Altro che Mbappé. Il top player è Raiola

Domanda: a voi entusiasma di più un gol segnato a cento all’ora da Mbappè o un arrivo con sgommata in auto di Mino Raiola? Quesito più serio di quanto possa sembrare: specie dopo aver visto l’accoglienza delirante, tipo Beatles anni ’60, che i tifosi della Juventus hanno riservato all’agente il giorno delle visite mediche di De Ligt alla Continassa. Gol o soldi? Detto che gli uni sono strettamente legati agli altri, i 171 milioni che i club di serie A hanno riversato nel 2018 nelle tasche dei procuratori, forse sarebbe stato meglio spenderli per Mbappè: ci avrebbero guadagnato tutti. C’è qualcosa che non va nel calcio e in quello italiano in particolare.

Le commissioni pagate agli agenti, nel 2018, hanno avuto un’impennata del 24%: 138 milioni nel 2017, 171 un anno fa, più della metà elargiti da quattro club, Inter (24,936), Juventus (24,310), Roma (22,979) e Milan (16,713). Esborso inevitabile? Ci permettiamo di dubitarne se è vero che Lotito, presidente della Lazio, a dispetto delle pernacchie che solitamente accompagnano le sue gesta se l’è cavata con poco più di 4 milioni: meno dell’Udinese, del Genoa, del Sassuolo. Detto en passant: Lotito è anche il solo presidente che abbia messo in atto una vera, seria, drastica politica di rottura con le tifoserie ultrà. Altro che chiacchiere e distintivo!

Dice, tutto il mondo è paese; in Premier League nel 2018 i club hanno pagato ai procuratori 260 milioni di sterline (Liverpool primo con 43), cioè circa 300 milioni di euro. Vero. Con la differenza che i bilanci dei club inglesi scoppiano di salute mentre quelli italiani sono colabrodo: i 717 milioni di plusvalenze messi a bilancio dai club di A nel 2018 sono al 75% fasulli, non corrispondono cioè a denaro contante entrato in cassa, e lo sanno tutti.

E insomma, se a questa paurosa bolla da mezzo miliardo aggiungiamo i 171 milioni finiti in tasca agli agenti, vediamo un fiume di denaro che esce per non rientrare mai più. Il tutto mentre le previsioni 2019 tendono al brutto: manca un mese alla fine del mercato ma la Juventus ha già pagato 10 milioni di “oneri accessori” alla mamma di Rabiot, 10,5 a Raiola per De Ligt e a dispetto del sacrificio di De Laurentiis (Napoli) che nel tentativo di non dissanguarsi con gli agenti s’è visto sfilare Pépé dall’Arsenal, il calcolo degli onorari che potrebbero gravare sui futuri affari pensando a Lukaku (Pastorello), Dybala (Antun), Correa (Jimenez), Lozano (Raiola), James, Cancelo e Silva (Mendes), per non parlare di Pogba (Raiola), fa tremare le vene ai polsi.

La classifica stilata da Forbes sulle commissioni ricevute dagli agenti–piranha nel 2018 vede al comando Mendes con 100 milioni seguito da Barnett (79,5) e da Raiola (62,9). Per contenere l’emorragia la Fifa aveva stabilito un tetto pari al 3% dello stipendio lordo del giocatore o del prezzo del trasferimento, ma come si dice, fatta la legge trovato l’inganno: gli agenti hanno aggirato l’ostacolo facendosi pagare l’intermediazione, quindi chiedendo quel che vogliono. L’impressione è che il frontale sia alle porte. Ma nella vita tutto cambia: un tempo ci si esaltava per le 13 Champions vinte dal Real, le 7 del Milan e le 6 del Liverpool, domani ci esalteremo per la sfida a chi guadagna di più tra Mendes, Raiola e Ramadani. Sono loro i nuovi top player. Ognuno ha la bambola gonfiabile che si merita.

Le cicatrici che sanguinano della democrazia tedesca

“Cicatrici di una democrazia che non è ancora all’altezza del proprio stesso ideale”: così, in una conferenza del 1967 che sembra pronunciata ieri, Theodor W. Adorno descriveva il primo emergere nelle elezioni locali tedesche di movimenti nazionalisti come il partito nazionaldemocratico. Adorno additava proprio nell’anacronismo del loro richiamo allo Stato-Nazione la ragione del carattere violento, “demoniaco e veramente distruttivo” di tali movimenti, e additava il passivo atteggiamento “da spettatore” di chi li riteneva un male inevitabile. Da vecchio marxista, egli ne individuava le cause nella concentrazione del capitale in poche mani, nel “fantasma della disoccupazione tecnologica”, nell’odiosa politica agraria europea, nel crescente divario tra città e provincia, nel fascino dell’uomo forte, e nell’arretramento di strati sociali pronti a incolpare non già i veri responsabili del loro declino bensì coloro (le sinistre) che criticavano il sistema che aveva garantito loro un’effimera prosperità.

Cinquant’anni dopo molte analisi di Adorno restano attuali, e non solo per la Germania. Le cronache dell’ultimo anno raccontano dei pogrom di Chemnitz o delle fiaccolate sui monumenti nazisti di Norimberga, degli incendi ai centri di prima accoglienza e delle ronde anti-stranieri, del lupo solitario che per strada ha sparato a un etiope e dell’esaltato che a giugno ha steso un politico dell’Assia “amico dei migranti”. Ma in questo pericoloso ramificarsi delle reti estremiste (inevitabile il richiamo al declino della repubblica di Weimar, che l’11 agosto compie un secolo), un ruolo speciale è giocato dalla parte orientale del Paese, l’antica Ddr dell’era comunista. Un sondaggio ha svelato che il 47% di chi abita nei territori dell’est si sente oggi più “tedesco dell’est” che non “Ttdesco” (all’ovest la percentuale è del 22); il 57% denuncia gravi carenze di medici (27% all’ovest), e non più del 30% coltiva la speranza che la propria terra possa crescere significativamente nel prossimo futuro. A fronte delle grandi promesse fatte trent’anni fa da Helmut Kohl, la riunificazione si è realizzata sotto forma di una mortificante annessione che ha distrutto il 75% dell’industria, ha spopolato e invecchiato la regione, ha svilito il lavoro (un metalmeccanico di Görlitz guadagna la metà di un suo collega di Ingolstadt), e ha decapitato la classe dirigente ingolfando le posizioni di vertice con uomini dell’ovest. È così penetrato negli “Ossis” il sentimento di essere i perdenti in un Paese di successo.

Per combattere la “sindrome dell’amarezza”, a poco valgono i nuovi impieghi pubblici promessi per compensare la chiusura delle miniere di carbone, a poco i parchi eolici sui verdi campi della Turingia, a poco il revamping di una miniera di zinco e wolframio in Sassonia, a poco i tracciati dell’alta velocità Berlino-Monaco che attraversano Erfurt. Ci vorrebbe ben altro per questi cittadini frustrati e sfiduciati, che per il 50% non vanno più a votare, e che in parte soggiacciono alla retorica del “patriottismo solidale” (che finalmente si occuperà dei tedeschi in difficoltà, e non dei migranti), alla retorica della riscossa del popolo tedesco che (parola del leader di Alternative für Deutschland in Turingia, Björn Höcke) deve scegliere tra essere “pecora o lupo”, alla retorica della paura (paura dello straniero, anzitutto: si contempla di creare classi speciali per i bambini immigrati, così da prepararli da subito al ritorno ai loro Paesi).

Ci vorrebbe forse un orientamento ideale (che nemmeno la Chiesa riesce a fornire, pur inalberando sopra le cattedrali manifesti che incitano al voto), ci vorrebbe una educazione ai valori costituzionali. Ci vorrebbe anche una certa compattezza del fronte politico: nel principale partito tedesco, la Cdu, c’è chi (Stanislaw Tillich) già nel 2015 sosteneva che “l’Islam non appartiene alla Sassonia” (nel 2018 l’attuale ministro dell’interno, Horst Seehofer della Csu, estende la frase all’intera Germania); c’è anche chi (Werner Patzelt) dinanzi alle manifestazioni di Pegida a Dresda parla di “brave persone” senza accennare alle mistificazioni propagandistiche di quei raduni; e c’è chi, a livello locale, vara intese e desistenze con un partito, l’AfD, che si teme possa vincere le cruciali elezioni regionali del 1 settembre in Sassonia e Brandeburgo e dunque rivendicare un posto d’onore nel nuovo governo di quei Länder decisivi, cui potrebbe aggiungersi la Turingia in ottobre. In Sassonia, peraltro, l’AfD si presenterà zoppa, perché i candidati dal 19 al 61 sono stati squalificati per irregolarità nella presentazione delle liste: un’ottima occasione per gridare al complotto dei poteri forti, e coprire così le lotte intestine al partito.

Potrebbe già essere troppo tardi: “attenti agli esordi!”, ammonisce una vecchia massima applicata in altri tempi all’analisi del nazionalsocialismo. Intanto un dirigente dell’AfD, Uwe Junge, si domanda in un tweet quanto ci metteranno i generali della Bundeswehr a rivoltarsi contro la ministra della Difesa appena insediatasi al posto della neocommissaria europea Ursula von der Leyen, ovvero Annegrete Kramp-Karrenbauer. L’interessata, che è anche l’irresoluta leader succeduta ad Angela Merkel a capo della Cdu, prova a ribattere indignata. Ma sembra che perfino lei, come tanti nel Paese, tema che le cicatrici possano riaprirsi, e tornare a sanguinare.

“Politica marcia, felicità lontana: Italia e Usa seguano la Scandinavia”

“Non c’è dubbio: la crisi ambientale sta aumentando la nostra ansia e preoccupazione. E queste emozioni negative – preoccupazione, angoscia, rabbia – stanno crescendo in tutto il mondo negli ultimi dieci anni”. Jeffrey Sachs non è un ambientalista, ma uno dei maggiori economisti statunitensi, ex Direttore del The Earth Institute alla Columbia University. Esperto di sviluppo sostenibile, crescita economica, salute pubblica, finanza, lotta alla povertà, è curatore, ogni anno, del World Happiness Report, che stila la classifica dei paesi più o meno felici del mondo. E proprio in relazione al benessere degli Stati Uniti, punta il dito contro Donald Trump, definendolo una persona “orribile e corrotta”, causa dell’infelicità del suo paese.

I suoi studi dimostrano che la felicità non è legata solo al livello di reddito, ma anche alla vita sociale e democratica e persino alla capacità di donare.

Di fatto, noi studiosi – economisti ma anche psicologi sperimentali – abbiamo capito quello che Aristotele ci ha insegnato oltre duemila anni fa nell’Etica Nicomachea. Siamo esseri sociali e per questo la nostra vita sociale – in famiglia, con gli amici e come cittadini – è importante quanto il nostro reddito. E così la nostra salute mentale e i nostri valori, quelli che i greci chiamavano “virtù”. Giustizia, generosità verso i poveri e compassione sono vitali per avere una buona vita. Eppure lo stile capitalistico americano glorifica il consumismo e l’accumulazione.

Si può essere felici se la politica non funziona o è corrotta?

No, le persone sono infelici quando la politica è marcia. Non a caso una delle caratteristiche dei paesi in cima alla classifica del World Happiness Report – come Danimarca, Norvegia, Finlandia e Svezia – è la relativa onestà di chi governa. Sia gli Stati Uniti che l’Italia, da questo punto di vista, hanno punteggi più bassi. Ci sono nuovi studi che mostrano come Trump stia diffondendo ansia e infelicità in America. Di sicuro sta aumentando la mia: non abbiamo mai avuto un presidente così psicopatico, una persona orribile e persino corrotta.

Più spiegare meglio la sua avversione a Trump?

Come tutti i populisti e i fascisti propone risposte semplici alle crisi. Trump è un populista e un fascista, criminalizza le minoranze più povere e vulnerabili per le difficoltà della working class bianca americana. Sta attingendo a una tradizione di razzismo, disprezzo e paura, ma le vere soluzioni per gli americani – un migliore sistema sanitario, costi minori per l’educazione e più supporto per le famiglie – richiedono tasse per i ricchi. Il contrario di quello che sta facendo Trump, che è seguito da un terzo del paese. E per questo è il presidente più pericoloso della nostra storia moderna.

Lei è molto critico verso l’uso dei social media, specie nei giovani.

Ci sono ormai alcune prove che i social media stiano portando a un’epidemia di infelicità e depressione tra i giovani. Sembra che la quantità di tempo che i giovani passano davanti allo schermo sia correlata con maggiore ansia e infelicità. I social media minano la fiducia in sé e rendono dipendenti i giovani, oltre a deprivarli di sonno.

Cosa possiamo fare per rendere più felici i nostri figli e noi stessi?

Abbiamo bisogno di tornare ai nostri valori base: un livello sufficiente di reddito per tutti, senza ricchezze enormi di cui nessuno ha bisogno. Serve una buona salute fisica e mentale, la possibilità di accedere al sistema sanitario e ai servizi di salute mentale. Contano, ovviamente, gli stili di vita buoni, basati su diete salutari, ma anche sull’amicizia, su un consumismo limitato e sulla partecipazione comunitaria. Infine è importante la promozione di buoni valori anche tra i giovani: compassione, generosità, giustizia e tolleranza.

E, immagino, serve una buona politica.

Sì, una politica onesta che eviti politici come Trump e simili. Ma dobbiamo limitare anche il potere delle grandi aziende che causano dipendenze patologiche, che siano oppioidi o fast food insani, bevande zuccherate, ma anche i social media come Facebook. Soprattutto dobbiamo proteggere il nostro ambiente, per la nostra salvezza, il nostro benessere e la nostra pace mentale. Sembra una sfida spaventosa.

In effetti lo è. Purtroppo sembra che alcuni Paesi in via di sviluppo rischino di essere rigettati nella povertà a causa del cambiamento climatico, con conseguenze drammatiche.

Sappiamo che le crisi ambientali stanno causando perdite di vita, incertezza, malattie, spostamenti e migrazioni di massa. Questo è vero per il Medio Oriente, vedi Siria, o per il centroamerica, ad esempio l’Honduras e il Guatemala o alcune parti dell’Africa. Queste crisi ambientali e migrazioni forzate sono un combustibile per la violenza e i conflitti. È la tempesta perfetta: povertà, crisi ambientale e migrazione forzata. Il prossimo rapporto sulla felicità globale si occuperà di questo.

Lei si sente di essere ottimista di fronte a tutto ciò?

Ci sono ragioni per esserlo. Anzitutto, abbiamo leader morali che ci aiutano con i loro insegnamenti, come Papa Francesco ma anche le altre grandi fedi e gli antichi saggi. Inoltre, sempre più persone realizzano che l’iperconsumismo causa dipendenza e infelicità, non benessere. La strada indicata è quella degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite, per promuovere società che bilanciano reddito, giustizia sociale e sostenibilità ambientale. Abbiamo la fortuna di avere Paesi che stanno facendo molto meglio di altri, e cioè le socialdemocrazie europee: impariamo da loro.

Ma abbiamo davvero gli strumenti per assicurare felicità e fine della povertà a tutti, nonostante lo sviluppo dei populismi e la crisi ambientale?

Credo che abbiamo ricchezza e produttività per cancellare la povertà e assicurare a tutti una vita decente. I problemi non sono economici o finanziari, né di carenza di tecnologie che invece abbiamo (pensiamo all’energia rinnovabile). Noi siamo la causa dei problemi e da noi possono essere risolti. Le soluzioni per avere più felicità sono a nostra portata.

E su Trump? Non teme una rielezione?

Io credo che stiamo imparando che i politici dell’odio, come Trump, porteranno al disastro, invece che al benessere. Ci sono buoni motivi per sperarlo.

Barricate alle Hawaii. I nativi non vogliono il telescopio gigante

Nell’isola del pacifico, sullla vetta di Mauna Kea, la comunità scentifica degli astrofisici vorrebbe costruire il “binocolo” più grande del mondo, per spiare le vie dello spazio.Il monte è tra i siti osservativi migliori al mondo. Ma i locali lo considerano un luogo sacro, da difendere in trincea. Ad oggi, 38 arresti tra i kupuna, i leader anziani della comunità. Il democratico Bernie Sanders sostiene le proteste.

A migliaia di chilometri di distanza l’eco non arriva sui giornali italiani. Eppure a Mauna Kea, nelle Hawaii, la tensione dura ormai da oltre due settimane. Circa duemila persone, per lo più nativi Hawaiani, stanno bloccando la costruzione del Thirty Meter Telescope (TMT): un telescopio internazionale dal costo di 1,4 miliardi di dollari. Il TMT dovrebbe collocarsi sulla cima del vulcano dormiente Mauna Kea, uno dei migliori siti astronomici al mondo che ospita già 13 telescopi, ma che è anche luogo di culto per i nativi. Due settimane fa, il governatore delle Hawaii David Ige ha proclamato lo stato di emergenza in risposta ai manifestanti che stanno bloccando la strada per raggiungere la vetta del vulcano. La settimana scorsa, polizia e guardia nazionale sono intervenute arrestando 38 persone (poi rilasciate), principalmente kupuna, i leader anziani dei nativi. Nessuna violenza, ma la tensione è forte e la situazione in stallo. Il caso è diventato subito di interesse nazionale negli Stati Uniti: il leader democratico Bernie Sanders ha scritto un tweet in supporto dei manifestanti, poi cancellato senza spiegazioni. Celebrità come il cantante Bruno Mars e l’attore Jason Mamoa – entrambi di origine Hawaiana – hanno aderito alla protesta. Martedì scorso, dopo un incontro tra David Ige e i Kupuna, lo stato di emergenza è stato revocato.

Per capire la complessità del problema occorre ripercorrere la storia recente di Mauna Kea. Tutto inizia verso la metà degli anni 60 quando la NASA, su suggerimento dell’astronomo Gerard Kuiper, indice un bando per la costruzione di un osservatorio nelle Hawaii. Kuiper è un astronomo prestigioso (da cui la celebre “fascia di Kuiper”: una regione ai confini del Sistema Solare formata da pianeti nani e oggetti ghiacciati) ma il contratto viene vinto da John Jefferies, un fisico dell’Università delle Hawaii. Nel 1970 Jefferies porta a termine la costruzione dell’UH88 (University of Hawaii 88-inch): il primo osservatorio sulla cima più alta di Mauna Kea, per alcuni ritenuta sacra. La costruzione del telescopio coincide con la fondazione dell’Istituto di Astronomia delle Hawaii e ha l’obiettivo esplicito di garantire nuove opportunità agli studenti Hawaiani e di risollevare l’economia dell’arcipelago, devastato dallo tsunami del 1960.

La comunità astronomica realizza subito che Mauna Kea è uno dei migliori siti osservativi sulla Terra: l’elevazione di 4200 metri garantisce un’atmosfera rarefatta, l’umidità nell’aria è estremamente bassa, e i venti provenienti dall’oceano sono regolari. Negli anni seguenti, la costruzione di telescopi procede a ritmi serrati coinvolgendo – oltre agli Stati Uniti – Canada, Francia, e Regno Unito. Le comunità locali Hawaiane iniziano a mostrare malcontento e dubbi sull’impatto ambientale. Nel 1982 l’Università delle Hawaii approva un piano di sviluppo per Mauna Kea, che fissa un tetto di 13 osservatori entro il 2000. Ad oggi, infatti, si contano 13 telescopi internazionali sulla cima: tre di questi sono stati fondamentali per la prima foto di un buco nero.

Nel 2000 il piano di sviluppo di Mauna Kea viene esteso fino al 2020 e inizia a farsi strada l’ipotesi del TMT, un telescopio con un diametro senza precedenti: 30 metri, più grande di un campo da pallacanestro. Il TMT è un progetto internazionale guidato dall’Università della California, che include Canada, Cina, India e Giappone. Il TMT permetterà di osservare galassie lontane, ripercorrendo miliardi di anni di storia dell’Universo, e di identificare pianeti attorno a stelle vicine, alla ricerca di segni di vita al di fuori della Terra. Dopo una complessa battaglia politica e legale durata più di 10 anni, nell’Ottobre 2018 la Corte Suprema delle Hawaii si esprime a favore della costruzione del TMT. I lavori sarebbero dovuti iniziare il 15 luglio, non fosse per le proteste.

La comunità Hawaiana, però, è divisa: un sondaggio dell’Honolulu Star–Advertiser (principale quotidiano locale) afferma che il 72% dei nativi è a favore del telescopio visti i relativi benefici economici per l’isola. I manifestanti, invece, rivendicano il ruolo sacro che Mauna Kea riveste nella loro cultura ed ergono la lotta al TMT come simbolo di una battaglia più ampia: quella contro lo sfruttamento dell’arcipelago, la commercializzazione della cultura Hawaiana, e la forzata “americanizzazione” degli scorsi decenni. La comunità scientifica, dunque, si trova in una complessa situazione socio–politica, oltre il “semplice” conflitto tra scienza e religione.

La costruzione del TMT è necessaria per rispondere alle grandi domande dell’umanità. Il progresso scientifico e tecnologico, però, deve andare di pari passo con il rispetto delle tradizioni e culture locali. Nell’occidente tendiamo a vedere il rapporto scienza–religione come uno scontro, visti i precedenti tra Astronomia e Chiesa Cattolica. Nel contesto hawaiano sarebbe più utile considerarlo un’opportunità di co–esistenza: una montagna sacra è di sicuro uno dei migliori luoghi al mondo attraverso cui scrutare i misteri del Cosmo.

Nonostante la grande maggioranza degli astronomi ritenga la costruzione del TMT indispensabile per il progresso scientifico, una lettera aperta firmata da più di 900 scienziati ha contestato la criminalizzazione dei manifestanti, gli arresti dei Kupuna e l’utilizzo della Guardia Nazionale, invitando a ripensare il progetto. Ad esempio, le isole Canarie potrebbero rappresentare un sito alternativo per il TMT, sebbene meno efficace. Prima di procedere con l’avvio o il blocco del TMT sembra doveroso stabilire quale sia l’effettiva volontà della maggioranza della comunità Hawaiana: l’aderenza a tradizioni millenarie, oppure l’aprirsi definitivo alla tecnologia e alle conseguenti opportunità economiche e scientifiche. Ad oggi, i lavori rimangano bloccati e non è facile prevedere gli sviluppi futuri.

Federico Lelli è un astrofisico all’European Southern Observatory (Monaco di Baviera).

Steve Caniço, una morte di troppo per Macron

L’abuso della forza scredita sul piano morale il mandato di Emmanuel Macron. La libertà di movimento concessa alle forze dell’ordine ha già fatto due morti e centinaia di feriti in pochi mesi. Fin dove il governo intende spingersi? Tutto il sistema andrebbe ripensato, a partire dai procuratori asserviti al potere e fino alla “polizia delle polizie”, l’Igpn (Ispezione generale della polizia nazionale) che, quasi sistematicamente, assolvele forze dell’ordine.

In due anni di presidenza, Emmanuel Macron può vantarsi almenodi una cosa: aver registrato il numero di morti e feriti, in operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico, più elevato dal 1968, incoraggiando la repressione brutale dei movimenti sociali e facendo un uso smodato della forza, al punto da apparire agli occhi di tutti come un debole monarca repubblicano praticamente in mano alla polizia e alla gendarmeria.

Anche il primo ministro Édouard Philippe, il ministro degli Interni Christophe Castaner e il segretario di Stato Laurent Nuñez sono responsabili di questo sinistro bilancio. Dopo la morte a Marsiglia di Zineb Redouane, ferita gravemente al viso da un lacrimogeno mentre chiudeva la finestra, il primo dicembre scorso, quella di Steve Maia Caniço, il cui corpo è stato di recente ripescato nella Loira a Nantes, porta a due in appena qualche mese il numero di vittime in pericolose ed estreme operazioni di polizia. Tutto ciò accadeva mentre la polizia francese si vantava di riuscire a mantenere l’ordine senza utilizzare armi letali né causare decessi mentre continua a dispensarformazioni in molti paesi.

 

Un bilancio impressionante

Il numero di persone mutilate, gravemente ferite o che hanno perso un occhio durante la crisi dei Gilet gialli mostra che l’epoca della serietà e della moderazione (se è mai davvero esistita) è ormai passata. 315 persone sono rimaste ferite alla testa, 24 hanno perso un occhio e 5 una mano: questo è il bilancio delle violenze poliziesche registrate per Mediapart dal giornalista David Dufresne in sei mesi di proteste sociali dei Gilet gialli.

Il governo attuale, autoritario e cinico, non esita neanche a mentire, facendo credere contro ogni evidenza che la polizia non ha alcuna responsabilità nella morte di Steve Maia Caniço a Nantes (il giovane di 24 anni è caduto nel fiume la sera del 21 giugno scorso, giorno della Festa della musica, durante degli scontri con la polizia. Il suo corpo è stato ritrovato il 29 luglio, ndt) o che Geneviève Legay, quando è rimasta gravemente ferita alla testa a Nizza, non aveva avuto alcun contatto con la polizia (la donna di 73 anni è caduta a margine di una manifestazione non autorizzata dei Gilet gialli lo scorso marzo, ndt.), o ancora che dei manifestanti avevano voluto saccheggiare l’ospedale della Pitié-Salpêtrière a Parigi (ancora, durante un corteo dei Gilet gialli, a maggio, un gruppo di manifestanti ha fatto irruzione nell’ospedale parigino. Il ministro dell’Interno ha parlato di un “attacco di casseurs”. Si trattava in realtà di persone che tentavano di ripararsi dai gas lacrimogeni, ndt.).

Tutte fake news. Il governo non mostra mai compassione, né usa mai parole rispettose nei confronti delle vittime di violenze della polizia che, anzi, incoraggia. Riserva i suoi bei discorsi solo alle forze dell’ordine, ai deputati che tremano per conservare il loro posto e a personaggi del mondo della finanza. Peggio ancora, attribuisce onorificenze anche ai poliziotti responsabili di maltrattamenti.

Durante la repressione sistematica delle proteste sociali, rivendicata dal governo macroniano, tanti francesi senza storia hanno potuto testare sulla propria pelle ciò che altri hanno vissuto per anni nelle periferie più povere: la brutalità e l’impunità delle forze dell’ordine.

In un’indifferenza quasi generale, diverse generazioni di giovani figli di immigrati hanno subito discriminazioni, controlli di identità a ripetizione, provocazioni, insulti razzisti, multe abusive e violenze da parte dei poliziotti. Alcuni sono morti mentre venivano arrestati, come Adama Traoré nel 2016 o Ali Zirien nel 2009, senza che nessun agente venisse mai sanzionato.

 

Un favore ai più violenti

Questi fatti non possono più essere nascosti o tollerati. Anche se non tutti i poliziotti si spingono oltre i limiti e se le condizioni del loro lavoro sono estremamente difficili, il fatto che i vertici non siano abbastanza fermi e che il governo li “copra” sistematicamente ha come conseguenza di favorire ancora di più gli elementi più violenti. Poliziotti e gendarmi sono inoltre, nel complesso, più vicini all’estrema destra rispetto al resto della popolazione.

La strategia di tensione che viene applicata da diversi mesi non è appannaggio esclusivo del governo di Édouard Philippe. Prima di lui, Manuel Valls e Bernard Cazeneuve l’avevano messa in atto durante le manifestazioni contro la riforma del lavoro e persino nel corteo del primo maggio. La strategia è questa: piuttosto che tentare di risolvere la crisi sociale, economica o politica, si tende piuttosto a denigrare le contestazioni, si denunciano i casseurs e si annunciano nuove leggi repressive, il tutto con la benedizione dei grandi media compiacenti e delle tv all news avide di immagini spettacolari.

Nel frattempo altri paesi, come la Germania, riescono a gestire i movimenti di protesta con tatto, evitando gli scontri tra manifestanti e poliziotti e aggirando le tensioni, senza dover ricorrere in modo massiccio a lacrimogeni, granate assordanti e fucilia proiettili di gomma Lbd. Questa caduta vertiginosa verso il basso è stata avviata, a livelli diversi, dai predecessori di Emmanuel Macron.

François Hollande ha lasciato che Valls e Cazeneuve gettassero lacrimogeni sui manifestanti che protestavano contro la riforma del lavoro. La morte di Rémi Fraisse a Sivens rimarrà una macchia indelebile nel suo presunto governo disinistra (lo studente e militante ecologista di Tolosa, 21 anni, è stato colpito da una granata offensiva mentre protestava contro la costruzione di una diga nel 2014, ndt.).

Nicolas Sarkozy ha smantellato la polizia locale e tagliato posti nella polizia e nella gendarmeria, favorendo una “politica del risultato” disastrosa. Jacques Chirac resterà a sua volta il presidente della morte assurda dei giovani Zyed e Bouna a Clichy-sous-Bois, nel 2005, e dei disordini che ne erano scaturiti nelle banlieue disagiate.

Sotto François Mitterrand, nel 1986, durante il periodo del governo di coabitazione, si ricorda la morte di Malik Oussekine, picchiato a morte dai voltigeurs (delle pattuglie della polizia in moto, ndt.), che Macron ha appena rimesso in servizio contro i Gilet gialli. Valéry Giscard d’Estaing deve a sua volta rispondere della morte di Vital Michalon, ucciso da una granata offensiva, nel 1977, a Creys-Malville.

 

Come ai tempi di De Gaulle

Il picco delle violenze era stato raggiunto durante le rivolte del maggio e giugno 1968, sotto Charles de Gaulle, quando erano morte sette persone. La cosa più rivoltante nel caso delle recenti bavure poliziesche è l’impunità che protegge gli agenti. Bisogna raccogliere un fascicolo di ferro (con video, foto, testimoni, perizie mediche, un buon avvocato e così via) se si vuole sperare di portare un poliziotto violento in tribunale.

I casi di Rémi Fraisse, Zineb Redouane e Steve Maia Caniço mostrano chiaramente la necessità di creare un corpo di inquirenti completamente indipendente dalla polizia e dalla gendarmeria. Oggi invece sono i gendarmi che indagano sui gendarmi e i poliziotti che indagano sui poliziotti.

Come prevedibile, i rapporti della gendarmeria nazionale-Iggn e dell’ispezione generale della polizia Igpn assolvono quasi sistematicamente gli individui violenti presenti nelle forze dell’ordine, dando al governo l’illusione di tutelare le istituzioni, mentre il divario tra la popolazione e la polizia che dovrebbe proteggerla cresce pericolosamente.

D’altro canto, i procuratori nominati dall’esecutivo prendono raramente il rischio di perseguire in giustizia le forze dell’ordine, con le quali collaborano quotidianamente. Per fare carriera nella procura, del resto, è meglio non creare troppi problemi al governo o all’onnipotente presidente. Neanche un solido rapporto dell’Igpn comporterà necessariamente un’azione penale contro un poliziotto, tanto meno una condanna.

Le politiche pubbliche restano focalizzate sulla repressione, con un arsenale di leggi diventate sempre più dure negli ultimi tre decenni. Sul piano della giustizia, la maggior parte delle risorse dello Stato è destinata alle prigioni, che sono sempre più affollate, mentre vi è una grave carenza di magistrati, assistenti giudiziari, consulenti tributari e per la reintegrazione sociale. La prevenzione e il reinserimento sociale sono il fanalino di coda della macchina giustiziaria.

I Gilet gialli hanno potuto sperimentare questo meccanismo implacabile della sanzione: fermi, custodie cautelari, giudizi immediati. Le condanne sono state spesso misurate ma, rispetto alla totale assenza di procedure e sanzioni nei confronti degli agenti di polizia violenti, il contrasto è forte.

Alla fin fine, il governo attuale, che si voleva moderno, è nei fatti uno dei più autoritari della Quinta Repubblica. Anche il difensore delle libertà Jacques Toubon ha difficoltà a farsi ascoltare: per dire quanto la situazione sia diventata preoccupante.

(traduzione Luana De Micco)

Fiumefreddo: la rinascita è accoglienza e coraggio

Il gusto del luogo che ha un’anima, una storia e un’identità. La passione per i borghi e per il cibo che prima di tutto deve essere sano e poi buono. Un turismo sostenibile che non deve costruire nulla ma ristabilire la bellezza che aveva un tempo, riportare agli antichi splendori quelle case fatte in pietra con vista sul mare o verso la montagna.

Fiumefreddo Bruzio è un paesino calabrese di tremila abitanti, nel basso Tirreno cosentino. Di questi, meno di 300 vivono al borgo, arroccato fin quasi alla cima del monte Cocuzzo. Un paesino dentro il paesino che sembra un balcone a strapiombo sul mare e che, dal 2005, è entrato nel club dei 100 borghi più belli d’Italia. I viottoli dove si cammina solo a piedi, stradine strette che si incrociano e che portano al Castello Della Valle dove,a fine luglio, c’è stato il Festival della formazione e dell’apprendimento continuo “Maestri fuori Classe”, un progetto voluto da “Creo Italia” e dal suo presidente Francesco Marino che ha trasformato Fiumefreddo in “uno spazio fisico e mentale aperto al dialogo e al confronto”.

Costruito nel 1200 sulle basi di una torre normanna e poi distrutto dalle truppe napoleoniche all’inizio del 1800, il castello oggi è stato dichiarato “Monumento contro tutte le guerre” proprio perché semidiroccato. Dopo il restauro è accessibile nei sotterranei dove il pittore Salvatore Fiume a metà degli anni ‘70 ha dipinto “La Stanza dei desideri”, un capolavoro con il quale l’artista siciliano ha voluto dare il suo contributo per rivitalizzare un centro storico che si stava spopolando.

Un centro storico che rientra a pieno titolo in quel fenomeno di emigrazione fotografato nei giorni scorsi dal rapporto Svimez secondo cui dal 2012 al 2017 oltre 2milioni di persone hanno abbandonato il Sud per andare verso il Centro-Nord o all’estero.

Chi sta facendo il contrario, cercando di invertire la rotta e dare una mano a Fiumedreddo è l’oncologo Raffaele Leuzzi, un “visionario” che diversi anni fa, attraverso l’associazione “Le donne scelgono”, aveva tentato di realizzare proprio lì un centro per la diagnosi precoce del cancro alla mammella. Un ambulatorio dove le donne potevano essere visitate gratuitamente e che, come accade spesso, non trova futuro in una regione dove le regole sono sempre più complicate dei problemi da affrontare.

Da qui è partita l’idea della cooperativa di comunità “Borgodifiume” che gestisce la “Residenza”, un palazzo non ristrutturato ma restaurato. “Ci ho messo – spiega Leuzzi – due anni a togliere tutto l’intonaco che c’era”. Oggi quel palazzo è collegato ad altri piccoli appartamenti: è l’albergo “diffuso” gestito da sei ragazzi che, in questo modo, hanno deciso di non emigrare lavorando anche al “Convivio”, un’osteria dedicata a chi ama mangiare e bere bene. Originario di Delianuova, Leuzzi vive e lavora da anni a Roma. Aveva lasciato la Calabria quando aveva10 anni. Erano altri tempi. Uno zio sequestrato dalla ‘ndrangheta che minacciava anche la sua famiglia perché non pagava la mazzetta. “In tutto questo progetto – dice Leuzzi – ci ho rimesso 400-500 mila euro ma con ‘Convivio’ e con la ‘Residenza’ adesso lavorano sei ragazzi. È un’ urgenza civile, sociale ed economica perché si ricostruisce una comunità che si è dispersa e che ha abbandonato i borghi. È nuovo modello di sviluppo economic sostenibile”.

“Adesso – aggiunge Leuzzi – non ho ancora raggiunto la parità di bilancio per mantenere gli stipendi ai ragazzi. Diciamo che mediamente vado sotto di 2mila euro al mese. Molti mi chiedono chi me l’ha fatto fare: rispondo sempre che è stato mio padre. Lui mi ha insegnato a non avere debiti né affettivi né economici con questa terra. Prima di morire mi ha detto di fare qualcosa per la regione dove sono nato. Da lì è nato questo fare pace con la Calabria. Qui è stata uccisa la speranza per i giovani e per questo sono andato alla ricerca della bellezza che è nell’entroterra, non nella cementificazione della costa e nel turismo balneare”. Un concetto più ampio, stimolato dalle letture dallo storico dell’arte Salvatore Settis: “Lui dice che la distruzione del paesaggio è una bomba ad orologeria. Distruggere l’agricoltura significa che questo giacimento che ha la Calabria verrà disperso”. Ecco perché, secondo il senologo, il progetto della “Residenza” e del “Convivio” è una sorta di “presidio umano” che mentre ricostruisce la comunità che ripopola il borgo, “presidia, tutela e valorizza la bellezza”.

“Un contadino che ti da mangiare non è bellezza? – si domanda – Io ci sto rimettendo economicamente tanto, ma ci credo e ogni 15 giorni prendo la macchina e vado in Calabria a cucinare e riporto quella che era l’esperienza di mia madre”. Tanti libri sul cibo li ha scritti il più importante antropologo italiano, Vito Teti, da cui Leuzzi ha maturato la convinzione che “i borghi devono riprendersi la loro identità senza essere stravolti a fini commerciali e turistici”.

“Ecco perché – conclude il medico – voglio che la gente arrivi a Fiumefreddo e non si senta un turista ma un residente temporaneo. Nel momento in cui arrivi, io ti introduco nella comunità. Ci sarà una persona del posto che ti fa la visita guidata, che ti racconta la bellezza del pittore Salvatore Fiume, del castello e delle chiese. Ti fa vedere i vicoli e la bellezza del borgo. La gente viene accolta da una figura che è quasi un tutor. E mentre entri nella comunità, fai un’esperienza col cibo che è nuova rispetto al cibo commerciale perché di ogni prodotto ti dico la provenienza. La valorizzazione del territorio è l’unica cosa che ci potrà salvare e potrà salvare le nuove generazioni”.

Vagoni notte nel degrado: ma i soldi ci sono, e tanti

Martedì 30 luglio alle 6.50 i viaggiatori del treno 1556 Siracusa–Milano sono scesi alla stazione ferroviaria di La Spezia per fare pipì.

Una sosta prolungata decisa dal capotreno perché nelle ritirate non c’era acqua. Quel treno partito alle 13.35 dalla Sicilia (arrivo previsto a Milano alle 11.50 del giorno dopo) fino alla Liguria ha viaggiato senza acqua, nonostante le segnalazioni degli operatori. Alla faccia della sistemazione “De luxe” illustrata nelle pubblicità. Che gli intercity giorno e notte restino i parenti poveri della famiglia Trenitalia – vedi foto allegate – si è capito da parecchio nonostante, dati alla mano, nel solo 2018 circa 14milioni di persone li abbiano scelti. Di questi 1 milione e 800 hanno viaggiato la notte pagando una cuccetta – compreso il biglietto ferroviario – 116,90 euro (tariffa base nel compartimento con 4 cuccette); ma c’è anche chi paga fino a 240,40 euro per un posto singolo nella carrozza letto. Proseguiamo con il dire che i soldi per questo servizio obbligatorio o meglio “universale”, ci sono. Servizio obbligatorio sancito peraltro anche dal Regolamento Ce 1370/2007 che tutti gli stati membri devono recepire. Ma tornando alle risorse finanziarie messe a disposizione, il Contratto di Servizio 2017-2026 fra Trenitalia, Mit e Mef prevede 1,4 miliardi di euro di investimenti in dieci anni. Di questi, ci scrive FS “circa 300 milioni sono dedicati a investimenti in corso per gli InterCity Notte, con previsione di conclusione entro il 2021. Sono state rinnovate il 70% delle cuccette sulla tratta Sicilia Roma”.

 

Dalle slide alla realtà

Il fantomatico servizio “De Luxe” delle slide usate per annunciare la firma del contratto oggi si svolge regolarmente sulla sola tratta Palermo-Roma mentre fino al 2015 veniva garantito anche su altre relazioni. I treni notturni sono normali vetture letto modificate all’interno: le 12 cabine provviste di tre letti e lavandino si sono ridotte a 10 compartimenti. Sulla carta invece si parlava di “allestimenti più confortevoli, il rinnovo della flotta viaggiante, l’attivazione di un servizio di ristoro con minibar. Ma anche un pulitore viaggiante”. Le carrozze sono vecchie: il documento infatti si propone – testualmente – di abbassare l’età media dei convogli dagli attuali 25 anni a 15: un ringiovanimento decennale malriuscito. Esaustiva è l’immagine dell’impianto di comando elettrico della cuccetta: scoperto, a portata di chiunque voglia accedere ai pulsanti che comandano tutti i dispositivi elettrici presenti in carrozza. La mancanza di controllo è “certificata” dal nastro adesivo con il logo FS.

 

Le cifre da investire

Per l’annunciato revamping (ristrutturazione) ci sono ampi margini di miglioramento. Nel piano degli investimenti 2017–2026 (la prima parte termina nel 2021) sono indicati 16milioni 980mila euro per potenziare gli impianti antincendio degli Intercity notte, 3milioni e 500mila euro per il progetto di illuminazione Led mentre per gli intercity giorno sono 2 milioni in più. Argomento a parte meritano i 40milioni e 800 mila euro per le “innovazioni tecnologiche dei locomotori” per evitare anche le “riserve”, gergo tecnico per definire i guasti che determinano i vari ritardi dei treni.

 

Dalla torre alle carrozze

Si è sentito parlare di treni notte otto anni fa quando alcuni lavoratori in segno di protesta per la qualità di viaggio dei passeggeri, erano saliti sulla torre faro di Milano, sopravvivendo 190 giorni sulla struttura metallica a 50 metri dal suolo. Di quella protesta non c’è più traccia. Molti osservatori hanno sempre ritenuto inutili i treni notte, sostituibili con voli aerei, più o meno low cost. Chi ci lavora racconta però di storie di persone che per vari motivi un aereo non lo può prendere. Famiglie che dal sud si trasferiscono per le cure mediche degli ospedali del nord con bagagli o altri generi per rimanere settimane o mesi. Un dato di fatto che anche l’ex ministro Delrio aveva sottolineato firmando il contratto di servizio: “Attraverso un contratto di lunga scadenza sul servizio Intercity diamo certezza ad un servizio pubblico riservato a fasce più deboli della popolazione, che serve luoghi e territori più lontani e che presentava una situazione di forte criticità”. Un servizio: “figlio di nessuno”.

Recentemente il ministro Danilo Toninelli ha promesso che il Mit “non abbasserà l’attenzione” alla luce di queste – e altre – immagini che abbiamo ricevuto da chi i treni li usa forse servirebbe proprio far viaggiare – meglio se in incognito – una vera autorità garante.

Uno stabilimento balneare è per sempre: gare nel 2033

“Per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia stesso mare”, cantava nel lontano 1963 Piero Focaccia. Il tormentone vale anche per gli stabilimenti balneari e le proroghe alle concessioni delle aree demaniali marittime, cioé le spiagge. La lobby degli esercenti degli stabilimenti balneari si batte da sempre contro la direttiva europea Bolkestein del 2006 sulla concorrenza (recepita in Italia nel 2010 dal governo Berlusconi) e contro numerose pronunce della Corte di Giustizia Ue, ma c’è il rischio di una pesante procedura di infrazione comunitaria pagata dal Fisco, cioè da tutti i cittadini italiani.

Le concessioni vengono rinnovate a scadenza con un accordo diretto pubblico–privato e senza gare aperte ad altri operatori, come prevede invece la direttiva Bolkestein. L’ultima proroga, l’ennesima, è stata varata con il comma 683 dalla legge 145 del 2018 sul bilancio dello Stato per il 2019: il rinnovo vale altri 15 anni per le concessioni in corso al primo gennaio, che scadranno così a fine 2033.

Nel Paese dell’eterno provvisorio, la scadenza dura quanto la parola “t’amo” scritta sulla sabbia, mentre la parola “proroga” è scritta per durare (quasi) per sempre.

Dietro il rinvio, come spiega l’ultimo rapporto sulle spiagge italiane di Legambiente, c’è un enorme business. Cifre ufficiali sul giro d’affari del settore non esistono e nessuno pare in grado di calcolarle. Secondo Nomisma, il fatturato del settore della balneazione nel 2007 era di 15 miliardi. Nel 2014 la rivista Wired parlava di 27 miliardi di fatturato dell’industria balneare. Ma dalle concessioni nel 2016 lo Stato ha incassato appena un centinaio di milioni. Il rapporto di Legambiente parla di “canoni demaniali bassissimi per concessioni molto remunerative: spesso meno di 2 euro a metro quadrato all’anno”. Tra i casi citati c’è il Lido Punta Pedale di Santa Margherita Ligure che versa un canone 7.500 euro all’anno. Nello stesso Comune l’hotel Regina Elena paga 6.000 euro, il Metropole 3.614 euro e il Continental 1.989 euro. A Marina di Pietrasanta lo stabilimento Twiga fondato da Briatore occupa una superficie di 4.485 metri quadri e secondo l’associazione paga un canone di 16mila euro all’anno, mentre a Forte dei Marmi il Bagno Felice versa 6.560 euro per 4.860 metri quadri.

Eppure, come rilevato da Legambiente, su 7.458 chilometri di coste in Italia, dei quali 3.270 sono costituiti da spiagge, sono 52.619 le concessioni demaniali marittime, di cui 11.104 sono per stabilimenti balneari, 1.231 per campeggi, circoli sportivi e complessi turistici, mentre il resto riguarda vari utilizzi.

Si stima che le sole concessioni relative agli stabilimenti e ai campeggi superano il 42% di occupazione delle spiagge, ma con le altre attività turistiche si supera il 50%. In Liguria ed Emilia-Romagna quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti, in Campania il 67,7%, nelle Marche il 61,8%. Si giunge a concentrazioni incredibili come in Versilia, con 683 stabilimenti balneari sui 1.291 dell’intera Toscana che dal porto di Viareggio fino al confine nord del comune di Massa si susseguono per 23 chilometri. Accade perché non esiste una norma nazionale che stabilisca una percentuale massima di spiagge che si possono dare in concessione: il tema spetta alle Regioni che vanno in ordine sparso. Ma ci sono anche situazioni illegali come a Ostia o a Pozzuoli dove muri e barriere impediscono di vedere e accedere al mare, o nel Salento dove si sbancano le dune per realizzare parcheggi e stabilimenti balneari.

“Il paradosso è che nel nostro Paese nessuno si occupa di coste, che fanno notizia solo in estate: non possiamo più permettercelo”, spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente nazionale di Legambiente. Ecco perché l’associazione chiede una legge nazionale sulle aree costiere che recepisca gli esempi positivi di altri Stati: in Francia, ad esempio, la durata delle concessioni non supera i 12 anni e l’80% del litorale deve restare libero. Secondo Legambiente serve una norma che garantisca il diritto alla libera e gratuita fruizione delle spiagge, premi la qualità dell’offerta negli stabilimenti e preveda canoni adeguati con risorse da usare per riqualificare il patrimonio naturale costiero.

Intanto, per cercare di evitare la procedura di infrazione Ue per la violazione della direttiva Bolkestein, il ministro del Turismo Gian Marco Centinaio (Lega) nei giorni scorsi ha presentato uno schema di decreto del Presidente del Consiglio con il piano del governo per il settore. In quattordici pagine sono previsti l’introduzione di un rating per certificare i “balneari doc”, il contrasto ai subappalti delle concessioni e all’evasione fiscale, una classifica per poter concorrere alle gare previste tra 15 anni, obblighi sulla qualità dei servizi e la tutela ambientale e un progetto di aggregazione tra stabilimenti per sostenere la crescita delle imprese.

Ma i problemi non mancano. A livello comunale (Santa Flavia e Trapani in Sicilia, Teramo in Abruzzo, Andria in Puglia) e regionale (Puglia) molte amministrazioni avevano vietato l’uso della plastica, specie monouso, nelle spiagge. Ma con numerose sentenze i Tar competenti per territorio hanno “smontato” i divieti amministrativi perché avevano anticipato la direttiva 904 di quest’anno che scatterà però non prima del 2021. Anche l’evoluzione ambientale degli stabilimenti balneari, come la concorrenza del settore, è rinviata a data da destinarsi.

Caro amico, invidio come te ne sei andato

L’anacaprese è uno fra gli orribili dialetti del Golfo di Napoli. Differisce moltissimo dal pur orrido caprese: le due comunità sono distanti poche centinaia di metri. Assomiglia al puteolano, a quello di Torre Annunziata. E ho detto tutto. Un anacaprese dal timbro flautato, delicato, suadente, eppure c’era: e parlava con il più dolce degli accenti veneti, quello padovano. Francesco Durante aveva frequentato l’università nella città di Antenore. Uno dei motivi pei quali l’invidio è che aveva potuto seguire i corsi di Filippo Maria Pontani, uno dei miei miti fra i grecisti. L’altro motivo, e ben più alto, d’invidia che provo per Francesco è che se n’è andato senza nemmeno accorgersene, mentre passeggiava al mattino di sabato sulla Piazzetta di Anacapri, ai piedi della splendida seggiovia. E chi non darebbe anni di vita per finire così? Certo, quando se ne va un tuo amico (e confidente) da quarant’anni, se ne va anche una parte di te: e siamo ogni giorno più poveri, fino all’egestà definitiva, che dalla vita ci butta nel nulla.

Durante era un giornalista; ciononostante, un uomo di cultura. Amava il leggere. Il quotidiano al quale da ultimo era tornato (e nel quale era il mio unico amico), Il Mattino che della retorica “istituzionale” è l’incarnazione, nel titolo che dava la triste notizia lo definisce “Un principe della cultura”. Conosco certi principi d’autentico blasone ai quali non metterei un centesimo in mano. Ma “principe della cultura”? Croce, Borges, Galasso, Gaetano De Sanctis… Questi nomi mi vengono in mente. Perché mortificare il povero Francesco, che, tornasse a vivere, farebbe causa al giornale?

Francesco era molto colto. Non lo faceva pesare. Soprattutto a me, che ignoro tutto o quasi della letteratura nordamericana della quale è stato uno dei più importanti fautori italiani. L’ha fatto da giornalista, da capo delle pagine culturali d’un’infinità di testate, da consulente editoriale. Come tale, ha rivelato i due migliori romanzieri italiani della generazione, diciamo della “mezza età”, Vladimiro Bottone, e Wanda Marasco, da lui acquisiti alla Neri Pozza. Ma era qualcosa di più. Era una miniera. Di idee, immagini, battute. Era anche un ciclotimico, che trascorreva dall’allegria e al conio di battute, a sorrisi d’infinita mestizia.

Non gli mancava nulla. Il successo mediatico, accademico. La generosità del carattere. Una bella moglie, gran signora. Una figlia romanziera di talento. Una certa agiatezza, qual può essere concessa a noi sventurati che viviamo dello scrivere. Perché quella mestizia? Forse perché sapeva che, se avesse avuto forza di concentrazione e di sacrificio, di sottrarsi a quel po’ di vita mondana che con grande distinzione arricchiva: se, insomma, si fosse sacrificato ed il suo tempo avesse sacrificato, un bel romanzo, all’altezza del suo ingegno, avrebbe potuto scriverlo. Aveva soli sessantasei anni! Due, tre anni ancora, e avrebbe dato un calcio a tutte ’ste pampuoglie e ci avrebbe lasciato un’altra immagine di sé. Virtuale, essa vive nel cuore degli amici.

 

Tre tesori rimasti segreti tutti da scoprire

Tempo d’estate. Tempo di liberazione: per i pochi che possono, almeno. E che hanno dunque il dovere di ritemprare non solo il corpo e la mente dalla stanchezza e dall’abbrutimento in ruoli bloccati di produzione e consumo: ma anche di ritemprare la loro umanità.Per questo abbiamo, gratuitamente, l’Italia. Percorrere il nostro Paese, fuori dalle rotte autostradali o da quelle dei voli. Perdersi in Italia: nel suo tessuto così familiare, e insieme così poco noto. Fino ad esserci largamente estraneo, se enumeriamo le città e i paesi in cui, no, non siamo mai stati. Può bastare l’improvviso giorno di pioggia che ci allontana dalla spiaggia: o la curiosità di errare per una valle non lontana. Ci verrà incontro quell’indivisibile fascio di paesaggio, arte, odori, sapori che ha incantato generazioni di viaggiatori, perfino i più ascetici.

“Nella mia memoria – scrive Simone Weil ad un amico nella primavera del 1937 – ho collezionato molte ‘fiaschetterie’ fiorentine (che bel nome!), perché mangio solo lì (pasta al sugo tra 70 centesimi e 1 lira) e ogni volta in una diversa. Una, vicinissima al Carmine (come sono belli gli affreschi del Masaccio!), piena di giovani operai e di pensionati, che si divertono a improvvisare canzoni, con versi e musica! Compiango molto gli infelici che hanno la sfortuna di aver soldi e mangiano nei ristoranti da 8 e 10 lire”.

Ecco, ogni sforzo in questa direzione sarà ripagato il cento per uno: perché camminare l’Italia significa viaggiare nel tempo, conoscere mondi perenti, sbirciare oltre la soglia del futuro. Perché, come ha capito Carlo Levi, “forse è proprio questo il primo dei caratteri che distinguono l’Italia: quello di essere il Paese dove si realizza, in modo più tipico e diffuso e permanente che altrove, la contemporaneità dei tempi. Tutto è avvenuto, tutto è nel presente. Ogni albero, ogni roccia, ogni fontana contiene dentro di sé gli dei più antichi. L’aria e la terra ne sono impastate e intrise. Con gli Dei, gli uomini e i loro fatti: sui selciati delle strade, sugli asfalti delle automobili, risuona l’eco di passi innumerevoli. Il macellaio del Ghetto di Roma è installato nella cornice di marmo dell’ingresso sacro a una qualche divinità pagana; il ristorante dove uso cenare ha i tavoli tra l’opus reticulatum e i rocchi di colonne del Teatro di Pompeo, all’incirca là dove Cesare cadde”.

Ecco dunque 3 consigli: uno al nord, uno al centro e uno al sud; per chi, leggendo queste parole, avesse sentito accendersi il desiderio di un viaggio.

 

Il bastione piemontese

Luogo di mille frontiere – tra l’Italia, la Francia, l’Europa, tra 2 idee di politica, tra l’umanità e il profitto, tra la lealtà e il tradimento – la Val Susa, incantata valle alpina, ha a difenderla uno dei monumenti più ispiranti del Medioevo: la Sacra di San Michele. L’abbazia corona il Monte Pirchiriano: anzi, ne sostituisce la cima naturale con la sua mole artificiale, come un razzo spaziale verso il paradiso. Un luogo strategico: a sorvegliare la strada che portava i pellegrini del Nord a Roma o in Terrasanta. E magico: si diceva che lì fosse apparso l’arcangelo Michele, il capo delle schiere celesti. Come nel Gargano (appunto a Monte Sant’Angelo), come in Normandia (a Mont Saint–Michel): come su quello strano monte artificiale che è il Mausoleo dell’imperatore Adriano nel cuore di Roma, che ebbe nuova vita come Castel Sant’Angelo. Costruire la Sacra lassù fu faticosissimo, e già nel 1061 la si guardava come un miracolo dell’umana operosità: quando quest’ultima agiva in armonia con la natura, non per sventrarne i monti per treni utili solo a chi ne costruisce la ferrovia. “Questo è un luogo di pace, lasciate da parte le discordie!”: così ammonisce, con quanta prescienza, un’iscrizioni della Porta dello Zodiaco, didascalia all’immagine di Caino che uccide Abele: primo frutto della discordia fratricida degli uomini. A questa porta monumentale si arriva tuttora dopo aver percorso l’aspra e buia salita della Scala dei Morti, intagliata dalla roccia e in parte scavata nel monte. Dopo il camminare a tentoni della vita, ecco infine la porta del cielo: così avranno pensato i pellegrini medioevali, per cui ogni gran chiesa ardente di luci e luccicante di ori e gemme era figura, e anticipo, di quella Gerusalemme celeste il cui miraggio allietava una vita bestiale. Ma – magia dell’arte – quel portale e quella chiesa non parlavano solo di un altrove lontano e trascendente: bensì anche degli uomini che avevano dato forma a quella bellezza. “Presti attenzione a quest’opera chiunque sia capace di misurarne il valore: guardate che fiori e che bestie feroci!”. Parola del loquace Maestro Niccolò, autore di gran parte delle sculture della Porta dello Zodiaco: oggi posterebbe ogni opera su Instagram, a giudicare dalla logorrea con cui espone i suoi mostri anche sul portale del Duomo di Ferrara, e nel suo capolavoro di scultura (e forse di architettura) la grande e nobile San Zeno di Verona. Scendiamo, dunque, lungo il gran corpo dell’Italia.

 

In lotta dal VI secolo

Lasciamoci alle spalle ciò che è più noto e amato: “le trepide città dove l’Appennino profuma più umano nelle cesellate siepi, tra i caldi arativi della Toscana, o dove più selvaggio le vecchie pievi assorbe nell’etrurio – s’allontanano sull’ala dei vergini, chiari suoni serali” (così Pasolini, nel 1951). E fermiamoci a Chieti, Abruzzo.

Qui, nel Museo archeologico nazionale (nazionale: a ricordarci che siamo nazione soprattutto qua, nel patrimonio e nel paesaggio: con legami che nessuna autonomia differenziata dei cementificatori, leghisti o piddini, può spezzare) c’è la figura monumentale più antica dell’arte italiana: meta del VI secolo prima di Cristo. Il Guerriero di Capestrano è indimenticabile, se lo si vede dal vivo: spalle e fianchi larghissimi, statura pazzesca (oltre due metri) contraddetta dallo spessore di sogliola (circa 30 centimetri), che ci ricorda che questa statua era in realtà una stele funeraria, piantata nella necropoli di Aufinum (appunto a Capestrano, provincia dell’Aquila). L’ascia, la spada, il pugnale: un’intera panoplia riveste il nostro guerriero, armato fino ai denti e protetto da una maschera per calarsi nel buio di una notte sconosciuta, la morte. Quell’improbabile sombrero, quelle borchie sul corpo nudo: è davvero estraniante la vista di questo eroe da bondage messicano. E tanto più doveva esserlo quando il colore ancora ricopriva la sua statua.

Ma chi era, in realtà, il nostro guerriero? Una lunga iscrizione in lingua picena, scritta da destra a sinistra (come l’ebraico, o i fogli di Leonardo), tramanda probabilmente il nome dello scultore o del committente (“Aninis”?), e almeno parte di quello del protagonista (“Pomp.”). Ma forse non è l’identità dell’eroe la questione più affascinante che la statua presenta alla mente dei suoi visitatori. Essa ci parla di un’Italia remotissima, eppure ancora presente per segni e oggetti (come dimenticare la testa di guerriero trovata a Numana, e oggi al Museo non meno Nazionale delle Marche, ad Ancona?): l’Italia dei Piceni, che conosceva bene i contemporanei, elegantissimi Kouroi attici (due ne sono stati trovati a Osimo, e oggi sono a Firenze), ma sceglieva orgogliosamente uno stile proprio, diverso ed eloquentissimo nel suo ostentato carattere, per così dire, anticlassico. Un’Italia centrale già allora in dialogo con il mediterraneo intero, dunque: ma gelosamente capace di costruire modelli estetici lontani dal mainstream, e ad esso anzi alternativi. Come doveva essere quell’Italia del VI secolo avanti Cristo, con il suo paesaggio che è ancora in gran parte il nostro, in una sovrapposizione continua che rende ogni nostro gesto come la mossa di un ballo a cui partecipano legioni di invisibili compagni? Un’architettura e una figura, una valle e una piccola città di provincia. Andiamo ora a sud, e chiudiamo con un palinsesto straordinario di tutte le arti.

 

Si spalanca il paradiso

Un fuoco d’artificio che brilla su Napoli: la Cappella del Tesoro di San Gennaro, cui si accede dalla navata destra del Duomo. Un monumento celeberrimo: ma quanti italiani centro–settentrionali l’hanno vista? Varcandone la soglia, si entra in un’altra realtà, perché sulla nostra testa si spalanca il paradiso, in un turbinio di nuvole e santi; ci circonda e ci pressa un popolo di statue d’argento e di bronzo; una serie senza fine di storie colorate si snoda sulle pareti. La storia di queste ultime è particolarmente complessa. La Deputazione voleva avere i migliori frescanti del momento, e nel 1630 scelse un geniale bolognese, Domenichino. Egli affrescò completamente le lunette e i pennacchi della Cupola: e queste scene affollatissime e concettose rappresentano il risultato più spintamente barocco della sua intera opera.

In alcune parti (come la lunetta dedicata al miracolo contemporaneo con cui San Gennaro avrebbe fermato l’eruzione del Vesuvio del 1631) Domenichino raggiunge un’altissima intensità lirica, pur in una forma distesamente narrativa. Replicando lo schema celebratissimo di Sant’Andrea della Valle a Roma, alla morte di Domenichino la Deputazione ottenne che ai pennacchi affrescati da quest’ultimo si sovrapponesse una cupola dipinta dal suo grande confratello e rivale carraccesco, Giovanni Lanfranco, già attivo per Napoli. Il risultato fu lo spettacolare Paradiso (1641–’43), una gran macchina rotante di nubi e figure: vero paradigma per le cupole dipinte del barocco napoletano.

I Deputati del Tesoro pensavano alla Cappella come ad un gigantesco reliquiario prezioso, ed ebbero la irrituale idea di far dipingere le sei pale per gli altari della cappella non su tele o tavole, ma su lastre di rame incorniciate da pietre dure: ottenendo dipinti eccezionalmente luminosi e levigati. Una delle pale fu lasciata al principe dei pittori napoletani, Jusepe de Ribera, che volle gareggiare con i maestri bolognesi della luce e trasformò il suo quadro in una festa di colori brillanti come smalti. Sono indimenticabili l’azzurro del cielo e l’oro degli abiti del santo, che squarciano l’aria della cappella come squilli di tromba. E poi c’è proprio lui, Gennaro: che esce senza una bruciatura – solo un po’ pallido, sudato, la mitria sulle ventitré – dalla fornace in cui l’avevano chiuso i soldati romani, certi di cuocerlo a puntino. Come quello di un pupazzo a molla, il suo salto spacca in due il quadro: sotto, più vicino a noi, ecco il terrore e lo stupore degli uomini (e di quel ragazzo vestito di rosso, che ci guarda negli occhi e spalanca la bocca, per terrore o per gioco); sopra, verso il cielo della cupola, va in scena la danza serena degli angeli. Alle immagini bidimensionali si accompagnano le statue: al miglior allievo di Bernini, Giuliano Finelli, fu chiesta la statua in bronzo di San Gennaro in cattedra, che riuscì una sorta di riscrittura sacra dell’Urbano VIII di Gian Lorenzo in San Pietro, oltre alle 12 statue dei compatroni della città, cui nel corso del Sei e del Settecento se ne aggiunsero altre, in bronzo e in argento. Insieme al paliotto d’argento di Gian Domenico Vinaccia (1692–’95), e a un ricco corredo di vasi sacri e suppellettili, le opere formano uno dei vertici dell’arte barocca europea: unitario e conservato come pochi altri. Cosa aspettate ad andarlo a vedere?