All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne: una sola in due (Kessler) per risparmiare

Quando si dice “il pragmatismo teutonico”: le gemelle Kessler – celebri negli anni Settanta come soubrette del varietà – hanno dato disposizioni, nel loro testamento, di essere cremate e sepolte in un solo loculo. Non fa una piega la motivazione: “L’urna comune fa risparmiare spazio. Al giorno d’oggi si dovrebbe risparmiare spazio ovunque. Anche al cimitero”.

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne, sì, ma una sola in due per risparmiare: così hanno appena scritto nel lascito Ellen e Alice, 83 anni il prossimo 20 agosto, fresche di intervista al quotidiano tedesco Bild: “Io e Ellen vogliamo che le nostre ceneri vengano mischiate un giorno con quelle di nostra madre e possano essere conservate tutte e tre insieme”, ovvero nella stessa tomba del cimitero di Grünwald, in Baviera, non lontano da Monaco. La ragione di tal bizzarria è, quindi, duplice: affettiva – la vicinanza a mammà – ed etica – il risparmio di spazio, ma mettiamoci pure di denaro, con quel che costano i centimetri cubi di terra al camposanto.

È stata sempre Alice, infine, a dichiarare alla stampa di aver lasciato per iscritto la loro ultima volontà, in un testamento diligentemente e previdentemente già redatto. O forse il gesto, e il testo, è puramente scaramantico: quando si dice “la superstizione teutonica”.

Polpette di spirulina e gelato d’insetti: la miglior dieta detox

Per chi non si sente pronto alla prova costume e le ha tentate tutte, dai sali del Mar Morto di Wanna Marchi alle diete per vivere cent’anni di Rosanna Lambertucci, passando per gli spaghetti a colazione di Alberico Lemme, oggi c’è una soluzione: alghe, muffe, vermi e insetti. A suggerirlo sono i ricercatori del laboratorio di Copenaghen Space10, attenti alle metodologie per migliorare l’aspettativa e la qualità della vita. Gli assunti da cui partono sono due: da un lato la sperimentazione di una cucina sostenibile e a basso impatto ambientale-climatico, dall’altro il fatto che nei prossimi venticinque anni la domanda di cibo aumenterà del 70%. Le soluzioni alternative partono dalla decisione (etica) di eliminare la carne, come spiegano in Future Food Today, un avveniristico ricettario per la buona salute nostra e del pianeta.

Chissà quanti chili si potranno perdere, mangiando polpette di alga spirulina – che secondo l’Onu è il miglior alimento del futuro, ricco di proteine, ferro e omega 3 –, un frullato detox al kimchi (un piatto tradizionale coreano fatto di verdure fermentate con spezie e frutti di mare), o un ramen di muffe marine e spore. Per chi non può rinunciare al panino c’è il dogless dog, un hot dog senza hot dog, fatto con una salsiccia vegetariana di alghe, e il crispy bug burger, l’hamburger a base di insetti, barbabietola rossa, pastinaca e vermi della farina. E per i più golosi, infine, anche il Microgreens Ice cream, un gelato alle erbe aromatiche.

Ma, al netto delle ipocrisie bio-estetizzanti, se è vero che mangiare sano può interessarci molto per vivere meglio e più a lungo (e al contempo molto poco ci tange l’impatto ambientale-climatico e l’aggravio degli allevamenti intensivi sulla catena alimentare), è l’ossessione estetica per il corpo da esibire, per la forma fisica da mostrare, specie in estate e in vacanza al tempo dei social, che impegna le nostre elucubrazioni su diete e cibo. Stiamo, infatti, ormai assistendo a una nuova iconografia del grasso. Se fino agli inizi del nuovo millennio era ancora valido l’adagio “Grasso è bello” (non a caso, dell’iconico film Hairspray del 1988 è stato fatto un remake nel 2007), la monarchia delle immagini in cui viviamo lo ha bandito.

Lo spiega bene il coltissimo saggio Fat: a cultural history of the stuff of life (Grasso: una storia culturale della materia della vita) di Christopher Forth, professore di Storia dell’Università del Kansas che riannoda con dovizia storiografica l’excursus dell’iconografia tondeggiante. Nell’antichità, è risaputo, la morbidezza delle forme abbracciava un fascio di simboli vitali quali la fertilità, la nobiltà, la ricchezza. Lo testimoniano tanto la Venere di Willendorf, una delle più celebri veneri paleolitiche risalente al 23.000-19.000 a. C., come pure le botticelliane rotondità del Rinascimento. Anche per gli uomini la robustezza era sintomo di virilità: la dieta dei gladiatori romani traboccava infatti di carboidrati, legumi e cereali. Se poi è tutto cambiato, lo si deve all’evoluzione della fisiologia, agli studi sul metabolismo varati in Europa a partire dall’Ottocento e all’introduzione, un secolo più tardi, del Bmi (l’indice di massa corporea) nel 1972 da parte di Adolphe Quetelet. Come dall’attenzione per il corpo e la cura della sua fragilità si sia arrivati all’ossessione voyeuristica per la forma fisica (il più delle volte ottenuta con bibitoni proteici e pasticche tutt’altro che salutari) chi può dirlo – la monarchia dell’immagine avrà il suo peso in ciò –, come pure sfugge come la cucina possa spingersi a concepire un hamburger di insetti e vermi. Ma un’altra è la domanda: quanto fegato ci vorrà per mangiarne uno?

Kempes e quel gesto Mondiale: rifiutare il saluto di Videla

Se partiamo dalla fine, Mario Alberto Kempes è colui che allenò il Fiorenzuola e il Casarano, non proprio il passo d’addio che, in assenza del gatto, eccita i topi d’archivio. Se viceversa partiamo dall’inizio, Mario Alberto Kempes è Carlos Aguilera, lo pseudonimo che, timido, scelse per onorare un provino che organizzava l’Instituto di Cordoba. Aveva 17 anni, e il suo nome circolava già: non voleva scorciatoie. Kempes. Uomo di sinistro, numero dieci. Capellone e baffi ondivaghi. Palla al piede, non certo un ergastolano. Via col vento. Via dal vento, “quello”: del colpo di stato, dei desaparecidos, di Jorge Rafael Videla, il “jefe” di una banda sanguinaria che volle il Mondiale del 1978 per nascondere e barattare le torture con l’enfasi della distrazione di massa: a patto che si vincesse. Vinsero. Benito Mussolini, nel 1934, aveva usato il calcio come adrenalina; i generali di Baires lo avrebbero impiegato come oppio. Il 24 marzo 1976, quando la cricca prese il potere, il Paese venne oscurato e isolato. Ma una “cosa” alla televisione fu lasciata: Polonia-Argentina 1-2, amichevole da Chorzow. Che la trasmettessero pure. E Kempes c’era.

Avrebbe voluto chiamare Natasha una delle figlie, raccontò al giornalista Martin Mazur. “Troppo russo”, gli risposero in comune. I militari non scherzavano. E così ripiegò su Magalì. Ma non si arrese, e a tiranni deposti nacque Natasha, finalmente: la terza.

Capocannoniere, passerà alla storia per essere stato l’unico, dei giocatori della Nazionale, a non aver dato la mano a Videla nella baraonda che seguì la vittoria sull’Olanda, nella gran finale diretta dal nostro Sergio Gonella, pace ai triboli suoi. Tre a uno il verbale della zuffa, con doppietta di Kempes. Il papà è tedesco, Mario Quemp; e la mamma, Teresa Chiodi, italiana di origine. Mario Quemp sbarcò in Argentina subito dopo la seconda guerra mondiale e diventò Kempes. Potenza delle storpiature. Il figlio è un cavallone di 1,82 che ha bisogno di spazio per domare il tempo. Dribbling, progressione, malizia: e mai un rosso.

Fu Omar Sivori, commissario tecnico in una delle sue mille vite, a farlo debuttare. Sono stati tre, i Mondiali di Mario. E sempre con l’Italia di mezzo: nel 1974, a Stoccarda, finì 1-1; quattro anni dopo, al Monumental di Buenos Aires, 1-0 per noi, gran gol di Roberto Bettega; nel 1982, al Sarrià di Barcellona, 2-1 per gli azzurri di Enzo Bearzot. Non aveva più il dieci, Mario. Lo aveva ceduto a Diego Maradona. Il “Vecio” piazzò Claudio Gentile sul Pibe e Marco Tardelli su Kempes, che César Luis Menotti aveva arretrato sicuro che, con più campo, avrebbe seminato i radar, e i tacchetti, degli oppressori. Non fu così.

L’anno è il 1978. Ci sfiorammo durante il Mondiale, chi scrive seguiva l’Italia, di stanza all’Hindu Club con la Francia di Michel Platini, non ancora re e non ancora sole ma già allegro rompiscatole. Kempes è l’unico “straniero” della Nazionale. Alfredo Di Stefano l’aveva suggerito al Valencia: insieme, si sarebbero arrampicati fino alla Coppa delle Coppe del 1980. Nella finale dell’Heysel – ebbene sì: l’Heysel di Bruxelles, già fatiscente e decadente – il Valencia superò l’Arsenal di Liam Brady ai rigori. Per non annoiarsi, il destino spinse proprio loro, Kempes e Brady, a sbagliare dal dischetto.

Il capitano, alla vigilia, era Jorge Carrascosa detto il lobo, il lupo. Si chiamò fuori per protesta contro il regime, la voce si diffuse nonostante tutto e nonostante “molti”. I gradi andarono a Daniel Passarella. Dalla lista, in extremis, venne escluso Maradona. Era già un genio ma non aveva ancora 18 anni. Menotti non se la sentì. Per parlare di Kempes, non si può non coinvolgerlo: “Non giocate per quei figli di puttana, giocate per il popolo”, disse il Flaco comunista e idealista.

La soluzione del dramma, il dramma della soluzione: vincere per il popolo significava vincere per i suoi aguzzini. Comincia in sordina, Kempes. Troppo esterno, un Picasso in cantina. Zero gol contro l’Ungheria, zero contro la Francia, zero contro l’Italia. Tutto cambia dalla seconda fase, sempre a gironi. Menotti lo toglie dalla fascia e lo sistema dietro Leopoldo Luque, il centravanti. Due gol alla Polonia, due al Perù in quel famigerato 6-0 che boccia il Brasile e sfonderà l’epica con la forza d’urto della scandalosa “marmelada peruana”. E un paio, soprattutto, all’Olanda del calcio totale, l’Olanda di Ernst Happel ma non più di Johan Cruijff, ritiratosi all’ultimo momento. Chi dice per l’ossessione di un rapimento, e chi per protesta anti dittatura.

Sono due i gesti, di quella ordalia, che resteranno nei secoli. Il primo è un tiro di Rob Rensenbrink che rimbalza sul palo agli sgoccioli del 90’. Kempes ne è testimone lontano, atterrito, impotente. Il gol batavo avrebbe sabotato la storia di un golpe, non solo la cronaca di una partita. E poi il secondo, nel cuore concitato della premiazione che, sotto un bombardamento di coriandoli, mascherava ben altri “bombardamenti”. Sfilarono ebbri, capitan Passarella alzò la coppa, tutti cercarono la mano di Videla. Tutti meno uno. Lui, il Matador, come recita il titolo della sua biografia. Ha girato mezzo mondo, dall’Albania alla Bolivia, ci ha lasciato 347 gol in 634 gare, oggi ha 65 anni, vive in Connecticut e commenta il calcio per Espn, sei by-pass dopo.

“Nella calca non l’avevo proprio visto”, si giustificò. C’era ressa, sì, ma era impossibile evitarlo. Le mani di Videla e Kempes non si incontrarono mai, e nemmeno le mani di Kempes e la coppa. Viceversa, si incontrarono il tiro di Rensenbrink e il palo. Tornò a casa, a Cordoba, la notte stessa. La mamma si spaventò: “Ma che ci fai qui?”. “È finito il Mondiale, sono venuto a dormire”.

“Cosa cerca il regista sul set? Il colore dei ricordi, che sta sotto alle parole”

Pubblichiamo di seguito la postfazione di Alberto Sironi – “Quello che non c’è nelle parole” – al libro di Costanza DiQuattro, “La mia casa di Montalbano”, in libreria con Baldini+Castoldi.

Cercherò di spiegarvi con quale magia abbiamo trovato la casa di Montalbano a Puntasecca, la casa della famiglia DiQuattro costruita nel 1912.

Avevamo girato tutta la Sicilia per scegliere dove ambientare i romanzi di Montalbano.

Alla fine abbiamo scelto la zona di Ragusa, in particolare verso il mare, tra colline verdi e le meraviglie del tardo barocco, il tutto circondato da un mare che ti accompagna con il suo rumore, i suoi colori dall’alba al tramonto.

Andrea Camilleri se n’era andato giovane dalla Sicilia e le avventure di Montalbano, pur se ambientate oggi, erano piene di ricordi, ricordi del passato. Tutto questo ha cambiato completamente il colore e l’atmosfera del film. Avevo capito che dovevo sollevare le storie in un’atmosfera magica, irreale.

La casa della famiglia DiQuattro è una casa affacciata sulla spiaggia: ricordo quando andammo a vederla per la prima volta. Arrivammo a Puntasecca nel tardo pomeriggio. Entrammo in casa, guardammo gli ambienti, il pianterreno, la cucina, il salotto, e poi salimmo al primo piano. Lì c’è la stanza più grande nella quale abbiamo ambientato la camera da letto di Montalbano e il suo studio. In fondo a questa stanza si apre una portafinestra che si affaccia sul mare. Entrando nella verandina il sole stava tramontando… Il mondo era cambiato, c’era una malinconia, come un ricordo di un tempo passato.

Questo libro parla di quanta gioia abbia portato questa casa nell’animo di Costanza. Che cosa fa il regista quando cerca gli ambienti per il suo film?

Il regista cerca quello che non c’è nelle parole, quello che sta sotto alle parole: per noi il significato vero dei luoghi è più importante delle parole stesse. Noi che dovevamo scegliere la casa di un commissario di polizia, il commissario Montalbano, l’abbiamo scelta per i ricordi di Camilleri che si sono sovrapposti ai ricordi dell’autrice.

Procuratori, il quarto potere: il calcio ormai è “cosa loro”

Se è vero che ogni pastore ha le sue pecore, anche il più umile pastorello può aspirare a mettere in piedi il proprio gregge. Se poi il pastorello ha la “p” maiuscola e risponde al nome di Federico Pastorello, 46 anni, trentino di Rovereto, di professione agente-procuratore (della “P&P Sport & Management”), la gestione del gregge può diventare, col tempo, oltremodo interessante. Domanda da un milione di dollari: cos’hanno in comune i quattro personaggi che andiamo a nominarvi e cioè Antonio Conte, Romelu Lukaku, Valentino Lazaro e Antonio Candreva? Prima risposta: si tratta di tre tesserati dell’Inter e di uno (Lukaku) in predicato di diventarlo. Esatto, ma riformuliamo la domanda: che cos’hanno di altro in comune, Inter a parte, i quattro tesserati di cui sopra?

La risposta si fa più difficile e diventa possibile solo agli addetti ai lavori: Conte, Lukaku e Candreva sono assistiti dallo stesso agente-procuratore, Federico Pastorello per l’appunto, che guarda caso ha giocato un ruolo decisivo nel portare all’Inter Lazaro dell’Herta Berlino. Pastorello fino a ieri assisteva il solo Candreva, ma dopo essere diventato l’agente dell’ex allenatore del Chelsea ha ottenuto in pratica il passe-partout per arrivare ai giocatori che desidera, o meglio, a quelli che desidera l’allenatore finito sotto la sua procura. Conte vuole Lukaku? Ecco che Pastorello ha buon gioco nel convincere il bomber del Manchester ad affidargli la sua procura: le cose “fatte in casa” saranno comunque più facili. Conte vuole Lazaro?

Ecco che l’agente del calciatore austriaco, Max Hagmayer, viene convinto da Pastorello, in quanto agente di Conte, a trasferire in regime di “cooperazione” Lazaro dall’Herta Berlino all’Inter. L’Inter vuole disfarsi di Candreva ma a Conte Candreva tutto sommato non dispiace? Ecco che scatta l’operazione mutuo soccorso tutta interna alla scuderia ed ecco che Candreva diventa, d’incanto, titolare inamovibile dell’Inter in tutte le amichevoli estive passando da zimbello dei tifosi a idolo ritrovato.

Tutto regolare? Stando alle nuove regole, sì. E tuttavia, fino all’1 aprile 2015 la normativa Figc vietava ai procuratori di rappresentare, oltre a calciatori, anche allenatori; c’era un palese conflitto d’interessi che la liberalizzazione dell’albo degli agenti, fatta in modo selvaggio, ha reintrodotto ponendo le basi di derive che definire pericolose è dire poco. Ricordate il caso della Gea, la piovra dei procuratori “figli di” (c’erano i figli di Moggi, di Geronzi, di Tanzi, di Calleri, di De Mita) che manovrava centinaia di calciatori oltre a molti allenatori? Beh, messa fuorilegge e dichiarata defunta l’1 agosto 2006, in pieno scandalo-Calciopoli, la Gea (o quantomeno svariati suoi cloni) ha ripreso a vivere, nel sempre più disastrato, economicamente ed eticamente, calcio italiano senza che nessuno dicesse bah. Le nuove regole lo permettono e Pastorello è solo uno dei tanti: si pensi ad Alessandro Lucci, agente procuratore della “WSA”, che dopo aver inserito in scuderia l’allenatore Vincenzo Montella ha fatto in modo di portare, nei vari club in cui il tecnico ha allenato, una teoria di giocatori “di scuderia” come Badelj (Fiorentina), Muriel (Sampdoria), Suso (Milan).

Questo, in tema procuratori, è lo stato dell’arte in Italia al fixing di martedì 6 agosto 2019. Rispetto all’universo mondo restiamo comunque un vaso di coccio tra vasi di ferro. In un recente studio, Milano Finanza ha stilato la classifica dei procuratori col parco-giocatori più ricco, e ai primi cinque posti troviamo cinque agenzie straniere.

Guida la classifica la “Stellar Football” di Jonathan Barnett, inglese, che gestisce calciatori per un valore di 1,11 miliardi di euro (e che potrebbe schierare una squadra così composta, modulo 4-3-3: Szczesny; Trippier, Andersen, Holding, Chilwell; Loftus-Cheek, Nìguez, Sigurdsson; Ihenacho, Maxi Gomez, Bale), seguita dalla “Gestifute” di Jorge Mendes (1,03 miliardi), dalla “Lian Sport” di Damjanac e Ramadani (681,7 milioni), da Mino Raiola, agenzie ovunque, da Malta all’Irlanda (616,7 milioni) e dalla “Rogon SM” (559,7). Secondo Forbes, nel 2018 il solo Mendes ha guadagnato di commissioni 100 milioni, Barnett 79,5 e Raiola 62,9. Per capirci, Messi ne guadagna 42 e CR7 31. Dilettanti, al confronto.

Addio Sironi, il papà (in tv) di Salvo Montalbano

Alberto Sironi muore a 79 anni e dopo la scomparsa di Andrea Camilleri, il 17 luglio scorso: questo di vedere uscire di scena il regista di tanti Montalbano in tivù è il secondo inceppo tenero e sentimentale per il mondo di Vigata: “È la seconda volta”, dice Luca Zingaretti, il volto e la voce di Salvo, il commissario, “che piango un complice di questa avventura che ci accomuna da tanto tempo”. Non ce la faceva più, Sironi, stava male e tutta la sua famiglia fatta di attori, tecnici, assistenti e comparse – tutto l’universo ibleo del set tra Scicli e la fornace Penna – si adoperava in nome e per conto suo, in una febbrile quanto silente autogestione. Tutti zitti e muti, ancora fino a poche settimane fa, per lavorare in quel silenzio totale che solo lui sapeva costruire intorno ai cavi, alle quinte e alle masserizie del trucco e parrucco dove “dare motore”.

Muore chi ha diretto quell’opera d’arte amata da tutti la cui riproducibilità smentisce l’obbligo tecnico della copia conforme se una somma di assoluti, poi, va a coronare la commovente perfezione dell’unicità.

“È penoso, è duro”, commenta ancora Zingaretti su Instagram, “è proprio un anno di merda! Addio amico mio!”.

Fatto unico, e poeticamente sublime che della macchina da presa, negli ultimi ciack – nell’impossibilità del regista – se ne sia fatto carico Luca Zingaretti, l’attore che su tutti Sironi aveva voluto come interprete delle pagine di Camilleri, il protagonista in grado di sfidare la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte oltre l’ovvietà del consumo pop per ricavarne un archetipo.

L’aveva scelto a dispetto dello stesso Camilleri che se l’era immaginato il suo Montalbano in un attore che fosse riccio di capelli, panzuto, gaddiano e non – invece – per come l’ha costruito Sironi, così attoriale, così storto di gambe e per l’appunto strehleriano.

Riproducibile per come l’ha disegnato Sironi, è Montalbano. La lezione è di Giorgio Strehler e come altro Arlecchino non può esserci che Ferruccio Soleri, così altro Salvo non c’è che Luca Zingaretti.

È perfetto a tal punto, Zingaretti, che senza la sua faccia – e la sua inconfondibile pelata – quella statua del commissario Montalbano collocata in via Roma, a Porto Empedocle, la città natale di Camilleri, con quei baffi e con quei capelli al vento, non acchiappa che pochi selfie. Tantissimi infatti, guardando di sbieco, si chiedono: “Ma chistu cu è?”.

E fatto unico, tutto di onestà intellettuale – e di specchiata professionalità – è stato quello di costellare ogni singolo ruolo nei suoi Montalbano in tivù di volti, maschere e pupi, colti tutti nell’assoluto canone del teatro che sa dire, che sa farsi varco nello spazio scenico e che, infine, trova sempre ritmo e luce.

Come quella balconata, quella di Puntasecca – la Casa di Montalbano – saputa trovare in aiuto alle parole e saputa indovinare nel caleidoscopio dei possibili ricordi di un commissario al quale Sironi concede la struggente malinconia della portafinestra.

Eccola: una monade unica di amore per sempre incompiuto e per sempre lontano, quello di Lidia e Salvo, oggi un delicato libro di Costanza DiQuattro (La mia casa di Montalbano, Baldini & Castoldi) cui Sironi ha firmato la postfazione (che pubblichiamo in queste pagine, ndr), atteso spettacolo della stessa autrice al debutto con Mario Incudine al Festival della Comunicazione di Camogli a settembre prossimo.

Ricordi e parole dell’unicità. E fatto unico, infatti, e poeticamente sublime, fu che in un episodio andato in onda lo scorso anno, Sironi stesso – per ricordare l’immenso Marcello Perracchio, l’interprete del dottor Pasquano, morto il 28 luglio del 2017 – ebbe a indossare l’uniforme della Polizia per entrare in una scena.

Fatto unico e perfettissimo, infatti, quello di farne un cameo alla Hitchcock– e così celebrarne il rito funebre del consolo – per portare i cannoli tanto amati dal medico legale nato dall’immaginazione di Camilleri nell’ufficio di Montalbano.

Un modo di affrontare la morte faccia a faccia, coerente con la sua vena tutta di eccentrica schiatta bustese. Non tutti sanno che nel sentimento diffuso dei siciliani, Busto Arsizio – la terra d’origine di Sironi – è una chimera, l’approdo degli emigrati in Lombardia in un innesto sudato di lavoro e futuro. E arte.

“Devo convincere la fortuna ad aiutarmi”, aveva detto Sironi ad Alessandro Ferrucci in una straordinaria intervista che ritroverete sul fattoquotidiano.it. Ed ecco, può proprio dirsi: l’ha proprio convinta, la fortuna. E con lei l’arte.

Lotta al mozzicone: posacenere e drink gratuiti a Firenze

La “c” è aspirata ma il risultato non cambia. A Firenze, come in altre città d’Italia, i mozziconi (o “mozzihoni”) di sigaretta stanno diventando un problema soprattutto con l’invasione estiva di turisti per le vie del centro. E per questo il Comune ha deciso di correre ai ripari. Ma, a differenza di altre città, non con le sanzioni per gli incivili che gettano i filtri per le vie più belle del centro: quelle ci sono già da tempo.

La strategia è diversa e innovativa: a fine agosto agli 80 mila fumatori fiorentini (12/13 sigarette al giorno è la media cittadina) saranno consegnati altrettanti posacenere portatili così da non inquinare e non creare la tentazione di gettare il mozzicone per strada in mancanza di cestini che lo includano. L’annuncio è arrivato nei giorni scorsi da parte dell’assessore all’ambiente di Palazzo Vecchio, Alessia Bettini, rispondendo ad un’interrogazione in consiglio comunale: “Non possiamo mettere un cestino con un posacenere ad ogni angolo della città – ha spiegato – perché ha dei costi e non è possibile farlo”. E allora? A fine agosto il Comune organizzerà una giornata in cui gli studenti delle università americane cittadine e gli “Angeli del Bello” (il movimento di volontari per il decoro e la cura di Firenze) consegneranno ai fumatori fiorentini i posacenere portatili. Lo stesso farà nelle prossime settimane Alia, la municipalizzata del Comune che si occupa di raccolta dei rifiuti. “Il tema è chiedere ai fumatori che non smettono di fumare di munirsi di un posacenere – conclude Bettini – e noi li regalaremo. Poi ovviamente aumenteremo anche le sanzioni per chi continuerà a gettare i mozziconi per strada”. Ma Palazzo Vecchio non si sta muovendo solo in questa direzione, per combattere l’abbandono di sigarette per strada: presto il Comune incontrerà i responsabili dei locali della movida (e non solo) per incentivare il mantenimento del decoro urbano legato al fumo.

L’idea è quella di ottenere un impegno serio da parte dei locali cittadini: questi dovranno offrire un drink analcolico ai clienti che raccolgono in un bicchiere i mozziconi abbandonati per strada. La campagna del Comune di Firenze contro i mozziconi di sigarette è il risultato di una nuova consapevolezza emersa negli ultimi mesi, soprattutto da quando (un anno fa) il rapporto di Nbc News ha messo in evidenza come i filtri dei 5,6 mila miliardi di sigarette prodotte ogni anno nel mondo impieghino dai dieci anni in su per decomporsi (sono fatti di acetato di cellulosa).

La battaglia contro i mozziconi abbandonati per strada del Comune di Firenze segue quella relativa al verde pubblico: negli ultimi cinque anni in città sono stati piantati 13mila nuovi alberi e nati nove tra nuovi parchi e giardini. Per “avvicinare i fiorentini ai loro alberi” Palazzo Vecchio ha deciso anche di dedicare, con una targhetta, le piante cittadine a chi si ama o a una persona cara.

In acqua dopo mangiato? Si può. Il rischio: bimbi soli, genitori social

Li senti ancora lamentarsi, stravaccati sotto l’ombrellone, che si tratta di un’ingiustizia, proprio come i loro coetanei ragazzini di quarant’anni fa. Sono passati decenni ma il divieto di farsi il bagno dopo mangiato ancora permane tra le mamme italiane contemporanee, che all’antica interdizione delle madri anni Settanta – risalente, pare, addirittura al medico greco Galeno – hanno poi aggiunto altre mille attenzioni, dalla crema 50 al succo di frutta senza zucchero. Tutte cose giuste, tranne quella. Perché no, il bagno dopo mangiato non è pericoloso, nonostante il nostro Ministero della Salute ammonisca di aspettare le classiche tre ore sul proprio sito (in una pagina scritta nel 2007 e aggiornata nel 2015). Lo ribadisce ormai da tempo l’autorevole rivista pediatrica Uppa, con le parole del pediatra Lucio Piermarini: il timore di una presunta “congestione”, termine tra l’altro non scientifico, è infondato, anche perché quand’anche qualcuno che si tuffa dopo pranzo si sentisse male avrebbe tutto il tempo di uscire dall’acqua, visto che il malessere è progressivo.

Molto più pericoloso, e specie per gli adulti, l’impatto dell’acqua fredda sul viso che, scrive Piermarini, potrebbe “scatenare una violenta reazione nervosa riflessa che rallenta la frequenza cardiaca e abbassa la pressione arteriosa per cui, se il tutto dura più di qualche secondo, il cervello va in blocco e si affoga anche in pochi centimetri di acqua”. Per evitarla, però, basta bagnarsi prima di entrare in acqua. Questa tesi è confermata da altre autorevoli istituzioni, come l’Organizzazione mondiale della sanità, ma anche la Croce rossa statunitense, la International Life Saving Federation e persino la American Academy of Pediatrics: nessuna di queste, infatti, rileva un legame certo tra nuotare dopo mangiato e finire annegati.

E dire che quest’ultimo è una delle cause principali di morte per bambini (specie da 1 a 4 anni), ma anche ragazzi, specie maschi. Ad aggravare il rischio però sono condizioni socioeconomiche basse, l’utilizzo di alcol, ma anche il fatto che i bambini vengono spesso lasciati incustoditi, anche se per affogare basta pochissimo, come hanno mostrato recenti casi di cronaca. Se proprio dunque temete che l’infante si senta male in acqua, aspettate un’oretta, il tempo di digestione di carboidrati, latticini e verdure. E evitate la fettina, che invece di ore ne richiede ben di più. Ma soprattutto, usate il buon senso, perché anche la partita di beach volley sotto al sole dopo aver mangiato bene non fa.

E poi conta anche la temperatura dell’acqua, che è cambiata rispetto a quarant’anni fa, tanto che appare un poco grottesco impedire al bambino di entrare nell’acqua magari tiepida. Insomma, entrate pure in acqua quando volete, e fateci entrare i vostri figli, come da sempre hanno fatto i ragazzini stranieri, basta farlo gradualmente. La cosa più importante è controllare i veri pericoli: a partire dal perdersi a chattare sui social network mentre vostro figlio di pochi anni cammina libero intorno a una piscina. Questo sì che può essere letale, per i piccoli.

Sorpresa: pure i blog talvolta informano. E meglio dei giornali

Ero tutto immerso in certe vandeane elucubrazioni quando di colpo mi sono dovuto ricredere. Le opinioni da Vandea riguardavano l’uso e la funzione dei social. Sui quali ho maturato qualche convinzione. Recentemente, a chi mi rimproverava di starne fuori in un momento come questo, ho spiegato che quel che appare sui social, o almeno quel che ce ne viene riportato generalmente dalla stampa, ha una stretta parentela con ciò che decenni fa appariva sulle porte dei gabinetti in università. Sulla faccia interna naturalmente. Bastava dedicarsi alle proprie necessità fisiologiche per trovarsi circondati dalle frasi che oggi impazzano nella twitter–politica. Talora c’erano anche i disegnini. Uno pensava che tutto sommato quello era il luogo adatto per certe esternazioni, che era ovvio che quel repertorio potesse essere sfoderato giusto in solitudine e in ambiente conforme alla qualità del pensiero, dopodiché tornava serenamente alle sue lezioni e ai suoi libri.

Nessuno scriveva accanto “mi piace”; anche perché, per farsi notare da qualcuno, avrebbe avuto bisogno di un guardone. Nessuno diceva dell’autore che era “un grande comunicatore”. E nessuno mai avrebbe immaginato che l’autore potesse diventare leader politico. Innocenza dei gabinetti. Questo spiegavo dunque a un gentile interlocutore quando la stessa sera mi è capitata sotto gli occhi (fonte diregiovani.it) un’intervista a uno studente con nome che più milanese non si potrebbe, Marco Colombo. Il quale ha creato un blog dalla missione galvanizzante, e di questi tempi stratosferica.

Si chiama Pocket Press, e ha per logo una tasca che contiene un giornale. Con cui l’autore si prefigge di andare in direzione “ostinata e contraria”. E, invece di seminare disinformazione, fare informazione. Soprattutto andando a scoprire fatti che accadono e di cui nulla si sa, e che il nostro esploratore reputa invece importanti da sapere.

Marco ha 25 anni, e per ora è redattore unico. Progetto editoriale: “scrivere approfondimenti di vario genere, con in più due pagine social sulle quali rilancio notizie che hanno trovato poco spazio pubblico”, in particolare quelle che vengono date da siti esteri e che “in Italia non arrivano affatto, soprattutto su certi argomenti, come l’ambiente.” Il suo procedimento? Cercarsi le notizie che non appaiono sui media nazionali, domandarsi se arriveranno mai in Italia e poi, in caso di personale risposta negativa, pubblicarle. Marco allude anche a molti trafiletti di stampa bocciati dai social, più pronti a scatenarsi per le baruffe politiche. Tipo fatti internazionali, cambiamento climatico e mafia/antimafia. Se gli si domanda un esempio di notizia da Pocket Press, cita le proteste studentesche di Hong Kong, coperte dai media italiani per due settimane e poi basta, con il risultato che quando c’è stato l’attacco più duro delle Triadi contro gli studenti non se n’è parlato, e nemmeno quando è stato occupato il parlamento.

“Ogni giorno”, spiega, “guardo gli stessi 4–5 siti, come CNN e South China morning post, suggeritogli da un amico italiano che lavora a Hong Kong, “una specie di mio inviato speciale”.
Fa due edizioni, ognuna con una notizia. “Come si dice, agli orari dei pasti”. Se poi gli chiedete se non trova che oggi la stampa stia dando sempre più spazio ai temi green, Marco vi risponde che di ambiente si parla solo se c’è Greta Thunberg o se i giovani fanno gli scioperi del venerdì. Ma, per esempio, nulla si è detto del più grande parco eolico d’Africa costruito in Kenya, che fornisce al paese il 70 per cento delle energie. Notizia che sui media stranieri “ha trovato enorme spazio”. O di quel che sta facendo Bolsonaro contro la foresta amazzonica.

Marco ne ha anche per come è stato coperto l’ultimo rapporto annuale della Dia, a proposito del capitolo camorra–minorenni o anche, in Lombardia, di quello dei roghi dei rifiuti. O per il lungo disinteresse verso la vicenda di Silvia Romano. Come andrà l’avventura di giornalista solitario non sa dirlo, ma i primi riscontri lo fanno ben sperare. Pensa a un target giovane, tra 18 e 35 anni, il mondo che s’informa con i social. Perché, oltre ai social–gabinetto e alla twitter–politica, “ci sono anche i social che fanno cultura”. Ha ragione: mai più pensieri vandeani, parola d’onore.

P.S. Marco Colombo è stato mio allievo. Trovarselo in rete lanciato nell’impresa senza averne mai saputo prima, mi ha inorgoglito. Che volete farci, “sono soddisfazioni”…

Donazioni di organi: la legge è monca

Diffondere la cultura della donazione degli organi è un dovere. Ma dopo 20 anni dall’approvazione della legge 91, che dispone il prelievo e il trapianto di organi e tessuti, manca ancora il decreto attuativo per consentire alle aziende sanitarie locali di notificare ai propri assistiti la richiesta di dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione. Senza questa comunicazione non si può considerare il silenzio come assenso (sempre previsto dalla legge). A sollevare la questione è Michela Rostan (Leu), con un’interrogazione parlamentare al ministro della Salute. Un gruppo di pazienti dell’ospedale Monaldi di Napoli in attesa di un trapianto d’organi ha lanciato una petizione su Change.org per chiedere lo sblocco della legge. “Oggi si può dare il consenso alla donazione al rinnovo della carta d’identità in Comune – ricorda Massimo Cardillo, direttore del Centro nazionale trapianti –. Contro le resistenze culturali soprattutto al Sud serve una campagna di comunicazione”. Oggi per ricevere un cuire (Organo salvavita, insostituibile) si aspettano oltre 3 anni; per il fegato, oltre 4.