Se partiamo dalla fine, Mario Alberto Kempes è colui che allenò il Fiorenzuola e il Casarano, non proprio il passo d’addio che, in assenza del gatto, eccita i topi d’archivio. Se viceversa partiamo dall’inizio, Mario Alberto Kempes è Carlos Aguilera, lo pseudonimo che, timido, scelse per onorare un provino che organizzava l’Instituto di Cordoba. Aveva 17 anni, e il suo nome circolava già: non voleva scorciatoie. Kempes. Uomo di sinistro, numero dieci. Capellone e baffi ondivaghi. Palla al piede, non certo un ergastolano. Via col vento. Via dal vento, “quello”: del colpo di stato, dei desaparecidos, di Jorge Rafael Videla, il “jefe” di una banda sanguinaria che volle il Mondiale del 1978 per nascondere e barattare le torture con l’enfasi della distrazione di massa: a patto che si vincesse. Vinsero. Benito Mussolini, nel 1934, aveva usato il calcio come adrenalina; i generali di Baires lo avrebbero impiegato come oppio. Il 24 marzo 1976, quando la cricca prese il potere, il Paese venne oscurato e isolato. Ma una “cosa” alla televisione fu lasciata: Polonia-Argentina 1-2, amichevole da Chorzow. Che la trasmettessero pure. E Kempes c’era.
Avrebbe voluto chiamare Natasha una delle figlie, raccontò al giornalista Martin Mazur. “Troppo russo”, gli risposero in comune. I militari non scherzavano. E così ripiegò su Magalì. Ma non si arrese, e a tiranni deposti nacque Natasha, finalmente: la terza.
Capocannoniere, passerà alla storia per essere stato l’unico, dei giocatori della Nazionale, a non aver dato la mano a Videla nella baraonda che seguì la vittoria sull’Olanda, nella gran finale diretta dal nostro Sergio Gonella, pace ai triboli suoi. Tre a uno il verbale della zuffa, con doppietta di Kempes. Il papà è tedesco, Mario Quemp; e la mamma, Teresa Chiodi, italiana di origine. Mario Quemp sbarcò in Argentina subito dopo la seconda guerra mondiale e diventò Kempes. Potenza delle storpiature. Il figlio è un cavallone di 1,82 che ha bisogno di spazio per domare il tempo. Dribbling, progressione, malizia: e mai un rosso.
Fu Omar Sivori, commissario tecnico in una delle sue mille vite, a farlo debuttare. Sono stati tre, i Mondiali di Mario. E sempre con l’Italia di mezzo: nel 1974, a Stoccarda, finì 1-1; quattro anni dopo, al Monumental di Buenos Aires, 1-0 per noi, gran gol di Roberto Bettega; nel 1982, al Sarrià di Barcellona, 2-1 per gli azzurri di Enzo Bearzot. Non aveva più il dieci, Mario. Lo aveva ceduto a Diego Maradona. Il “Vecio” piazzò Claudio Gentile sul Pibe e Marco Tardelli su Kempes, che César Luis Menotti aveva arretrato sicuro che, con più campo, avrebbe seminato i radar, e i tacchetti, degli oppressori. Non fu così.
L’anno è il 1978. Ci sfiorammo durante il Mondiale, chi scrive seguiva l’Italia, di stanza all’Hindu Club con la Francia di Michel Platini, non ancora re e non ancora sole ma già allegro rompiscatole. Kempes è l’unico “straniero” della Nazionale. Alfredo Di Stefano l’aveva suggerito al Valencia: insieme, si sarebbero arrampicati fino alla Coppa delle Coppe del 1980. Nella finale dell’Heysel – ebbene sì: l’Heysel di Bruxelles, già fatiscente e decadente – il Valencia superò l’Arsenal di Liam Brady ai rigori. Per non annoiarsi, il destino spinse proprio loro, Kempes e Brady, a sbagliare dal dischetto.
Il capitano, alla vigilia, era Jorge Carrascosa detto il lobo, il lupo. Si chiamò fuori per protesta contro il regime, la voce si diffuse nonostante tutto e nonostante “molti”. I gradi andarono a Daniel Passarella. Dalla lista, in extremis, venne escluso Maradona. Era già un genio ma non aveva ancora 18 anni. Menotti non se la sentì. Per parlare di Kempes, non si può non coinvolgerlo: “Non giocate per quei figli di puttana, giocate per il popolo”, disse il Flaco comunista e idealista.
La soluzione del dramma, il dramma della soluzione: vincere per il popolo significava vincere per i suoi aguzzini. Comincia in sordina, Kempes. Troppo esterno, un Picasso in cantina. Zero gol contro l’Ungheria, zero contro la Francia, zero contro l’Italia. Tutto cambia dalla seconda fase, sempre a gironi. Menotti lo toglie dalla fascia e lo sistema dietro Leopoldo Luque, il centravanti. Due gol alla Polonia, due al Perù in quel famigerato 6-0 che boccia il Brasile e sfonderà l’epica con la forza d’urto della scandalosa “marmelada peruana”. E un paio, soprattutto, all’Olanda del calcio totale, l’Olanda di Ernst Happel ma non più di Johan Cruijff, ritiratosi all’ultimo momento. Chi dice per l’ossessione di un rapimento, e chi per protesta anti dittatura.
Sono due i gesti, di quella ordalia, che resteranno nei secoli. Il primo è un tiro di Rob Rensenbrink che rimbalza sul palo agli sgoccioli del 90’. Kempes ne è testimone lontano, atterrito, impotente. Il gol batavo avrebbe sabotato la storia di un golpe, non solo la cronaca di una partita. E poi il secondo, nel cuore concitato della premiazione che, sotto un bombardamento di coriandoli, mascherava ben altri “bombardamenti”. Sfilarono ebbri, capitan Passarella alzò la coppa, tutti cercarono la mano di Videla. Tutti meno uno. Lui, il Matador, come recita il titolo della sua biografia. Ha girato mezzo mondo, dall’Albania alla Bolivia, ci ha lasciato 347 gol in 634 gare, oggi ha 65 anni, vive in Connecticut e commenta il calcio per Espn, sei by-pass dopo.
“Nella calca non l’avevo proprio visto”, si giustificò. C’era ressa, sì, ma era impossibile evitarlo. Le mani di Videla e Kempes non si incontrarono mai, e nemmeno le mani di Kempes e la coppa. Viceversa, si incontrarono il tiro di Rensenbrink e il palo. Tornò a casa, a Cordoba, la notte stessa. La mamma si spaventò: “Ma che ci fai qui?”. “È finito il Mondiale, sono venuto a dormire”.