Va detto che il padrone di casa, Silvio Berlusconi, aveva toni più leggeri quando si abbandonava a espressioni razziste (Obama “abbronzato”). La lingua di Matteo Salvini, il cui tour ieri ha toccato Arcore, è invece sempre livida, rabbiosa. Il ministro razzista ieri è tornato a parlare della donna definita “zingaraccia” in una surreale conferenza stampa al Papeete beach: “Solo in Italia una che è agli arresti domiciliari, che vive in una casa abusiva in un campo rom abusivo, può minacciare di morte il ministro dell’Interno. Ma per i giornalisti il problema non è questa fottutissima zingara, ma il ministro dell’Interno. Ma io vi do la mia parola che quella casa abusiva la radiamo al suolo”. Fans in delirio e Salvini che passa da espressioni che difficilmente non possono essere considerate reato (istigazione all’odio) al frasario da ministro con le espressioni paludate che gli prepara il suo staff del Viminale: “Non tolleriamo illegalità e abusi. Siamo al lavoro per vedere le ruspe in azione anche nel campo rom non autorizzato in via Monte Bisbino, tra Bollate e Milano”. Che poi è un altro modo di minacciare la “fottutissima zingara”.
Di Maio conferma: “Torna l’immunità per i padroni dell’Ilva”
Dopo un lungo tira e molla, alla fine sull’immunità per l’ex Ilva arriva una norma che Luigi Di Maio definisce “di equilibrio” e che in realtà conferma le concessioni ad ArcelorMittal che erano già state annunciate nei giorni scorsi, dopo settimane di pressioni. La norma, contenuta nel decreto imprese, re-introduce il vecchio “scudo penale” per l’azienda – tolto qualche mese fa a partire dal 6 settembre prossimo – e lo rimodula in una formula “a rate” o “a scadenza”, vincolate al piano ambientale e secondo precise prescrizioni. In pratica, l’azienda sarà coperta fino alla data in cui – secondo il Piano ambientale – dovrebbe concludere ogni singolo intervento “ecologico”. Un esempio: se l’Aia impone di mettere a norma entro il marzo 2020 un reparto dell’area a caldo, lo scudo per i vertici dell’azienda sarà valido fino a quella data. Nessuna immunità, sostiene il vicepremier, su tutela della salute e sicurezza sul lavoro. “Ora ci aspettiamo collaborazione – ha detto ieri Di Maio -Anche perché Arcelor non ha pagato pochi giorni fa 40 milioni di euro di canone, sta assumendo un atteggiamento ambiguo nonostante l’impegno del governo. Non solo: non si sono presentati al sopralluogo del forno”.
La grande paura che scuote il M5S: l’incubo di Salvini che fa la crisi per il voto a ottobre
L’ultimo tornante sarà quello più stretto. Dopo una notte da streghe. Soprattutto per lui, per Luigi Di Maio, che vuole, deve ricucire con Alessandro Di Battista e Max Bugani, e che a un pugno di big del Movimento lunedì notte ha promesso “più condivisione”.
Ma prima arriverà un infinito mercoledì per il capo politico, perché proprio oggi potrebbe sentire la mannaia della crisi, calata da Matteo Salvini. Un attimo dopo che i gialloverdi si saranno votati contro il Tav, dicendo no alle rispettive mozioni in Senato, l’altro vicepremier potrebbe spingere il bottone rosso del fine corsa. Chiedendo le dimissioni del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, senatore che oggi voterà in Aula, e contestualmente infierendo sul Movimento che avrà detto un altro no. Per chiudere tutto. O almeno per fare un rimpasto. Ottenendo la testa di Toninelli e di un altro ministro (magari Giulia Grillo, titolare della Salute). Due incubi diversi ma possibili. E le avvisaglie potrebbe averle date innanzitutto lui, il Salvini che ieri provoca, ancora: “Sul voto anticipato vediamo da qui a breve, anche prima di settembre, non siamo incollati alle poltrone”. E il 5Stelle Gianluigi Paragone a Stasera Italia ammette: “Questa è la conferenza stampa di uno che apre la crisi”. Ma gli indizi della bufera si rintracciano anche nei volti dei leghisti a Palazzo Madama, e nelle loro sillabe beffarde: “Se lo segni, si vota a ottobre”. E un big del Carroccio dà i dettagli: “Basterà che i 5Stelle presentino la mozione, e sarà la crisi di governo”. In tempo per schivare il taglio dei parlamentari, che diventerebbe legge a settembre “e che alla Lega costerebbe decine di milioni di euro di mancati contributi dagli eletti” rimarcano i grillini. Aggiungere il Salvini che già minaccia sulla manovra che verrà e che nei sondaggi trabocca, ed eccoli i contorni della grande paura. Chissà quanto forte dentro Di Maio, che nel frattempo prova a rimettere un po’ d’ordine. Lunedì notte, appena approvato il dl sicurezza bis, incontra i capigruppo di Senato e Camera, Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva, assieme a big della vecchia guardia, Paola Taverna, Nicola Morra, Vito Crimi e Manlio Di Stefano. E giura: “Voglio ricucire con Bugani e Di Battista, parlerò con entrambi”. Ossia con il veterano bolognese che si è appena dimesso da suo vice-caposegreteria, provocando un sisma nel Movimento, e con l’ex deputato romano che la mattina dopo l’intervista sul Fatto in cui Bugani annunciava l’addio, lo ha elogiato su Facebook: “Sei un grande”. Di Battista e soprattutto Bugani sono insoddisfatti di molte scelte, dei tanti no mai detti. Ma il capo deve assolutamente recuperarli, perché teme possano coagulare il malessere. Così vedrà Di Battista, a giorni, e spera di incontrare Bugani già domani, a margine dell’assemblea del M5S a Bologna. E nell’attesa gli tende la mano: “La mia stima nei confronti di Massimo resta immutata, è una delle persone che ha fatto nascere il M5S, a lui va sempre il mio grazie”. Mentre nella riunione di lunedì assicura: “Da settembre cambieremo tante cose, ci sarà più condivisione, verrete coinvolti anche nella riorganizzazione”. Poche ore dopo però, cioè ieri mattina, i senatori si riuniscono. Ed è un bel caos.
Molti chiedono la testa di Elena Fattori, una dei cinque che lunedì non hanno votato il dl sicurezza. Ma in generale tanti si lamentano di quanto il Movimento soffra la Lega. Mentre Paragone si lamenta dalla legge delega sullo Sport approvata: “È una delega in bianco al leghista Giorgetti, io non l’ho votata”. Alla fine a un gruppo viene delegato di comporre un documento con proposte per l’assemblea congiunta di stasera, con Di Maio. Ma il cuore della giornata sarà un altro. Sarà il Tav, il treno che può portare al burrone.
La nuova questione morale a perdere degli anti-Papeete
Sarà pure sommamente esecrabile il Matteo Salvini del Papeete Beach, ma quanto a panze esibite sul bagnasciuga dove li mettiamo allora i consistenti girovita di Romano Prodi, Beppe Grillo, Antonio Di Pietro (o per difetto, l’impressionante intelaiatura marina di Piero Fassino)? Ok, l’inno di Mameli con le cubiste leopardate non s’era mai visto e sentito ma quanto a patriottismo era forse meglio l’Umberto Bossi che col tricolore ci si puliva le parti basse? Pessimo l’atteggiamento del ministro dell’Interno verso i giornalisti non proni, ma non si faccia finta di non ricordare che qui da noi la gloriosa tradizione dei leader arroganti, e irrispettosi della libera informazione va da Bettino Craxi a Matteo Renzi, con rare eccezioni. Questo per dire che se il Pd pensa davvero di risolvere la questione del proprio declino, e dell’altrui successo, aggrappandosi a un’improbabile questione di buone maniere andrà a sbattere una volta di più.
Primo, perché sono argomenti frusti e di nessuna consistenza politica. L’avversione di chi già di suo detesta Salvini non ha bisogno di ulteriori conferme. E chi lo ama vedrà in ogni polemica contro l’eroico Capitano esclusivamente il malanimo degli avversari. Secondo, perché l’indignazione della sinistra si riproduce per partenogenesi all’interno di uno stesso mondo esclusivo (partiti, giornali, intellettuali): e infatti Silvio Berlusconi ce lo siamo tenuto vent’anni. Per non parlare degli assist involontari serviti al nemico da una cultura del piagnisteo o tempora o mores. Uno fra tutti, l’esclusione della biografia di Salvini dal Salone del libro di Torino, capace di fare di un testo insignificante un best seller. Trasformare i problemi politici in questioni morali (o di costume, o di bon ton) è del resto il difetto universale dei dem, a cominciare da quelli americani. A partire dalla questione immigrazione clandestina vissuta dagli avversari di Donald Trump proprio come il presidente degli Stati Uniti auspica. Adottando cioè spesso una linea radicale o ostile a ogni forma di controllo e restrizione del fenomeno. In un articolo sul Tablet Magazine (ripreso dal Foglio), Zach Goldberg osserva come, “negli ultimi vent’anni, le mitologie morali dei liberal si sono allontanate sempre di più dalla realtà politica”.
Egli cita il dem Domingo Garcia, uno dei leader ispanici più influenti che ha detto “di non essere d’accordo con i democratici quando dicono che bisogna fornire l’assistenza sanitaria agli immigrati clandestini mentre molti americani non hanno accesso a questi servizi”. Anche l’ex consigliera di Obama, Cecilia Munoz teme che la decriminalizzazione degli attraversamenti al confine rischi di alimentare “la propaganda di Trump secondo cui i democratici sono a favore dei confini aperti”, e questo “rende più difficile per l’opposizione combattere l’appeal populista del presidente”. Evidenti le analogie con la propaganda salviniana che entra come un coltello nel burro nelle contraddizioni del centrosinistra, incapace di proporre una linea alternativa ai raus del vicepremier leghista. Conclude Goldberg: “Quando un problema pratico viene trasformato in una questione morale, le tesi razionali perdono la propria forza”. E, aggiungiamo noi, costringono l’opposizione in una gabbia ideologica: quella secondo la quale Salvini è sempre il male anche se non si capisce mai dove sia il bene.
Prendiamo il decreto sicurezza bis, approvato lunedì scorso, le cui norme che di fatto impediscono i salvataggi in mare, con multe milionarie, sequestro dell’imbarcazione e arresto del capitano, sono oltre che disumane probabilmente anticostituzionali. La stessa legge contiene tuttavia misure a favore della polizia e contro il tifo e le manifestazioni violente, non lontane da analoghe proposte presentate dal Pd. Ma discuterne non si può perché la “morale” lo impedisce e la politica è andata in vacanza. Lo ripetiamo: con una opposizione siffatta, Salvini può continuare a ballare tranquillo e felice al Papeete Beach.
Il Partito degli Affari Pd-FI: sì al Tav per scansare le urne
La fretta di chiudere la partita è tanta. E non solo per le ferie che premono. Prevale soprattutto il desiderio di allontanare lo spettro di un ritorno anzitempo alle urne. Perché oggi, al di là dei tatticismi e dei distinguo, le opposizioni avrebbero la straordinaria occasione di staccare la spina al governo. O comunque parlamentarizzare la crisi nella maggioranza gialloverde in cui le posizioni di M5S e Lega sulla realizzazione della linea Torino-Lione sono diametralmente opposte. Ma la voglia non c’è. E lo si è capito da tempo. Perché è caduto nel nulla, tanto per fare un esempio, l’appello pubblico lanciato dal capogruppo dei deputati di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida che già qualche giorno fa aveva smascherato il giochino: “Questa pantomima è ridicola e offensiva per l’intelligenza degli italiani. Se i 5 Stelle non vogliono il Tav, allora facciano cadere il governo. Per quel che mi compete lascerei soli in Aula M5S e Lega facendo assumere a entrambi le proprie responsabilità. Ne vedremmo delle belle”. Una proposta su cui però è calato il silenzio. Specie nel Pd che tiene così tanto alla spallata che non tenterà di mandarla a segno prima dell’autunno. Un impegno postdatato che fa a cazzotti con le parole accorate di Carlo Calenda che in beata solitudine chiede che il trappolone venga fatto scattare oggi.
“Se le opposizioni lasciassero questi due buffoni che stanno tenendo il Paese in ostaggio da mesi con le loro diatribe da adolescenti a vedersela tra di loro, allora il governo potrebbe davvero cadere. Viceversa, se l’opposizione deciderà di fare altro, di presentare mozioni, di fare altre iniziative stravaganti, quello che succederà è che avremo salvato questo governo”.
Ma Calenda è una voce nel deserto anche se in molti non ritengono casuale che la discussione sul Tav sia stata incardinata al Senato, anziché alla Camera. Dove è capogruppo dei dem Graziano Delrio che, a quanto si dice, probabilmente avrebbe valutato seriamente l’opzione tattica di fare uscire i suoi dall’aula. Ma sono suggestioni, forse malignità, alimentate dal fatto che proprio Palazzo Madama è la ridotta dei renziani che di andare al voto non ci pensano proprio: in caso di elezioni anticipate Nicola Zingaretti non li ricandiderebbe e loro non ci pensano proprio a uscire di scena e nemmeno dall’Aula perché in gioco più che il Tav è il posto in Parlamento e con gli affetti non si scherza.
Il resto è panna montata. “Noi giochini non ne facciamo: le contraddizioni in seno alla maggioranza sono già emerse. E la spallata non passa certo per una mozione”, fanno trapelare i renziani. E il capogruppo Andrea Marcucci ripete ai giornalisti: “Il Pd avrà una posizione coerente con quanto ha fatto in questi anni. Voteremo per il Tav e contro chi vuole continuare a bloccare le grandi opere pubbliche. Ricordo che nel marzo scorso avevamo già presentato una mozione di sfiducia a Toninelli, che allora fu salvato dalla Lega”. Ma ora la figura del ministro c’entra il giusto, come pure l’oggetto stesso del contendere, ossia il sì Tav/no Tav: il tema è squisitamente politico e attiene alla prosecuzione della legislatura.
La prima mozione ad andare al voto oggi è quella del Movimento 5 Stelle che al Senato conta su 107 senatori contro i 58 della Lega: insomma se i due alleati fossero lasciati in aula a vedersela tra loro, non ci sarebbe partita. Ma quali sarebbero le conseguenze politiche del via libera alla mozione No Tav? Su questo i due alleati di governo hanno idee così dichiaratamente diverse che il dubbio che si tratti di una guerra di posizioni anziché di una reale intenzione di arrivare allo scontro finale, c’è. Ma il Pd teme la crisi di governo e Forza Italia di più. Entrambi non se la sentono di rischiare: le truppe dell’ex Cavaliere inizialmente avevano pensato di lasciare l’aula facendo pesare la loro assenza decisiva. Ma poi hanno tirato i remi in barca e si preparano a dare man forte. E faranno fronte comune coi dem per bocciare la mozione grillina, forti di un totale di 123 senatori.
E la Lega? È l’unica variabile davvero sconosciuta. Ieri il capogruppo leghista Romeo ha spiegato ai 5 Stelle che i suoi potrebbero votare tutte le mozioni pro Tav all’ordine del giorno, a patto che non contengano critiche al governo: teoricamente questo rende votabile, almeno in parte, pure la mozione del Pd. Il punto vero è cosa faranno col testo M5S: il contratto di governo impegna i due alleati a non mettersi reciprocamente in minoranza su questioni di “fondamentale importanza”. Farlo sul Tav sarebbe una dichiarazione di guerra.
Oggi o mai più
Uno dei leader No Tav, Alberto Perino, continua a ripetere che i 5Stelle sono traditori e la loro mozione in Senato contro il Tav “è una presa per i fondelli”. Attaccare i più vicini anziché i più ostili è un vecchio vizio, tipico dell’estremismo settario. In realtà quella di oggi, per il movimento No Tav, è una giornata storica: per la prima volta dopo 30 anni, un partito mette ai voti in Parlamento la cancellazione del cosiddetto Tav Torino-Lione, cioè l’opera pubblica più inutile, costosa, dannosa e demenziale della storia d’Europa. Più ancora del Ponte sullo Stretto, che almeno avrebbe il pregio dell’unicità, mentre il Tav non è un Tav, non andrebbe né a Torino né a Lione, e soprattutto è un assurdo doppione di un treno merci già esistente (il Torino-Modane), senza contare il Tgv Parigi-Milano per i passeggeri. A questo passaggio parlamentare, trattandosi di un’opera decisa da un trattato internazionale fra Italia, Francia e Ue, prima o poi bisognava arrivare. E questa legislatura è la più propizia per votare, visto che mai si era avuto né più si avrà in Parlamento un numero così alto di senatori contrari alla boiata: più di un terzo (circa 115 su 315: i 107 del M5S, 3 dei 4 di LeU, 3 o 4 ex grillini passati al gruppo misto). Certo, è pur sempre una minoranza: ma la più ampia che i No Tav abbiano mai avuto e mai avranno.
Se le mozioni fossero due, una pro Tav e l’altra anti Tav, i giochi sarebbero fatti: passerebbe la seconda. Ma oggi ciascun gruppo (tranne la Lega) presenterà la propria e i 5Stelle sono quello di gran lunga più numeroso. Ecco le formazioni in campo: M5S 107, FI 62, Lega 58, Pd 51, FdI 18, Misto 15, Autonomie 8, più 2 senatori sciolti. In una situazione normale, ciascun gruppo voterebbe la propria mozione e boccerebbe quelle altrui: così verrebbero tutte respinte, perchè nessuna raggiungerebbe la metà più uno dei votanti. Ma questa non è una situazione normale. La maggioranza è un ircocervo di due forze spaccate, diverse, spesso incompatibili fra loro: e proprio sul Tav stanno agli antipodi. Le opposizioni, quando vogliono fare un complimento al governo Conte, l’accusano di “distruggere l’Italia”. Il Pd ci aggiunge il fascismo, il razzismo, l’autoritarismo, l’emergenza democratica, l’invasione delle cavallette, l’Apocalisse: mai visto niente di peggio nella storia repubblicana. Tant’è che Zingaretti annuncia una “mobilitazione” per tutta l’estate e “una grande manifestazione nazionale in autunno” per abbattere il mostro e tornare “subito al voto”. Bene: se fosse vero che il Pd pensa questo e vuole questo, non ha bisogno di attendere l’autunno.
Oggi ha l’occasione d’oro, unica e irripetibile, per incunearsi tra i gialli e i verdi e allargarne la spaccatura fino a mandare in pezzi la maggioranza. Come? Trasformando il voto sul Tav nella tomba del governo Conte e nello smacco mai visto per il nemico principale, cioè Salvini. Il sistema è semplice. I 5Stelle e LeU hanno presentato due mozioni No Tav e se le approveranno a vicenda. Il Pd, FI, FdI e la Bonino (con Monti, Nencini, il LeU dissidente Errani e quel monumento di coerenza dell’ex pentastellato De Falco) ne hanno presentate quattro Sì Tav. La Lega non ha presentato mozioni, ma voterà per le quattro altrui, compresa quella del Pd, e contro quelle dei 5 Stelle (così violando platealmente il Contratto di governo, che impegna a ridiscutere integralmente il Tav e rende nullo il patto di governo se uno dei due contraenti vota contro l’altro su un tema previsto dal testo) e di Leu. L’unico sistema per far esplodere la maggioranza, è dunque fare in modo che venga approvata la mozione dei 5Stelle e la linea della Lega venga sconfitta. Il che può avvenire solo se le opposizioni lasciano soli i due soci di maggioranza ed escono dall’aula quando si vota la mozione dei 5Stelle, così da abbassare il quorum e trasformare i grillini da maggioranza relativa in maggioranza assoluta. I senatori al completo sono 315: se sono tutti presenti quando si vota la mozione dei 5Stelle, il quorum è 158 e i senatori M5S+LeU anti-Tav arrivano a stento a 115. Se escono Pd e FI, i presenti sono al massimo 202, il numero legale è garantito, ma il quorum scende a 102 e i 115 anti-Tav diventano maggioranza assoluta. Dunque la mozione No Tav viene approvata. A quel punto Salvini finisce al tappeto per il cazzottone in pieno grugno ed è capace di tutto: dalla crisi di governo alla lotta armata (di cazzate). E anche Conte esce malconcio, avendo annunciato che, fallita la mediazione con Macron e Juncker, il Tav va fatto (anche se poi ha aperto una porticina alla revoca in caso di voto parlamentare).
Ricapitolando: se davvero il Pd ritiene che questo governo sia un “regime” pericoloso e che vada abbattuto a ogni costo, oggi o mai più: per centrare il suo obiettivo, non gli resta che uscire dall’aula con gli amici di FI quando si vota la mozione M5S, liberarsi dell’abbraccio mortale di Salvini e scatenare l’inferno. Se lo farà, si dimostrerà coerente, oltre che abile nell’arte della politica. E potrà vantarsi davanti agli elettori superstiti, e anche a qualcuno di ritorno, di aver liberato l’Italia dal pericolo pubblico numero uno. In caso contrario, vorrà dire che Zinga&C. facevano ancora una volta ammuina, sceneggiata, teatrino dell’assurdo, ma in realtà sono i principali fan del governo e sarebbero disposti a tutto, anche di iscriversi alla Lega, pur di salvare gli affaristi del Tav ed evitare le elezioni. Quindi siano gentili: d’ora in poi ci risparmino gli allarmi democratici, gli stracciamenti di vesti, la militanza antifascista, i proclami tonitruanti contro il Duce redivivo, le mobilitazioni estive, le manifestazioni autunnali e altre esche per gonzi. E dicano una volta per tutte la verità: Partito degli Affari comanda e picciotto risponde.
Dalle Ong ai divieti in piazza: cosa c’è nel provvedimento
Il decreto sicurezza bis deve gran parte del dibattito che ha suscitato agli articoli che riguardano la gestione dell’immigrazione. L’articolo 1 stabilisce che il ministro dell’Interno “può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale” per ragioni di ordine e sicurezza. Nel dettaglio, alle imbarcazioni delle Ong potrà essere contestato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il provvedimento, pur di responsabilità del Viminale, dovrà essere controfirmato dai ministeri dei Trasporti e della Difesa. In caso “di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane”, poi, ecco le sanzioni: si va da un minimo di 150 mila euro a un massimo di un milione per il comandante della nave, per il quale è previsto anche l’arresto in flagranza in caso in cui ci siano gli estremi per il “delitto di resistenza o violenza contro nave da guerra”, come avvenuto nel caso di Carola Rackete e delle sue manovre giudicate pericolose nei confronti della Guardia di Finanza. Nei casi appena descritti, il decreto introduce anche la possibilità di sequestrare la nave. Ad occuparsi delle indagini che riguardano il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina saranno le procure distrettuali, favorite dai finanziamenti previsti dal decreto: 500 mila euro per il 2019, un milione per il 2020 e un milione e mezzo per il 2021 impegnati proprio nel contrasto di quel tipo di reato. Oltre all’immigrazione, ci sono però anche misure di gestione dell’ordine pubblico durante le manifestazioni. A questo proposito, ecco “una nuova fattispecie delittuosa che punisce chiunque, nel corso di manifestazioni in luogo pubblico, utilizzi – in modo da creare concreto pericolo a persone o cose – razzi, fuochi artificiali, petardi o oggetti simili”. Vietato anche l’uso di caschi “o di qualsiasi altro dispositivo che renda irriconoscibile una persona” durante le manifestazioni. Inasprite poi le pene per chi compie una serie di reati, come la minaccia o la resistenza a un pubblico ufficiale, la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, la devastazione o il saccheggio. Infine, cambiano anche le regole per gli eventi sportivi: il questore potrà impedire l’accesso a chi ha denunce pendenti o ha preso parte a episodi violenti nel corso di passati manifestazioni sportive.
Toti recluta Giggino ’a Purpetta e offre al Capitano la stampella che affonda B.
F anno sul serio. Giovanni Toti e i suoi pretoriani hanno preso appuntamento con il notaio per domani alle 11. Appuntamento in via Ulpiano a Roma per formalizzare la nascita di Cambiamo!.
Il nome scelto per il partito “che si collocherà a sinistra della Lega” come spiega al Fatto un totiano della prima ora come Paolo Romani. Che è stato ministro nei governi Berlusconi di cui parlamentare dal 1994 e tra gli uomini-macchina di Forza Italia, la creatura di B. al centro di un forte attacco che rischia di erodere dall’interno gli azzurri. Perché accanto all’iniziativa apertamente di marca filosalviniana di Giovanni Toti e dei suoi, sono all’opera gli stessi uomini di Matteo Salvini. Che ormai apertamente si fanno avanti con pezzi da novanta dei gruppi parlamentari forzisti per chiedere una sola cosa: che abbandonino la barca per mettersi in proprio. Magari come componente autonoma del gruppo Misto, ovviamente al servizio permanente ed effettivo del Carroccio.
Ovviamente non si tratta di consigli disinteressati né per chi li dà né tantomeno per chi li riceve. Perché in cambio i deputati ma soprattutto i senatori forzisti che sono più preziosi (dati i numeri ballerini della maggioranza a Palazzo Madama) si sentono offrire la promessa esplicita di una rielezione certa che oggi l’ex Cavaliere non può garantire quasi a nessuno, in caso si tornasse al voto. È successo a moltissimi e persino a Gilberto Pichetto Fratin che è il tesoriere di Forza Italia al Senato.
Un’offensiva quella di Salvini nei confronti delle truppe malconce di Silvio Berlusconi ormai esplicita. Che fa il paio con quella di Toti che ha deciso di fondare un suo partito dopo aver tentato inutilmente la scalata a Forza Italia. E ora al governatore ligure serve mostrare i muscoli oltre il cervello di Gaetano Quagliariello presidente della Fondazione Magna Carta fondata da Marcello Pera: iscritto a Forza Italia dal 1994, portato in gloria all’epoca in cui nel partito andavano di moda i professori universitari, meglio se costituzionalisti. Anche lui Quagliariello (che già in passato si era allontanato da Berlusconi per mettersi con Angelino Alfano in Ndc) è tra i senatori forzisti che hanno deciso di seguire Toti in questa avventura. Ma al governatore della Liguria servono soprattutto organizzazione nei territori e i voti per accreditarsi come interlocutore del Capitano. Specie al sud dove la Lega è ancora debole. Ed è per questo che punta bersagli grossi da reclutare, imbarcando il più possibile tra chi, tra le file forziste, nelle regioni e tra gli amministratori locali, pesa. Come il senatore Luigi Cesaro, al secolo Giggino ’a purpetta che in Campania è il ras delle preferenze di Forza Italia. E che è pronto a saltare sulla scialuppa totiana del “Cambiamento”, almeno a sentire quanti, per conto del governatore ligure, lo corteggiano senza tregua. E che sono convinti che cederà a brevissimo.
Ieri alla buvette di Palazzo Madama, dove era in corso il voto di fiducia sul dl sicurezza (i totiani si sono astenuti) ’A purpetta è stato marcato stretto da Luigi Vitali e da un altro totiano meno noto. Che lo braccavano nemmeno fossero i due sbirri della favola di Pinocchio. Vitali che di Berlusconi è stato potente sottosegretario alla Giustizia (e che per un nulla non è diventato vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura), non l’ha mollato un attimo. Alla fine è sembrato soddisfatto e assai speranzoso di quagliare l’operazione Cesaro. Tanto chirurgicamente micidiale da far potenzialmente implodere Forza Italia. Perché se, come pare, Cesaro accetterà di vestire la casacca totiana, questo sarà un segnale anche per i parlamentari della roccaforte forzista campana, fedeli a Mara Carfagna. E a quel punto, è il ragionamento che fanno in molti, “Mara” stessa che farà? Berlusconi l’ha maltrattata accusandola di essersi montata la testa e di coltivare prospettive personali incompatibili con la sua leadership. “È il momento di scegliere: chi ci sta deve dirlo ora” chiosa Vitali che sta trattando con Cesaro. Che è una potenza e lo sanno tutti: basta ricordare le ultime elezioni in Campania del 2015 dove in corsa era suo figlio Armandino. Brigando il giusto e facendo quattro o cinque telefonate, il suo ragazzo è stato eletto a Palazzo Santa Lucia con una valanga di preferenze. Che non sono mai mancate a Cesaro senior che a marzo è stato rieletto in Parlamento.
Salvini cita la Fallaci e cade sulla natività della “Vergine Maria”
Anche stavolta è andata liscia, pure stavolta alle minacce di crisi è seguita una rapida (effimera?) pacificazione tra i verdi e i gialli di governo. Il decreto sicurezza bis è legge, Matteo Salvini può esultare ancora e sventolare una nuova bandiera.
Il ministro dell’Interno si ferma in Senato verso le 19 per raccogliere i cronisti in una mini conferenza stampa, nella quale si lascia già andare a proclami e festeggiamenti. Le dichiarazioni sono un po’ sopra le righe: “È un bel regalo all’Italia. Con il decreto ci saranno meno Carola e più Oriana Fallaci”. Perché tirare in ballo la buonanima della scrittrice con una legge ulteriormente restrittiva su migranti e manifestazioni? Tant’è. Il Capitano si concede un’ennesima invocazione religiosa: “Chi è stato a Medjugorje lo sa, oggi è il 5 agosto, il compleanno della Vergine Maria. Oggi è lei che ci ha fatto un regalo”. Anche il Salvini credente a voler essere pignoli è approssimativo: per i fedeli cristiani quella di ieri è una ricorrenza a metà, se non divisiva, visto che la tradizionale e unica natività della Madonna per secoli è stata quella dell’8 settembre. Poi arrivò Medjugorje (anno 1984), i veggenti e la rivelazione della stessa Maria di essere nata il 5 agosto. Ma questa è un’altra storia.
Quella dell’aula di Palazzo Madama, più modesta, racconta che la maggioranza del Senato si è piegata ancora una volta alla linea del capo della Lega. Salvini e i suoi avevano fatto sapere – a mo’ di minaccia per la tenuta dell’esecutivo – che avrebbero guardato con molta attenzione ai numeri della votazione. L’avevano detto tutti, a più riprese, dal Capitano in giù. Alla fine il pallottoliere ha fatto segnare quota 160 senatori, uno solo in meno della maggioranza assoluta. Per il capogruppo leghista Massimiliano Romeo “è un buon risultato”. Dunque si va avanti con rinnovata fiducia? Risposta gelida: “Eventuali valutazioni le farà Salvini”.
Il quale non pare molto preoccupato. Al Senato il vicepremier resta poco, il tempo di parlare con i giornalisti, votare, intrattenersi per qualche minuto con i suoi senatori (simbolica la stretta di mano ad Armando Siri), con alcuni ministri (Giulia Bongiorno) e con Ignazio La Russa. Poi fila via. Il suo l’ha già detto. Il solito: “Sono stanco degli insulti che mi arrivano da mesi non dalle opposizioni ma dagli alleati”. Salvini è già proiettato sul voto sul Tav, la mozione per fermare l’alta velocità presentata dai Cinque Stelle. Si vota domani, è l’ultima mina sulla tenuta dei nervi e dell’alleanza di governo prima della pausa estiva. Il leghista l’ha già detto esplicitamente: “Votare contro il Tav sarebbe una sfiducia al premier Giuseppe Conte, che ha riconosciuto che costa meno finirla che fermarla”. Poi ci sono le considerazioni personali sui ministri grillini Toninelli e Bonafede: “Con loro – dice Salvini – non è né sarà mai un problema personale. Bonafede è una persona per bene ma ha portato in consiglio una riforma della giustizia che non risolve i problemi della giustizia italiana. Per fare i ministri non basta essere delle brave persone”.
Quanto a lungo lo rimarranno, si vedrà. Intanto all’ipotetico rimpasto, evocato tanto spesso quanto la crisi, va aggiunto anche il nome di Gianmarco Centinaio, ministro leghista delle politiche agricole. L’ha ammesso lui stesso parlando con dei colleghi senatori nella buvette di Palazzo Madama: “Matteo me lo ha detto tre-quattro giorni fa, il mio nome è sul tavolo per andare a Bruxelles”. Potrebbe diventare commissario, se alla fine all’Italia venisse assegnato il portafogli dell’Agricoltura .
Decreto sicurezza bis: 160 sì I ribelli nel Movimento sono 5
Matteo Salvini, quello che parla e offende come un padrone, mette in bacheca un altro trofeo senza neppure sudare. Luigi Di Maio, quello che arranca dietro Salvini, ingoia un’altra pillola pur di arrivare vivo a settembre, ma vede il dissenso interno crescere di un altro paio di caselle. Tutti gli altri dicono un no di testimonianza oppure alzano direttamente le mani pur di non rischiare di andare a casa, come la Forza Italia ormai allo stato gassoso.
All’ora delle prime serate in tv il decreto sicurezza bis, blindato con il voto di fiducia, diventa legge in Senato con 160 sì al testo. Appena uno sotto la maggioranza assoluta, cinque sotto la quota massima raggiungibile dalla cosiddetta maggioranza gialloverde. Ergo, il Carroccio non può neanche fingere di ululare alla crisi di governo contro il M5S. Il decreto è in cassaforte, fa caldo, e comunque ci sarà tempo e modo per mostrare ancora i denti. Basta aspettare domani, quando 5Stelle e Lega voteranno gli uni contro gli altri sul Tav. Tanto poi ricorreranno a giochi di parole, ricordando che le mozioni impegnano il Parlamento, mica il governo.
Nell’attesa però ci rimettono sempre i grillini, con cinque senatori che disertano il voto. Meno di quanti si temesse fino a domenica, ma più di quanti si sperasse ieri fino a un soffio dal voto. Perché agli “irriducibili” Elena Fattori, Virginia La Mura e Matteo Mantero all’ultimo si aggiungono Lello Ciampolillo e, la vera novità, Michela Montevecchi: emiliana al secondo mandato, già vicina al sindaco di Parma, l’ex 5Stelle Federico Pizzarotti. Eppure in mattinata Di Maio aveva incontrato lei e altri tre colleghi, pur di ricucire. Perché il capo politico ha fatto di tutto per dare l’immagine di un Movimento compatto. Nel fine settimana aveva chiesto il capogruppo a Palazzo Madama, Stefano Patuanelli, di recuperare più malpancisti possibile. E in un pugno di ore Patuanelli ne convince diversi. Dall’avvocato ligure Mattia Crucioli a Luigi Di Marzio, medico molisano. Per arrivare al cagliaritano Giovanni Marilotti: docente di Filosofia e scrittore, presidente di un’associazione culturale, Mediterranea, che promuove la cooperazione internazionale e il dialogo. L’antitesi di Salvini. Nonostante questo Marilotti si rassegna alla ragione di governo. Però prima ammette: “Forse solo il 20 per cento di noi senatori del M5S crede che il decreto sia giusto e buono. Ma uno smarcamento lascerebbe mano libera all’accordo con Fratelli d’Italia e forse porterebbe alle elezioni subito. Voterò sì per non regalare alle destra il governo”. Ma di lunedì mattina la coperta del M5S appare ancora troppo corta. E i leghisti infieriscono nelle chiacchiere da corridoio: “Quanti sarete, ce la fate a evitare la crisi?”. Così interviene Di Maio per convincere i veterani. In mattinata incontra il No Tav Alberto Airola, Mario Giarrusso, Montevecchi e Ciampolillo.
Il vicepremier li ascolta, chiede consigli, promette “cambiamenti” nel Movimento, ricorda il rischio di “un governo diverso da questo”. Soprattutto, avverte: “Non diamo pretesti a Salvini per fare la crisi”. Strappa sorrisi che valuta come via libera. E infatti Airola, movimentista della prima ora, cala subito il suo sì citando, incredibile, il fu ministro socialista Rino Formica: “La politica è merda e sangue. O do forza al Movimento oppure domani potremmo non averlo al governo”. Nel M5S appaiono tranquilli: “Però tre dissidenti Di Maio non li ha incontrati, inutile anche provarci”. Non poteva proprio ruscirci con Fattori, La Mura e Mantero. Così la prima gira per il Senato con faccia truce e bocca sigillata. Mentre La Mura, vicina al presidente della Camera Roberto Fico, si macera su una poltroncina con gli occhi incollati allo smartphone.
Invece il savonese Mantero, sostenitore dei diritti civili, lo spiega su Facebook: “Credo che sia ora a mettere un limite alla strafottenza della Lega che con i suoi no e i suoi diktat si comporta come fosse sola a decidere”. Nel frattempo per le sale del Senato sciamano gli altri 5Stelle: rassegnati, spesso esausti. “L’unico obiettivo è tirare avanti” sibila uno della vecchia guardia. Pochi metri più in là, il capogruppo del Carroccio Massimiliano Romeo stuzzica: “Se non arrivassimo a 161 voti ci sarebbero valutazioni politiche da fare”. E la linea è sempre quella, dire senza scandirlo dritto che Di Maio non tiene più tutti i suoi. Ma ora il capo ha un solo obiettivo, trascinarsi fino a settembre. E poi ripartire, anche con un rimpasto di governo, corposo. Con il ministro dei Trasporti, il 5Stelle Toninelli, che è sempre il primo a ballare assieme a diversi sottosegretari.
Però prima c’è da votare il dl sicurezza bis. Le assenze giustificate nella maggioranza sono tre: due nella Lega, il patriarca Umberto Bossi e Massimo Candura, e la 5Stelle Vittoria Bogo Deledda. Forza Italia non partecipa al voto, Fdi si astiene, Pd e Leu votano contro. Alla fine il conto fa 160 sì, 57 no e 21 astenuti. Salvini sorride, Di Maio ha sempre problemi in casa. Ma il governo c’è, ancora.