Cara Selvaggia, ricordo bene gli ultimi giorni di liceo. C’era l’ansia per gli esami incombenti, vero, c’era pure il burrone del futuro ignoto davanti a me, vero anche questo, ma c’era soprattutto un caldo infernale. Era un giugno caldissimo e siccome la mente ancora non poteva andare in vacanza, ci sembrava legittimo farci andare almeno il corpo. Pertanto successe che, un tal giorno, qualcuno di noi compagni di classe si presentò a scuola con un abbigliamento leggermente vacanziero, ma niente di eccessivo. Qualche pantalone corto, qualcuno con le infradito, ci scappò pure una canottiera. Il preside, un anzianissimo uomo di scienza che non avrebbe rinunciato alla cravatta nemmeno per andare in bagno, irruppe in classe a metà della lezione di matematica con gli occhi fuori dalle orbite paonazzo in volto. Con il suo lessico distinto pieno di manierismi dei tempi andati, ci riempì di educati insulti, con un lungo discorso sul decoro, sul rispetto delle istituzioni, sull’opportunità dell’abbigliamento sul posto di lavoro, perché la scuola era il nostro tanto quanto il suo. Aveva negli occhi una luce strana, quella di chi ha una missione a cui ha votato la vita. Ci impressionò? Certo che no, eravamo quattro “coglioncelli” di diciotto anni che non vedevano l’ora di abbandonare quel posto di dolore. Ti risparmierò pure la retorica su quanto questo insegnamento mi abbia negli anni formato come uomo, perchè sinceramente quest’episodio era andato perduto nei nodi della memoria. Mi è tornato in mente solo pochi giorni fa, quando ho visto il Ministro dell’Interno con una camicia sbottonata e le infradito tenere una conferenza stampa presso uno stabilimento balneare. Quando l’ho visto entrare a torso nudo in un ufficetto improvvisato a bordo spiaggia, che visto il tempo che passa al Viminale credo di poter considerare a tutti gli effetti l’ufficio del Ministro dell’Interno. Quando, insomma, ho visto lo Stato rappresentato senza decoro, senza l’opportunità di un rappresentante delle istituzioni, senza rispetto delle stesse. Sono io ad esser diventato un bacchettone a cinquant’anni? Non lo so. Ma sono felice che il mio vecchio preside sia morto, nel frattempo, perchè sono convinto che se l’avesse visto anche lui, adesso, proverebbe un dolore ancora più grande. Perchè gli uomini passano, ma la cosa pubblica resta. E vederla calpestata in costume da bagno e ciabatte, sinceramente, fa male anche a me. Pensa a lui.
Sergio
Caro Sergio, io invece vorrei che il tuo vecchio preside canuto fosse ancora vivo. Da come lo descrivi, colto, elegante e con un profondo senso delle istituzioni, sembrerebbe proprio qualcuno di cui abbiamo drammaticamente bisogno.
Il “benaltrismo”: la malattia infantile dell’Italia in declino
Ciao Selvaggia, osservo la regressione di questo paese come fosse un unico corpo umano. Mio malgrado il troppo tempo speso sulle pagine del Leviatano di Thomas Hobbes, per cui lo stato è un organismo e i cittadini le sue membra, mi ha portato a interiorizzare quest’immagine ma ammetto che oggi si presta davvero bene. Il paese regredisce, torna bambino e che cos’è che fanno i bambini? Mentono, certo, dicono un sacco di bugie. Si fanno la cacca addosso, e questo ci viene abbastanza bene. Nulla gli impedisce di usare termini impropri verso il prossimo, beata innocenza, chiamando “ciccione” un amico sovrappeso o “zingaraccia” un’appartenente a un gruppo etnico. No, forse zingaraccia un bambino non lo direbbe, ma non è questo il punto. Il punto è che una delle caratteristiche più divertenti di infanzia e adolescenza è il grande “benaltrismo”. Mio figlio ne è tuttora un campione. “Hai preso 5 in matematica, brutto disgraziato?”, “Si mamma ma Filippo ha preso 4 e Alberto 3”. “E ’sticazzi di Filippo e Alberto!” è la risposta standard con cui mio figlio ha imparato cos’è il benaltrismo, e la sua soluzione: “sticazzi”. Il benaltrista ha bisogno di un’autorità che gli faccia notare come l’esistenza di un problema non ne esclude un altro, e che l’emergere di un nuovo problema richiede che si affronti anche se ce n’è un altro in sospeso. Ma nel nostro Paese bambino l’autorità, sempre incerta nell’arginare il fenomeno, ha finito per diventare benaltrista essa stessa, e quindi i figli sono addirittura incoraggiati. In questi giorni è tutto un “parlateci di Bibbiano” e un “parlateci di Mosca”, come tu facevi notare, ma sono già tanti anni che di fronte a un fatto noi italiani preferiamo guardarne un altro, in una spirale senza senso. E non è un discorso impersonale. È il discorso di mia suocera, che quando porgo qualche moneta al mendicante di colore fuori dal supermercato rimbrotta ricordandomi i disoccupati italiani. È mio padre che al bar, ogni tanto, “dimentica” di scontrinare qualche caffè perché l’evasione fiscale è ben altra cosa. È la mia vicina che butta la plastica nell’indifferenziata sostenendo che sono ben altre le cause del disastro ambientale. E forse sono anch’io, che di fronte a tutto questo penso che sia ben altro problema il “prima gli italiani” di tutti questi piccoli spicci di benaltrismo, mentre forse il problema, alla fine, siamo sempre tutti noi, pur con un pessimo padre, ma pur sempre bambini.
Serena
Cara Serena, sono ben altri i problemi del popolo italiano, non certo il benaltrismo. Ah no aspetta.
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