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Omicidio Rega: l’America non si deve intromettere

Finnegan Lee Elder, l’assassino del vice brigadiere Mario Rega, dice che non sapeva che la sua vittima fosse un carabiniere e di aver reagito perché temeva di essere strangolato. L’avvocato di famiglia, Craig Peters, si augura che il suo assistito “possa tornare presto a casa”, aggiungendo che l’opinione pubblica pare abbia un resoconto incompleto degli eventi. Elder non ricorda la dinamica, aveva bevuto molto e aveva anche assunto droga. Un quadro che lo rende socialmente pericoloso. Spero che gli Usa non si intromettano, che i due rimangano in Italia: qui hanno ucciso, qui saranno giudicati e qui devono scontare la pena.

Cristian Carbognani

 

Napoletano doc: l’identità nascosta del leghista

E se Salvini non fosse milanese, ma napoletano verace, trasferito al Nord in tenera età? Lo si deduce dal fatto che ha conservato luoghi comuni e slogan assolutamente partenopei. Primo: “Accà nisciuno è fesso”. Chi potrebbe sostenere che Salvini sia fesso? I fessi siamo noi che lo manteniamo nell’opulenza fin dagli anni giovanili consentendogli di non lavorare. Secondo: “Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scordammece o passato”. Chi è più bravo di Salvini a far dimenticare che era un fervente sostenitore no Tav mentre ora è sostenitore pro Tav? E infine: “I figli so pezz’e core”. Come si fa a non perdonare papà Salvini se consente al pargolo di fare un giro sulla moto d’acqua della Polizia?

Vincenzo Bruno

 

Uefa, l’arbitro è una donna: “L’abilità non ha sesso”

La partita Liverpool-Chelsea, finale della Supercoppa europea che si giocherà ad Istanbul il 14 agosto, sarà arbitrata da una donna. Il suo nome è Stephanie Frappart. La società cambia. A volte in meglio, come in questo caso, abbattendo preconcetti e tabù. Nelle discussioni quotidiane sento molta avversità da parte di certi maschietti sull’ingresso delle donne nel mondo del calcio. A chi non vede di buon occhio questo cambiamento ricordo una frase della femminista britannica Christabel Harriette Pankhurst: “L’abilità non ha sesso”.

Cristian Carbognani

 

DIRITTO DI REPLICA

Egregio direttore, scrivo in merito all’articolo dal titolo “L’accordo sulla Asti-Cuneo regala a Gavio 1,2 miliardi di euro”, apparso sul suo quotidiano domenica 4 agosto. Mi permetta di correggere più di un’inesattezza in esso contenuta e fare qualche riflessione. Innanzitutto mi preme sottolineare che il miliardo e 200 milioni di euro, valore di subentro previsto alla scadenza delle concessioni della A33 e della A4, corrisponde all’Ebitda di appena 3 o 4 anni di gestione delle due autostrade. Quindi la gara sarà comunque profittevole per un eventuale subentrante e per niente scontato, come invece scrivete, che le due concessioni rimangano a Gavio. Con il nostro nuovo schema, approvato dal Cipe, si permette di completare finalmente quella grande incompiuta che è l’Asti Cuneo e di farlo non solo senza proroghe, come invece precedentemente previsto, e dunque con grandi risparmi, ma addirittura accorciando la durata di entrambe le concessioni in essere: la A4 che scadrà nel 2026 e la A33 che scadrà nel 2031 invece che nel 2046. Significa una riduzione della concessione di addirittura 15 anni, con un mancato introito di mezzo miliardo per il concessionario. Cifra assai più alta, come peraltro il giornalista nell’articolo dice, dei 300 milioni di euro del valore di subentro della stessa autostrada A33. Infine, la remunerazione riconosciuta al concessionario, in base alle disposizioni dell’Autorità di regolazione dei trasporti, è di 9,23% solo per gli investimenti già previsti e appaltati, mentre è del 7,05% per i nuovi investimenti. Ricapitolando: abbiamo proposto e approvato uno schema concessorio che sblocca finalmente un’opera ferma da anni. Lo abbiamo fatto senza proroga di concessione autostradale ma, anzi, riducendo e di molto le concessioni in essere. Questo significa assicurare ai cittadini un’autostrada completa, con minori esborsi e tariffe più contenute al casello. Grazie a uno schema che rispetta i parametri Ue, e per questo, non ha bisogno di alcuna autorizzazione da Bruxelles, sblocca i cantieri e fa risparmiare milioni di euro. Garantendo poi una gara unica nel 2026 che è tutt’altro che anticoncorrenziale. Alla luce di ciò, quale sarebbe il regalo?

Danilo Toninelli, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti

 

Il ministro chiede dove sta il regalo ai Gavio per l’Asti-Cuneo. Lo accontento subito così informo per la seconda volta anche i lettori: i Gavio non mettono un euro di capitale proprio, si finanziano in banca al 4% e per lo stesso importo ricevono dallo Stato una remunerazione più che doppia (9,23 per cento), superiore di 2 punti a quella proposta dagli stessi Gavio alcuni mesi fa (7,30). Non è finita: come conferma lo stesso ministro il valore di subentro complessivo di 1,2 miliardi nel 2031 per l’Asti-Cuneo a cui viene affiancata la Torino-Milano è pari a 3 o 4 volte l’Ebitda (gli utili annuali prima degli interessi). Il ministro sa che la Commissione europea tollera al massimo l’1,5 dell’Ebitda e quindi lo schema proposto per l’Asti-Cuneo rischia molto seriamente la bocciatura dell’Europa. Infine la stessa Europa difficilmente tollererà remunerazioni degli azionisti al 10 per cento per la Torino-Milano e al 20 per la Asti-Cuneo ritenedole quasi di sicuro un aiuto di Stato.

Daniele Martini

Le “ragazze terribili” giocano bene. Perché l’Italia preferisce i maschi?

Gentile redazione, noto con piacere che finalmente si torna a parlare di pallavolo femminile: era da un anno, ormai, che si erano perse le tracce di Egonu e compagne. Perché le donne dello sport sono chiacchierate solo se vincono (o quasi) le grandi competizioni mondiali o se si fidanzano con altre donne? Anche questa disattenzione mediatica mi sembra il segno dell’imperante machismo.

Eleonora Briganti

 

Le ragazze del volley, gentile Eleonora Briganti, ieri l’altro a Catania hanno dimostrato di non avere nulla da invidiare ai colleghi uomini. Al Torneo valido per la qualificazione olimpica hanno infatti staccato (così si dice) il biglietto per Tokyo 2020 con un percorso netto: hanno battuto il Kenia, il Belgio e l’Olanda senza mai cedere nemmeno un set, nemmanco quando – contro l’Olanda e il Belgio – la situazione stava per farsi critica. Lei, però, rileva che probabilmente c’è per Zaytsev e compagni una maggiore copertura e attenzione mediatica. In parte, posso darle ragione. Esiste, tuttavia, una questione: la pallavolo italiana prima delle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 era come sparita dallo spazio noetico. Lontane erano tanto la favola della “generazione di fenomeni” di Bernardi e Lucchetta, quanto la vittoria ai Mondiali del 2002 della nazionale femminile di Elisa Togut e compagne. La medaglia d’argento a Rio dell’itavolley maschile ha ridestato il sopito interesse per questo sport (e ciò è solo un bene). E meritatamente Zaytsev, il suo servizio a 127 km/h, e gli altri giocatori sono divenuti il simbolo di questo rinnovato fervore. Probabilmente è per questo, e non per imperante machismo, che l’anno scorso quando entrambe le selezioni nazionali hanno disputato i Campionati del Mondo, i riflettori dapprima sono stati maggiormente puntati sul team maschile (gioco forza: si disputavano in Italia). Mentre le #ragazzeterribili, con questo hashtag si fanno chiamare sui social, sperdute in Giappone hanno conquistato via via l’attenzione dei media e una luminosa medaglia d’argento grazie soltanto alla loro pallavolo (sottolineo che quando “il Fatto” ha trattato l’itavolley femminile non ha parlato di fidanzamenti), la scalata di Osmany Juantorena, Simone Giannelli, lo zar & Co si è poi fermata al quinto gradino del podio, posto dignitoso sebbene tutti avessero altre aspettative. Ed è questo il vero problema, a mio avviso, la pretesa del successo: in una nazione votata al calcio, se pratichi un altro sport (uomo o donna) per esistere devi sempre vincere.

Angelo Molica Franco

Roma, 2 aggressioni contro medici a distanza di poche ore

Prima gli insulti poi gli spintoni. Ennesima aggressione contro i medici. Non una, ma due volte, a distanza di poche ore, al policlinico Umberto I di Roma. A far scattare la violenza la “troppa attesa” al pronto soccorso lamentata dai due pazienti. Sul posto sono intervenuti, in entrambi i casi, i carabinieri che hanno denunciato i responsabili: si tratta di un senza fissa dimora invalido di 36 anni e di una 23enne di Genzano, disoccupata e con precedenti. L’uomo, costretto su una sedia a rotelle, avrebbe spinto con violenza il medico che ha riportato una contusione alla spalla giudicata guaribile in dieci giorni. La ragazza, invece, si è scagliata contro una dottoressa spintonandola. I due responsabili sono stati denunciati per lesioni personali, interruzione di pubblico servizio e violenza a incaricato di pubblico servizio. Secondo il presidente dell’ordine dei medici, Filippo Anelli, soltanto nell’ultimo anno “ci sono state 1.200 casi di aggressioni a medici, di cui 456 contro addetti al Pronto soccorso, 400 in corsia e 320 negli ambulatori.”

Foto dell’americano bendato in caserma, il sospettato è un collega di Cerciello

Chi ha scattato la fotografia di Christian Natale – uno dei due americani coinvolti nell’omicidio di Mario Cerciello Rega – mentre siede ammanettato e bendato nella caserma dove era stato portato subito dopo l’arresto, sarebbe un militare della stazione Farnese, la stessa alla quale apparteneva il vicebrigadiere ucciso a Roma. La procura capitolina che indaga sull’omicidio infatti ha aperto un fascicolo anche sull’immagine poi fatta girare in una chat dei carabiniere e infine arrivata alla stampa.

La vicenda risale alla mattina del 26 luglio scorso quando i carabinieri fermano Christian Natale e Finnegan Lee Elder. I due americani, trovati pronti per la partenza in un hotel in zona di Prati, vengono portati negli uffici del Nucleo Investigativo in via In Selci e messi in due stanze diverse. In una di queste c’è Natale e ci sono anche quattro militari. Un maresciallo benda il ragazzo. Era un modo – è stata poi la versione fornita dall’Arma nei giorni scorsi – per evitare che vedesse i documenti in ufficio dato che conosceva l’italiano.

Qualcuno però immortala quella scena, la invia in una chat dei carabinieri. Quando finisce sui giornali, la reazione dell’Arma è immediata con il comandante generale Giovanni Nistri che dispone un’indagine interna e poi viene mandata anche una segnalazione in Procura. Ci vuole poco e il maresciallo che ha bendato il ragazzo viene identificato e trasferito ad un incarico non operativo. È ora indagato per abuso d’ufficio. Nel frattempo però gli investigatori si sono concentrati nel trovare chi invece ha scattato la foto. Secondo quando risulta al Fatto (ma le bocche in Procura sono cucite), il principale sospettato sarebbe tra i militari della stazione Farnese, la stessa dove lavorava Cerciello Rega, che in quel momento si trovavano negli uffici di via In Selci. Quello scatto (gli investigatori hanno ricostruito il momento in cui è stato fatto) poi è stato inviato in una chat per dimostrare ai colleghi che chi era coinvolto nel caso dell’omicidio del vicebrigadiere era stato fermato. Diversa l’intenzione di chi ha inviato la foto alla stampa: secondo gli investigatori si tratta di qualcuno intenzionato a screditare il gruppo di Lorenzo D’Aloia, il comandante del Nucleo investigativo che ha collaborato nelle indagini della Procura facendo venire a galla, con il pm Giovanni Musarò, i presunti depistaggi dell’Arma sul caso Cucchi. È questa solo un’impressione degli investigatori che sono alla ricerca del responsabile.

Intanto continuano anche le indagini sull’omicidio. Sono state analizzate di nuovo le immagini delle telecamere posizionate lungo il tragitto percorso dagli americani il 25 luglio: nessuna ha ripreso la scena della colluttazione tra i due carabinieri Mario Cerciello Rega e Andrea Varriale, quella notte in borghese, e i due americani, conclusasi tragicamente con le 11 coltellate inferte da Elder al vicebrigadiere.

Restano tante circostanze ancora da chiarire su cosa sia avvenuto quella sera. Intanto dopo Natale, anche i legali di Elder hanno depositato istanza al Tribunale del Riesame.

Spatuzza su Messina Denaro “Si fece operare qui in Sicilia”

Matteo Messina Denaro, il capo di Cosa Nostra, è stato sottoposto a un intervento chirurgico durante la sua latitanza. Proprio come Bernardo Provenzano, il suo predecessore alla guida della mafia siciliana che fu operato in una clinica in Francia. Il capo della cosca trapanese avrebbe subito un intervento agli occhi, ma a differenza di “Binnu” sarebbe stato operato in Italia, a Messina.

A svelarlo, come documentato dal sito stampalibera.it, è stato Gaspare Spatuzza in una delle ultime udienze del processo “Borsellino quater” che si sta celebrando dinanzi alla Corte d’appello di Caltanissetta. Spatuzza, ex capo della famiglia di Brancaccio e autore dell’omicidio di don Pino Puglisi, dopo la sua conversione ha iniziato la sua collaborazione con la giustizia squarciando il velo di silenzi su diversi aspetti della fase stragista voluta da Totò Riina nei primi anni ‘90.

Secondo quanto raccontato dal quotidiano online, nel corso della sua ultima deposizione in aula l’ex boss di Brancaccio ha accennato a questo episodio senza tuttavia riuscire a inquadrarlo temporalmente. Rispondendo a domande sull’esplosivo utilizzato da Cosa nostra tra il 1992 e il 1993, Spatuzza ha detto che “Oltre a quello recuperato in mare, sentii dire che l’esplosivo veniva da Messina o da Catania” aggiungendo che si trattava “esplosivo con gelatina, confezionato in salsicciotti trasparenti… Quindi quell’esplosivo a me estraneo l’ho collegato a quello che potesse arrivare da Messina o da Catania… Ho appreso successivamente alle stragi, che i fratelli Garofalo erano stati coinvolti in una situazione, che dovevano reperire delle armi… E che in tale circostanza era coinvolto il Renzino Tinnirello. Questo credo che riguardasse Catania… Su Messina – ha poi precisato il collaboratore – inerente all’esplosivo, non mi è stato detto… Non ricordo… C’è un particolare da Messina, però, ma credo che era per una problematica di Matteo Messina Denaro…”. A quel punto ha evidentemente messo a fuoco la vicenda e chiarito: “So un particolare, in cui Matteo Messina Denaro ha subito un intervento agli occhi a Messina… In questa vicenda era coinvolto Nino Mangano… Messina Denaro all’epoca si andò a curare sotto il nome di Giorgio Pizzo, un uomo del nostro gruppo, della famiglia di Brancaccio. Andò a curarsi a Messina sotto il controllo di Nino Mangano…”.

Un passaggio veloce che conferma ancora una volta come anche Messina Denaro, nonostante le ricerche, sia riuscito negli anni a muoversi con libertà in Sicilia.

Spatuzza non è stato in grado di offrire maggiori dettagli, ma stando agli atti giudiziari quell’operazione potrebbe essere avvenuta tra il 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la omoglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, e la fine del 1993 quando il blitz “Spartacus” portò in carcere numerosi appartenenti alla famiglia Brancaccio. Tra questi, infatti, proprio Giorgio Pizzo, l’uomo che aveva prestato la sua identità al boss che qualche tempo dopo avrebbe preso il posto dei corleonesi al vertice della mafia siciliana. L’operazione sarebbe avvenuta a causa dei problemi di miopia che affliggono il boss e che diversi collaboratori di giustizia avevano segnalato all’autorità giudiziaria a proposito dell’ultima primula rossa siciliana.

Qualche anno più tardi, nel 2003, fu come detto “Binnu” Provenzano a recarsi per almeno due volte in Francia, precisamente alla Clinica “Licorne” di La Ciotat a Marsiglia, per sottoporsi nel giugno 2003 a una serie di visite mediche e, nel successivo mese di ottobre, a un intervento chirurgico. In uno di quei viaggi, secondo quanto raccontato dai pentiti, l’autista del boss di Corleone fu Nicola Mandalà: questi, insieme alla sua famiglia, offrì piena assistenza a Binnu durante quel periodo delicato e persino una festa di bentornato in Sicilia dopo l’intervento.

Caos nella Serie C ripescato il Cerignola Campionato a rischio

Sarà un’altra estate calda per il calcio italiano. Il Collegio di garanzia dello Sport ha accolto il ricorso del Cerignola, inizialmente escluso dalla Serie C per mancanza di requisiti infrastrutturali. I giudici hanno dato ragione al club pugliese, e così il campionato si ritrova con una squadra di troppo. Due le opzioni: o far fuori la Paganese (che era stata riammessa proprio per l’esclusione dei pugliesi) oppure varare un campionato a 61, con una squadra in più nel girone C, quello meridionale. Quest’ultima ipotesi, però, prevede di rifare il calendario, ma soprattutto richiede un cambio in corsa del format del torneo da parte del consiglio Figc: esattamente quello che fu fatto la scorsa estate dal commissario Fabbricini, con una pioggia di rinvii e ricorsi che hanno condizionato tutto il campionato. Per il momento la Lega prende tempo: “Decideremo dopo aver letto le motivazioni”, spiega il n.1 Ghirelli. Probabile comunque che Lega e Figc impugnino la sentenza al Tar, sperando che si arrivi a un giudizio rapido (in caso contrario c’è il rischio di bloccare il campionato). Quest’anno i vertici del pallone italiano si auguravano un’estate più tranquilla. Evidentemente si sbagliavano.

Trapani-Juve Stabia: due squadre, un patron

Le regole della FederCalcio lo vieterebbero, ma in Serie B pare proprio che ci siano due squadre riconducibili alla stessa proprietà. Trapani e Juve Stabia, calde piazze meridionali, neopromosse di belle speranze: entrambe legate alla famiglia Petroni, del figlio Lorenzo e soprattutto di papà Fabio, noto per le sue navette Terravision e il calvario del Pisa nel 2016. I guai (come la condanna in primo grado per bancarotta) sono alle spalle: i Petroni sono tornati nel pallone. Hanno addirittura raddoppiato.

È noto che il Trapani a giugno è passato a Alivision, scatola italiana del gruppo Terravision; il figlio Lorenzo Giorgio Petroni è anche ad del club. Meno noto, invece, il fatto che papà Petroni avesse già una quota della Juve Stabia. Per ricostruire il suo ruolo a Castellammare bisogna tornare allo scorso autunno, quando l’allora presidente Francesco Manniello apre a nuovi partner. Si delinea un’architettura a tre: Manniello, l’avvocato Giovanni Palma (che poi ne uscirà in primavera) e appunto Petroni. Quest’ultimo non compare mai ufficialmente, ma Il Fatto è in possesso di documenti e messaggi riservati inequivocabili: lo scontro fra lui e Palma ha portato alla luce la vicenda, con un esposto alla Procura Figc che sta indagando.

“Io voglio tre società al 33%, la mia, la vostra è quella di Petroni”, spiega Manniello a Palma. Questo non vede di buon occhio la presenza di Petroni e prova ad avvisare l’amico. “Fai attenzione, stai in società con un bandito”. Fa riferimento ai precedenti di Pisa. Per Manniello, però, Petroni è prezioso, anche per l’apporto economico che garantisce. A inizio 2019, quando si tratta di regolare i conti, tutto diventa chiaro. Il 2 gennaio Manniello scrive agli altri: “O vi mettete alla pari come versamenti, o uscite”. Il 4 gennaio risponde Petroni: “Egregi signori, come emerge dalle mail intercorse fino ad oggi sono state necessarie le seguenti risorse finanziarie apportate dai soci: 538 mila euro Manniello, 367 mila Petroni, 50 mila Palma”. Era lo stesso Petroni a definirsi “socio”, ad ammettere di aver tenuto in piedi il club con i suoi soldi: c’è anche un video in cui i giocatori nello spogliatoio lo chiamano “presidente”. Dopo l’uscita di Palma, la proprietà è stata così ridisegnata: Manniello, l’imprenditore (e nuovo n.1) Andrea Langella e Capri Stabia Srl; al suo interno fra gli altri ci sono sempre Manniello, Edoardo Comito (citato nell’esposto come “rappresentante” di Petroni) e con piccola partecipazione la stessa Terravision.

Il problema è che le regole Figc vietano le doppie proprietà. Quella di Petroni a Castellamare lo è ancora? Con quelle cifre ci assomigliava molto. Tavecchio approvò la deroga che piace a Lotito e permette di avere più squadre, a condizione però che non giochino nella stessa serie. Con Petroni quest’ultimo argine per la regolarità dei tornei rischia di cadere. E chi doveva controllare? La Figc del presidente Gravina non ha avuto nulla da ridire al momento della cessione del Trapani e delle iscrizioni al campionato. Palma, citando il contabile del club, nell’esposto chiama in causa addirittura il n.1 della Serie C, Francesco Ghirelli (ma di questa rivelazione di seconda mano non c’è riscontro). La Procura indaga: in caso di contestazione, Petroni dovrà vendere una delle quote, pena la decadenza dell’affiliazione. Intanto oggi la Serie B presenta il calendario: ci sarà pure Juve Stabia-Trapani. Una partita in famiglia.

“Non è follia: i nostri giovani sono solo cattivi e frustrati”

“No, non è follia. La parola chiave è frustrazione: il sentirsi inadeguati, esclusi, senza futuro. D’estate si accentua il bisogno di fare cose estreme. Questi ragazzi che fanno cose inaccettabili si comporterebbero bene se avessero degli stimoli. Ma si vedono la sera e non sanno cosa fare”, osserva lo psichiatra Vittorino Andreoli a proposito dei recenti, feroci episodi di cronaca. Dai baby-gangster delle rapine con lo spray, in manette per la strage in discoteca a Corinaldo (Ancona), al lancio da 20 metri di altezza di un cassonetto in Liguria che ha quasi ucciso un dodicenne in una tenda, passando anche per l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega con undici coltellate sferrate da un diciannovenne e quello dei ragazzi investiti da un uomo in auto dopo una banalissima lite a Bergamo.
Vittorino Andreoli, psichiatra, vede “frustrazione” e “vuoto” dietro i violenti crimini che hanno segnato questo scorcio d’estate.

Sono quasi sempre giovanissimi gli autori e le vittime di atti cruenti. Da dove originano questi casi?

Nei periodi di crisi sociale, esistenziale, di principi, esplode il problema dell’eroismo giovanile. I giovani assumono comportamenti estremi,
pseudo-eroici. La violenza è fare qualcosa di eccezionale, sentirsi eroi, soprattutto in quest’epoca in cui ci sono gli strumenti per rendere note sui social le azioni compiute. D’estate si accentua il bisogno di fare, di vincere. Durante le vacanze, la società si diverte, spera di avere esperienze straordinarie e il bisogno di non essere esclusi si accentua. La frustrazione è la parola chiave: le vacanze l’aumentano. I ragazzi che fanno cose incredibili e inaccettabili potrebbero comportarsi bene se solo avessero stimoli. Ma si vedono di sera e non sanno cosa fare.

Follia?

No, il punto di partenza è la frustrazione, il sentirsi inadeguati, esclusi, che genera la voglia di fare cose d’eccezione. Non c’entra la follia. C’entrano comportamenti compensativi. I giovani reagiscono compensando la frustrazione. La follia è una patologia seria legata a qualcosa di più profondo. Non è vero che la violenza è più frequente in presenza di follia. Si riscontra in alcune patologie psichiatriche, ma non è più possibile sostenere il binomio “folle uguale violento”. Nel caso dei 14 ragazzi di Manduria (arrestati nei mesi scorsi, ndr), per esempio, il pazzo è la vittima. Bertold Brecht diceva: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Quanto più i giovani saranno esclusi dalla società, tanto più avremo pseudo-eroi.

Che ruolo ha la dimensione collettiva?

Enorme. Il gruppo è una condizione in cui uno assume più forza dalla presenza dell’altro. Nessuno fra chi partecipa al gruppo agirebbe isolatamente. Il fenomeno del gruppo esiste adesso, come nel passato. Ma ci sono caratteristiche che legate al tempo.

Crede che incida questo momento storico?

Certo. Il tasso di disoccupazione giovanile è al 32,8%. È una condizione che predispone agli atti di pseudoeroismo. In una società piatta, che non ha più ideologie, l’unico imperativo sociale è il denaro. Non si pensa più. Si usa solo il telefonino.

Che ruolo ha l’affettività?

L’amore è un legame affettivo vasto, che oggi si consuma, perché questa è la società dell’empirismo radicale che vive nell’adesso. L’amore, invece, è una storia, necessita di futuro, programmi, crescita.

I protagonisti sono quasi sempre maschi. Come mai?

Perché le donne sono più pazienti, più riflessive, sanno attendere. Sono meno pseudo-eroiche. Una donna sa attendere 9 mesi la nascita del suo bambino.

Esiste una geografia dell’efferatezza?

No, oggi c’è un vuoto nei giovani, non hanno futuro. E l’uso di sostanze ha un’enorme incidenza, perché imbrogliando danno l’illusione di essere diversi.

Per ritrovare l’identità smarrita, riorganizzarsi al vertice e alla base e mostrare a chi se l’è già dimenticato di cosa sono capaci i vecchi partiti. Ma gli italiani, almeno chi non vuole un monocolore Salvini senza contrappesi, inevitabile in caso di elezioni presto, hanno l’interesse opposto: che si voti non prima dell’estate 2020, nella speranza che il pallone gonfiato dimostri alla prova dei fatti la sua palese incapacità anche a chi oggi non la nota e si sgonfi. Cioè che finisca o si ridimensioni l’innamoramento-incantamento della solita Italia sotto il balcone del ducetto di turno. Ma, per votare fra un anno, stante l’indisponibilità del Pd a governare col M5S, ci vogliono altri 12 mesi di governo Conte. Dopo le Europee, Di Maio ha avuto una sola preoccupazione: non fornire a Salvini pretesti per rompere su dei “no” impopolari (su Flat Tax, Tav e migranti). Infatti ha opposto resistenza sugli unici temi che la gente avverte poco e Salvini ancor meno: autonomie regionali e riforma della giustizia. Ma ora la finestra elettorale di luglio si è chiusa e Salvini è stato azzoppato – anche se non lo dà a vedere e i sondaggi ancora non lo registrano – da tre gravi scandali (caso Rubli, caso Arata-Siri, Tangentopoli lombarda) di cui nessuno, neppure lui, conosce gli sviluppi e le conseguenze in una campagna elettorale.

Ma, se Di Maio&C. vogliono tenere in piedi il governo, sperare di logorare l’ “alleato” e recuperare un po’ dei 4milioni e mezzo di astenuti, anziché farsi fagocitare definitivamente, non possono continuare a comportarsi come se fossero gli unici a temere il voto. Anche perchè sanno che, con le spade di Damocle giudiziarie sul capo, lo teme un bel po’ anche Salvini: altrimenti avrebbe approfittato della famosa “finestra”. Di Maio, per quanto ancora rintronato dalla batosta, resta il leader più capace del M5S. Ma deve guarire dalla sindrome da accerchiamento che ultimamente lo porta a sospettare di Di Battista, di Fico e tanti altri, al punto da mettere in fuga un veterano e fedelissimo della prima ora come Max Bugani, molto vicino a Casaleggio e Grillo. Nel forum di un mese fa col Fatto, Di Maio parlò di una sorta di direttorio con tutti i big per gestire collegialmente il Movimento nella fase più drammatica della sua storia: che aspetta a formarlo? E a chiedere a Grillo, dopo tanti passi indietro, di fare un bel passo in avanti? Così ricompatterebbe i tanti parlamentari ed elettori disorientati. Le cose da fare al governo, mentre “quell’altro” fa il tour dei Papeete, non mancano, e tutte previste dal Contratto: salario minimo, legge sui rider, riforma Bonafede, manette agli evasori, conflitto d’interessi, taglio delle tasse sul lavoro e così via. Con una campagna estate-autunno sui contenuti, la gente potrebbe addirittura capire perché il governo resta in piedi e chi, al suo interno, pensa a lavorare. A quel punto sarà Salvini, se si opporrà, quello del Partito del No che viola il Contratto e si assume l’onere di rompere. I ricatti non sono mai belli, ma con un “alleato” ricattatore sono l’unica speranza di sopravvivenza. Come diceva Sandro Pertini, “a brigante, brigante e mezzo”.

Jerry, non fare il furbo: non ci sono né il cinema né la sinistra

L’affaire Jerry Calà rischia di diventare il tormentone di questa estate persa tra cubiste e zingaracce. Ogni giorno un nuovo sviluppo: la turborenziana Anna Rita Leonardi si è scusata di avergli dato del cretino, l’agente di Calà smentisce, intervengono Umberto Smaila e Giorgia Meloni, tace il commissario Unesco Lino Banfi, mentre si attende a momenti l’invito del ministro Salvini a sedere sulla consolle del Papetee. Libidine, doppia libidine. Dare pubblicamente del cretino qualifica chi il cretino lo dà, non chi lo riceve. Premesso questo, “diamoci tutti una calmata”, come ha saggiamente postato Calà. “Faccio poco cinema perché odoro di sinistra” l’abbiamo già sentita, Barbareschi la ripete a giorni alterni (negli altri giorni incassa i finanziamenti), e d’altronde il repertorio di Jerry non è nuovissimo. Però, ragioniamo: in Italia c’è un cinema? C’è una commedia paragonabile non solo al minor Risi, ma anche al miglior Vanzina? E c’è, in Italia, una sinistra? Si può provare a chiedere a Calenda sperando che risponda (Zingaretti risponde ma non si capisce). E ammesso che ci sia, conta qualcosa? Ha ancora la forza di imporre i suoi artisti come ha fatto Fabio Fazio con Orietta Berti, tanto per dire? Sì, diamoci una calmata. Se in Italia ci fossero una sinistra e un cinema degni di questo nome, Jerry Calà avrebbe ragione a lanciare il suo j’accuse; ma c’è solo Anna Rita Leonardi, quindi Calà si sbaglia. Né sinistra, né cinema: non ci resta che la commedia.