Gestione del risparmio: patrimoniale occulta di un’industria parassitaria

Bancari e promotori finanziari le provano tutte per dissuadere i risparmiatori dal tenere i soldi fermi sul conto. Questo gli impedisce infatti di addebitargli commissioni, provvigioni, caricamenti ecc. Hanno perciò cercato di spaventarli col rischio del bail–in, poi con l’inflazione, quindi col rischio di fantomatici controlli fiscali sui conti non movimentati. Sono ricorsi pure alla mozione degli affetti: il denaro dev’essere investito per rilanciare l’economia, ridurre la disoccupazione, insomma per salvare la patria. Ma niente! Gli italiani bruciati da azioni e obbligazioni azzerate, certificati andati a picco e diamanti strapagati hanno mangiato la foglia.

Al che i sedicenti consulenti finanziari ne hanno pensata un’altra: bisogna mettere in fretta i risparmi in fondi comuni, per sfuggire a un’imminente imposta patrimoniale. Anche questa è una frottola.

Il famigerato prelievo dello 0,6% del Governo Amato nel 1992 è un evento irripetibile nella stessa forma. Dovesse essere deliberata un’imposta straordinaria, comunque politicamente quanto mai difficile da far digerire ai risparmiatori/elettori, non si limiterebbe ai conti correnti. Sia perché così raccoglierebbe troppo poco, sia per evidenti motivi di equità e soprattutto di costituzionalità che imporrebbero di estenderla ai principali impieghi del risparmio: fondi, gestioni, immobili ecc. D’altronde l’attuale patrimonialina dello 0,2% annuo, ipocritamente chiamata imposta di bollo, colpisce fondi comuni, gestioni e valori mobiliari vari. Ma non la liquidità.

Piuttosto è il caso di rigirare la frittata. Già ora moltissimi risparmiatori italiani pagano un’imposta patrimoniale ben più pesante di quella di Amato. Fondi, polizze, piani pensionistici, gestioni ecc. gli sottraggono una percentuale nell’ordine di un 2% annuo, come risulta da varie ricerche, persino della Banca d’Italia che è tutt’altro che ostile al risparmio gestito. Quindi ogni anno pagano il triplo del prelievo del Governo Amato, solo che spesso non se ne accorgono, per la scarsa trasparenza del settore. La direttiva comunitaria Mifid2 dovrebbe migliorare le cose, ma è tutto da vedere.

Molto opportuno quindi liquidare senza indugio quanto tenuto in fondi comuni, polizze e gestioni varie e spostarlo su impieghi dove l’industria parassitaria del risparmio gestito non possa raschiare nulla. Riportarlo quindi su conti correnti e libretti, tassati al massimo 34,5 euro l’anno qualunque sia la cifra giacente, sui buoni fruttiferi postali o decisamente in banconote.

Autonoleggio, il lungo viaggio tra clausole e costi nascosti

Ancora una sanzione dell’Antitrust nel settore dell’autonoleggio. Questa volta a essere multata per 250mila è stata la società B-Rent, accusata di aver richiesto il risarcimento di danni non dovuti o di importo superiore a quelli periziati. Secondo il garante per la Concorrenza e il Mercato, al momento di concludere il contratto di noleggio, la B-Rent avrebbe addebitato sulle carte di credito “importi ingiustificati a titolo di rimborso per danni riscontrati sulle autovetture noleggiate per spese amministrative di gestione pratica danni e per oneri ferroviari”. Inoltre, “in caso di danni, come da contratto, al cliente sarebbe stato addebitato un importo proporzionale ai danni arrecati con la franchigia”. Un pratica commerciale bollata, quindi, come scorretta e che non è affatto nuova. A febbraio 2017 l’Antitrust ha multato con 3,5 milioni di euro Goldcar e Firefly perché cercavano di convincere i clienti ad acquistare dei servizi accessori, presentati come assicurativi, proponendo in cambio una riduzione significativa del deposito cauzionale richiesto. Ad agosto 2017, l’Autorità ha sanzionato per 1,7 milione di euro sia Locauto Rent che Maggiore Rent: imponevano di lasciare un’onerosa cauzione, tale da esaurire la disponibilità della carta di credito del cliente o addirittura superarla o, in alternativa (ma praticamente obbligatoria), acquistare un’assicurazione.

E ancora. Nel 2018 GoldCar ha pagato 680mila euro per aver quasi minacciato al desk i clienti, contestando danni inesistenti e addebitando importi mostruosi sulle carte di credito usate a garanzia. Il meccanismo (ovvero la fregatura) è chiara. Le compagnie richiedono il pagamento dell’intero noleggio, più il versamento di una cauzione per coprire tutti i rischi non coperti dalle assicurazioni stipulate dal cliente. L’importo viene bloccato sulla carta di credito, ma nascono problemi se il cliente non ha a disposizione una cifra sufficiente a garantire il deposito. Dato che le cauzioni sono sempre piuttosto alte, per diminuirne l’importo le società propongono l’acquisto di garanzie che riducono o eliminano la franchigia. Una voce a cui bisogna sempre prestare la massima attenzione, per non pagarne a carissimo prezzo le conseguenze.

L’assicurazione base dell’auto copre, infatti, solo i danni o il furto a partire da una certa somma, mentre la differenza viene richiesta e addebitata automaticamente al cliente. Semplificando, con una franchigia di 500 euro e un’auto noleggiata che subisce un danno di 1.000 euro, i primi 500 euro devono essere pagati dal guidatore, gli altri 500 sono a carico del noleggio. Insomma, tra costi aggiuntivi a sorpresa, strani calcoli sul carburante, imposizione di polizze accessorie spacciate per obbligatorie e totale mancanza di trasparenza prendere un’automobile a noleggio significa avventurarsi in un vero percorso a ostacoli a cause delle agenzie che spesso impongono condizioni sfavorevoli e ingiuste. Un pericolo a cui potrebbero essere esposti circa 2 milioni di turisti che nei mesi estivi noleggeranno un’auto, secondo la stima di Aniasa (la Confindustria dei servizi di mobilità). Un settore, quello del noleggio a breve termime, che nel 2018 ha generato un giro d’affari di 1 miliardo e 229 milioni di euro, pari a 5,3 milioni di noleggi dalla durata media di 6,8 giorni.

Eppure, da questa estate le cose dovrebbero andare meglio dal punto di vista della trasparenza e della sicurezza. Su spinta della Commissione europea, le 5 compagnie leader del settore – Avis, Europcar (di cui ora fa parte anche Goldcar), Enterprise, Hertz e Sixt – hanno modificato le modalità di presentazione delle tariffe di autonoleggio, rendendole completamente trasparenti per evitare che non ci siano più sorprese sgradite al momento della riconsegna di un’auto presa a noleggio.

Del resto non c’è nulla di più frustrante di una vacanza che comincia con costi extra, non preventivati e contratti complicati da leggere. Le compagnie di autonoleggio si sono, quindi, impegnate a includere tutti gli oneri nel costo totale della prenotazione (il prezzo indicato sul sito Internet corrisponderà a quello finale da pagare) che includono anche gli extra, come il rifornimento di carburante, tasse aeroportuali e supplementi “per giovane conducente” o “per riconsegna in altra località”;il consumatore dovrà ricevere informazioni precise sul chilometraggio incluso, sul carburante, sulle norme di cancellazione, sul deposito della cauzione; le società devo spiegare bene costi e dettagli dei supplementi facoltativi, in particolare delle clausole assicurative che riducono l’importo dovuto in caso di danni.

Infine, in caso di acquisto di un’assicurazione supplementare o di un’ulteriore copertura per danni deve essere chiaramente indicato ciò che è escluso o incluso prima che il cliente apponga la propria firma sul contratto.

Sagan, ciclista selfie&sorrisi. Addio alla pedalata tragica

M’impegno e m’impenno: cioè Peter Sagan, il più rivoluzionario dei corridori in bicicletta. Conquista tre titoli mondiali consecutivi: suggella i trionfi con l’impennata. Come Valentino Rossi, il centauro. Infatti, Vale è uno dei suoi idoli. Un giorno Peter l’ha confermato: “Voglio divertire il pubblico come lui”. Una foto di fine luglio lo ritrae in bermuda sotto la doccia. Con bici impennata.

Festeggia la settima maglia verde del Tour, nessuno come lui, dal 1953, da quando è stata istituita la classifica a punti. Nemmeno Eddy Merckx, che la vinse tre volte.

Al Tour di quest’anno, Sagan ha impennato in arrivi estremi. Alla cronometro di Pau, nel finale incattivito da uno strappo secco. Pubblico in delirio, organizzatori felici, sponsor in sollucchero. Non i puristi del ciclismo tradizionale. Ma la clip furoreggia su YouTube. La tappa successiva, traguardo in cima al micidiale Tourmalet. Peter replica. Non importa se arriva ventisei minuti dopo il vincitore Thibaut Pinot. Nell’ultimo tratto la strada s’impicca al cielo, la ruota davanti pure. La folla lo osanna. Lui saluta come un divo del cinema sulla passerella di Cannes. È il copione delle sue innumerevoli vittorie (114), comprese dodici tappe del Tour. Non a caso lo chiamano Tourminator. È d’indole generosa. Un ragazzo l’ha rincorso ed affiancato durante uno scollinamento. Teneva in mano la biografia del campione. Nell’altra mano, un pennarello. Sagan ha rallentato, ha autografato il libro. Stanco, ma sorridente: “La mia energia viene dai bambini e dai giovani che mi incitano”. È un adulto che non dimentica di essere stato ragazzino vivace. Una volta è saltato con la bici sul tetto di un’auto. Un’altra, ha risalito una scalinata a pedali.

È un istrione. Basta guardare i suoi video. Interpreta gli eroi del cinema, si traveste da Forrest Gump, Rocky, il Gladiatore. Fa il John Travolta di Grease nella scena dell’innamoramento. In realtà, corteggia l’ex moglie Katarina. Da cui ha divorziato, annunciandolo su Facebook. Oh, certe volte esagera. Come il giorno che sconfisse in volata il campione svizzero Fabian Cancellara. Era il terzo successo di seguito al Tour. Fece l’urlo di Hulk. L’altro nickname di Peter Sagan.

Insomma, questo sarà pure l’anno del centenario di Fausto Coppi. Che è poi la celebrazione di un ciclismo nostalgico e mitologico. Galleria di campioni dai volti scavati. Gregari annichiliti da fatiche immonde. Musi lunghi. Sguardi antichi, come la povertà. Quando la bicicletta era il mezzo di trasporto più economico e il ciclismo una fuga dalla miseria. Ma è anche l’anno della consacrazione di Peter Sagan. Che ha rotto questo copione. Ha spostato i confini del ciclismo. Contestando non l’epoca ma l’epica della sofferenza. Ha mixato la creatività di uno Youtuber e lo stile del Millenial. Giacomo Pellizzari gli ha dedicato un libro, dall’azzeccato titolo: Generazione Peter Sagan (edito da 66thA2ND, 15 Euro).

Dice Pellizzari: la bicicletta è cosa seria, la fatica non si cancella con un clic. Bisogna sempre seguire regole spesso severe. Al traguardo si arriva preferibilmente esausti. Tutto ciò è l’immagine (e la sostanza) del ciclismo tradizionale. Sagan, irriverente icona pop, secondo Pellizzari, ribalta l’estetica del ciclismo abitato da “campioni scorbutici che rifiutano parole superflue” (lo diceva Giovanni Arpino di Gimondi e Merckx). E ribalta i suoi canoni.

La bici è cool. Pedalare stanca, ma è una stanchezza di moda. Fa figo, insiste Pellizzari: come lo sci degli anni Settanta. “Bike is the new golf”. Pellizzari di bici e di corridori se ne intende: è stato direttore editoriale di Bike Channel, il canale Sky dedicato alle due ruote, scrive per la rivista Cyclist e per l’americana Peloton magazine. Ha un blog e pedala da sempre. Nella retorica “classica”, il ciclismo è il tempio degli eroi solitari, resi immensi dalla sofferenza e dal dolore degli sforzi. Ed è così che resiste nella memoria collettiva. Ci ricorda di quando il nostro era un Paese povero, quando la bicicletta era il mezzo di trasporto più economico. Correndo, andavi in fuga dalla miseria. Vigeva il comandamento dell’umiltà. L’ultimo di questi eroi, ricorda Pellizzari, è stato Marco Pantani. Corridore antico sacrificato ad una malintesa modernità. Sagan ha rimosso la figura del corridore azzannato dalla sofferenza, “creatura tragica” spesso anche fuori della corsa (come lo fu Coppi). Ha sovvertito i pregiudizi sul ciclismo, e su chi soprattutto lo pratica. Vuol dimostrare che esiste un ciclismo lontano dalla narrazione dolorosa “classica”. Come Sagan, la pensa un popolo sempre più numeroso di ciclisti rock. Il popolo di Instagram e YouTube, dei social network, delle community urbane per i quali Sagan è un profeta e andare in bici un fenomeno “aspirazionale”. Con una pecca: il ciclismo è diventato anche (purtroppo?) uno sport da selfie.

Tutti pazzi per Cayard. Tranne me

La leggenda del Moro continua, sono nella terrazza dell’Hilton dove sto seguendo tutte le regate del Moro grazie allo skipper Pino, un ragazzo noiosissimo, di quelli che parlano solo con termini marinareschi: “Strulla la frampa, cazza la randa, gira la primpa!”. Secondo me non è neanche uno skipper, ma uno skiapper. Pensavo che il narcisismo fosse una disfunzione professionale degli attori, mi sbagliavo, si adatta anche agli uomini di mare. Specie quelli che non devono guadagnarci il pane con il mare, ovvero i velisti da weekend. Lui mi parla di stralli volanti e io cedo a un torpore immediato. Che palle. Intanto il presentatore magnifica le gesta del Moro: “Paul Cayard è riuscito a mettere tra sé e gli avversari almeno due miglia marine. Il genio delle regate non si sente assolutamente minacciato da nessuno, le altre barche sono molto più lente della sua e gli avversari faticano a trovare una strategia”. E ti credo! Hanno il prodiere turco, l’uomo albero spagnolo, il timoniere norvegese, come fanno a capirsi questi? E poi come si dirà “cazza la randa” in norvegese? Boh. Paul Cayard sarà un genio, e la barca sarà bella per carità, gloriosa e ricca, piena di soldi, ma seguire per notti intere le gare di vela mi ha sfiancato. Ma ci sarà una poltroncina per Raul Gardini? Certo che il percorso di gara è impossibile da capire sullo schermo, non c’è la pista, non ci sono corsie, ma dei segnacci immaginari. Vorrei ci fosse uno striscione con scritto “arrivo” da qualche parte. Ma il Moro di Venezia non era Otello? Quello sì che mi piace; quanto vorrei fare Desdemona. Le voci dello speaker e di Pino detto ufficialmente skiapper si mescolano con le frasi di Shakespeare: “Addio stendardi colorati… addio prue strimbate… addio cime tempestose. Addio!”. Vivaddio è finita la regata. Posso dormire.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

La grande bugia: vero è solo il “politicamente scorretto”

Specialmente coloro che da giovani hanno consultato Walter Lippmann ogni volta che volevano trovare un filo e una spiegazione, nei momenti complicati della storia che abbiamo vissuto, prenderanno in mano questo libro (Walter Lippmann, Il grande vuoto, Governare è un’arte? Edizioni di Comunità) con nostalgia e rimpianto.

La nostalgia è dovuta alla fine di un privilegio. Coloro che si avventuravano nel percorso dell’analisi della politica e del giornalismo come narrazione seria e attendibile degli eventi di Stato e di governo, sapevano che avrebbero trovato in Lippmann, nei suoi articoli settimanali, nei suoi famosi e attesissimi saggi, nei suoi libri come questo, nelle conversazioni lunghe e puntigliose che era sempre possibile avere con lui, una guida lucida che era, nello stesso tempo ordinata e profetica. Ovvero sapeva domare la frenesia del caos del suo tempo (del nostro tempo di allora) per svelare ciò che avrebbe potuto nascondere, un dopo che raramente era rassicurante. Ma era chiaro. E di questo, la chiarezza ordinata che lui sapeva portare nei grovigli della storia, era maestro. Il rimpianto è ovvio e incurabile. Ma la nostalgia è inutile. Lippmann si confrontava con il disordine naturale della storia.

Noi stiamo vivendo in un’epoca di costruzione accurata e minuta del falso come verità alternativa, di un fenomeno inedito e a prima vista impossibile che è il grande caos organizzato, la post verità, la finzione (e dunque la lotta e la condanna) del “politicamente corretto” come stivaletto malese della realtà. Ovvero come modo di negare la verità. Lippmann, come accade a Bergoglio sull’uso ciarlatano di santi, madonne e preghiere, avrebbe detto il suo sdegno. Avrebbe rigettato con motivazioni logicamente indistruttibili, l’affermazione secondo cui il contrario del “politicamente corretto” è la verità. La verità e basta. La verità senza qualifiche, la verità che è tale solo perchè così dice il tuo guru, maestro, capo politico e illusionista. In questo senso il titolo del libro di Lippmann nella nuova edizione di Comunità, Il grande vuoto, è un titolo che disegna il presente e prevede il futuro.

Nell’epoca in cui stiamo vivendo (certo in Italia) lo sgombero delle case – per creare cortei notturni di adulti e bambini senza casa e senza destinazione – e l’abbandono dei migranti a morire in mare (con occasionali salvataggi a cura di persone normali che si trovino a passare accanto a un annegamento di massa) non sono eventi fortuiti o dovuti a qualche triste necessità. Sono la politica, la sola politica che questi politici conoscono. Nessun Lippmann, per quanto maestro, la può interpretare. Può solo opporsi, con dignità e furore.

Deserto Sud: case ad un euro invendute. Giovani fuggono, stranieri non restano

L’emigrazione, non l’immigrazione, è la vera emergenza. Lo Svimez – il centro studi per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno d’Italia – ha calcolato in due milioni di anime la fuga dal Sud e il conseguente percorso di desertificazione. L’emigrazione di oggi è una piaga ben peggiore di quella che ebbe a svuotare il Sud a cavallo degli anni ’60 e ’70 perché i lavoratori espatriati, per la prima volta, non ripagano i territori che hanno dovuto lasciare con le loro rimesse. Non un solo soldo di chi è in fuga arriva nei luoghi da dove s’è dovuto andare via. E il ricongiungimento familiare – lo ha ben raccontato in questo giornale Antonello Caporale con la sua Valigia di Cartone – non riguarda più solo il coniuge, bensì adesso anche i genitori che vanno a raggiugere i loro figli al Nord, o all’estero. La vera autonomia differenziata è spiegata nella desolazione del Sud.

Emanuele Lauria in un suo reportage per Repubblica da Villapriolo, nell’entroterra siciliano, affidava a Emma – una bimba di cinque anni, l’unica iscritta all’asilo – “la frontiera anagrafica zero”.

A Villapriolo, infatti, in tre anni, da mille residenti censiti ne sono rimasti in 450. L’Imu e la Tari – le imposte sulle case – sono solo una beffa su mura e tetti svuotati di vita e non abita più nessuno in tutta la grande provincia meridionale. Per ogni estate in cui tutti gli emigrati tornano al paese, di tutta quella vita che fu, c’è sempre un pezzetto in più a mancare. Chi è proprietario – ormai solo di struggenti malinconie, non certo di ricchezze – deve farne ruderi delle proprie case e togliere fino all’ultima sedia per evitare di pagarne l’allaccio idrico ed elettrico. La famosa fiscalità di vantaggio messa in atto dal governo – quella di consentire agli stranieri di prendere residenza al Sud, senza detrazioni nelle loro pensioni sociali per godersela interamente – è lettera morta. Neppure sanno darne notizia i governanti visto che in paesi bellissimi del Sud dove le case sono in vendita al prezzo di “un” euro “uno” ancora non si sono presentati questi danarosi vecchietti in cerca di sole, ottimo cibo, paesaggi e dolce vita. Non c’è manco bisogno di studiarla tanto la questione, basta una solo fotografia – scattata da Capo Vaticano, dalle Madonie o dal Salento – per veicolare un semplice concetto degno della sublime paesologia di Franco Arminio: “Abitiamo dove per voi, a essere fortunati, può capitarvi di stare una sola settimana di vacanza nella vita”. Porgere questa immagine è un capovolgimento, forse, del dato di realtà: i luoghi suddetti sono gli stessi dell’abbandono.

Il PIL, infatti, al Sud è zero, anzi, sotto zero. Due milioni di persone se ne sono andate via da quei luoghi che sono assoluto paradiso. Sembra impossibile ma, dati alla mano, la Sicilia dell’immediato dopoguerra – e ci si riferisce a un territorio che venne militarmente “occupato”, non “liberato” – generava un motore economico e commerciale, e dunque un “prodotto interno lordo”, superiore ai numeri di appena cinque fa.

Sembra un assurdo essere arrivati a questo cimitero sociale ma come a Palazzo Adriano, così a Catanzaro o a Mondragone, non c’è più la popolazione attiva – le giovani generazioni, forti di competenze, se ne vanno via – e c’è da impazzire quando di fronte a questa evidenza corrisponde la totale indifferenza della politica. Come pure del dibattitto culturale. Non è glamour andare a studiare il Sud, non c’è abbastanza fashion per una qualunque Greta (o, nel suo epigono russo, un’Olga).

Salvini lavora in ciabatte: “Il decoro è passato di moda. Rimpiango l’austero preside”

 

Cara Selvaggia, ricordo bene gli ultimi giorni di liceo. C’era l’ansia per gli esami incombenti, vero, c’era pure il burrone del futuro ignoto davanti a me, vero anche questo, ma c’era soprattutto un caldo infernale. Era un giugno caldissimo e siccome la mente ancora non poteva andare in vacanza, ci sembrava legittimo farci andare almeno il corpo. Pertanto successe che, un tal giorno, qualcuno di noi compagni di classe si presentò a scuola con un abbigliamento leggermente vacanziero, ma niente di eccessivo. Qualche pantalone corto, qualcuno con le infradito, ci scappò pure una canottiera. Il preside, un anzianissimo uomo di scienza che non avrebbe rinunciato alla cravatta nemmeno per andare in bagno, irruppe in classe a metà della lezione di matematica con gli occhi fuori dalle orbite paonazzo in volto. Con il suo lessico distinto pieno di manierismi dei tempi andati, ci riempì di educati insulti, con un lungo discorso sul decoro, sul rispetto delle istituzioni, sull’opportunità dell’abbigliamento sul posto di lavoro, perché la scuola era il nostro tanto quanto il suo. Aveva negli occhi una luce strana, quella di chi ha una missione a cui ha votato la vita. Ci impressionò? Certo che no, eravamo quattro “coglioncelli” di diciotto anni che non vedevano l’ora di abbandonare quel posto di dolore. Ti risparmierò pure la retorica su quanto questo insegnamento mi abbia negli anni formato come uomo, perchè sinceramente quest’episodio era andato perduto nei nodi della memoria. Mi è tornato in mente solo pochi giorni fa, quando ho visto il Ministro dell’Interno con una camicia sbottonata e le infradito tenere una conferenza stampa presso uno stabilimento balneare. Quando l’ho visto entrare a torso nudo in un ufficetto improvvisato a bordo spiaggia, che visto il tempo che passa al Viminale credo di poter considerare a tutti gli effetti l’ufficio del Ministro dell’Interno. Quando, insomma, ho visto lo Stato rappresentato senza decoro, senza l’opportunità di un rappresentante delle istituzioni, senza rispetto delle stesse. Sono io ad esser diventato un bacchettone a cinquant’anni? Non lo so. Ma sono felice che il mio vecchio preside sia morto, nel frattempo, perchè sono convinto che se l’avesse visto anche lui, adesso, proverebbe un dolore ancora più grande. Perchè gli uomini passano, ma la cosa pubblica resta. E vederla calpestata in costume da bagno e ciabatte, sinceramente, fa male anche a me. Pensa a lui.

Sergio

 

Caro Sergio, io invece vorrei che il tuo vecchio preside canuto fosse ancora vivo. Da come lo descrivi, colto, elegante e con un profondo senso delle istituzioni, sembrerebbe proprio qualcuno di cui abbiamo drammaticamente bisogno.

 

Il “benaltrismo”: la malattia infantile dell’Italia in declino

Ciao Selvaggia, osservo la regressione di questo paese come fosse un unico corpo umano. Mio malgrado il troppo tempo speso sulle pagine del Leviatano di Thomas Hobbes, per cui lo stato è un organismo e i cittadini le sue membra, mi ha portato a interiorizzare quest’immagine ma ammetto che oggi si presta davvero bene. Il paese regredisce, torna bambino e che cos’è che fanno i bambini? Mentono, certo, dicono un sacco di bugie. Si fanno la cacca addosso, e questo ci viene abbastanza bene. Nulla gli impedisce di usare termini impropri verso il prossimo, beata innocenza, chiamando “ciccione” un amico sovrappeso o “zingaraccia” un’appartenente a un gruppo etnico. No, forse zingaraccia un bambino non lo direbbe, ma non è questo il punto. Il punto è che una delle caratteristiche più divertenti di infanzia e adolescenza è il grande “benaltrismo”. Mio figlio ne è tuttora un campione. “Hai preso 5 in matematica, brutto disgraziato?”, “Si mamma ma Filippo ha preso 4 e Alberto 3”. “E ’sticazzi di Filippo e Alberto!” è la risposta standard con cui mio figlio ha imparato cos’è il benaltrismo, e la sua soluzione: “sticazzi”. Il benaltrista ha bisogno di un’autorità che gli faccia notare come l’esistenza di un problema non ne esclude un altro, e che l’emergere di un nuovo problema richiede che si affronti anche se ce n’è un altro in sospeso. Ma nel nostro Paese bambino l’autorità, sempre incerta nell’arginare il fenomeno, ha finito per diventare benaltrista essa stessa, e quindi i figli sono addirittura incoraggiati. In questi giorni è tutto un “parlateci di Bibbiano” e un “parlateci di Mosca”, come tu facevi notare, ma sono già tanti anni che di fronte a un fatto noi italiani preferiamo guardarne un altro, in una spirale senza senso. E non è un discorso impersonale. È il discorso di mia suocera, che quando porgo qualche moneta al mendicante di colore fuori dal supermercato rimbrotta ricordandomi i disoccupati italiani. È mio padre che al bar, ogni tanto, “dimentica” di scontrinare qualche caffè perché l’evasione fiscale è ben altra cosa. È la mia vicina che butta la plastica nell’indifferenziata sostenendo che sono ben altre le cause del disastro ambientale. E forse sono anch’io, che di fronte a tutto questo penso che sia ben altro problema il “prima gli italiani” di tutti questi piccoli spicci di benaltrismo, mentre forse il problema, alla fine, siamo sempre tutti noi, pur con un pessimo padre, ma pur sempre bambini.

Serena

 

Cara Serena, sono ben altri i problemi del popolo italiano, non certo il benaltrismo. Ah no aspetta.

 

Inviate le vostre lettere a:

il Fatto Quotidiano
00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2.
selvaggialucarelli @gmail.com

“Bergoglio ci porta all’eresia”. Ed è subito Pera, il laico clericale

Capita d’invecchiare male e di incattivirsi, soprattutto agli uomini di potere indi caduti nell’inevitabile cono d’ombra alla fine della loro stagione politica. È il caso del filosofo Marcello Pera, già presidente berlusconiano del Senato (in realtà doveva fare il Guardasigilli anti-pm), passato da Popper ai teocon nel volgere di pochi anni.

Adesso Pera ha abbandonato una visione liberale della fede, elogiata e incoraggiata in passato da Benedetto XVI, ed è diventato tout court un clericale cristero, un tradizionalista anti-conciliare. Oppure ancora, per usare un paragone dello stesso Ratzinger, un agostiniano del Terzo Millennio che sceglie la Città di Dio al posto di quella Terrena, dove si inseguono solo il peccato, la carne e il diavolo. Ed è per questo che con un incipit sgangherato, in un suo ultimo intervento sul Foglio del primo agosto, l’ex presidente del Senato va all’attacco di Bergoglio con l’equazione tranchant laici uguali non credenti.

Così viene da chiedersi se nel frattempo Pera abbia conseguito i voti del diaconato, quantomeno quelli del laico consacrato. Giusto per non finire nel girone dei dannati dei maledetti laici. Dunque – per argomentare la decisione francescana di “cancellare” l’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia, che tanto scandalo ha destato tra i clericali di destra – l’ex popperiano e teocon accusa di eresia Francesco, allineandosi ai ribellisti salviniani guidati dal cardinale americano Burke: “Personalmente, assai preoccupato lo sono. Penso che Papa Francesco si sia spinto fino al limite che confina con l’eresia”. A Bergoglio, Pera contesta “l’amore per il prossimo” per un cristianesimo “corretto”.

In pratica, a Pera come agli altri anti-bergogliani, non va giù il Vangelo della misericordia con cui il pontefice argentino ha messo fine all’era ottusa e intransigente della Chiesa con la mera adesione alla Dottrina. La sua è la nostalgia per un Chiesa farisea da cui persino l’emerito Ratzinger ha preso le distanze nel 2014, con una lettera allo stesso Pera. Sintesi di Benedetto XVI: la cultura liberale dei diritti non può essere una tappa verso la perdita della fede in Dio.

Oggi, per Pera, i diritti sono una “tentazione diabolica”.

Foto tra le onde: il vizio borghese di apparire felici. Occhio all’invidia

Un tempo per far sapere alla tua cerchia sociale dov’eri stato in vacanza, e quanto blu fosse il tuo mare, ti toccava almeno fare lo sforzo di invitare le persone a casa, o al massimo portare le foto stampate in ufficio. Oggi no: l’ansia piccolo–borghese di mostrarsi felice (e benestante) tra le onde ha trovato, grazie a Facebook e Instagram, il suo strumento di amplificazione perfetto. Il racconto delle vacanze diventa una piatta, infinita, carrellata di foto: foto tra le onde, foto quando si esce dall’acqua, foto con il cocktail in mano o davanti a una cena di pesce, il tutto in un tripudio di hashtag generalisti – e dunque perfettamente inutili – come “vacanze”, “felicità”, “sole”, o, peggio, “instavacanze o “instafood”. L’esibizione digitale della propria localizzazione all’interno del post non serve a dare un minimo di concretezza geografica, ma solo a mostrare al mondo che si è proprio lì, tutti devono saperlo. Per carità, spiattellare la propria felicità (o meglio, la propria presunzione di felicità) genera consensi, visto che i social network premiano l’eccitazione mentre puniscono pensieri di una qualche complessità o venatura di malessere. Ma pubblicare banali foto da cartolina, tra gridolini e faccine, è l’antitesi di un vero racconto di viaggio, che includerebbe anche informazioni sul Paese in cui si è, la società, la geografia, persino le condizioni ambientali. E dunque, magari, foto di soggetti che non siano se stessi o parenti di primo grado. Ma figuriamoci: la tentazione dell’autoesibizione è comunque troppa e non sia mai che con troppa riflessione sociale il collega pensi che hai avuto vacanze da sfigato. Comunque, un filo d’intelligenza, anzi di furbizia, in più, suggerirebbe un profilo più basso. L’ostentazione sui social scatena l’invidia sociale e il rosicamento collettivo, sentimenti diffusissimi sul web. Andateci piano.

Se Marco Polo usasse internet l’hashtag sarebbe #PechinoExpress

Caelum non animum mutant qui trans mare currunt. Il vecchio Orazio ci ha preso con il carpe diem, ma anche questa non è male: più o meno, “col turismo si cambia panorama, non cervello”. E dire che ai suoi tempi non c’erano né le megacrociere, né i resort, né i social, e i pochi che viaggiavano per diporto erano un’élite colta. Ma già nel I secolo si osservava che le vacanze non ci rendono meno stronzi, semplicemente offrono una diversa e più pittoresca location alla stronzaggine. Parafrasando Orazio, medium non animum mutant quanti postano a raffica le immagini di viaggio che una volta immortalavano in foto e filmini e (dio ce ne scampi) diapositive. Posto che si avrebbe il diritto di seccare il prossimo con il racconto delle proprie vacanze solo se il risultato è il Viaggio in Italia di Goethe o Che ci faccio qui? di Chatwin, tutto sommato è meglio se il bottino iconografico delle ferie di amici e conoscenti ci viene ammannito su Facebook e Instagram, cioè su dispositivi che possiamo spegnere, piuttosto che come una volta, nel corso di un’interminabile serata sul divano, con la testa che ciondola e un sorriso forzato, e guai a disertare, pena la fine dell’amicizia, o perfino dell’amore. La tecnologia ha dato a tutti la possibilità di sfogare la voglia di autocelebrazione, la presunzione di essere tremendamente interessanti, il bisogno disperato di approvazione, prerogativa che una volta era riservata a nobili, re e ricconi, provvisti dei mezzi per pagare scultori, pittori e scrittori leccaculo. Al tempo stesso, la tecnologia ci dà la possibilità di ignorare i pavoni viaggiatori, silenziandoli, bloccandoli o semplicemente ignorandoli. Una cosa è certa: se Marco Polo avesse avuto i social, Il Milione sarebbe stato il numero dei suoi follower su Instagram, dove avrebbe raccontato le sue avventure di viaggio in Cina. Hashtag #PechinoExpress.