Manley rilancia l’ipotesi di fusione tra Fca e Renault

Dopo le indiscrezioni relative a Nissan, possibilista per un progetto di fusione tra Fca e Renault e Nissan, ieri è stato l’amministratore delegato della casa torinese, Mike Manley, in una intervista al Financial Times, a rilanciare la possibilità di una riapertura della trattativa. Nonostante ci siano ostacoli significativi a un accordo, Fca è ancora “interessata a sentire” la società francese, dice Manley dal momento che una fusione offre “sinergie significative” e che “la logica industriale che era presente in precedenza sussiste ancora”. “Se le circostanze dovessero cambiare allora forse i sogni si incontrano e le cose possono accadere”, afferma il manager.

L’apertura dell’Ad di Fca arriva dopo le notizie riportate dal Wall Street Journal sul tentativo di Nissan e Renault di rinegoziare la loro alleanza globale. L’incrocio delle due notizie fa pensare che al centro delle discussioni ci sia il riequilibrio delle partecipazioni incrociate delle due società. Nissan vorrebbe una riduzione della quota di Renault (oggi al 43,4%) preoccupata che l’alleanza tra Renault e Fca possa indebolire la sua influenza.

Norme rider: “Bene sulla sicurezza ma no al cottimo”

Cresce l’attesa per il pacchetto lavoro che il ministro Di Maio ha promesso di far entrare in un decreto nel prossimo Consiglio dei ministri. Ci saranno norme sulla situazione alla Whirpool di Napoli, sui precari Anpal e le misure in favore dei rider che consegnano cibo a domicilio, attese da oltre un anno. Le piattaforme saranno obbligate a pagare l’assicurazione Inail contro gli infortuni, mentre per le indennità di malattia e i congedi parentali basterà una sola mensilità di contribuzione (non più minimo tre) alla gestione separata Inps. La retribuzione a consegna non sarà vietata, ma non potrà essere “prevalente”: il cottimo potrà solo coesistere con un salario orario. Questo non piace ai sindacati e ai collettivi dei fattorini, che speravano nel divieto netto. Riders Union Bologna parla di iniziativa “inutile e deludente”. La Cgil vuole leggere il testo ufficiale: “Dalle bozze – dice la segretaria Tania Scacchetti – ci sono note positive, come l’estensione delle norme sulla sicurezza, ma mancano il diritto alla disconnessione, al riposo e il divieto di ranking”. Che, come anticipato dal Fatto, la Cgil è pronta a combattere avviando una raffica di ricorsi contro le app del food delivery. Una mossa tardiva? “Lo abbiamo ammesso, dobbiamo conquistare affinità con questi lavoratori – conclude Scacchetti – ma stiamo recuperando, a partire dall’introduzione della figura del rider nel contratto nazionale della logistica”.

“Brindisi per i morti in mare”. Il durissimo scontro della Cisl

Èuno scontro duro e sordo quello che agita la Cisl e che mette a repentaglio il ruolo di uno dei suoi dirigenti più noti, Marco Bentivogli, segretario della Fim, finito nel mirino della segretaria generale, Annamaria Furlan. Lo scontro tira in ballo anche le accuse di razzismo fatte dal segretario Fim a membri del sindacato cattolico accusati di “aver brindato per i morti in mare”. Ma è uno scontro più complessivo, sui ruoli interni e su quello di Bentivogli, in particolare, ormai molto ingombrante.

La vicenda è stata in parte resa nota dalla pubblicazione (su La Verità e su il manifesto) di una lettera firmata da 42 esponenti dell’esecutivo nazionale Cisl in cui Bentivogli viene accusato di “farneticanti accuse”, di “analisi, giudizi, concetti sempre meno condivisibili”, di una “bramosia di apparire” in un “continuo borderline con la vita e la dialettica politica”.

Una lettera che però ha un precedente, un durissimo scambio epistolare tra Furlan e Bentivogli, rintracciabile sul sito sindacalmente.org, espressione di un settore di base della Fim piemontese. Il botta e risposta avviene in seguito alle conclusioni fatte da Bentivogli all’Assemblea organizzativa della Fim il 28 giugno in cui si lanciano proprio le “accuse farneticanti”, con riferimenti a segretari di categoria della Cisl che avrebbero “festeggiato per i morti in mare”. Il 2 luglio Furlan scrive a Bentivogli: “Marco, ho ascoltato, via social, le tue conclusioni. Avrò altra occasione di rispondere alle tue considerazioni e valutazioni sulla sottoscritta e sull’intero gruppo dirigente della nostra organizzazione. Ritengo, però, urgente chiederti di comunicarmi i nomi dei segretari territoriali di categoria che, come affermi, attraverso Facebook “brindano rispetto ai morti in mare”. Comportamenti gravissimi, lesivi dei principi fondativi della nostra organizzazione che voglio immediatamente verificare per gli atti conseguenti”.

Il giorno dopo Bentivogli risponde precisando di non aver mai espresso “giudizi né sulla tua persona né tantomeno sull’intero gruppo dirigente della Cisl”. Soprattutto, chiede di “incontrarci al più presto (anche perché da mesi non mi rispondi al telefono)”. Sarà quella l’occasione, afferma, “in cui mostrarti gli screenshot a cui ho fatto riferimento nel corso del mio intervento”. Quelli almeno non cancellati visto che Facebook tende a oscurare “incitamenti all’odio di qualsiasi natura, compreso quello xenofobo e razziale. Siamo, in ogni caso, riusciti a trovare materiale utile a confermare quanto esposto”.

Furlan risponde di nuovo il giorno dopo lamentando di non aver ricevuto alcun chiarimento: “Non fornisci nulla di quanto ti ho richiesto con specifico riferimento alle affermazioni da te fatte su ‘Segretari Territoriali di categoria’ che ‘brindano ai morti in mare’”. Chiede quindi di esibire “screenshot, stampe, immagini, scannerizzazioni, etc;” comprovanti la veridicità delle affermazioni. Ma Bentivogli replica ribadendo “ancora una volta l’invito per incontrarci al più presto, dal momento che da mesi ormai non riesco a parlarti, neppure telefonicamente”. In un incontro diretto “sarà mia premura mostrarti tutto il materiale che sono riuscito comunque a reperire in questi ultimi giorni”, sebbene, spiega, “molti dei commenti più duri sono stati prontamente rimossi dai diretti interessati”. Poi, pur specificando che l’espressione “brindano ai morti in mare” è evidentemente un’iperbole ribadisce l’esistenza di “un atteggiamento complessivo e dei comportamenti molto gravi di alcuni segretari territoriali di categoria – con riferimento a fatti di attualità – esplicitati in diversi modi (tra cui alcuni post su Facebook), del tutto contrari ai principi fondativi della nostra Organizzazione”.

Furlan non ci sta e ricorda che “la Cisl è da sempre impegnata sul tema dei migranti perché il rispetto della persona sia tradotto in politiche ed azioni sindacali di inclusione, solidarietà e legalità”.

Cita il lavoro generoso dei militanti e dirigenti cislini, ricorre alle parole del “Santo Padre” e ribadisce: “Non può essere consentito a nessuno di giocare con le parole né, tantomeno non rispettare chi ogni giorno, non nei talk show ma sul campo, si impegna a tenere alta la bandiera della solidarietà”. Quindi definisce la frase come “scellerata ed irresponsabile” e ricordando tutto l’impegno che va nel senso dell’inclusione, chiude la discussione”.

Il 9 luglio Bentivogli risponde con un documento approvato all’unanimità dall’Esecutivo nazionale Fim, dicendosi dispiaciuto “se qualcuno si è sentito offeso” e sostanzialmente chiedendo “scusa”. Il documento politico però pur definendo “sopra le righe” le conclusioni del segretario generale alla assemblea organizzativa, definisce “documentate” gran parte delle dichiarazioni relative a frasi di razzismo.

Due giorni dopo però arriva la lettera dei 42 dirigenti che sembra prefigurare una resa dei conti contro la categoria riottosa in cui alcuni pezzi, come la Fim piemontese, iniziano a prendere le distanze dal segretario. Alcuni fanno notare come il primo firmatario dei 42, Ermenegildo Bonfanti, sia lo stesso finito nell’occhio del ciclone per la denuncia sui super-stipendi (225 mila euro l’anno) scoperchiata dal defunto militante Cisl, Fausto Scandola. È l’altro conflitto, anch’esso sotterraneo, che agita la Cisl. Resta sul tavolo una domanda: gli screenshot dei segretari di categoria che “brindano per i morti in mezzo al mare”, dove sono finiti?

“Bibbiano, un ‘metodo’ da fanatici: i bimbi non dicono sempre il vero”

Quando è andata in onda la serie tv L’amore strappato con Sabrina Ferilli, il caso Bibbiano non era ancora scoppiato. La fiction ricostruiva con dolorosa verità il caso di Angela Lucanto, la bambina allontanata dalla famiglia quando aveva sei anni perché sua cugina accusò il papà di Angela di abusi. Il padre fu condannato in primo grado e poi assolto, ma Angela fu data in adozione a una nuova famiglia. Una vicenda straziante che Sabrina Ferilli, una delle poche attrici in Italia aperta a discussioni che esulino dal copione di un film o suggerite dagli uffici stampa, non si è limitata a interpretare. “I torti, le sofferenze che hanno subìto mi sono entrate dentro. E poi ho pensato che quanto hanno vissuto poteva capitare a me, ai miei fratelli che hanno figli, a chiunque altro”, ha commentato in un’intervista e poi in tante altre, perché il tema, per lei, non si è esaurito con il ciak finale o i dati auditel. Per questo le chiedo che effetto le abbia fatto il polverone giudiziario che ha investito Reggio Emilia.

“Io non credo che esista un caso Bibbiano. A Bibbiano bisogna capire chi ha sbagliato e in che termini, ma quello che è accaduto lì è quello che probabilmente è accaduto nella Bassa modenese e in tanti altri centri e tribunali d’Italia. Il problema non è il luogo, ma la metodologia utilizzata da questi psicologi per interrogare i bambini sui presunti abusi.

Esiste un caso Foti quindi.

Credo di sì, Claudio Foti e i tanti psicologi che seguivano la sua impostazione partivano dal presupposto che tutti i bambini dicessero sempre la verità, questo è il primo problema.

Il caso Lucanto, per esempio, ha dimostrato che non è così, perché la cugina di Angela mentì.

Lì ci furono gli psicologi ma anche il pm Pietro Forno che prese un abbaglio. Ecco, Forno è stato protagonista di vari errori giudiziari in fatto di abusi sessuali. C’era anche in lui, credo, un’idea rischiosa, suggestiva che dietro alla denuncia di un bambino ci fosse sempre una verità assoluta. L’idea di “fare pulizia” spazzando via tutto è pericolosa, la famiglia Lucanto da questo metodo è stata massacrata e con lei tante altre famiglie.

Perché lo facevano, secondo te?

Io non ragiono sull’onda della solita mentalità italiana per cui tutto è sempre fatto “per mangiare”. A me sembra più che alla base ci sia del fanatismo, l’idea che un bambino di tre anni sia sempre più credibile di un adulto perché lui è puro. E non è che sia un movente meno grave, anzi.

Sabrina, una certa parte politica ti direbbe “parlaci di Bibbiano”.

Il sindaco Andrea Carletti è indagato, secondo le accuse violava le norme sull’affidamento dei locali dove si svolgeva la terapia. Non è che cedesse questi spazi a dei banditi, ma a associazioni che si occupavano della tutela dei minori, a persone stimate da colleghi e tribunali. A meno che non sapesse cosa facevano, ha commesso al limite degli illeciti amministrativi, non lo si può far passare per un mostro.

Fatto sta che Foti e gli altri sono andati avanti indisturbati per 30 anni.

Ecco, dov’era la politica? La politica in questo caso non può chiedere né una medaglia, perché è stata assente, né può seppellire di insulti gli avversari, perché in tanti anni non si è accorto di niente nessuno. Alla fine chi ha denunciato quando tutti tacevano sono stati l’ex giudice Francesco Morcavallo, il giornalista Pablo Trincia, qualche avvocato, chi ha condotto le ultime indagini su Bibbiano e pochi altri.

In realtà qualche sparuto politico che in passato si è battuto per difendere alcuni imputati in storie di falsi abusi c’è stato, ma si tratta di Giovanardi e di pochi altri esponenti di destra. Perché la sinistra in queste vicende è così defilata?

La sinistra a livello di principio fa delle cose importanti, ma poi c’è anche la questione non trascurabile del consenso. Guarda il caso Scalfarotto che va a incontrare i due americani in carcere. Libero di farlo, sono due ragazzi giovanissimi in galera, però decidere di andare in un momento come questo e soprattutto raccontarlo è curioso. Poteva andare a trovare anche la famiglia del carabiniere, domandarsi se la vedova avrà i soldi per mangiare. Questo succede perché la sinistra è concettuale e parte dal presupposto che salvare i bambini sia il bene assoluto, la priorità. Ma poi quando accadono cose come Bibbiano, bisogna avere il coraggio di denunciare ad alta voce. Anche i 5 stelle hanno dato soldi ad Hansel e Gretel e quale sarebbe la colpa? Li avrei dati anche io, chi poteva immaginare una cosa simile?

E invece il Pd ha la coda di paglia.

Si vergogna di questo bubbone, come se fosse colpa sua. Non sappiamo neppure il livello di responsabilità del sindaco del Pd, figuriamoci se possiamo dare la colpa al Pd di qualcosa.

Diciamo che è accaduto in territori che sono roccaforte della sinistra.

Certo, quella è terra di sinistra, ma quando si parla di Emilia Romagna si parla pure di un territorio dove ci sono asili che funzionano, di metodi educativi che sono d’esempio per il resto del paese, messi in piedi anche dalla sinistra. Come al solito la sinistra è incapace di prendersi i meriti e capace solo di prendersi gli schizzi di fango.

Cosa doveva fare il Pd?

Ricordare tutto quello che la sinistra ha fatto in tema di affidi, reinserimento, istruzione per i bambini e poi dire “A Bibbiano siamo i primi che vogliono vedere puniti i colpevoli”. Ecco, serviva questo. L’Emilia è all’avanguardia su tante cose, la sinistra è ed è stata al centro di battaglie fondamentali per i diritti dell’infanzia, se ci dimentichiamo pure questo, ci resta solo il Papeete.

L’ignoranza dei suprematisti: lì gli immigrati erano i bianchi

Cosa vuol dire non conoscere la storia! Il suprematista bianco che ha compiuto una strage a El Paso ha prima pubblicato un “manifesto” (chiamiamolo così) nel quale se la prende con gli immigrati latino americani. Fantastico davvero.

A El Paso – volendo, in tutto il Texas – gli “immigrati” sono i bianchi statunitensi. Il Texas era colonia spagnola fino alla indipendenza messicana e poi Messico fino al 1836. Furono gli americani a chiedere di potersi colà installare dai primissimi Venti dell’Ottocento e poi a rendersi autonomi (lo Stato della Stella Solitaria entrerà poi nell’Unione nel 1845).

I latino americani erano lì da molto tempo prima!

“La verità scomoda”. Gli sproloqui razzisti da Utoya a El Paso

Donald Trump parla alla nazione dopo le stragi di El Paso e Dayton e Gilroy, una tragica sequenza che ha scosso gli animi, se non le coscienze, dell’Unione: parla da ostaggio della lobby delle armi, quale è per convinzione o per interesse, dice che la causa delle stragi sono l’odio – quello, tra l’altro, che lui alimenta con i suoi discorsi e le sue politiche – e le malattie mentali, non le armi facili, e attribuisce gli ultimi due attacchi della notte di sabato 3 agosto alla “malvagità di due mostri”, che, come altri killer analoghi, meritano “la pena di morte subito”.

Ma il presidente corregge il tiro rispetto ad altri interventi: denuncia il razzismo e il suprematismo come ideologie da sconfiggere; condanna la violenza anche dei social media e dei videogiochi, che possono essere cattivi maestri; dice che unita l’America può superare questa prova – peccato che lui sia il “divisore in capo” della Nazione –.

Persino un tabloid come il New York Post gli chiede di agire, di inasprire i controlli sulle vendite delle armi e di mettere un limite allo smercio di armi automatiche, mentre i democratici lo avvertono più vulnerabile e non escludono di avviare la procedura di impeachment entro la fine dell’anno. Vulnerabile perché elementi della rivendicazione di Patrick Crusius, il killer di El Paso, che, animato da odio razziale, ha ucciso una ventina di persone fra cui 4 bambini e molti ispanici, paiono richiamarsi ai discorsi di Trump contro i migranti. E non contribuisce a dare spessore al discorso del presidente il lapsus con cui lo chiude, confondendo Dayton con Toledo – un’altra città dell’Ohio, distante 300 chilometri –. Vero è che l’ex vicepresidente democratico Joe Biden, poche ore prima, aveva fatto di peggio, scambiando El Paso con Houston e l’Ohio con il Michigan. Il direttore dell’Fbi Chris Wray ordina una vasta operazione per sventare nuove minacce di stragi di massa. C’è anche da fare i conti con l’effetto “copycat” che, in questi casi, spesso scatta. Una task force nel quartier generale della polizia federale a Washington analizzerà dati e segnalazioni provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti. La preoccupazione principale è proprio quella di atti di emulazione delle sparatorie in Texas, in Ohio e in California. Gli inquirenti, intanto, analizzano il manifesto postato da Crusius sul forum online 8Chan, lo stesso utilizzato dal suprematista bianco Brenton Tarrant, autore della strage nelle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda. Gli analisti evidenziano elementi di linguaggio comuni anche al templare bianco Anders Breivik, responsabile dei massacri di Oslo e di Utoya nel 2011 e risalgono fino a uno scrittore francese Renaud Camus, teorico della sostituzione razziale. Pare però che solo il templare norvegese avesse una preparazione culturale così solida da abbeverarsi alle fonti originali del pensiero suprematista. I suoi emuli europei – l’italiano Luca Traini di Macerata, neozelandesi e americani potrebbero essersi limitati a scopiazzare i suoi testi.

Nel suo manifesto Crusius scrive: “Loro – gli immigrati ndr – sono quelli che istigano e non io. Io sto semplicemente difendendo il mio Paese dalla sostituzione etnica e culturale portata da un’invasione”. La parola invasione è stata spesso utilizzata anche da Trump parlando dei migranti provenienti dall’America centrale. Il documento s’intitola “La verità scomoda” e prende le mosse dalla strage islamofoba di Aukland. Tarrant, a sua volta, aveva postato un suo manifesto citando la teoria di Camus, secondo cui le élite del Vecchio Continente stanno lavorando per sostituire gli europei con immigranti da Nord Africa e Medio Oriente. Crusius ipotizza un piano per dividere l’America in territori in base alla razza e ammonisce che i bianchi saranno sostituiti da stranieri. S’indaga sul forum 8Chan, che ha perso la protezione dai cyberattacchi. Lo usò pure John Earnest, un altro suprematista bianco che ad aprile aprì il fuoco in una sinagoga a Poway, un sobborgo di San Diego (California).

Raid sul consiglio cittadino dei Tabu 43 morti: “Paghiamo la resistenza”

Le forze del maresciallo Khalifa Haftar si sono date da fare a smentire – citate dalla Bbc – di aver preso di mira dei civili a Marzuq, confermando un bombardamento aereo con un drone sulla cittadina, domenica in tarda serata. Secondo i media filo-Haftar, il raid ha preso di mira “mercenari ciadiani”, come vengono definiti i miliziani del gruppo etnico Tabu, in conflitto con le forze del maresciallo, con combattimenti violenti registrati fin da sabato. Più che di miliziani, secondo Mohammed Omar, componente del consiglio municipale della zona, si sarebbe trattato di una riunione di membri del consiglio e abitanti che si erano incontrati per discutere di problemi nella regione. “L’attacco ha colpito una zona abitata”, ha detto la deputata Abu Bakr, sostenendo che si sia trattata di una “vendetta” per la resistenza della comunità Tebu alle forze di Haftar che a inizio anno hanno preso il controllo della zona dove si trova Marzuq. Non si tratterebbe dunque di una bomba su un ricevimento di nozze, come annunciato precedentemente da Arabi21news. Resta il dato drammatico che nell’attacco aereo sono morte 43 persone e altre 51 sono rimaste ferite. Mentre domenica un aereo libico con a bordo 124 passeggeri ha sfiorato la tragedia sfuggendo a un attacco che ha colpito la zona dell’aeroporto di Mitiga, a Tripoli, quando il velivolo si apprestava ad atterrare. Lo ha reso noto su Facebook la gestione dello scalo, l’unico funzionante della capitale libica. Non è il primo stop ai voli dello scalo, da quando la zona di Tripoli è teatro dal 4 aprile dell’offensiva lanciata dal generale Khalifa Haftar.

Proprio in queste ore l’inviato delle Nazioni Unite per la Libia, Ghassan Salamé, ha condannato “i ripetuti bombardamenti indiscriminati” contro l’aeroporto di Mitiga e ha rilanciato l’appello per “una tregua” in vista della Festa islamica del Sacrificio (Eid al-Adha) di domenica prossima. “Chi commette crimini di guerra verrà portato di fronte alla giustizia” gli ha fatto eco il portavoce del Servizio europeo che fa capo all’Alto rappresentante Federica Mogherini.

Autobomba contromano in strada. Il terrorismo fa altre 20 vittime al Cairo

Da circa un mese i servizi segreti di alcuni paesi europei, tra cui la Gran Bretagna, segnalavano la possibilità concreta di attentati dinamitardi da parte di terroristi basati in Egitto, contro l’aviazione civile europea, tanto che alcune compagnie di bandiera avevano sospeso i voli con il Cairo. Un blocco revocato solo la settimana scorsa. Nessuno, tuttavia, sembra si aspettasse che un’auto piena di esplosivo sarebbe andata a schiantarsi contro altre vetture proprio davanti all’ospedale oncologico della capitale egiziana uccidendo 20 persone e ferendone 47, tra cui almeno 3 in modo grave. Il ministero degli Interni ha spiegato che l’auto stava andando contromano quando si è scontrata con altri tre veicoli, provocando un’esplosione molto potente. “L’auto conteneva esplosivi e la collisione ha portato alla loro detonazione”, ha detto il ministero. “Si ritiene che l’auto carica di tritolo dovesse esplodere altrove, ma non si sa ancora quale fosse la destinazione finale”.

Secondo gli investigatori, ne è responsabile il gruppo Hasm, emerso nel 2016 e già autore, se si crede alle rivendicazioni, di numerosi attentati. Anche il presidente al-sisi, che dal 2015 sta tentando con ogni metodo – lecito e illecito – di annichilire la Fratellanza Musulmana, dopo averla dichiarata fuorilegge, ritiene che sia questo movimento, braccio amato dei Fratelli, l’autore della strage.

In una dichiarazione condivisa sui social media, il presidente ha definito l’esplosione un “attacco terroristico” e ha “esteso le più sentite condoglianze al popolo egiziano e alle famiglie dei martiri uccisi nell’incidente terroristico codardo… la scorsa notte”, si legge sul suo account Facebook e Twitter. Il premier egiziano Mostafa Madbouly ha subito ordinato l’avvio dei lavori necessari per ripristinare i danni all’Istituto oncologico. Intanto sono almeno quattro i corpi ancora da identificare. Tra le vittime semplici passanti e automobilisti.

Silvia rapita per riscatto ma l’Italia non ne sa niente

Il documento della polizia di Malindi è chiarissimo: gli imputati, Abdulla Gabara Wario e Moses Luwali Chembe, hanno rapito Silvia Romano per provocare gravi danni, ridurla in schiavitù e per costringere l’ambasciata italiana a pagare un riscatto come condizione per il suo rilascio. Accuse gravissime che prevedono come pena massima anche l’ergastolo.

Secondo gli inquirenti le autorità italiane non sono a conoscenza di questo capo di imputazione: “Qui nessuno si è fatto vivo. Né diplomatici, né i carabinieri (del Ros, incaricati delle indagini, che si sono fermati a Nairobi, ndr) né tanto meno le antenne dei servizi di intelligence – spiega un ispettore della polizia –. Qualcuno è arrivato subito dopo il rapimento di Silvia avvenuto il 20 novembre. Poi più niente”. Alla cancelleria del tribunale rincarano la dose: “Visto che il processo è cominciato, i documenti sono pubblici, ma finora nessuno è venuto a prenderne visione”. Dichiarazioni che lasciano sconcertati, come quelle rilasciate a Roma, secondo cui non è mai stato chiesto un riscatto. Se i rapitori non si sono fatti mai vivi con gli italiani perché vengono processati – secondo le accuse – per aver chiesto un riscatto all’Italia? Un altro mistero da aggiungere al castello degli allarmanti interrogativi che avviluppano la drammatica vicenda di Silvia Romano. Il silenzio stampa chiesto dalle autorità italiane (e rispettato da gran parte dei giornaloni) inquieta perché potrebbe nascondere altri obiettivi e non quello dichiarato secondo cui parlare della vicenda farebbe deragliare le indagini. Indagini che non vengono svolte – è lapalissiano – non possono deragliare.

Un mistero invece è stato svelato: secondo le ricostruzioni di qualche giorno fa Silvia aveva sporto una denuncia verso un pastore anglicano accusandolo di molestie verso alcune bambine. In un messaggio vocale a una sua amica, la volontaria milanese aveva spiegato di essere andata dalla polizia e di aver raccontato a un’agente che si occupa della difesa dei minori la vicenda. Aveva ricevuto assicurazioni che il pastore sarebbe stato arrestato il giorno successivo. Ma negli archivi della polizia di Malindi di quella denuncia non è stata trovata traccia. Ieri Mariam, l’investigatrice che si era occupata della vicenda, ha confermato il colloquio con Silvia, ma ha spiegato di aver raccolto la sua denuncia sul suo bloc notes personale e non averla poi trasferita sul faldone ufficiale: “Silvia non ha potuto fare i nomi delle bambine e neppure quello del sacerdote, individuato solo più tardi. La sua storia non aveva i dettagli necessari per poterla indagare. Quindi non l’abbiamo riportata”. Una spiegazione convincente? Una soffiata in tribunale spiega che il procedimento del 19 agosto, che coinvolge Ibrahim Adan Omar, è assai importate perché investe un altro aspetto del sequestro, con risvolti anche in questo caso inquietanti. Ibrahim è sospettato di aver ideato e pianificato il rapimento: è stato per ben tre volte a Chakama e ha dormito nella guest house Togo, di fronte alla casa di Silvia. Testimoni interrogati dalla polizia keniota ci hanno raccontato che non aveva grandi impegni. “Siamo convinti che fosse andato lì per controllare la situazione”. Ibrahim Adan Omar è un cittadino somalo in possesso di una carta di identità keniota autentica. “La nostra cittadinanza si può ottenere solo dopo il parere positivo di una commissione di 5 membri. Lui l’ha ottenuta con il parere positivo di un solo membro e la commissione non si è mai riunita. Si vede che possiede protezioni potenti. È stato arrestato vicino Garissa (dove gli shebab nel 2015 hanno massacrato 147 studenti, ndr) ed era in possesso di armi da fuoco”.

 

L’orco, la bambina e le patate indigeste

Chaweng (Koh Samui), Thailandia, fine luglio di qualche anno fa. Ero a cena in uno dei tantissimi ristorantini sparsi sulla spiaggia. Di quelle di sabbia bianca e mare cristallino che difficilmente si dimenticano. Non posso fare a meno di perdermi negli enormi occhi neri e troppo languidi di una giovanissima ragazza seduta accanto a me, dalle labbra colorate dalle rose, con una carnagione ambrata che riflette gli ultimi raggi del sole. Insomma, la sorella thailandese di Pocahontas. Ma qui le favole finiscono, perché accanto a lei c’è un orco in carne e ossa: un uomo di 70 anni, caucasico, pochi capelli bianchi. Indossa una canottiera bianca, calzoncini corti, calzini di spugna bianchi alle caviglie e ciabatte a fascia. Si tengono mano nella mano, ma non sono padre e figlia: si baciano. Lui sta facendo turismo sessuale e lei è una delle centinaia di ragazze costrette a prostituirsi in cambio di una manciata di soldi (le più fortunate conquistano il braccialetto degli hotel deluxe, che equivale a dire che per una settimana vivranno come le “signore occidentali”). Ci metto poco a sbottare: “Che schifo, che vergogna, ma non si vergogna, bisogna denunciare il turismo sessuale, è un vecchio, lei è una bambina, dio mio…”. Nel frattempo arriva il cameriere per prendere la mia ordinazione: ho voglia di patate al forno. Ma non ricordo come si dica in inglese. Chiedo aiuto al mio compagno che, però, non fa in tempo a rispondermi. “Baked potato” è la risposta fulminea che arriva dall’orco seduto al tavolo accanto al nostro. È un italiano, che aggiunge: “Qui sono servite con un’ottima salsetta”. Non esiterei a ripetermi: il turismo sessuale è un reato.