Dall’Olio aveva chiesto la conferma delle condanne per Bossi e Belsito, parlando di “condotta truffaldina”, di “un sistema artatamente sofisticato, per far ottenere i finanziamenti alla Lega”. La truffa, ha detto, “si configura simulando una trasparenza senza la quale le somme non si sarebbero potute ottenere. Le falsificazioni non erano finalizzate ad occultare al partito le condotte appropriative ma ad ottenere il finanziamento”. Contrariamente a quanto sostenuto dalle difese, la falsificazione delle richieste al Parlamento per ottenere i rimborsi elettorali nel periodo 2009-2011 c’è stata: “Non è vero che i rendiconti erano generici e non falsi. Si diceva ‘rimborsi autisti’ ma in realtà si finanziava la famiglia Bossi… Non è un aspetto secondario, è sotto questo profilo che si consuma il reato di truffa ai danni dello Stato”. Il pg ha ricordato il sequestro della cartellina denominata “Family” e “l’accredito per la laurea di Renzo Bossi (il Trota, ndr)”. Dall’Olio ha parlato di ricostruzione “priva di incertezze. Non vi è dubbio che vi fossero spese per i familiari Bossi”. L’udienza era cominciata con due mosse dell’avvocato Alessandro Sammarco, difensore di Belsito, che non hanno avuto seguito: un rinvio per mancanza di documenti, respinto e poi la ricusazione del collegio. Respinta.

In Cassazione c’è anche il filone milanese del processo a Bossi e Belsito. L’11 settembre, la Suprema Corte si dovrà pronunciare sulla sentenza d’appello di Milano che ha condannato lo stesso Belsito per appropriazione indebita dei fondi della Lega (un anno e otto mesi) e assolto Umberto e Renzo Bossi per improcedibilità, dato che Matteo Salvini ha sporto querela solo nei confronti dell’ex tesoriere. La procura generale di Milano ha fatto ricorso e ha chiesto di estendere anche ai Bossi la querela di Salvini in quanto la condotta “criminosa” riportata nel capo di imputazione è unica.

Nell’udienza scorsa, a luglio, l’avvocato Sammarco ha ricusato pure quel collegio della Cassazione. Se la richiesta dovesse essere accolta si dovrà costituire un nuovo collegio, altrimenti a settembre ci sarà la sentenza anche per il filone milanese.

Anche Forza Italia jr. perde i pezzi: se ne va il leader dei giovani

Forza Italia sempre più nella bufera. Dopo la rottura e l’addio di Giovanni Toti (da vedere chi lo seguirà), il partito berlusconiano perde anche il leader dei giovani. A soli 9 mesi dal congresso che l’aveva incoronato, Stefano Cavedagna sabato ha lasciato l’incarico di presidente di Forza Italia Giovani. Il motivo è la sterzata “troppo centrista” del partito e l’idea di dare vita all’Altra Italia, nuovo coordinamento delle forze di centro. Cavedagna, infatti, viene da destra e la sua elezione a leader dei giovani aveva sorpreso molti. “Sono stato accusato di avere posizioni diverse dal mio partito. Penso invece che sia FI ad aver abbandonato le sue storiche posizioni”, ha scritto Cavedagna su Facebook per annunciare l’addio. Uscita che però era nell’aria viste le numerose frizioni col resto dei giovani forzisti negli ultimi mesi. Il suo nuovo approdo, si dice, sarà Fratelli d’Italia, insieme a Galeazzo Bignami, suo maggiore sponsor politico, e a una nutrita pattuglia di dirigenti locali dell’Emilia Romagna. Ma non si esclude nemmeno un ingresso nella nuova formazione di Giovanni Toti, decisamente schierata verso la Lega.

Troppi like a Salvini: codice per i giornalisti Rai

I commenti e i post sui social stanno diventando un problema in casa Rai. L’ultimo caso è quello della giornalista del Tg2 Anna Mazzone che su Twitter ha dato della “crucca” a Carola Rackete. Prima era stato un suo collega di tg, Luca Salerno, a scatenare polemiche per una vignetta omofoba sull’evoluzione della sinistra, “passata dalla difesa degli operai a quella dei trans”. Ma pure Giampaolo Rossi, membro del Cda in quota FdI, non scherza in fatto a tweet schierati. Di più. Nella Rai gialloverde sembra essersi inaugurata una nuova disciplina olimpica: la corsa ai like per Matteo Salvini. Uno dei campioni in questo sport è Gennaro Sangiuliano, fin da quando stava al Tg1. Ma non è di certo l’unico. Si difende bene, per esempio, pure il direttore dei Raisport, Auro Bulbarelli (quota Lega), il cui profilo Twitter è un susseguirsi di “mi piace”.

La questione non è di poco conto: quanto un giornalista Rai (servizio pubblico) sui suoi profili social può schierarsi per una parte politica? Quanto può postare o condividere contenuti ai limiti della violenza verbale? Viale Mazzini da tempo si sta ponendo la questione: l’Usigrai e le Risorse umane stanno lavorando a una policy interna, un codice di comportamento che prenda spunto dai modelli degli altri servizi pubblici europei, a partire dalla Bbc. Le nuove regole arriveranno a settembre. Nel frattempo, però, si è mossa anche la Vigilanza. Il presidente Alberto Barachini e alcuni suoi membri, tra cui Michele Anzaldi (Pd), stanno preparando una bozza da “suggerire” alla Rai, una “social media policy” per porre dei paletti alle esternazioni social dei dipendenti. L’iniziativa, però, non è ben vista a Viale Mazzini perché, si spiega, “non è compito della Vigilanza imporre una regolamentazione” che, se arriva da fuori, “puzza di bavaglio”.

Nel frattempo, dopo lo stop della Vigilanza a Fabrizio Salini sulle nomine previste dal piano industriale prima del via libera del Mise, l’ad sembra essere sempre più nel mirino della Lega. Matteo Salvini, si sa, vorrebbe sostituirlo e uno dei nomi che girano in casa Lega è quello del dg Alberto Matassino, che negli ultimi tempi avrebbe stretto un canale privilegiato col Carroccio.

Nessuno vuole Icardi-Renzi. Di Maio scaricato come Dybala

Il calciomercato è come la politica: non succede nulla. Solo l’attesa estenuante dell’effetto-domino: l’episodio che scateni la crisi di governo o il famigerato “valzer dei centravanti”. Renzi è come Icardi: una volta erano i capitani, i fuoriclasse, trasformavano ogni pallone in oro. Caduti in disgrazia, restano piantati al loro posto: Icardi non vuole lasciare l’Inter, Renzi resta al Pd perché fondare un partitino macronista sarebbe una follia. Hanno familiari ingombranti: Mauro l’ingestibile moglie Wanda, Matteo lo spregiudicato papà Tiziano. Berlusconi invece sembra Higuain: anziano, stempiato, sovrappeso e soprattutto indesiderato dalla sua squadra – Forza Italia o la Juve – che lo considera bollito; ma Silvio, come el Pipita, non sloggia. Di Maio e Dybala sono stati abbagliati dall’idea di gioventù e talento. Si sono illusi di essere i leader dei loro club, hanno perso il tocco magico e ora rischiano di essere scaricati. Dzeko, come Zingaretti, pare sia al suo posto per caso: il segretario del Pd è una presenza discreta, quasi riluttante; il romanista ha la testa altrove (all’Inter) da mesi. Eppur non si muovono. E poi Salvini. Somiglia al belga Lukaku: come lui è popolare e desiderato (se lo contendono Juve e Inter a cifre folli); come lui non è un fine dicitore e viene il sospetto che sia drammaticamente sopravvalutato, un pessimo affare; come lui è grande e grosso, non proprio filiforme. Lukaku però è nero.

Scalfarotto da Kim a fare il vice-Razzi

C’è un vuoto devastante nell’ultima legislatura, la diciottesima, quella iniziata dopo le elezioni del 4 marzo 2018: l’assenza del senatore Antonio Razzi, tradito da Berlusconi e dal partito a cui aveva dato tanto lustro. Domanda: e ora chi si occupa di mantenere floride relazioni diplomatiche con la Corea del Nord? Chi si farà carico di portare alle orecchie del soffice Kim Jong Un il verbo del popolo italiano? Ora c’è una risposta, e il vuoto lasciato da Razzi è forse un po’ meno devastante: il nuovo messo dell’Italia in Corea è Ivan Scalfarotto. Il parlamentare renziano, fresco reduce dalle polemiche multipartisan per la visita in carcere agli americani imputati dell’assassinio del carabiniere Cerciello, è ripartito subito per una nuova, entusiasmente avventura. Insieme al forzista Osvaldo Napoli, Scalfarotto si è imbarcato per Pyongyang. L’annuncia un comunicato solenne: “Sono passati quasi vent’anni da quando l’Italia, primo Paese del G7, decise di allacciare le relazioni diplomatiche con la Repubblica della Corea del Nord. Per festeggiare quella circostanza, una delegazione parlamentare si è recata in visita a Pyongyang per una serie di colloqui con i massimi dirigenti politici coreani. E, prima volta nella storia diplomatica, la stessa delegazione si recherà a Seul, in Corea del Sud”. Sarà, ma con Razzi era tutt’altra storia.

La Lega: “Aboliamo abuso d’ufficio e danno erariale”

Lo aveva già detto in passato, ma adesso Matteo Salvini lo ripete attribuendone il desiderio anche alle parti sociali, incontrate ieri al Viminale: “Metà degli interventi si sono soffermati sui tempi della giustizia. In tanti operatori, sia del pubblico che del privato, hanno chiesto il superamento di alcune fattispecie come l’abuso d’ufficio e il danno erariale”. Secondo Salvini, dunque, l’abrogazione di questo tipo di reati sarebbe una priorità non solo per la Lega, ma anche per le quarantacinque sigle dei sindacati e delle associazioni delle imprese presenti al vertice con il ministro. “Su questo la posizione della Lega è nota – ha aggiunto ieri Salvini –, queste sono cose che stanno ingessando sia il pubblico che il privato”. Già lo scorso maggio Salvini aveva lanciato l’idea, preoccupato dal fatto “che ci sono 8mila sindaci bloccati che non firmano nulla per paura di essere indagati”. Il Movimento 5 Stelle, però, aveva stroncato la proposta: “Se qualcuno pensa di poter aiutare qualche governatore abolendo il reato, allora troverà non un muro, ma un argine da parte del M5S”

La spartizione s’inceppa: i gialloverdi prorogano il dem Soro alla Privacy

Chi l’avrebbe mai detto. Matteo Salvini e Luigi Di Maio allungano la stagione di Antonello Soro, il Garante per la Privacy che risale all’epoca tecnica di Mario Monti, contestato dal Movimento per la sanzione contro l’associazione Rousseau, di professione dermatologo, deputato per cinque legislature con un biennio da capogruppo del Partito democratico. Con una norma in Consiglio dei ministri, ieri il governo di Lega e Cinque Stelle ha prorogato per altri due mesi il collegio dell’Autorità per la Privacy, già scaduto il 19 giugno dopo il mandato non rinnovabile di sette anni. A volte pure la spartizione delle poltrone s’inceppa.

Gli azionisti del governo non sono riusciti a distribuire i quattro posti della Privacy che vanno assegnati in Parlamento, la Camera è chiusa per ferie da una settimana e riapre il 9 settembre, il Senato sta per affiggere il medesimo cartello.

Allora per i gialloverdi non c’era scelta se non confermare Soro e colleghi per non bloccare l’ordinaria amministrazione dell’Autorità, tenuta in vita dal 19 giugno con l’ausilio di un vecchio parere del Consiglio di Stato che concede 60 giorni di rinvio, ormai quasi esauriti. Perciò la norma, in vigore con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, permette al collegio di Soro di veleggiare sino all’inizio di ottobre. Il governo, però, puntella Soro per sincronizzare in Parlamento il voto per la Privacy con quello per l’Agcom, l’Autorità di garanzia per le Comunicazioni che il 25 luglio ha terminato il mandato e può raggiungere il 25 settembre sempre per merito del succitato dispositivo del Consiglio di Stato.

Smaltite le vacanze, i deputati e i senatori, a maggioranza, dovranno eleggere quattro commissari ciascuno, due per la Privacy e due per l’Agcom.

Il presidente della Privacy viene indicato dai componenti del collegio, ben istruiti dai partiti s’intende, mentre il capo dell’Agcom – il quinto del gruppo – sarà nominato dal Consiglio dei ministri e dovrà superare il vaglio delle commissioni parlamentari competenti. Secondo il manuale della lottizzazione, che viene applicato dai gialloverdi con rigore, i Cinque Stelle pretendono il vertice della Privacy e la Lega, col supporto di quel che resta di Forza Italia, preferisce l’Agcom. Un paio di commissari, per decoro istituzionale, vanno consegnati alle opposizioni, cioè a Fdi e Pd.

Siccome l’accrocco, non contemplato nel sacro testo del contratto di governo, è saltato per le tensioni di luglio tra Lega e Cinque Stelle, i gialloverdi ci riprovano sul finire d’estate senza che ci sia, almeno in pubblico, una valutazione di merito su chi dovrà guidare per sette anni due Autorità cosiddette indipendenti.

Per la Privacy, mesi fa, Camera e Senato hanno raccolto oltre 200 candidature, tra ex politici, avvocati e professori: i documenti riposano in pace in qualche ufficio di palazzo Madama e Montecitorio. Ai partiti di governo spetterà il compito di selezionare i quattro fortunati, uno almeno con l’assenso delle minoranze, e comunicare le identità ai capigruppo, chiamati a dirigere il voto al buio di deputati e senatori.

Per l’Agcom, assistita dal vuoto di legge, la politica ha aggirato la farsa del curriculum. I partiti procedono a piacere. Eppure la Privacy e l’Agcom hanno un potere in espansione, l’una regola la gestione dei dati personali in un mercato sregolato e invasivo e l’altra disciplina l’enorme settore delle comunicazioni, dagli operatori telefonici a quelli televisivi. I 5 Stelle, con buone ragioni, hanno criticato l’Agcom perché ha allentato la legge sull’abolizione alla pubblicità del gioco d’azzardo: se il tema è importante, perché non hanno avviato le nomine? Mica facile la spartizione.

Caro Matteo, sono Maria: io con te non c’entro niente

Caro Matteo, mi presento: sono la Beata Vergine Maria, colei che ieri hai ringraziato in un tweet. Di solito non mi scomodo a rispondere ai tanti che mi invocano, ma visto che Papa Francesco mi ha definita l’influencer di Dio e tu sei l’influencer di una buona fetta di italiani che credono nel tuo verbo (nello specifico il verbo ruspare), scendo momentaneamente sulla Terra e ti spiego un paio di cose.

Io ne ho sopportate tante nella vita, compreso Paolo Brosio. Avevo fatto la gnorri anche quando in piazza, a Milano, hai baciato il rosario e hai affidato il paese “all’Immacolato cuore di Maria”. Ho sperato che ti rivolgessi alla De Filippi, magari aspirando a un falò di confronto con la Isoardi. Adesso però non riesco più a tacere.

Ti sei definito felice che il decreto Sicurezza bis sia passato proprio “il 5 agosto che per chi è stato a Medjugorje rappresenta il compleanno della Vergine Maria”. Tanto per cominciare: grazie per il pensiero, Matteo, ma come certi mariti distratti hai toppato la data. Io sono nata l’8 settembre. Il 5 agosto è nata la Madonna di Medjugorje, nello specifico una collega che non esiste, una che definirei la Mark Caltagirone delle apparizioni mariane, per fare un esempio alla tua portata.

Guarda, te la faccio più semplice ancora: l’apparizione della Madonna di Medjugorje non è mai avvenuta, la sparizione dei 49 milioni della Lega invece sì. E, siccome il mio superiore è pure spiritoso, tu ti chiami Matteo come San Matteo, il santo protettore della Guardia di finanza, pensa che graziosa boutade ti ha dedicato.

Detto ciò, visto che ti piace credere a un legame simbolico tra date e avvenimenti, te ne rivelo uno io: tu sei nato il 9 settembre e sai chi è nato il 9 settembre come te a parte l’Inter (e tu sei milanista, che soave giubilo)? La Barbie! Vedi, il 9 settembre sono nati due dei pupazzi più famosi della storia! Non trovi che questo, sì, sia un preciso segno dell’esistenza di Dio? Un disegno divino?

E ora passiamo a qualche lezione di mariologia. No Matteo, non ti stai confrontando con una giornalista, non mi rispondere con strafottenza che la biografia dell’amico Mario Giordano la conosci benissimo. La mariologia è la branca della teologia che studia me, Maria. Vedi, tu ti sei definito “padre di 60 milioni di italiani”. Ecco, io sono modestamente madre di un solo figlio, ma m’è uscito decisamente meglio dei tuoi. E credimi, tirarlo su non è stato facile. Tanto per cominciare, il suo arrivo mi venne annunciato da un giorno all’altro, con Giuseppe che all’inizio non ha capito né come sia stato concepito né il proprio ruolo in questa vicenda.

Sì, lo so che anche il tuo di Giuseppe, Giuseppe Conte, non ha capito come sia stato concepito ’sto governo e il suo ruolo in questa vicenda, ma noi avevamo qualche problema in più. Giuseppe doveva partecipare a un censimento, tipo quello che vuoi tu per i rom, quindi eravamo in viaggio. Mio figlio è nato e siamo dovuti scappare in Egitto perché Erode lo voleva uccidere. Ecco, se ci fossero stati i tuoi decreti sicurezza, l’egiziano alla frontiera ci avrebbe detto: “Tornate in dietro in Giudea, è un posto sicuro!” e oggi ai tuoi comizi ringrazieresti, al massimo, la madre di un altro Cristo, Krzysztof Piatek.

Non avevamo moto d’acqua per fuggire via mare, non avevamo cibo con cui fare selfie e, a dirla proprio tutta, Giuseppe era pure un bellimbusto che sembrava scappare da tutto tranne che dalla fame e dalla guerra. Gli mancava giusto l’iPhone ed è un vero peccato, perché almeno avremmo potuto twittare “Amici, se voi ci siete noi andiamo avanti! Le minacce non ci spaventano. E al ricco e viziato Erode diciamo: bacioni!”. Poi vabbè, mio figlio è diventato quello che è diventato, ma pensa, nonostante abbia camminato sulle acque anziché avanzare con le ruspe, nonostante abbia trasformato l’acqua in vino davanti al popolo anziché in mojito davanti a una consolle, nonostante sia stato capace di guarire i ciechi anziché di rendere ciechi i suoi discepoli come te, non si è mai fatto chiamare “capitano”.

Anche perché io sarò pure piena di grazia, ma il battipanni, se mio figlio dovesse imboccare la tua deriva narcisistica, lo saprei usare anch’io. E a proposito di soprannomi, i miei sono Beata Vergine Maria del Soccorso, Ausiliatrice, Nostra Signora della Misericordia e anche Stella Maris, ovvero stella polare e guida per chi viaggia per mare.

Ora capisci bene, caro Matteo, che ringraziare ME per un decreto che stabilisce che gli ultimi della Terra possono pure essere ingoiati dai flutti, mi ha fatto drizzare il velo. Ringrazia Schettino, se proprio cerchi un modello ispiratore. Infine, prima che suoni l’Ave Maria di Schubert al Papeete, ti chiedo di riporre i rosari e di lasciarmi fuori dalla tua propaganda. Prova, piuttosto, a seguire un consiglio cristiano che sembra fatto apposta per te: ama il prossimo tuo come te stesso. Cioè tantissimo. Ah. Solo un’ultima cosa: sai la storia che avrei pianto sangue, di tanto in tanto? Ecco. Era una bufala pure quella. Ma solo fino a ieri. Poi ho letto il tuo tweet.

Salvini (con Siri) demolisce pure il contratto di governo

Dal colle del Viminale parte una bordata sulla manovra appena delineata lunedì scorso da Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Il tavolo di confronto della Lega con le parti sociali, convocato ieri ancora una volta al Viminale, è ormai a tutti gli effetti alternativo, nella forma e nei contenuti, al giro di consultazioni sulla legge di Bilancio varato il giorno prima dal presidente del Consiglio. Dall’alto della poltrona di ministro degli Interni, Matteo Salvini prova ad accaparrarsi i consensi delle quarantacinque sigle radunate intorno a sé promettendo tutto a tutti. Ma tenta di rappresentare anche il dissenso nei confronti di due misure-bandiera inserite nel contratto di governo – già acquisite o da portare ancora a casa – dai 5 stelle: “Da tutte le sigle sedute al tavolo, sia sindacati che associazioni, è arrivato un ‘no’ unanime al salario minimo”, prende atto Salvini al termine dell’incontro al Viminale.

Appena 24 ore prima l’omologo vicepremier Luigi Di Maio, all’altro tavolo, si era speso con qualche risultato per trovare una formulazione accettabile dai sindacati. “Se metti un salario minimo, poi si ridiscutono i contratti che sono a un livello più alto, questa è la valutazione unanime di sindacati e imprese: per aiutare qualcuno si danneggerebbero milioni di lavoratori”, spiega comprensivo il leader della Lega, “qualcuno una riflessione la dovrà fare”. Salvini riavvolge il nastro anche sul reddito di cittadinanza. “In tanti hanno sottolineato la mancanza di mano d’opera qualificata, che in alcuni casi è stata attribuita all’inserimento del reddito di cittadinanza perché dicono sarebbe più comodo non fare che fare”, riferisce ai giornalisti il ministro, guadagnandosi la risposta piccata di Di Maio (“l’occupazione non è mai stata così alta”).

Il vicepremier leghista sembra voler fare “tabula rasa” anche dell’accordo faticosamente raggiunto da Giuseppe Conte e dal ministro dell’Economia Giovanni Tria con Bruxelles per evitare la procedura d’infrazione: “Occorrerà ridiscutere i vincoli con la Ue, in base ai quali, se dovessimo continuare a sottostare, nulla sarebbe possibile di quanto detto durante queste tre ore”, dice Salvini in sala stampa quando l’incontro è ancora in corso.

Alcuni dei partecipanti confermano la presenza di tutti i ministri della Lega , del sottosegretario Giancarlo Giorgetti, del viceministro all’Economia Massimo Garavaglia e di Armando Siri. Per l’ex sottosegretario indagato, la Giunta delle immunità del Senato ha fissato al 31 agosto il termine per la presentazione di eventuali memorie scritte da parte di Siri e sta esaminando la domanda di autorizzazione a eseguire il sequestro del pc del senatore in seguito alla richiesta della Procura di Milano.

Il piatto forte del menù leghista rimane la riduzione delle imposte che Salvini annuncia “coraggiosa e sostanziosa”. Nel calderone finiscono anche i 10 miliardi di retribuzione extra assicurati alle fasce di reddito intermedie dagli 80 euro del governo Renzi: “Pensiamo a 10-15 miliardi di riduzione delle tasse, a partire dal superamento del bonus Renzi – dice il viceministro Garavaglia – che non vale dal punto di vista dell’accumulo pensionistico” .

“Per superamento si intende la trasformazione in decontribuzione”, precisa Garavaglia che andrebbe a incidere così sul cuneo contributivo. Il resto, non meglio quantificato, dovrebbe finanziare l’introduzione dell’aliquota “flat” al 15% anche per le famiglie, in cambio di un taglio alle attuali deduzioni e detrazioni, l’abolizione della Tasi, il tributo che grava sui proprietari di seconde case, negozi e capannoni che nel 2018 ha assicurato un gettito di 1,1 miliardi e progressivamente dell’Imu sugli immobili inagibili, sfitti o occupati abusivamente. Non sono mancati annunci di nuovi condoni e misure anti-evasione, giudicate però dai sindacati “troppo blande”.