Istat, economia italiana in lieve ripresa

“Lieve miglioramento dei livelli produttivi”: 5 parole contenute nella Nota mensile dell’Istat sull’andamento dell’economia italiana che aprono spiragli di speranza sulla seconda parte dell’anno. “A luglio, l’indicatore anticipatore ha interrotto la tendenza alla flessione in atto dalla fine dello scorso anno”, sottolinea l’Istituto di statistica che evidenzia “un marcato aumento del clima di fiducia dei consumatori, diffuso a tutte le componenti”. In particolare, sotto la spinta dei ribassi dei beni energetici, a luglio, l’inflazione ha continuato a rallentare e si è ampliato il differenziale negativo con la dinamica dei prezzi al consumo nell’area dell’euro e nei principali partner europei.

Il recupero della fiducia ha coinvolto anche le imprese, con l’indice di fiducia che ha segnato un progresso, raggiungendo il valore massimo da ottobre 2018. L’aumento è stato diffuso tra i settori economici a eccezione di quello manifatturiero per il quale sono peggiorati i giudizi sul livello degli ordini e migliorati quelli sulle attese sulla produzione. Dettagli, questi particolarmente importanti, perché il mese di riferimento è luglio; il primo di un terzo trimestre chiave in ottica ripresa, dopo la variazione nulla fatta registrare dal Pil nel secondo trimestre. Il recupero della fiducia ha coinvolto anche le imprese, a eccezione di quelle manifatturiere.

Gli occhi ora sono puntati alla fine del 2019 quando, secondo le previsione del governo, si dovrà centrare lo 0,2% stimato dal Documento di economia e finanza facendo i conti con una congiuntura negativa e le difficoltà raccontate dagli ultimi dati, fatta eccezioni per una stabilizzazione dell’occupazione. A maggio per la prima volta dopo 7 anni, infatti, il tasso dei senza lavoro è sceso sotto il 10%, registrando un’ulteriore flessione (-0,1%), la quarta consecutiva. Bene, in termini percentuali, è andata anche sul fronte del’export (+4% tra gennaio e maggio), ma anche qui il quadro prospettico non pare brillante.

La nota Istat rimarca come le prospettive per gli scambi internazionali, penalizzate dal protrarsi delle tensioni commerciali e dal rallentamento dell’attività economica in Cina, rimangono negative. Il principale elemento di instabilità è la guerra dei dazi con gli Stati Uniti con il presidente Trump che si è già detto infastidito dalla lentezza dei trattati. Fino all’escalation di ieri, quando ha puntato il dito contro Pechino, accusandolo di svalutare volutamente la propria moneta, considerata una “grave violazione” degli accordi commerciali con lo yuan precipitato ai minimi da 11 anni. Tensioni che hanno inciso sulle Borse europee che hanno chiuso perso 180 miliardi.

Conte dialoga con i sindacati, Di Maio apre su salario minimo

Quello del rassicurante croupier Conte o la roulette piena di lustrini di Salvini: quale sarà il tavolo giusto sul quale puntare le poche fiches a disposizione, per influire veramente sulla manovra del governo? È il dilemma davanti al quale si trovano in queste ore sindacati e organizzazioni datoriali, sempre più confusi dopo la prima convocazione delle parti sociali al Viminale il 15 luglio scorso, in cui la componente leghista dell’esecutivo ha illustrato un drastico taglio delle imposte ma dai beneficiari incerti. Ieri sono andati a Palazzo Chigi per ascoltare i contenuti della manovra apparecchiata dal premier. Oggi sono stati riconvocati da Matteo Salvini al “suo” ministero degli Interni dove ritroveranno schierati tutti i componenti del Carroccio nel governo giallo-verde. E anche quelli che non ci sono più, come l’ex sottosegretario Armando Siri in qualità di “padre” della flat tax.

La famosa tassa piatto forte del menù leghista, finisce invece tra i contorni nella lista del premier Conte, smembrata e diluita in un sistema fiscale a tre aliquote. Per palazzo Chigi la priorità su cui convogliare le poche risorse a disposizione non è la riduzione delle imposte sulla classe media ma la pressione fiscale sui salari. Una vera emergenza che va affrontata “con un significativo taglio del cuneo fiscale e contributivo” ha detto ieri all’incontro di palazzo Chigi il capo del governo, tra i cenni di approvazione del presidente della Confindustria Vincenzo Boccia, che non ha mai nascosto il suo No alla flat tax e anche alle frontiere chiuse ai migranti. Mentre Landini vuol vedere prima i testi ma apprezza la volontà di ridurre le tasse a lavoratori.

Al secondo punto della sua manovra Giuseppe Conte ha posto gli interventi a favore delle famiglie e della natalità, ricordando che “il potere d’acquisto delle famiglie ha subìto una sensibile contrazione”. Intanto il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, barricato in via XX Settembre, cerca di far quadrare i conti con le promesse: quelle elettorali e quelle fatte a Bruxelles. Di sicuro il rapporto deficit/Pil deve tornare sotto l’1,8% e contemporaneamente ci sono da trovare 23 miliardi per non far schizzare in alto le aliquote dell’Iva. Le due fonti di finanziamento che ritornano con insistenza nelle bozze del Mef sono “il riordino” (ovvero il taglio) della giungla di deduzioni e detrazioni fiscali (si parla nell’ultimo censimento di oltre 700 voci per un valore di 133 miliardi) e la “rimodulazione”, (ovvero una nuova destinazione), dei 9 miliardi che alimentano ogni anno il bonus degli 80 euro. Sarebbero questi i due tesoretti con cui il governo dovrebbe finanziare le varie riduzioni fiscali, gli investimenti e fermare la scure che incombe ancora una volta su scuola e sanità.

Dalla riunione di Palazzo Chigi arrivano invece ai sindacati segnali di attenzione dalla gamba pentastellata del governo. Di Maio ha confermato che un intervento sul salario minimo sarà dentro la legge di stabilità, ma ha assicurato che non metterà in discussione i contratti nazionali “perché convengono pure loro che l’importante è rafforzarne il ruolo”, ha riferito Landini al termine dell’incontro, sottolineando che “averla affermata oggi è una novità positiva”. Il vice premier 5S ha arricchito l’offerta annunciando “grande attenzione” al lavoro femminile: sgravi contributivi a favore delle donne, estensione dello “smart working” per agevolare il lavoro da casa nei mesi dopo il parto, potenziamento del welfare aziendale con asili nelle imprese.

Cade in acqua dal materassino: ragazzo disperso

castel gandolfo : era a circa 150 metri dalla riva, sul suo materassino, quando alcuni testimoni lo hanno visto cadere in acqua. I testimoni hanno raccontato di averlo visto mentre si dimenava fino a quando, sfinito, è scomparso senza riemergere. Sono partite ieri pomeriggio le ricerche di un 33enne caduto in acqua nel lago di Castel Gandolfo, vicino Roma. Da una primissima ricostruzione, sembrerebbe che si sia allontanato da solo con il materassino per godersi una giornata di riposo, quando per motivi che non sono ancora stati accertati è cauto in acqua. Immediato è stato lanciato l’allarme dalle persone presenti nel luogo che hanno prontamente chiamato i soccorritori.

Sul posto sono giunti poco dopo gli agenti della polizia, i vigili del fuoco con i sommozzatori e il personale del 118. Le ricerche avviate anche grazie alle indicazioni fornite dai presenti, però, non hanno portato ai risultati sperati. Dell’uomo nelle ore successive alla sua caduta non sono state trovate tracce. Col passare delle ore le speranze che il 33enne possa essere ancora vivo si riducono drammaticamente.

Segregata e violentata per tre giorni da ex fidanzato: l’incubo di una 28enne

Un anno di minacce e pressioni. Tre giorni di terrore e violenza: rapita dal suo ex, segregata in un appartamento e violentata ripetutamente. Fino a quando la donna non è riuscita a scappare, gettandosi dalla macchina in corsa dove l’aguzzino l’aveva costretta a salire per accompagnarlo in un viaggio a Roma.

L’incubo era iniziato mercoledì 31 luglio. L’uomo, 30 anni, origini albanesi, irregolare sul territorio italiano con a carico un ammonimento del questore di Perugia, ha rapito la sua ex fidanzata, trascinandola con sé da Siena a Foligno. Per tre giorni non ha potuto uscire di casa, dove ha subito violenze sessuali e soprusi di ogni tipo. Ieri la fuga, durante uno spostamento verso la Capitale. Giunti all’outlet di Castel Romano, la donna ha aperto lo sportello e si è lanciata in strada. Lui l’ha rincorsa, colpendola con schiaffi e pugni, per costringerla a risalire sulla vettura, ma alcuni passanti sono intervenuti mettendola in salvo. Agli agenti, la 28enne ha raccontato la storia di un amore malato: un lungo anno di soprusi e violenze, fisiche e psicologiche. L’uomo, che inizialmente si era dato alla fuga, è stato rintracciato in serata e arrestato a Foligno.

Zingaretti, regalo per i balneari: “Più cemento”

È stato contestato per l’effetto dannoso che potrebbe avere sul patrimonio archeologico e storico della Regione, tanto che il ministero dei Beni Culturali ha annunciato di voler impugnare il piano paesistico del Lazio approvato dalla giunta Zingaretti. Oggi, a segnalare nuove criticità – questa volta legate allo sfruttamento delle coste – è il coordinatore dei Verdi, Angelo Bonelli. “È stato inserito un comma che dovrebbe essere a tutela delle fasce costiere ma che, in realtà, consente una folle costruzione sulle coste laziali”, spiega Bonelli.

In pratica, mancia ai balneari, si introduce un indice di edificabilità pari a 0,2 metri cubi su metro quadrato sulle coste per realizzare “stabilimenti balneari, attrezzature balneari, ricreative e sportive”. Nel precedente piano, quello redatto nel 2007 che è stato adottato ma mai approvato in Ragione (di conseguenza ogni città – zona aveva un piano diverso) l’indice di riferimento era quello pari a 0,001 entro la fascia dei 300 metri. Oggi, il regolamento prevede anche norme sulle attività che si possono realizzare in ambiti naturali di particolare importanza purché provviste dei cosiddetti piani utilizzazione arenili, di cui molti Comuni si stanno già dotando e che comunque indurrà l’edificazione di strutture balneari (inclusi stabilimenti, bar, ristorazione).

Il trucchetto è nel comma 5 dell’articolo 32. “Le attrezzature balneari e i campeggi possono essere consentiti solo in ambiti circoscritti purché non ricadenti nei paesaggi naturali, naturali agrari ed agrari di rilevante valore, attrezzati a finalità turistiche, previsti nei piani urbanistici comunali o in apposite varianti ad essi, in coerenza con la pianificazione di settore”, si legge. E si aggiunge: “Nei limiti di un indice di edificabilità fondiaria di 0,2 mc/mq”. Tradotto in numerini: se esiste una concessione demaniale di 10 mila metri quadrati, su quella superficie si possono realizzare strutture per 2mila metri cubi. “Significa – dice Bonelli – che può essere ammessa una palazzina di dieci metri di altezza con una superficie di base di 200 metri quadrati”.

Nella parte successiva della norma c’è invece l’eccezione. Regola i casi in cui si possono autorizzare strutture “anche nei paesaggi naturali, naturali agrari ed agrari di rilevante valore, previa approvazione di un piano di utilizzazione dell’arenile (…) e al suo recepimento nello strumento urbanistico comunale”. Si parla di “attrezzature balneari” indicate in un articolo della legge che regola il turismo in Lazio. Andando a spulciarla, ci si accorge che tra le tipologie “autorizzate”, oltre le spiagge libere e le strutture per il noleggio di imbarcazioni, ci sono anche “stabilimenti balneari” e “strutture ricettive ed attività ricreative e sportive”. Il piano paesistico aggiunge “purché aventi carattere stagionale”. Il confine può però creare confusione. La norma si affianca infatti a quanto previsto nella scorsa Legge di Bilancio che proroga le concessioni demaniali marittime al 2020 “nelle more del riordino della materia” e anche il mantenimento dei manufatti. Ieri, comunque, sulle pagine della cronaca locale di Repubblica, l’assessore regionale all’urbanistica, Massimiliano Valeriani, ha spiegato che “l’indice c’era già” e “la cementificazione è una sciocchezza. Parliamo di strutture amovibili e solo a servizio della balneazione”.

“Mi chiedo se sia questa la svolta green del Pd – dice invece Bonelli – visto che in realtà questi favori ai balneari e la volontà di sfruttare le coste in questo modo è il cavallo di battaglia della Lega. Insomma, qual è la differenza?”

Affari in spiaggia per B. con il sogno anni Novanta

Si è presentato in spiaggia in camicia blu e pantalone scuro sotto gli occhi increduli dei bagnanti che lo hanno visto arrivare a sorpresa fra gli ombrelloni con un piccolo codazzo di accompagnatori. Silvio Berlusconi in vacanza in Costa Smeralda ha effettuato un sopralluogo in uno degli angoli più suggestivi del territorio olbiese, Capo Ceraso: mare cristallino e sabbie finissime dominate da un promontorio selvaggio, le cui aree sono in parte riconducibili alla famiglia Berlusconi.

In tanti si sono chiesti quale fosse il motivo di quella improvvisata visita in spiaggia. Proprio qui, in questo spicchio di costa, la società Edilnord del gruppo Fininvest avrebbe voluto realizzare il sogno cementizio di Costa Turchese, 560 mila metri cubi di mattoni su 467 ettari di verde incontaminato. Erano i primi anni ’90 e si faceva conto sulla propensione, allora pervasiva nella cultura giuridica del paese, ad individuare le norme per poi trarne le dovute eccezioni. Così anche in Sardegna, dove nei Piani Territoriali provinciali del ’93 convivevano la regola dell’inedificabilità a 300 metri dal mare e un sistema di deroghe ai vincoli poi pesantemente sanzionata dal Tar con l’azzeramento di tutti i Ptp.

A mettere la parola “fine” sul progetto di Costa Turchese ci pensò definitivamente il Ppr di Renato Soru, il Piano Paesaggistico Regionale che nel 2006 ha esteso la tutela ambientale su tutte le coste dell’isola. Capo Ceraso è rimasta così una delle poche zone incontaminate in un territorio, quello di Olbia, che nel corso di pochi decenni ha conosciuto una trasformazione vertiginosa, con quasi due milioni di metri cubi di cemento in gran parte utilizzati per l’edilizia residenziale nelle zone F, quelle turistiche di maggior pregio. Pochi giorni fa il Sindaco di Olbia, il forzista Settimo Nizzi, ha presentato le nuove linee guida del Piano Urbanistico comunale, annunciando lo stop alle seconde case (una scelta obbligata, dato che tutti i volumi a disposizione sono stati già impiegati) ed il via libera ad alcuni progetti per alberghi extra-lusso sulla costa, uno dei quali sarebbe localizzato proprio a Capo Ceraso. Ecco perché c’è chi giura che la passeggiata di Silvio in spiaggia non sia solo una coincidenza, ma il preludio della ripresa del grande sogno edilizio di Costa Turchese, aggiornato e rivisto ai giorni nostri. Le condizioni ci sarebbero tutte: al Comune c’è un sindaco amico, in Regione governa la Lega. Del resto, Berlusconi non fa mistero delle sue ricette sullo sviluppo della Sardegna. Ne aveva già parlato a Cagliari, durante la conferenza stampa congiunta con Salvini e Meloni in occasione della campagna per le regionali nell’isola: il vincolo dei 300 metri non è un dogma, purché l’edilizia sia “di qualità”. Una visione che fa accapponare la pelle agli ambientalisti, fra cui un padre nobile del Ppr come Sandro Roggio: “È bene ricordare che Capo Ceraso è un bene paesaggistico tutelato, può anche essere che ci sia una previsione di nuovi alberghi, ma è sicuro che con le attuali regole non si può piantare un chiodo”.

Interviene anche il Grig, Gruppo d’Intervento Giuridico: “Il Tar Sardegna con una sentenza del 14 gennaio 2015 ha respinto il ricorso di Edilizia Alta Italia (gruppo Berlusconi) titolare del progetto immobiliare Costa Turchese verso il Piano Paesaggistico regionale della Sardegna. Le procedure di adozione ed approvazione del Ppr vengono riconosciute legittime, ancora una volta, dal giudice amministrativo”.

Brigante e mezzo

Ieri, con la fiducia all’orribile decreto Sicurezza-bis, i 5Stelle hanno pagato l’ultima cambiale a Salvini. Se sia l’ultima in ordine di tempo o in assoluto, lo scopriremo presto. Le conseguenze del bis sono meno preoccupanti di quelle del primo che, accanto a (poche) norme di buonsenso, ne conteneva due micidiali: la fine dei permessi umanitari, che ha moltiplicato i clandestini; e lo smantellamento degli Sprar, i centri comunali d’integrazione, che ha moltiplicato i migranti a zonzo per le strade a bighellonare, o mendicare, o infastidire i passanti, o cadere preda della criminalità comune e organizzata. Gli “stranieri”, non avendo dove andare e cosa fare, appaiono molti più di quelli che sono: tutta benzina sul fuoco della rabbia più o meno razzista nei quartieri popolari e tutta benzina nel motore della Lega. Che, fatto il danno, riesce pure a lucrarci dei voti. In compenso nulla, nei due dl Sicurezza, è previsto per i rimpatri degli irregolari: promessa che ha gonfiato le vele del salvinismo e paradossalmente continua a gonfiarle perché la propaganda di sinistra seguita a dipingere il Cazzaro Verde come nemico dei clandestini: così la gente pensa che li stia rimpatriando davvero o, se non lo fa, non è perché non è capace, ma perchè i cattivoni buonisti glielo impediscono.

Anche stavolta, da sinistra, s’è levata la solita litania: che aspetta il M5S a far cadere il governo a trazione Salvini? Noi l’abbiamo scritto fin da prima che nascesse il Salvimaio: “Se si alleano con la Lega, i grillini verranno inseguiti con i forconi da molti elettori”. Ripetuto l’estate scorsa: “I 5 Stelle valutino il momento più propizio per staccare la spina”. E ribadito dopo la débacle grillina alle Europee: “Ai 5 Stelle conviene tornare all’opposizione”. Il che non ci ha impedito di notare che finora, mentre Salvini stravinceva nella gara di chiacchiere e di rutti, i 5Stelle stravincevano in quella delle leggi approvate: ai due Dl Sicurezza e alla (il)legittima difesa, dall’esito nullo o negativo, e ai cedimenti su Tap e altre opere inutili (su cui però il M5S si ritrova solo in Parlamento, come pure sul Tav), i 5Stelle possono opporre una dozzina di riforme buone e giuste (anche se non han saputo comunicarle). Che, anche se la legislatura finisse oggi, darebbero comunque al governo Conte un bilancio più positivo che negativo. Il guaio è che l’interesse del M5S non coincide con quello dell’Italia: ricattati come sono un giorno sì e l’altro pure da Salvini, i 5Stelle avrebbero tutto da guadagnare da un bagno purificatore all’opposizione. Per far tesoro della cura dimagrante forzata al 17%. Per rimediare agli errori commessi.

Per ritrovare l’identità smarrita, riorganizzarsi al vertice e alla base e mostrare a chi se l’è già dimenticato di cosa sono capaci i vecchi partiti. Ma gli italiani, almeno chi non vuole un monocolore Salvini senza contrappesi, inevitabile in caso di elezioni presto, hanno l’interesse opposto: che si voti non prima dell’estate 2020, nella speranza che il pallone gonfiato dimostri alla prova dei fatti la sua palese incapacità anche a chi oggi non la nota e si sgonfi. Cioè che finisca o si ridimensioni l’innamoramento-incantamento della solita Italia sotto il balcone del ducetto di turno. Ma, per votare fra un anno, stante l’indisponibilità del Pd a governare col M5S, ci vogliono altri 12 mesi di governo Conte. Dopo le Europee, Di Maio ha avuto una sola preoccupazione: non fornire a Salvini pretesti per rompere su dei “no” impopolari (su Flat Tax, Tav e migranti). Infatti ha opposto resistenza sugli unici temi che la gente avverte poco e Salvini ancor meno: autonomie regionali e riforma della giustizia. Ma ora la finestra elettorale di luglio si è chiusa e Salvini è stato azzoppato – anche se non lo dà a vedere e i sondaggi ancora non lo registrano – da tre gravi scandali (caso Rubli, caso Arata-Siri, Tangentopoli lombarda) di cui nessuno, neppure lui, conosce gli sviluppi e le conseguenze in una campagna elettorale.

Ma, se Di Maio&C. vogliono tenere in piedi il governo, sperare di logorare l’ “alleato” e recuperare un po’ dei 4milioni e mezzo di astenuti, anziché farsi fagocitare definitivamente, non possono continuare a comportarsi come se fossero gli unici a temere il voto. Anche perchè sanno che, con le spade di Damocle giudiziarie sul capo, lo teme un bel po’ anche Salvini: altrimenti avrebbe approfittato della famosa “finestra”. Di Maio, per quanto ancora rintronato dalla batosta, resta il leader più capace del M5S. Ma deve guarire dalla sindrome da accerchiamento che ultimamente lo porta a sospettare di Di Battista, di Fico e tanti altri, al punto da mettere in fuga un veterano e fedelissimo della prima ora come Max Bugani, molto vicino a Casaleggio e Grillo. Nel forum di un mese fa col Fatto, Di Maio parlò di una sorta di direttorio con tutti i big per gestire collegialmente il Movimento nella fase più drammatica della sua storia: che aspetta a formarlo? E a chiedere a Grillo, dopo tanti passi indietro, di fare un bel passo in avanti? Così ricompatterebbe i tanti parlamentari ed elettori disorientati. Le cose da fare al governo, mentre “quell’altro” fa il tour dei Papeete, non mancano, e tutte previste dal Contratto: salario minimo, legge sui rider, riforma Bonafede, manette agli evasori, conflitto d’interessi, taglio delle tasse sul lavoro e così via. Con una campagna estate-autunno sui contenuti, la gente potrebbe addirittura capire perché il governo resta in piedi e chi, al suo interno, pensa a lavorare. A quel punto sarà Salvini, se si opporrà, quello del Partito del No che viola il Contratto e si assume l’onere di rompere. I ricatti non sono mai belli, ma con un “alleato” ricattatore sono l’unica speranza di sopravvivenza. Come diceva Sandro Pertini, “a brigante, brigante e mezzo”.

L’ultima spiaggia prima del Salveloni: Matteo lardellato

Ha messo la freccia, ragazzi: ha messo la freccia e non lo riprendiamo più. Matteo Salvini, forte di consensi che lo danno prossimo al 40 per cento e certo quindi di dar presto vita a un governo persino più brutto & inutile di questo, sta oltrepassando ogni giorno il confine del ridicolo. Il suo dj set al Papeete è una roba che, se solo avesse osato immaginarla Maurizio Crozza, gli avremmo detto di non esagerare. Da noi però la realtà fa sistematico scempio della farsa, rendendo con ciò antiquata qualsivoglia satira: se qualcosa potrà andar male, state pur certi che in Italia ci andrà. Sempre. E nulla di tutto questo farà perdere voti a Salvini. È come con Berlusconi: quel che scandalizza i “detrattori”, esalta i sostenitori.

Salvini dividerà sempre più, ma è così che (da noi) si governa. L’uomo la cui unica dote politica resta quella di non esser peggio di Renzi, cadrà quando qualcuno si accorgerà della smisurata discrepanza tra narrazione mitomane e realtà stitica. Non cadrà certo per il suo fare sbruffone. Anzi: presentarsi in spiaggia lardellato, mezzo ciucco e bramoso di giovani pulzelle è per il suo popolo un vanto ulteriore. Crea immedesimazione. Le “cubiste dell’interno” e le “conferenze spiaggia” sono motivi di vanto, per il garrulo “aperi-premier” (come l’ha chiamato Matteo Grandi). Come si esce da tutto questo? Non se ne esce: non a breve termine, almeno. Ci attendono (altri) anni ridicoli. Un governo Salveloni. Un Di Maio efferato contro quel che resta (quasi nulla) dei fu 5 Stelle. E un Pd consuetamente ridicolo e colpevole. Non c’è speranza e moriremo tutti: al solito.

L’unico obiettivo dovrebbe esser quello di consegnare alla morte “una goccia di splendore”, per citare quel Fabrizio De André che Salvini adora ma di cui non ha capito nulla (anzi meno). Bisognerebbe quantomeno avere dignità e amor proprio. Tutte cose che, da noi, son più in estinzione dei panda. Ancor più tra i giornalisti. L’idea che il figlio di Salvini faccia un giro con la moto della polizia è deprecabile, ma finisce lì. Anche il vederlo a torso nudo, pingue, sudaticcio e senza reggiseno – nonostante la quarta che si ritrova – forse come segno di solidarietà per la sua amica Carola Rackete, provoca inesorabili liquami estetici ma non scandalizza più di tanto. Quel che è avvilente è lo sprezzo di Capitan Lardini nei confronti del giornalismo. La conferenza spiaggia (ops stampa) durante la quale ha insultato il giornalista di Repubblica Valerio Lo Muzio, accusandolo neanche troppo velatamente di pedofilia, è stata avvilente. Le forze dell’ordine ridotte a fargli da lacchè, tra il zelante e il minaccioso come ai bei tempi di Alfano e Renzi, hanno messo malinconia. Ma a fare ancora più schifo è quella sparuta pletora di giornalisti ontologicamente senza palle che, fatte salve lodevoli eccezioni, non ha proferito neanche mezza sillaba. Un giornalista, prima di fare la domanda al “sire”, per blandirlo ulteriormente ha addirittura premesso di “non essere di Repubblica”.

Di fronte a un Salvini qualunque che si arrampica sugli specchi, sputando bile e vomitando provocazioni contro chi è reo unicamente di fare solo il suo lavoro, i grillini dovrebbero vergognarsi di starci accanto al governo. E i presenti a quella conferenza spiaggia (ops stampa) avrebbero dovuto alzarsi come un sol uomo e mandare all’unisono Salvini a quel paese, magari gridando pure “Suca cazzaro!” con tanto di gesto delle mani ad altezza pelvica. Fino a quando avremo un’informazione così pavida, ci meriteremo di tutto. Ma proprio di tutto. Persino Berlusconi. Persino Renzi. Persino Salvini.

Quel ministro contro la legge e la carta

Il Fatto Quotidiano ha costantemente denunciato all’opinione pubblica i comportamenti arbitrari del ministro di Polizia Matteo Salvini ritenendoli suscettibili di essere portati al giudizio di un Tribunale, dal quale era, però, “miracolosamente” sfuggito grazie a un’improvvida deliberazione del Senato che aveva negato al Tribunale dei ministri l’autorizzazione a procedere per abuso d’ufficio e sequestro di persona per il grave episodio della nave “Diciotti”.

Da allora gli abusi si sono intensificati anche con lo scudo degli (incostituzionali) “decreti sicurezza” (da lui imposti) lesivi di diritti fondamentali e che ricordano le liberticide norme di pubblica sicurezza di mussoliniana memoria (poi smantellate dagli anni 60 dalla Consulta). Si è giunti così ai recentissimi episodi di cui si è reso protagonista il Salvini nei confronti della stampa (la cui esistenza lo “indigna”). Come è noto, uomini della scorta del ministro hanno tentato (anche cercando di bloccare la videocamera) di impedire al videomaker di Repubblica Valerio Lo Muzio di “immortalare” il figlio del Salvini che scorrazzava per il mare su una moto d’acqua dello Stato, guidata da un agente di Stato, giungendo arbitrariamente a identificarlo e a sibilare “ora sappiamo dove abiti”. Tutto ciò alla presenza del ministro, il quale con la consueta estrema protervia si è poi rifiutato di rispondere alle domande sull’increscioso episodio rivolgendo a Lo Muzio anche la grave insinuazione, ai limiti della diffamazione, “vada a riprendere i bambini in spiaggia visto che le piace tanto”. Ora, non vi è dubbio che, nella vicenda, siano ipotizzabili a carico degli agenti i reati di tentata violenza privata e di abuso d’ufficio, così come va accertato se il ministro abbia dato (come è logico presumere) il suo consenso alla gita fuori ordinanza del figlio sedicenne sulla moto d’acqua della Polizia e, quindi, all’uso indebito (e al godimento) di un bene dello Stato. Meraviglia che il giornalista sia stato interrogato solo dopo vari giorni e, peraltro, nella questura di Ravenna (e non dal Procuratore della Repubblica che, data la delicatezza del caso, avrebbe forse dovuto procedere personalmente all’audizione del giornalista). Ma al di là dell’aspetto giudiziario, gli episodi in questione rappresentano un grave “vulnus” ai principi basilari della convivenza civile e della democrazia; essi ledono sia la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 della Costituzione), sia il diritto all’informazione ad essa strettamente legato. Il diritto all’informazione e il dovere di darla sono, invero, l’essenza della democrazia, il cui presupposto è la conoscenza dei fatti politici, onde consentire ai cittadini di formulare critiche nei confronti di tutti coloro cui sono affidate pubbliche funzioni, che vanno adempiute con “disciplina e onore” (art. 54 della Carta).

Negli stessi giorni il ministro di Polizia si è scagliato contro la riforma della Giustizia del ministro Bonafede (“acqua fresca”) perchè non prevede nè la separazione delle carriere fra pm e giudici, nè norme “bavaglio” (cioè il divieto di documentare condotte scorrette di uomini pubblici risultanti da intercettazioni, che i cittadini hanno il diritto di conoscere per poter giudicare).

Allora quello che va denunciato con forza è che se la Lega, con a capo un personaggio che l’Economist ritiene “l’uomo più pericoloso d’Europa”, dovesse alle prossime elezioni, sotto la spinta di una martellante (quanto ingannevole) “propaganda”, superare il 40% dei consensi (o addirittura il 50% se in coalizione con FdI), le prime leggi che il Parlamento andrà ad approvare riguarderanno – oltre il rafforzamento dei poteri dei prefetti e della Polizia – la limitazione della libertà di stampa e della indipendenza della magistratura (separazione delle carriere, aumento dei membri laici del Csm, discrezionalità dell’azione penale riservata al ministro di Giustizia), vale a dire i presidi posti dalla Costituzione a salvaguardia delle libertà democratiche, con ciò segnando l’inizio della fine della democrazia.

Processi più rapidi: aboliamo l’appello

Purtroppo, nel nostro Paese la questione dell’eccessiva lunghezza dei procedimenti si trascina da tempo ed è sempre più acuta. Sappiamo, e non vanno sottovalutati, i sentimenti di angoscia, ira e delusione che provoca l’attesa interminabile del riconoscimento delle proprie ragioni, spesso riguardanti beni fondamentali. I rimedi approntati dalla politica sono stati, di solito, inadeguati se non peggio. Urge una vera, incisiva riforma.

Il ministro Bonafede ha il merito di (ri)provarci, nonostante l’ostilità di quanti – gira e rigira – per salvaguardare certi interessi hanno come obiettivo non “più” ma “meno” giustizia. Stando alla bozza di cui si parla, un pregio del progetto Bonafede è non cedere alla suggestione della “separazione delle carriere”. Sinonimo di dipendenza del Pm dal potere esecutivo: nel senso che in tutti i Paesi in cui c’è, il Pm – per legge – deve ottemperare alle direttive del potere politico. Un suicidio in Italia: dove la classe dirigente continua a “ospitare” al suo interno soggetti ambigui se non peggio; cui sarebbe pernicioso offrire nuovi spazi per occuparsi “allegramente” delle indagini – che so – di corruzione o mafia.

Per il resto, il progetto Bonafede, attento anche al profilo delle risorse, contiene vari punti che vanno in una direzione giusta. Si deve però avere l’audacia e il coraggio di affrontare il problema della riforma della giustizia – una buona volta – non con aggiustamenti ma con decisione e scelte radicali veramente innovative. La mia idea è di abolire il grado di appello.

Immagino già le reazioni cattive di molti giuristi (soprattutto avvocati), ma nessuno mi convincerà che una risposta “ab irato” sia meglio di una misurata riflessione. Che parta da alcune semplici domande: è vero che negli ordinamenti con un sistema processual-penale di tipo accusatorio di regola c’è un solo grado di giudizio nel merito, con eventuale ricorso a una suprema corte? È vero che anche in Italia è stato introdotto nel 1989 un sistema di tipo accusatorio? La risposta alle due domande è Sì. Allora, perché soltanto nel nostro Paese si registrano ancora più gradi di giudizio nel merito? Eliminare questa anomalia è una questione di sistema. Tenere i piedi in due staffe, non solo non risolve i problemi, ma crea confusione; mentre c’è un bisogno assoluto di nuova efficienza e funzionalità del servizio giustizia.

Quali i vantaggi significativi che si avrebbero abolendo l’appello? Oltre all’allineamento agli altri Paesi di rito accusatorio, si potrebbe cancellare l’arretrato che pesa come un macigno sul sistema. E che sparirebbe in un paio d’anni se i magistrati e il personale amministrativo oggi impiegati in appello fossero destinati a lavorare soltanto a questo scopo. Dopo di che i magistrati e il personale amministrativo del “defunto” appello potrebbero essere convogliati sul primo grado (razionalizzando i criteri di assegnazione monocratica), con evidente accelerazione dei tempi del processo già di per sé molto abbreviati con un grado in meno. Così, il male cronico della nostra giustizia, la durata biblica dei processi, avrebbe finalmente qualche prospettiva di guarigione.

L’obiezione è che diminuirebbero le garanzie. Ma la vera garanzia sta in un processo breve che possa puntare a una giustizia certa. Non in un processo che è diventato un percorso a ostacoli, pieno di trabocchetti, infarcito di regole che in realtà non sono garanzie ma insidie formali: opponibili a piene mani da chi – potendosi permettere difese agguerrite e costose – punta all’impunità attraverso la prescrizione. Mentre sono di fatto arretrate le garanzie verso il basso, vale a dire effettivamente applicate anche ai soggetti più deboli.

Con il triste risultato di un “doppio” processo, negazione non solo di reali garanzie, ma anche di principi di equità. C’è infatti un codice per i “galantuomini” (cioè le persone giudicate, in base al censo o alla collocazione sociale, per bene a prescindere); un altro per i cittadini “comuni”. Nel primo caso il processo – con la sua interminabile durata – è destinato soprattutto a misurare l’attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione; nel secondo caso la giustizia, pur funzionando malamente, spesso segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone.

Sta nello sconcio del “doppio” processo un nodo della prescrizione e della battaglia pro o contro l’articolo della “spazzacorrotti” che finalmente ne prevede l’interruzione, come antidoto a che non sia inghiottito tutto quel mare di processi che interessa soprattutto i “galantuomini”. Battaglia che vede il ministro Bonafede fermo su posizioni di giusta difesa della “nuova” prescrizione.