‘Ndrangheta al nord, sequestrati 15 milioni a due cosche calabresi

Genova: ammonta a 15 milioni di euro il valore dei beni sequestrati a Carmelo Gullace, alla moglie Giulia Fazzari e a Orlando Sofio e Marianna Grutteria, tutti arrestati nel 2016 nell’inchiesta “Alchemia”. L’indagine aveva portato a 42 misure cautelari a carico di soggetti accusati di essere affiliati o vicini alle cosche di ‘ndrangheta reggine Raso-Gullace-Albanese e Parrello-Gagliostro. Le accuse a vario titolo erano di associazione di stampo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e intestazione fittizia di beni e società.

Carmelo Gullace, secondo gli investigatori, ricopriva il ruolo di vertice del gruppo, ma un compito speciale spettava alla moglie Giulia Fazzari: secondo la Direzione investigativa antimafia, la donna avrebbe mantenuto i rapporti con gli amministratori dei comuni della provincia di Savona per garantirsi l’affidamento di appalti pubblici e organizzare trasferte in Brasile per riciclare proventi illeciti della cosca grazie all’acquisizione di proprietà immobiliari.

“Talk-show con soldi pubblici”: Oliverio indagato

Per promuovere il turismo in Calabria, il presidente della Regione Mario Oliverio va a Spoleto e, nell’ambito del “Festival dei due mondi” si fa intervistare dall’ex direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli. Parla della sua esperienza politica, discute “dell’assemblea del Partito democratico” e della “disfatta elettorale” del Pd alle elezioni 2018. Un affare da 100 mila euro di soldi pubblici che dovevano servire “alla promozione ed alla commercializzazione della destinazione turistica della Calabria” e che, secondo l’accusa, sono stati utilizzati “a meri fini personali”.

Il governatore adesso è indagato per peculato assieme a Mauro Lucchetti, il presidente di Hdrà Spa che, all’interno dell’evento internazionale di Spoleto, curava il “talk-show di Paolo Mieli”. A entrambi ieri la Guardia di finanza ha notificato un decreto di sequestro preventivo, per oltre 95 mila euro, emesso dal gip su richiesta della Procura di Catanzaro che indaga anche l’ex parlamentare del Pd, Ferdinando Aiello.

Secondo il procuratore Nicola Gratteri, sarebbe stato Aiello “l’istigatore” del peculato del presidente della Regione, che ha ottenuto “una personale promozione politica incentrata sulla sua sola figura e del suo partito”.

Stando all’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla e dal pm Graziella Viscomi, gli indagati “si sono appropriati” dei fondi nazionali per “un’operazione di mero tornaconto politico per Oliverio”.

Tra le fatture presentate dalla società Hdrà e liquidate dalla Regione ci sono “il trasporto, il vitto e il pernottamento – si legge nel decreto di sequestro – di tutti gli ospiti del talk show di Paolo Mieli (tra i quali Raffaella Carrà, Carlo Freccero, Ennio Fantastichini e tanti altri)”.

Ma non solo. Oltre alle cene con i soldi destinati al turismo la Regione ha pagato finanche un paparazzo per due articoli pubblicati su un giornale di gossip. A carico della Regione Calabria c’era pure il “costo del personale della Hdrà e la realizzazione del materiale fotografico e audiovisivo degli incontri di Paolo Mieli”. La guardia di finanza ha trovato pure fatture per 6.999,99 euro emesse dalla Mondadori per 500 copie del libro “Il caos italiano” di Mieli: volumi “in parte distribuiti gratuitamente al pubblico, e in altra parte (100 copie) inviati alla Regione Calabria per l’inserimento nelle biblioteche regionali”.

“Nessun illecito è stato commesso” secondo la società Hdrà Spa. “Si appalesa più che un dubbio – scrive invece l’avvocato Vincenzo Belvedere, legale del governatore – che si voglia per via giudiziaria sbarrare la strada alla prosecuzione di un’azione politica e di governo, che vede in prima linea il presidente Oliverio”.

Bossi-Belsito, oggi il verdetto: la Lega si gioca i 49 milioni

A meno di un passo dalla prescrizione, oggi ci sarà l’udienza in Cassazione per Umberto Bossi e Francesco Belsito. Il leader storico della Lega e l’ex tesoriere sono stati condannati in Appello, a Genova, per truffa ai danni dello Stato. La loro condanna ha portato all’ormai famoso sequestro di 49 milioni di euro che l’attuale leader del Carroccio Matteo Salvini è riuscito a spalmare su 80 anni. Nel frattempo, Genova indaga per verificare se parte dei soldi della Lega siano finiti in conti occulti all’estero, in particolare in Lussemburgo, proprio per aggirare il sequestro.

La Cassazione, sezione feriale, ha dovuto fissare in tutta fretta l’udienza di oggi perché altrimenti il processo sarebbe finito al macero dato che il reato si prescrive tra 48 ore. Il collegio è presieduto da Fausto Izzo, relatore Piero Messini Dagostini. Per l’accusa ci sarà il sostituto procuratore generale Marco Dall’Olio, come all’udienza in Cassazione di novembre che confermò la confisca milionaria chiesta dalla procura di Genova, a cui aveva dato ragione pure il Riesame. In quel caso fu respinto il ricorso degli avvocati della Lega, così come aveva chiesto anche Dall’Olio.

Bossi e Belsito in Appello sono stati condannati rispettivamente a due anni e 6 mesi e 4 anni e 10 mesi per rimborsi elettorali usati per fini illegittimi grazie alla falsificazione dei bilanci nel periodo 2009-2011. Molti di quei soldi furono spesi per la Bossi “family”, per investimenti, secondo l’accusa, in diamanti e altro. Il ricorso è stato presentato sia dalle difese sia dal sostituto pg di Genova Enrico Zucca contro la derubricazione del reato per gli ex revisori dei conti della Lega, Stefano Aldovisi, Antonio Turci e Diego Sanavio condannati non per truffa ma per un reato minore. Non certo un dettaglio tecnico questo, ma il nodo centrale dell’udienza su cui puntano le difese di Bossi e Belsito: se i giudici della Cassazione, che sono giudici di legittimità, dovessero riscontrare un vizio nella sentenza d’Appello che ha confermato per l’ex segretario e l’ex tesoriere, invece, il reato di truffa ai danni dello Stato, allora ci sarebbe un colpo di scena da far esultare Salvini per settimane. Infatti, se, in astratto, Bossi e Belsito dovessero vedersi derubricare anche loro il reato, cadrebbe la confisca dei 49 milioni. Ipotesi possibile, ma inverosimile…

I giudici d’Appello per motivare la truffa ai danni dello Stato hanno scritto che la Lega avrebbe potuto addirittura “in modo tacito e informale sostenere spese in favore di Bossi, per rispetto verso il fondatore del movimento, per riconoscenza, ma la spesa avrebbe dovuto avere regolari giustificativi così da rendere trasparente agli elettori la scelta fatta di come utilizzare i rimborsi, che come tale sarebbe stata insindacabile”. Quindi, concludono i giudici, “i documenti falsificati trasmessi alle Camere hanno condizionato l’erogazione integrale dei rimborsi elettorali”. Inoltre, spiegano che non importa se tutti i 49 milioni siano stati “sperperati”, “occultati” , “investiti”.

È rilevante, invece, che “le disponibilità monetarie, in questo caso del partito politico, si siano accresciute di quella somma, legittimando quindi la confisca in forma diretta del relativo importo”. Ovvero 49 milioni. Infatti, i soldi furono incassati anche quando c’era come segretario Roberto Maroni e poi Salvini.

Ecco perché la Lega deve restituire il maltolto se oggi la Cassazione confermerà la sentenza d’ Appello per Bossi e Belsito contro i quali non si è costituita parte civile.

Infine, c’è un piccolo incidente. Come ha scritto il Secolo XIX, ieri, durante la trasmissione degli atti dalla Corte d’Appello in Cassazione si sarebbe perso un faldone. Un fatto già accaduto tante volte per altri processi. Ma la Cassazione non ha bisogno di tutti gli atti, essendo giudice di legittimità e, quindi, non dovrebbe pesare sul processo. Certo, gli avvocati potrebbero appigliarsi a questo per una mossa disperata: chiedere il rinvio che, se concesso (improbabile) porterebbe alla prescrizione. Ma resterebbe la confisca dei 49 milioni.

senatore semplice del colorado

Forse ispirato dall’amico emigrante Sandro Gozi, già volato in Francia per assistere Emmanuel Macron, anche Matteo Renzi guarda lontano. Qualche settimana fa aveva raccontato via social la sua avventura al parco di Yellowstone e la delusione “per non aver trovato Yoghi e Bubu”, idoli di infanzia. Ieri invece, mentre il Senato votava la fiducia sul decreto sicurezza bis, Renzi se ne stava in Colorado, da dove comunque dispensava la solita enews settimanale agli iscritti: “Sarà che sto tornando dagli Usa, ma mi colpisce la mancata consapevolezza sulle stragi in America”. Come quelli che vanno una settimana a Londra e fingono di non ricordarsi più come si dice una parola in italiano: gita in Colorado qualche giorno ed è subito l’unico che la sa lunga sull’America, che capisce l’importanza del dibattito. “Mercoledì (domani, nda) giorno della verità in Senato per capire se il governo va avanti o no, si vota sul tav”. E certo, ieri mancava perché non era nulla di importante. Solo un decretuccio su cui Salvini basa da mesi la campagna elettorale permanente. Anche i senatori semplici, nel loro piccolo, vogliono fa’ gli americani.

“Zingaretti assediato da Renzi, il Veltroni verde è un disastro”

Un Pd ostaggio di se stesso che non riesce a approfittare “delle incompatibilità enormi tra Lega e Movimento 5 Stelle”. Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, finisce sempre lì: “Queste cose io le dico da anni”. In effetti però arriva da lontano il peccato originale della deriva autolesionista di questa sinistra, che negli ultimi giorni ha fatto avviare due raccolte firme separate – una lanciata da Nicola Zingaretti ai banchi della Festa dell’Unità , una da Matteo Renzi online – per chiedere la stessa cosa, ovvero le dimissioni di Matteo Salvini.

Professor Cacciari, le correnti interne litigano persino sulle petizioni contro il governo.

Siamo alle solite, è l’emblema di una situazione che nel Pd non è più sostenibile. Dal momento in cui Renzi ha ottenuto la vittoria sui resti dei vecchi discendenti della Dc e del Pci è stato impossibile trovare una mediazione. Non se ne sono resi conto e allora continuano a massacrarsi.

Lei auspicava una scissione dei renziani.

Sarebbe stata tutta un’altra storia per l’Italia e per il Pd. Ma ha perso la sua occasione, Renzi doveva farsi la sua En Marche! quando era ancora alto nei sondaggi: lui avrebbe spaziato intorno al centro e al berlusconismo, il Pd avrebbe potuto recuperare una parte dei 5 Stelle. Solo che qualche anno fa io lo dicevo e non mi davano ascolto, oggi sono sicuro che sia Zingaretti sia Renzi sanno che quella era la soluzione migliore e che adesso non è più praticabile.

Perché?

Se Renzi si fosse staccato tre o quattro anni fa avrebbe potuto gravitare intorno al 20 per cento, oggi è destinato all’inconsistenza, a un 4 o 5 per cento. Allo stesso tempo, anche Zingaretti è bloccato, perché cacciare ora i renziani non lo aiuterebbe.

Si aspettava di più da Zingaretti?

Di certo non è carismatico, ma questo non è necessariamente un difetto, anzi: ben venga il giorno in cui gli italiani smetteranno di innamorarsi della figura del leader carismatico. Mi aspettavo un po’ di decisionismo in più. In parte lo giustifico perché i gruppi parlamentari sono ancora tutti in mano ai renziani.

Da Veltroni a Zingaretti, adesso i leader del Pd sbandierano un’anima green.

Per carità, il Pd non si salva certo facendo finta di trasformarsi nei Verdi tedeschi. Non c’è dubbio che serva un ambientalismo integrato con un modello economico di crescita, ma perché adesso i Verdi in Germania sono forti allora il Partito democratico diventa verde? Questo è esattamente Walter Veltroni, non mi sorprende. Si va da disastro a disastro.

Domani si vota in Parlamento sul Tav.

Una cazzata megagalattica, un bidone, hanno ragione Marco Ponti e gli altri tecnici. Dopodiché c’è un aspetto amministrativo per cui alla fine l’opera si farà, ce lo cuccheremo come io mi sono cuccato il Mose a Venezia nonostante fossi contrario. E proprio come al Mose tra qualche anno verrà fuori di tutto su quest’opera.

Sul Torino-Lione il governo è spaccato.

È assurdo avere una maggioranza che non va d’accordo su niente: sull’ambiente, sulle tasse, sulle opere, sul lavoro. Mi chiedo come si possa andare avanti. Il problema è che non vedo vie d’uscita, se non che Zingaretti esca dall’accerchiamento renziano e si rivolga ai 5 Stelle. Ma sia all’interno del Pd che dei grillini devono prima sorgere movimenti interni autonomi che spingano entrambi per un ricambio.

Che impressione le fa vedere Salvini dirigere il Viminale dal Papeete?

Sono cose da pazzi, politica imbarazzante in un Paese imbarazzante. Ma sbaglia chi si sorprende, perché l’estetica di Salvini in spiaggia è in perfetta continuità con la bandana di Berlusconi. E del degrado culturale, economico, sociale e politico fa parte anche la volgarità contro la stampa.

No alla proposta Pd, bocciato lo sgombero di Casapound

No allo sgombero di Casapound, almeno per ora. Ieri il governo ha dato parere negativo all’ordine del giorno che il Pd ha presentato al decreto sicurezza per consentire il “tempestivo impiego di forza pubblica per l’esecuzione dei necessari interventi per lo sgombero immediato” della sede di Casapound, occupata dal 2003 nel centro di Roma. Il Pd aveva già presentato un ordine del giorno identico dieci giorni fa, quando il decreto era stato approvato alla Camera: “Ancora una volta il governo giallo verde nero si dimostra forte con i deboli e debole con i forti – scrivono in una nota i senatori dem -, promuove lo sgombero di palazzi occupati da famiglie e minori ma non prende l’impegno di dare seguito alle richieste della prefettura di Roma che ha inserito l’edificio occupato tra gli 88 da liberare”. Di recente, il Demanio ha avviato le pratiche per ottenere lo sgombero. Due settimane fa la sindaca di Roma Virginia Raggi aveva accompagnato alcuni agenti a notificare ai neofascisti il provvedimento con cui dovranno togliere l’insegna dalla facciata del palazzo. Da cui però Casapound non se n’è ancora andato.

Il beach tour di Matteo: pulirà le spiagge dai suoi indagati?

Alla vigilia del tour balneare per le spiagge italiane, Matteo Salvini ha annunciato l’intenzione di fare pulizia nella classe politica meridionale: “I veri nemici sono i politici ladri e incapaci del Sud. Con l’autonomia andranno a casa”. Eppure lì la sua ascesa è stata favorita da un blocco di dirigenti nei guai con la giustizia italiana: mentre il Capitano promette di cacciare “i ladri”, il suo partito si è riempito di indagati e condannati.

In Campania c’è Vincenzo Nespoli, ex An, leader locale negli anni d’oro di Berlusconi (con Nicola Cosentino e Luigi Cesaro). Condannato a 5 anni per bancarotta, la Cassazione ha rimandato il suo processo in appello: tutto da rifare. Con lui nella Lega c’è il nipote Camillo Giacco, accusato di favoreggiamento per un giro di assegni da 72mila euro, assessore comunale ad Afragola. Antonio Mainardi, consigliere comunale di Angri (Salerno), è finito in una storiaccia familiare: i giudici hanno sequestrato i beni che suo padre aveva intestato ai figli (lui compreso) perché sarebbe coinvolto nell’attività usuraia di un affiliato a un clan della camorra. Ma le colpe dei papà non ricadono sugli eredi: lo sostiene pure Domenico Furgiuele, parlamentare del Carroccio in Calabria. Suo suocero Salvatore Mazzei per la dda di Catanzaro sarebbe “imprenditore di riferimento” di alcune cosche locali. La Lega al Sud è anche Dario Giagoni (Sardegna), finito in una faida interna, insieme a massoni veri o presunti, in una piccola House of Cards isolana. A luglio è stato prescritto dall’accusa di appropriazione indebita. In Sicilia c’è Angelo Attaguile, ex Dc, indagato per voto di scambio insieme al deputato Alessandro Pagano (mentre Tony Rizzotto, indagato per appropriazione indebita, ha lasciato il partito).

Infine c’è la Puglia di mr. Papeete Massimo Casanova, amico del Capitano, neo-eurodeputato, indagato per un presunto abuso edilizio nella sua tenuta di Lesina. In Salento c’è Roberto Marti, indagato in un’inchiesta sull’assegnazione delle case popolari (che coinvolge esponenti della Sacra Corona). E infine: nello squadrone leghista ci sono pure Enrico Balducci, condannato a 3 anni e 8 mesi per l’omicidio di un rapinatore, e il sindaco leghista di Apricena (Foggia) Antonio Potenza, ai domiciliari con l’accusa di reati gravi contro la pubblica amministrazione.

 

Camillo Giacco

Nipote di Nespoli, è stato coinvolto nel procedimento che riguarda lo zio con l’accusa di favoreggiamento per assegni da 72mila euro. È assessore comunale ad Afragola

 

Antonio Mainardi

Consigliere comunale ad Angri, i giudici di Salerno hanno sequestrato i beni che suo padre aveva intestato ai figli (lui compreso) per i rapporti con un affiliato a un clan camorristico

 

Angelo Attaguile

Uno dei primissimi salviniani di Sicilia, è indagato nella maxi inchiesta di Termini Imerese sul voto di scambio, che coinvolge anche il deputato leghista Alessandro Pagano

 

Dario Giagoni

Vicecommissario della Lega in Sardegna, è appena stato prescritto in un processo per appropriazione indebita. È finito in una faida interna a ridosso delle elezioni regionali

 

Roberto Marti

Ex luogotenente di Raffaele Fitto, eletto al Senato nella Lega di Salvini, è indagato nell’inchiesta di Lecce sulle assegnazioni delle case popolari in cambio di voti

 

Enrico Balducci

Segretario provinciale della Lega a Bari, è stato condannato a 3 anni e 8 mesi per omicidio: ha ucciso un uomo al termine di un tentativo di rapina nella sua stazione di servizio

 

Antonio Potenza

Il sindaco leghista di Apricena (Foggia) è stato arrestato il 23 luglio: è accusato di reati gravi contro la pubblica amministrazione: concussione, peculato, abuso d’ufficio

 

Domenico Furgiuele

È il primo parlamentare leghista eletto in Calabria, suo suocero Salvatore Mazzei è considerato dalla Dda di Catanzaro un referente delle cosche locali

Sbarcati 48 migranti: “Anche un bambino morto nel viaggio”

Ancora uno sbarco e, probabilmente, una nuova tragedia nel Mediterraneo. Una imbarcazione con 48 migranti, tra cui 27 donne di cui tre incinte e sei minori, è riuscita a raggiungere in modo autonomo Lampedusa. Senza che nessuno la intercettasse prima dell’ingresso nelle acque territoriali italiane. Secondo le testimonianze raccolte da Mediterranean Hope, il programma per rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche, avrebbero viaggiato per due giorni dopo essere partiti dalla Libia. Durante la traversata, un numero imprecisato di persone sarebbe caduto in mare. Tra loro, a quanto viene riferito, un bambino di cinque mesi e un ragazzo di 30 anni. Dopo quattro giorni non hanno invece ancora un porto dove sbarcare i 121 a bordo della Open Arms, che continua a navigare in acque internazionali, a largo di Lampedusa. Se entrerà in acque italiane rischia una multa salata per effetto del decreto sicurezza-bis approvato ieri al Senato. “Che Italia, Malta o la stessa Unione si mettano a lavoro e trovino una soluzione”, è l’appello lanciato dall Ong spagnola Proactiva che gestisce l’imbarcazione.

Cronista intimidito, Gabrielli interviene. Gli agenti rischiano

Già questa mattina potrebbero essere sul tavolo del procuratore di Ravenna i primi accertamenti della Digos sul caso del figliolo di Matteo Salvini sulla moto d’acqua della polizia e delle intimidazioni al giornalista videomaker che ha ripreso la scena sulla spiaggia di Milano Marittima. Rischiano i due agenti, almeno uno della scorta del ministro dell’Interno e vicepremier, che hanno cercato di impedire a Valerio Lo Muzio di fare le riprese. Dicendogli “questa te la levamo” riferendosi alla telecamera, che ha ripreso tutto come si vede nel video di repubblica.it. E poi “adesso so dove abiti” dopo avergli chiesto i documenti, quando però la telecamera era spenta.

Il reato in astratto può essere minaccia aggravata o anche violenza privata, naturalmente la valutazione spetta al procuratore di Ravenna, Alessandro Mancini. Se poi la Procura non intenderà procedere penalmente si apriranno i procedimenti disciplinari all’interno della polizia. Rischia molto meno l’agente che ha materialmente portato a spasso sull’acquascooter di servizio il rampollo del sempre più ingombrante ministro dell’Interno.

Il punto di vista dell’amministrazione l’ha chiarito Franco Gabrielli, il capo della polizia, rispondendo ieri mattina ai cronisti a margine dell’inaugurazione di un ufficio Polfer alla stazione di Milano Rogoredo: “In questa vicenda c’è solo una cosa che mi interessa e che sto approfondendo: se c’è stata una limitazione al diritto di informazione e cronaca. La vicenda dell’acqua-scooter onestamente mi sembra un po’ amplificata, vi potrei portare decine di immagini di nostri mezzi che vengono utilizzati anche da ragazzini. Quindi questo mi interessa il giusto. Mi preoccupa di più, e ho chiesto un approfondimento, quando c’è una limitazione al diritto di cronaca che ritengo debba essere posto al centro”. Poi, con maggiore nettezza, Gabrielli ha aggiunto: “Se ci sono state delle minacce e degli atteggiamenti fuori dall’azione ordinaria ci sono anche profili penali”. Che finora erano stati esclusi.

Ieri la Digos di Ravenna ha sentito Lo Muzio, come era stato annunciato e come lo stesso giornalista ha confermato in una conferenza stampa a Bologna nella sede dell’Aser, il sindacato dei giornalisti dell’Emilia-Romagna, alla presenza del presidente della Fnsi, Beppe Giulietti. In Questura Lo Muzio, freelance, era accompagnato da uno degli avvocati di Repubblica (che ovviamente è rimasto fuori dalla porta dato che il giornalista è testimone). Lo Muzio non ha sporto denuncia. I reati ipotizzabili sono peraltro perseguibili d’ufficio. “Ho 90 giorni per valutare con l’avvocato se sporgere denuncia”, ha spiegato. “Io non ho mai detto né scritto di essere stato minacciato – ha detto al Fatto –. Sarà la Procura a valutare. La frase ‘sappiamo dove abiti’ non era accompagnata da minacce esplicite. Quando mi hanno chiesto i documenti inizialmente ho dato il tesserino dell’Ordine dove c’è la vecchia residenza a Foggia, poi la carta d’identità dove c’è l’indirizzo di Bologna. E allora il poliziotto ha detto quella frase, non ho approfondito perché per me quella dei documenti era una distrazione, non mi interessava rispondere alle provocazioni, io ero concentrato sulla moto d’acqua da riprendere”.

Lo Muzio minimizza? “Ma no, dico solo che non sta a me giudicare, io ho lasciato parlare i fatti”. Il reporter ha consegnato il filmato in cui sono visibili gli agenti che, nella versione pubblicata online, hanno il volto oscurato. “Ho spiegato chiaramente che hanno cercato di non farmi svolgere il mio lavoro abbassandomi la telecamera, mettendo la mano davanti, dicendomi ‘questa te la levamo’”.

Non sembra che la Digos si stia occupando di quanto è successo dopo, alla conferenza stampa in cui Salvini si è rifiutato di rispondere alla domande di Lo Muzio dicendogli: “Vada a riprendere i bambini in spiaggia, visto che le piace tanto”. Non gli ha dato espressamente del pedofilo ma poco ci è mancato, ma soprattutto per la seconda volta a Lo Muzio è stato impedito di lavorare. Nei giorni seguenti Salvini ha risposto “lei è un maleducato” anche a una civile domanda di Giorgio Mottola di Report. Dai comitati di redazione alla Fnsi, i giornalisti per una volta hanno risposto compattamente. Non come alla conferenza stampa in cui sono rimasti ai loro posti mentre il vicepremier insultava Lo Muzio. “Alcuni – ha detto ieri il giornalistavideomaker – mi hanno chiesto scusa”.

Rcs, il corsera elogia l’editore

“Come direbbe un bravo allenatore, ho trovato una squadra con una grande disponibilità a fare meglio, reagire. Senza questa disponibilità non avremmo ottenuto gli stessi risultati”, spiega Urbano Cairo, presidente e ad di Rcs in una non-intervista rilasciata a una giornalista del Corriere della Sera, di cui è il capo. Come si fa, allora, a non ricambiare i complimenti (del resto risulterebbe assai difficile opporsi alla volontà del proprio editore) in un accorato scambio di successi ottenuti dal 2006 a oggi? Riga dopo riga si leggono i risultati ottenuti, la catena delle iniziative editoriali o i rilanci delle testate, iniziative tutte contraddistinte da un denominatore comune: la lungimiranza dell’editore che un suo giornalista riporta senza, però, tralasciare le difficoltà affrontate. “Persino tra gli amici qualcuno temeva che non ce l’avremmo fatta: ‘Urbano congratulazioni… ma ti sei preso una bella gatta da pelare’ ”, si legge nell’articolo pubblicato ieri. Un crescendo che finisce per implodere nel titolo: “Cairo: così la svolta per Rcs, in 3 anni la cura ha funzionato”. Ma un momento di tensione traspare dalle parole dell’editore/presidente/ad: “Cerchiamo di mantenere l’umiltà e l’impegno. Non bisogna pensare nemmeno per un secondo di essere i più bravi. Rischiando di venir smentiti il secondo dopo”. Certo è che nessuno al Corriere metterà in discussione le parole di Cairo.