“Silvio, fai come Bill Gates, costruisci una fondazione”

Ecco Paolo Del Debbio – filosofo e star dell’informazione pop – alle prese con l’inverarsi di ciò che fu.

“Cosa fu?”.

Ella – messere – fu l’estensore della rivoluzione liberale: la discesa in campo di Silvio Berlusconi ebbe le sue parole.

Domine non sum dignus!

Cosa c’è oggi di quella stagione…

Tutto è consunto, sono vivi i temi liberali – le tasse, arginare le prerogative dello Stato – ma proprio perché fu fatto poco di quel programma sono emersi i movimenti oggi al governo.

C’erano Gianni Baget Bozzo, Lucio Colletti, Piero Melograni…

…il compianto Mimmo Mennitti, quindi con lui la nascita della rivista Ideazione; se ci pensa, prima del 1994, nessuno proponeva un programma, c’era solo il voto di appartenenza…

Tutto quel furore di novità, oggi?

Oggi è tutto un pianto.

Forse perché liberali sono diventati quelli di sinistra?

Matteo Renzi si prese tutto di quel mondo, è vero: il Jobs Act e la riforma dello Stato, per esempio, sono 2 temi fondamentali ma ci arrivò tardi – e col pennacchio dell’élite – rispetto a un’Italia ormai insofferente al mainstream; gli votavano contro a prescindere dalla difesa della Costituzione e lui, e tutti quelli come lui, erano e sono sordi.

Soli?

Sordi! Prima del Governo Gialloverde pensavano di essere invincibili, stabili come la Dc al governo dal 1948 fino al 1992; fu Tangentopoli a far sloggiare lo scudocrociato. Per questi è stata sufficiente “Sordopoli”: sordi alle urgenze del popolo, quelle del trionfo M5S e Lega; la povertà – Il tema dei CinqueStelle – e l’immigrazione di Matteo Salvini.

Due temi, messere, che sono il suo menu. La chiamo messere apposta, Ella è stato il Mefistofele di questo sabba popolist-sovranista!

Io ho dato voce ai rappresentanti di una ventina di milioni d’italiani. Già nel 2012, la mancanza di lavoro era un fatto; quella era la stagione dei suicidi degli imprenditori sopraffatti dalle tasse, le piccole imprese avevano, e forse oggi ancora di più, solo problemi. Ho trovato un pubblico che si riconosceva.

La tivù vince sulla politica?

Sì, perché i problemi sono irrisolti. Io non ho avuto bisogno di 400,000 euro, quanti ne ha scuciti Jim Messina a Renzi, per sbagliare l’analisi elettorale: io conosco la realtà e già sapevo che avrebbero vinto le elezioni i populisti e i sovranisti.

Adesso però c’è l’Altra Italia di Berlusconi e se li mangia in un sol boccone tutti questi bricconi.

L’unica cosa sicura dell’Altra Italia è che non è questa; come quelli che fanno la Terza Via, quando non c’è manco la seconda…

Ella ha fiuto, come andrà a finire?

Non so rispondere, la realtà non è certo un tartufo; io so che questo governo – e in particolare Salvini – deve stare attento alla questione del Nord, per la prima volta nella sua storia la Lombardia ha difficoltà di crescita.

Dopo aver sofferto i poveri, adesso patiscono i produttori, gli imprenditori…

La povertà, purtroppo, non risulta abrogata; c’è una fase in cui chi è a disagio, vede una speranza e aderisce a una stagione politica, crea il consenso… Ma poi la fame morde, torna ed è, la fame, un volano molto più forte dell’ideologia. E si sente!

L’Italia è isolata?

È isolata da chi la vuole vedere tale, da Moscovici che lo dice, da Junker che nelle ore a basso tasso etilico ripete le stesse cose ma di certo l’Italia non è isolata dal punto di vista commerciale; la Germania, per esempio, isola l’Italia? C’è un interscambio di 130 mld annui, si dirà: gigante economico, nano politico, ma è forse gigante l’Europa, totalmente assente tra le due ‘T’, quelle che vanno da Tunisi a Teheran?

Passando per Lampedusa.

Eccolo là, il Mediterraneo… l’Europa è politicamente lillipuziana.

Ha letto qualche giorno fa De Rita, dice che prevalgono ‘valenze teatrali, aggressività, volgarità’, ella si sente volgare?

Manco per il cazzo! La metta pure per iscritto; a teatro c’è la buca del suggeritore, non l’ho mai sopportato.

Eppure Ella fu suggeritore di Berlusconi, cose suggerirebbe oggi?

Di fare una fondazione come di Bill Gates: ha la statura.

Certo, questo suo finale di partita, esce di scena come un Fiorentino Sullo.

E senza neppure un Ciriaco De Mita che gli succeda.

Tutti i suoi bracci destri!

Silvio è la Dea Kali dai molteplici bracci, tutti destri e tutti mozzi: Cesare Previti, Angelino Alfano, Mara Carfagna nel comitatino…

Ma lui il Cavaliere è sempre nella fase ‘Aspettando Godot’.

Macché. È sempre un Aspettando Godè, e pure assai.

La sindaca leghista vuole un monitoraggio: “Troppe critiche da studenti e docenti”

Cattivi maestri. O quasi. Perché per il sindaco di Monfalcone, Anna Maria Cisint il problema dell’egemonia degli insegnanti di sinistra nelle scuole esiste. E forse anche per questo ha ipotizzato di istituire un monitoraggio che ha scatenato subito le polemiche. “Alcuni genitori e insegnanti mi raccontano che in alcune scuole si criticano le mie ordinanze, da settembre potranno riferirlo al Garante per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” ha detto l’esponente del carroccio che ritiene che alcuni docenti, per le loro ideologie osteggino apertamente le scelte degli italiani verso la Lega. Di “caccia alle streghe contro i terribili ‘insegnanti di sinistra’ che infestano le scuole pubbliche ” parla Deborah Serracchiani che via social commenta: “La sindaca Cisint vede ‘comunisti’ dappertutto e invita i ragazzi a fare i nomi di chi la critica. Parola d’ordine: bocca chiusa e ubbidire al Capitano”.

Norme su rider, Whirlpool e aziende in crisi. In arrivo il dl Di Maio per “i più sfruttati”

È l’ultimo decreto prima della pausa estiva che ha il timbro dei ministeri del Lavoro e dello Sviluppo Economico, entrambi guidati da Luigi Di Maio: da approvare al Consiglio dei ministri di questa settimana, interviene sulle crisi aziendali, a partire da Whirlpool, e sui rider sui quali sembra esserci una intesa con la Lega (che invece manca sull’immunità per l’ex Ilva).

In diretta su Facebook, Di Maio conferma i 10 milioni per salvare Whirlpool (e 6,9 nel 2020). La norma consentirà di tenere aperta la sede di Napoli esentando l’azienda dal contributo addizionale a carico delle imprese che chiedono integrazione salariale, che appartengano al settore degli elettrodomestici, che abbiano unità produttive di cui almeno una in un’area di crisi complessa, che occupino più di 4 mila lavoratori e che abbiano stipulato contratti di solidarietà nel 2019 per almeno 15 mesi. Viene inoltre rafforzata con 20 unità la struttura di crisi del Mise, e istituito un osservatorio ad hoc con la collaborazione delle Camere di commercio.

Soprattutto, è introdotta una norma per i rider che avranno una sorta di “subordinazione ibrida”: le piattaforme digitali vengono inserite nel testo attuativo del Jobs Act che disciplina il lavoro subordinato, ma nell’articolo che norma le collaborazioni che di fatto possono presentare delle eccezioni. Il testo prevede l’inserimento di molte tutele: l’assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie, il pagamento a consegna a patto che tale modalità “non sia prevalente” e riconoscimento, invece, della paga oraria qualora per ogni ora di lavoro si sia accettata almeno una consegna. Viene comunque lasciata autonomia negoziale e sindacale per definire “schemi retributivi modulari e incentivanti”. Inoltre si prevede l’introduzione di un osservatorio permanente al ministero del Lavoro. Previste anche maggiori tutele per i collaboratori: per gli iscritti esclusivamente alla gestione separata Inps, basterà una mensilità di contribuzione nell’anno invece delle tre attuali, per fare scattare sia la disoccupazione sia le altre tutele, dalla maternità ai congedi parentali. Si affronta anche il nodo dei precari Anpal: niente concorsi ma “percorsi” di stabilizzazione e la possibilità, per l’organico, di utilizzare tutti i 10 milioni destinati al suo funzionamento. Infine, Di Maio annuncia un rimpinguamento del fondo per gli incentivi all’assunzione di lavoratori disabili: “Ora ha un Iban e metteremo una parte degli stipendi dei parlamentari M5S”.

Il decreto sui docenti precari che fa litigare Bussetti e M5S

È guerra aperta sul decreto cosiddetto “salva precari” che il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti porterà in consiglio dei ministri giovedì: in pratica darà il via libera alla sanatoria per i docenti precari annunciata a ridosso delle elezioni europee, di fatto favorendo solo una categoria di precari e rischiando, facendolo, di crearne altri. Il decreto, che il Fatto ha potuto visionare in una delle bozze che circolano, prevede infatti l’indizione di percorsi eccezionali per mettere in regola tutti quei docenti precari da almeno tre anni e in questo modo sfuggire alla furia di Bruxelles che ha già aperto una procedura di infrazione contro l’Italia per l’abuso di contratti a tempo determinato nella pubblica amministrazione.

Lo fa prevedendo due percorsi: il primo è l’indizione dei Pas, i cosiddetti percorsi abilitanti speciali, a pagamento, che si terranno nelle università a cui potranno partecipare i docenti che tra il 2011 e il 2019, per almeno tre anni anche non consecutivi, abbiano svolto ogni anno almeno 180 giorni di servizio (quindi circa sei mesi di insegnamento all’anno) o che, senza soluzione di continuità, abbiano tenuto lezioni per tre anni dal primo febbraio agli scrutini finali. I Pas sono poi riservati anche ai dottori di ricerca (altra concessione che non piace ai precari “tradizionali”).

Il secondo è l’indizione di un concorso definito “facilitato” dai moderati, “farsa” dai più agguerriti. Prevede le immissioni in ruolo per le scuole medie e superiori (24 mila) e sarà bandito con “misura straordinaria” entro il 2019. Si prevede che ai vincitori andrà il 50 per cento dei posti disponibili “in ciascuna regione e classe di concorso” dall’anno prossimo al 2023. I requisiti per partecipare sono gli stessi del Pas, ma l’esperienza di 36 mesi dovrà essere stata effettuata nelle scuole statali (escluse quindi paritarie e private). Si può partecipare in una sola regione. La procedura, si legge nel testo, prevede una prova scritta da svolgere al computer (a crocette) e una orale. La graduatoria sarà su risultati e titoli, può parteciapre anche chi non ha l’abilitazione e una volta in gradutaoria ci sarà “l’ammissione al percorso annuale di formazione iniziale e prova e la successiva eventuale immissione in ruolo”. E se il decreto indica che per accedere alla prova orale serviranno almeno sei decimi, non ci sono però indicazioni sul voto minimo da raggiungere. Insomma, si sarà “tutti promossi”. Parallelamente, è previsto un terzo concorso per tutti i laureati che abbiano conseguito i 24 crediti in discipline sociopedagogiche necessari per insegnare.

“Nessuna contrapposizione pretestuosa al decreto scuola – hanno commentato ieri i parlamentari del M5s –. Questa ipotesi di reclutamento favorisce alcune categorie di precari a discapito delle altre. Quello che (il ministro, ndr) non ha concordato prima con il M5s deve concordarlo prima che questo dispositivo esca, se vuole che sia convertito in legge con i nostri voti”. Chiedono che si rispettino le linee dell’intesa del 24 aprile “percorsi abilitanti selettivi e concorso con procedure adeguate e non con selezione semplificata”. Sostengono possa essere “incostituzionale” una riserva di posti per i docenti con 36 mesi di servizio che può arrivare, in alcuni casi, ad oltre il 70%. “Occorre fare in modo che non ci siano disparità: migliaia di docenti in graduatoria ad esaurimento, vincitori e idonei di concorso attendono di essere assunti da anni”.

Il Gattopardo non molla: “I vitalizi non si toccano”

L’ultima battaglia le rappresenta tutte. Nell’Italia dove la lotta alla casta è da anni valore politico, dove una pensione d’oro desta più scandalo di una mazzetta e dove il politicamente corretto ha persino stufato, la Sicilia conserva orgogliose resistenze. L’ultima, appunto, è sul ricalcolo dei vitalizi degli ex consiglieri regionali (sull’isola si chiamano deputati), ovvero chi è stato eletto all’Assemblea venti, trenta o quarant’anni fa e percepisce lauti assegni mensili su base retributiva anche solo in virtù di una o due legislature.

La scorsa primavera una legge dello Stato voluta dal ministro Riccardo Fraccaro ha imposto il taglio a tutte le Regioni, sulla base del testo già adottato dalle Camere. Il limite massimo concesso ai territori era quello del 31 maggio, prorogato solo per chi ha rinnovato il Consiglio nei primi mesi del 2019. La Sicilia, però, fa a modo suo. La legge ancora non c’è e le cose vanno per le lunghe. Ma mica per ritardi tecnici: per rivendicata volontà politica. Gianfranco Miccichè, presidente del Parlamento siciliano, lo dice da mesi: “Non sono disponibile a tagliare i vitalizi. Non posso consentire il massacro sociale di persone che hanno solo la colpa di aver servito questa terra”. E che importa se parliamo di ex consiglieri con assegni anche superiori ai 5mila euro. Neanche la minaccia di tagliare fino al 20 per cento dei fondi statali trasmessi alle Regioni (esclusi quelli per servizi fondamentali, come la Sanità) spaventa i siciliani. Adesso l’Assemblea ha creato una commissione ad hoc che dovrebbe occuparsene, ma il 31 maggio è passato da due mesi e con la pausa estiva in arrivo si arriverà come minimo all’autunno, nonostante il solito incalzare del Movimento 5 Stelle: “L’ultima seduta è stata il 17 luglio – spiega la 5S Jose Marano – dopodiché il silenzio. Evidentemente è prioritario mantenere poltrone e benefit che ci costano 18 milioni di euro l’anno”. In Italia – a parte il Trentino-Alto Adige, sollecitato di recente anche da Fraccaro – manca solo la Sicilia.

Certo, lo sviluppo dell’isola ha ostacoli ben più profondi di un assegno ricalcolato, ma le barricate vitalizie nascondono un certo conservatorismo poco turbato dai venti della Terza Repubblica, nonostante il cosiddetto populismo – almeno quello con cui viene identificato il M5S – qua abbia realizzato cappotti elettorali. Certo cose non attecchiscono, restituendo descrizioni della realtà che sembrano fuori dal tempo.

L’anno scorso l’Assemblea regionale ha lavorato in Aula per una media di 7 giorni e mezzo al mese. Ottantasette giorni in un anno. Il record a maggio: quattro ore e 34 minuti. Totale delle leggi approvate: 21.I dati sono pubblici, diffusi per altro dai 5 Stelle siciliani: “L’Assemblea è costata 1.000 euro al minuto, 137 milioni in un anno. La Casa Bianca ne costa 136”. Che il conto sia giusto al centesimo importa poco. Conta lo spirito del tempo, come si dice, lo stesso che a fine della scorsa legislatura ha riesumato una pratica antica, quella dell’ultima infornata di portaborse e collaboratori, buona anche per avvalersi delle prestazioni di parenti illustri, amici illustri, colleghi illustri. Forza Italia, per esempio, si è assicurata Federica Tantillo, figlia dell’ex deputato Giulio, e Laura Genco, figlia di Giuseppe, consulente del gruppo. Nel Pd largo tra gli altri a Peppe Di Cristina, segretario dem di Caltanissetta e genero dell’ex deputato regionale Lillo Speziale. La Corte dei Conti ha già provveduto a segnalare una situazione “inammissibile e paradossale”: negli ultimi anni si sono tagliati 20 deputati eppure i costi sono rimasti praticamente identici, causa il boom delle spese collaterali. Qualcosa non torna, ma è comunque forma di rivendicazione autonomista, specchio del desiderio che non si metta troppo il becco da fuori sull’amministrazione regionale. Emblematica una delibera dello scorso marzo che ha dato il via libera all’aumento del numero di cariche nelle giunte comunali. Un modico incremento di 355 assessori sparsi per tutta la Sicilia. “A costo zero”, spiega la Regione. Certo, pagheranno i Comuni.

E guai a pensare di imporre quote rose, pur ormai incluse – e, a onor del vero, spesso aggirate – in ogni legge elettorale dai Comuni alle Europee e previste dal buon senso, se non dalla legge, nella formazione dei governi. In terra sicula preferiscono esser liberi da briglie, così la Regione ha respinto un emendamento che prevedeva una rappresentanza di genere nelle giunte di almeno il 40 per cento. Se uguaglianza sarà, non passerà dai codici: prima c’è una resistenza da vincere.

Ma mi faccia il piacere

Fregature. “Salvini sbotta: è un testo da gattopardi, i 5Stelle si sono fatti fregare dai magistrati del ministero” (Corriere della sera, 1.8). Per non farsi fregare, potevano chiedere agli inquisiti e ai pregiudicati della Lega.

Senti a chi parla. “Il Pd parli all’elettorato M5S” (Nicola Zingaretti, segretario Pd, Corriere della sera, 2.8). Ma guarda che poi quello ti risponde.

Gara di solidarietà. “La raccolta di fondi online per aiutare Formigoni. Mobilitazione su Facebook: all’ex governatore ora ai domiciliari tagliati pensione e vitalizio”, “Sono centinaia. E si sono mobilitati su Facebook. C’è chi darà qualche spicciolo e chi centinaia di euro. Ieri sera è arrivato l’Iban e i primi bonifici sono in partenza. Chi pensava che Roberto Formigoni fosse una pagina da dimenticare resterà deluso: i fan e gli amici non mollano e vogliono aiutarlo in un momento non facile… Non è semplice tirare avanti per quello che dieci anni fa era uno degli uomini più potenti d’Italia… Una parte dell’opinione pubblica considera la stagione formigoniana una sorta di età dell’oro per la Lombardia, particolarmente sul versante della sanità… I soldi verranno gestiti dal Comitato Amici di Formigoni che aggiornerà puntualmente i donatori” (Stefano Zurlo, il Giornale, 4.8). Su un conto alle Cayman.

Cick to Cick. “Contro Formigoni odio senz alimiti: vogliono che torni in cella senza pensione” (Fabrizio Cicchitto, ex Psi, ed FI, ex Ncd, Libero, 4.8). Manco l’avessero condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione.

Scola Cantorum. “Formigoni è energico ma provato. Vive in profondità una continuità con la sua esperienza di fede e con il suo grande impegno civile” (cardinale Angelo Scola, ex arcivescovo di Milano, il Giornale, 30.7). E pensare che questo abbiamo rischiato di ritrovarcelo papa.

Dalla parte giusta/1. “Delrio: ‘Sulla Tav nessun tatticismo. Saremo in aula contro i 5Stelle’” (Repubblica, 31.7). E con la Lega.

Dalla parte giusta/2. “La lezione di Renzi: ‘Lasciate stare il figlio di Salvini’” (Libero, 1.8). Ecco uno che capisce sempre tutto.

Cleopatro. “Il Pd vuol, diventare il ruotino di scorta dei 5Stelle: auguri…” (Davide Faraone, segretario deposto del Pd siciliano, Il Dubbio, 27.7). Vuoi mettere invece quando erano il ruotino di scorta di B. e di Verdini.

Il vice. “Se foste un fumetto, quale personaggio sareste? #spidy #spiderman #marvel #post #yellow #meinyellow #meincoon” (Carlo Sibilia, M5S, sottosegretario all’Interno, Instagram, 30.7). Già, come ministro dell’Interno, abbiamo Salvini. Poi, come vice, abbiamo questo.

Gozilla. “Nel governo a fianco di Macron sono un sovranista d’Europa. Mi considero un uomo di confine che lavora per abbattere i confini della politica nazionale” (Sandro Gozi, ex deputato Pd, poi trombato e ora responsabile delle Politiche europee del governo Macron, La Stampa, 30.7). Tipo i gendarmi francesi che sconfinano a Bardonecchia per arrestare i migranti o scaricarceli nei boschi di Claviere?

Pronto intervento BHL. “Abbiamo dimenticato la bellezza della pace. E’ necessario tornare a raccontarla” (Bernard Henri Lévy, La Stampa, 2.8). Non per nulla lui plaudiva alle bombe Nato sull’ex Jugoslavia e la Libia.

Il solito triv triv. “Io domenica 17 aprile vado a votare e vado a votare Sì e spero che siano in tanti a farlo perchè il nostro petrolio… la nostra ricchezza è il nostro paesaggio, il nostro turismo, il mare, la pesca e non qualche buco nell’acqua” (Matteo Salvini, segretario Lega, alla vigilia del referendum per bloccare le trivellazioni petrolifere in mare, 7.4.2016). “Ferma le trivelle, vota Sì alla faccia di Renzi. Difendiamo il nostro territorio dal rischio di disastri e incendi. Impediamo a Renzi di svendere i nostri mari a qualche petroliere. Tuteliamo pesca e turismo le nostre vere ricchezze” (volantino della Lega Salvini Premier, 8.4.2016). “Prenda le trivelle petrolifere. Ho qui il dossier.É tutto bloccato dal ministro dell’Ambiente, Costa. Ovunque al mondo si trovi il petrolio, si festeggia. In Italia, no. E dire che le nostre aziende sono all’avanguardia anche nel rispetto dell’ambiente” (Matteo Salvini, segretario Lega, vicepremier e ministro dell’Interno, La Stampa, 3.8.2019). Senza parole.

I titoli della settimana.“Perchè il carabiniere non ha sparato. I militari erano armati, ma le leggi tutelano i delinquenti più di loro” (Libero, 28.7). “Carabinieri e poliziotti non possono difendersi” (Libero, 30.7). “’Il carabiniere non poteva sparare perchè sarebbe stato incriminato’. Lo sconforto del comandante provinciale dell’Arma” (La Verità, 31.7). No, non poteva sparare perchè s’era scordato la pistola.

La carica dei 101 colpi di coltello: tutte le stragi della Manson Family

Il 9 agosto 1969 gli “adepti” della Manson Family idearono ed eseguirono gli eccidi di Cielo Drive a Los Angeles, in California, in cui persero la vita l’attrice (e moglie di Roman Polansky) Sharon Tate, il suo amico e parrucchiere Jay Sebring, Abigail Fogler, Wojciech Frykowski e Steven Parent, uccisi a colpi di pistola e coltello. E quelli di Waverly Drive, in cui le vittime furono Rosemary LaBianca e suo marito Leno, assassinati con una forchetta.

Un libro dello scrittore e architetto Mariopaolo Fadda, uscito in questi giorni – La famiglia Manson. Dall’estate dell’amore all’estate dell’orrore (Odoya)– ripercorre la dinamica dei fatti partendo dalla complessa verità giudiziaria, dall’ambiente degli hippy californiani e dalle biografie dei protagonisti.

Primo tra tutti il principe del male, un ragazzo cresciuto in una famiglia altamente disfunzionale che per i propri tornaconti mise insieme una comune di assassini: Charles Manson plasmò le menti del suo entourage grazie alla sua personalità carismatica (“ipnotica”) e all’ambiente in cui sesso libero e musica si alternavano a devastanti assunzioni collettive di Lsd. Il libro ricorda che Manson, nel variegato ambiente della L.A. di quel periodo, frequentò artisti del calibro di Michael Caine, Dennis Wilson (Beach Boys) e Neil Young. Proprio grazie a questi “giri di amicizie” conobbe il produttore Terry Melcher che gli promise un posto al sole nello star system. Probabilmente proprio a causa della frustrazione delle sue ambizioni da rock star, Manson, mente degli omicidi, fece scatenare in quella particolare casa di Cielo Drive l’inferno (furono inferte ben 101 coltellate): la villa al numero 10050 era stata fino al febbraio del 1969 la casa di Melcher.

Il sostituto procuratore Vincent Bugliosi è l’eroe di questa vicenda: durante il lungo e sfiancante processo dimostrò l’influenza che Manson aveva sul suo gruppo (soprattutto sulle giovanissime ragazze, spesso scappate di casa) e riuscì a collegare i suoi “sermoni” − tra il disprezzo per l’establishment e il razzismo nei confronti degli afroamericani che a detta di Manson avrebbero scatenato una guerra − ai simboli tracciati sulle pareti delle ville con il sangue delle vittime. Tutti i membri della Famiglia che avevano preso parte agli omicidi furono condannati a morte, ma la pena fu commutata in ergastolo dopo l’abolizione della pena di morte in California: tuttavia, nessun giudice accordò mai loro la libertà condizionata.

Nonostante le ripetute richieste Manson morì nel 2017 e il libro racconta anche il giallo sul suo cadavere conteso. Finì al nipote nato dall’unico figlio, poi morto suicida, del matrimonio di Manson (vari i figli nati da donne diverse). Le ceneri sono state disperse per evitare di creare un luogo di richiamo degli adepti. “La vicenda di Manson”, spiega l’autore, “dimostra come una ribellione che tenti di scardinare alla radice, anche nel modo più pacifico, un’intera società per crearne una nuova di zecca – fondata sull’assenza di princìpi morali, sull’uso indiscriminato delle droghe e sul ritorno a un mitico stato di natura – possa essere facilmente dirottata da uno psicopatico e da una banda di robot a lui asserviti lungo i binari della più selvaggia distruzione”.

“C’era una volta… a Hollywood”. Il più grande spaccio di favole

Hollywood, la più grande piazza di spaccio – di favole – al mondo: solo quel burlone di Quentin Tarantino poteva trasformare una cronaca truce – gli efferati delitti della gang di Charles Manson nella Los Angeles del 1969 – in una fiaba. A sua volta un poco truce, sì (non erano forse truci quelle dei fratelli Grimm?), ma dal lieto fine, e qualche silenziosa lacrimuccia, altresì omaggio a quella macchina perfetta che sa confezionare le più belle bugie: il cinema.

Con C’era una volta… a Hollywood (Once Upon a Time… in Hollywood), il regista americano – alla sua nona prova – stravolge la Storia, citando fin Disney (“un genio”), a cinquant’anni esatti dall’assassinio di Sharon Tate, allora moglie (incinta) di Roman Polanski, e altri disgraziati inquilini di Cielo Drive: “Non so se il cinema può cambiare la storia, ma di certo la può influenzare”, scherzava ieri Tarantino alla première romana del film, che uscirà nelle sale italiane il 18 settembre (prodotto da Sony Pictures e distribuito da Warner Bros). “Chiudo così il mio personale trittico di riscritture, dopo Bastardi senza gloria (2009) e Django Unchained (2012)”.

In America, intanto, la pellicola è già in sala da fine luglio e ha incassato 40 milioni di dollari solo nella prima settimana di programmazione: un record al box office per il maestro (che questa volta ha speso 90 milioni). Laggiù la critica si è divisa: i più originali hanno bollato l’autore come “nostalgico”, i meno originali gli hanno dato del “razzista, maschilista” e avvoltoio per aver “speculato sulla tragedia” e blablabla. Manca solo chi stigmatizzi le stoccate anti-MeToo (come l’attrice di 8 anni che si sente offesa se la chiamano “pasticcino” sul set) o la sigaretta sempre in bocca – ah, com’era tollerante Hollywood – e si è detto tutto. Quanto alla trama, un pastiche raffinato di realtà e finzione, è cucita addosso a Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), mediocre attore televisivo, ormai al tramonto, nonché dirimpettaio di Polanski e Tate (Margot Robbie) a Los Angeles alta: lo vediamo per una manciata di giorni nel febbraio del 1969 e poi in agosto, all’alba della strage. Con lui, inseparabile, è Cliff Booth (Brad Pitt), amico e molto altro: gli toglie i “fardelli” di torno; è il suo stuntman, il suo antennista, il suo tuttofare, il suo chauffeur, il suo segretario, il suo salvatore. Il set è la maledetta città degli angeli: quella di Manson e della Mansion, la Playboy Mansion, con le sue feste in piscina, i neon abbaglianti, la musica assordante (decisamente troppa, anche nel film). Ricacciati nel limbo, né vivi né morti, stanno gli hippy: le loro comuni paiono un Far West, e infatti una di esse sorge proprio tra le baracche e le roulotte di una vecchia location del cinema western. È beffardo qui il regista, altro che nostalgico o razzista: i figli dei fiori paiono zombie, e la loro comunità un gineceo di streghe isteriche, sballate, ninfomani, tossiche. Di uomini pochi, e pure smidollati.

Come ogni opera arte degna del nome, anche quella di Tarantino parla soprattutto di una cosa: di altre opere d’arte. È cinema nel cinema, del cinema, sul cinema: metalinguaggio, recita nella recita, matrioska, antologia di citazioni e “a parte”; certo, qualche siparietto western, su quasi tre ore di film, si sarebbe potuto sforbiciare… E poi il tema del doppio, squisitamente teatrale, tanto che nei titoli di testa i nomi di Pitt e DiCaprio compaiono invertiti, l’uno sulle spalle dell’altro: al cuore della faccenda pulsa, infatti, una commovente storia di amicizia, tra l’originale e la copia, l’attore e la sua controfigura. Cliff è un personaggio strepitoso, lo specchio, il “partner”; non a caso, la relazione tra i due finirà quando arriva il partner ufficiale: una moglie vera, raccattata sulla via di Roma, dove i due sono volati a cercare fortuna – su imbeccata di Marvin Schwarzs (Al Pacino) – a Cinecittà.

Non perde occasione Tarantino per omaggiare i suoi maestri, italiani in primis: “Sono un fan dei film di genere, i cosiddetti B-movie: poliziotteschi, commedie sexy e soprattutto gli Spaghetti Western di Leone, Tessari, Sollima, Corbucci…”. Durante la conferenza stampa, nonostante la maglietta con la scritta “Brutalism” e i riferimenti alla sua opera “tutta di violenza”, Quentin ostenta uno sgangherato sorriso. Pare sempre un bambinone alle prese col suo giocattolone: il cinema. Non può che finir bene.

“La sera che Bush mi prese per un cameriere messicano”

Telefonata a Giovanni Floris, oggetto della conversazione: l’intervista della domenica. “Ma no, meglio di no”. Perché? “Non mi sembra il caso, non mi piace apparire sul piano personale”. “Evitiamo di andare (troppo) sul personale”. “No, ma grazie”.

Cortese, pacato, deciso. Floris.

Il giorno dopo Marco Travaglio chiede conto del “no”. Sorride per la motivazione, prende il cellulare, e chiama proprio Floris. Trattativa serrata, il conduttore di DiMartedì accetta.

Squilla il mio cellulare, è Floris, e la prima frase, pronunciata con voce squillante e ridanciana, è: “’Tacci vostra”.

Ecco l’appuntamento.

Floris quando parla, non cambia quasi mai il tono della voce, è gentile, sorride, ma non offre appigli, sembra un giocatore di poker professionista, uno di quelli che in gara vestono con il cappuccio della felpa perennemente sulla testa: stizzito o concentrato, ridanciano o rilassato, mantiene il medesimo passo, al massimo incrocia le braccia quando una domanda non lo convince, oppure se la fa ripetere, come ai tempi delle interrogazioni di scuola. Ci tiene alla riservatezza, scinde il pubblico dal privato, la professione da amici e famiglia, e sa qual è il valore del dubbio, e con lui le sfumature non sono sempre tali. A casa i libri arredano le pareti. “Però ora leggo solo su Kindle e prendo molti appunti a parte”.

Non le piace venir intervistato.

Sembra strano parlare di se stessi, se non per ciò che uno pensa della professione o della politica. Piuttosto, perché me l’ha chiesta?

Perché no?

Chi è in televisione non è per forza un personaggio.

Non lo è?

Sono solo uno che si prepara e ha una trasmissione.

Chi è in televisione diventa personaggio.

Ciò non obbliga a esporsi.

Da ragazzo si esponeva?

In che senso?

Rappresentante di classe? D’istituto? Assemblee?

Sì, sempre. Ma anche a DiMartedì mi espongo e volentieri, questo lavoro mi piace moltissimo, poi separo i due mondi: quello privato e quello della professione.

Ha mai rivisto le prime puntate di “Ballarò”?

Ieri per la prima volta: ho chiamato il mio gruppo per preparare questa intervista.

Gruppo storico.

Nato al G8 di Genova del 2001: eravamo lì per Radio anch’io.

Insomma, come si giudica?

L’approccio è simile ad adesso; è differente la trasmissione, differente il contesto: nel frattempo è accaduto di tutto. (sorride) Mi ha colpito rivedere Berlusconi mentre mi sposta, le telefonate in diretta, Di Pietro leader, lo scontro tra D’Alema e Cofferati; poi ero più giovane e più magro.

D’Alema mandò in crisi Cofferati.

Sposto la questione: c’è un tratto che unisce la mia carriera ed è il confronto tra principio di realtà e principio di volontà; in quel caso a coprire i ruoli erano D’Alema e Cofferati.

Al giornale radio di cosa si occupava?

Di economia.

Gli anni di Dini e Ciampi.

Ciampi è stato un’alta espressione della politica: aveva senso di responsabilità, competenza, appartenenza. E forse con lui si sono fuse realtà e volontà.

Differenza tra “Ballarò” e “DiMartedì”.

I leader venivano in trasmissione e si confrontavano; oggi il pubblico preferisce le interviste, d’altronde, spesso, persino i leader sono persone ignote ai più e il telespettatore li vuole conoscere.

I leader sono presenti.

È una generazione ben disposta: in passato non era così facile intervistare il premier, e poi oggi nessuno si alza e se ne va, accettano le domande e non delegittimano.

La hanno delegittimata molto?

L’accusa più frequente dalla destra era di filocomunismo, e quando le domande non piacevano alla sinistra, puntavano sul “ti sei allineato”.

È mai stato comunista?

La mia formazione è liberal socialista, ho studiato con Dario Antiseri, laureato con Luciano Pellicani, e ho avuto la fortuna di lavorare con Gino Giugni.

Che Guevara, kefiah, eskimo…

Mi sono formato negli anni 80, non c’era quella politica, eravamo de-ideologizzati. Mi interessava la filosofia, la sociologia e la letteratura.

Lei negli anni 80.

Giocavo a pallone, mi piaceva studiare, gli amici, e poi l’iscrizione a un’università privata, ma senza mettermi l’orologio sopra il polsino della camicia.

In quanti anni ha chiuso l’università?

Poco più di quattro con in mezzo il servizio militare.

Veloce.

Dovevo sbrigarmi, costava molto.

Voto.

110 e lode a Scienze Politiche.

Bocciato, mai.

Alcuni esami li ho tentati: per l’ultima prova avevo come professore Antonio Martino (poi ministro con Berlusconi). Ero in divisa e non un preparato. Lui simpatico e intelligente, mi rassicura: “Vedo che è alla fine dell’università, non la boccio, ma le assegno il voto più basso che ha sul libretto”. Era convinto fosse un 18…

E invece?

26. E lui: “E ora?”. “Professore, lo ha detto”. “Va bene, sono un gentiluomo”

Lei bluffa?

Può capitare però cerco di non caderci, perché significa mettersi nelle mani altrui.

Come mai militare e non obiettore?

All’epoca non era una scelta ideologica.

Mica tanto.

Non ci ho mai pensato ed è stata un’esperienza formativa.

Assegnato?

All’ufficio movimento, dentro un garage, dove studiavo, e per riposarmi dormivo dentro i copertoni.

I commilitoni la prendevano in giro?

(Ride) Mica siamo in un film di Alvaro Vitali.

Li conosce?

Ho una grande cultura di pellicole horror e B-movie.

Fenech o Bouchet?

Bellissime entrambe. Ah, ho visto tutti i Vacanze di Natale almeno due o tre volte l’uno, e per tradizione vado il 25 dicembre; per Vacanze sul Nilo due proiezioni lo stesso giorno, la terza il 27, giorno del mio compleanno.

“Febbre da cavallo”?

Lo so a memoria (e inanella una serie di citazioni). Però in generale sono un appassionato di cinema e grazie a mio padre: con lui ho visto tutta la grande commedia italiana, da Mario Monicelli a Dino Risi, e mi è rimasto il gusto del riflettere per ridere.

Ha mai recitato?

Sono amico d’infanzia di Paolo Genovese, e fino a Ballarò ho partecipato, da comparsa, a diversi suoi film. In un periodo della nostra vita lui voleva diventare giornalista e io regista e in un’altra fase mi ha convinto a vestire i panni dell’animatore in un villaggio vacanza della Calabria.

Andava dagli ospiti e li invitava: “Dai, questa sera si balla”?

Organizzavo i giochi da spiaggia, quelli di carte, lo spettacolo serale.

Rimorchiava?

Ma che domanda è?

(e qui parte una lunga discussione su qual è la risposta meno narcisistica). Dopo un po’ mi hanno mandato via perché avevo chiesto una pausa per andare in paese e acquistare del gel da capelli. Pausa negata. E io: “È un diritto!” E il capo villaggio: “Non vogliamo sindacalisti”.

Ha un’immagine molto posata ed equilibrata.

E lo sono, o almeno penso. Ma con tutte le sfumature del caso, dipende dalle situazioni, dal periodo, dal contesto; è difficile descrivere una persona.

Quanto impiega per capire chi ha di fronte?

Mi costruisco subito un’idea, ma sono pronto a smontarla e le domande servono proprio a ribaltare, ma è fondamentale dare per scontata la buonafede dell’interlocutore. (Si alza e va a prendere l’acqua in cucina. Respira)

Tra soldi e potere, cosa conta?

Anche qui, non riesco a leggere la realtà in chiave duale. Se invece uno parla di rappresentanza politica e ricchezza economica, in questo momento, e probabilmente, pesa più quella politica.

Frequenta i salotti?

Siamo giornalisti e se trovare fonti vuol dire entrare in certi ambienti, lo capisco. Io sto sempre con le stesse persone: festeggio il compleanno con il solito gruppetto.

Di quanti?

Di base quattro.

Torniamo al G8: chi è stato lì ce l’ha sulla pelle.

È vero, giorni impressionanti in cui ti trovavi a dover raccontare vicende che mai avresti pensato fossero possibili in Italia: nel ricordo di quell’esperienza, Paolo Ruffini mi ha richiamato da New York per condurre.

Si immaginava in tv?

Mi immaginavo giornalista ma non pensavo di riuscirci: a quel tempo la professione era chiusa dai figli di, e mio padre lavorava in banca, mamma professoressa d’Italiano e Latino.

L’appoggiavano?

Molto e quando ho finito l’università, la laurea alla Luiss mi garantì un paio di colloqui che passai: uno alla Banca di Roma, l’altro all’Unione industriali. Scelsi i secondi. Ma la notte prima di firmare non ho chiuso occhio e a colazione mi sfogai con i miei: “Non vado”. E loro: “Bravo”.

Solidali.

Sì, e ho riniziato a collaborare con i giornali, mi sono iscritto alla scuola di giornalismo di Perugia, ma alla fine del biennio la Rai non ci chiamava.

E così…

Rimedio il numero di Enrico Mentana: “Direttore, le interessa il mio curriculum?”. E lui, gentile e spiritoso: “Ti forma la Rai e ti devo prendere io a Canale5? Va bene, manda”.

Faccia tosta.

Era necessario.

Non timido.

A un chirurgo uno domanda se è timido?

Il chirurgo non deve per forza parlare in pubblico.

Allora, come giornalista non lo sono, nella vita a volte.

Ha mai letto una poesia in classe o per Natale?

Per l’amor di dio, no. Ma non è timidezza, è dignità! E cerco di evitarlo ai miei figli.

La televisione…

È nata per necessità: l’11 settembre ero a New York e in redazione una formazione ridotta composta solo da Borrelli e Angelini. Gli aeroporti chiusi. E mia moglie bloccata nell’area a rischio.

Paura per lei?

È una tosta.

Quando si è reso conto della portata del dramma?

Dopo due o tre ore: ho vissuto scene terribili, che ineriscono alla Storia, non alla cronaca.

E cinicamente non è il sogno del giornalista?

No, è solo spaventoso; in quei momenti l’unico obiettivo è di non farti trascinare dall’emotività. Ricordo la prima reazione dei newyorkesi: portare cibo alle Torri Gemelle, anche se inutile, c’erano montagne di merendine e panini, lasciati davanti la zona transennata

Quanti giornali legge?

Sei o sette.

Cattolico?

No, laico. Agnostico.

Le religioni la incuriosiscono?

Insieme alla filosofia è il mio più grande interesse.

Tra odio e indifferenza?

Rispetto.

Cairo in politica.

Qual è la domanda?

Cosa ne pensa della possibilità di Cairo in politica?

Scelta sua; come imprenditore ha dimostrato capacità e come editore è l’ideale: lascia libertà e chiede responsabilità.

Insomma?

Nè lo spero nè lo temo, mi sembra difficile che un imprenditore di tale successo possa pensarci, se non richiesto a gran voce dal Paese.

Il governo regge?

Non credo, non può, perché nasce su un malinteso culturale, un infingimento.

Quale?

Non si può rifiutare la distinzione tra destra e sinistra.

Questo governo è?

Di destra.

Differenza tra destra e sinistra.

La destra difende le opportunità che si hanno, la sinistra vuole che se ne creino di nuove per chi non ne ha. (Entra la moglie, Beatrice Mariani, compagna d’università, lavora a La Sapienza e scrive anche lei: “Tutto bene?”. E Floris: “Sì, sono scivolato solo sull’animatore”. “Non stavamo insieme, puoi rispondere”).

A “DiMartedì” il pubblico applaude sempre, anche tesi opposte.

A Ballarò le gradinate erano composte da persone che chiedevano di partecipare, e ai tempi di Berlusconi erano quasi tutti “anti”, così per pareggiare cercavamo gruppi di centro destra (ride). Una sera, Castelli ospite, c’era una signora dietro di lui che esagerava tra applausi e smorfie: durante la pubblicità mi avvicino all’allora ministro e con garbo gli esprimo un’esigenza: “Per favore, questa la tranquillizzi”. E lui: “È mia moglie”

Andiamo a DiMartedì.

La gente non segue più tanto la politica e i talk si sono moltiplicati: i volontari saranno una cinquantina, poi riempiamo e il problema è che non hanno una posizione e si aggregano a ogni applauso, di qui l’inflazione. (ci pensa) È una questione che dobbiamo affrontare.

Quanto dorme?

Se posso molto, e ovunque: quando ho cambiato redazione, la prima richiesta, è stata quella di un divano: sono in grado di appisolarmi anche per dodici minuti. (Ha davanti dei fogli bianchi, rigirati).

Cosa sono?

Appunti. Mi ero preparato.

Vediamoli…

No, (sorride). Sopra c’è la storia con Bush…

Cioè?

Ero a cena al Watergate di Washington , vedo entrare Bush con Condoleeza Rice, esco per beccarlo, i camerieri si mettono in fila, erano tutti messicani, io concludo la sfilata. Attenzione: sono piccolo e scuro.

E…

Bush arriva a me: “Voi camerieri messicani siete l’orgoglio della nazione”, o qualcosa del genere, con annessa stretta di mano.

E poi?

Ho intervistato la Rice

Va spesso allo stadio.

La Roma è una passione nonostante gli errori di Pallotta.

Allora è passione forte.

Quando mi sono sposato i tavoli avevano i nomi dei calciatori giallorossi.

Sua moglie contenta…

Anche lei è romanista, il nostro tavolo si chiamava “Totti”, per i laziali c’era “Paolo Negro” (con un suo autogol la Roma ha vinto un derby).

Totti lo conosce?

No, però una volta gli ho chiesto un selfie e quando si è dimesso dalla Roma sono andato, di nascosto, alla conferenza stampa. Per fortuna non mi hanno riconosciuto.

(E sul pallone non ci sono virgole, precisazioni, sfumature perché, come canta Antonello Venditti in “Grazie Roma”: “Dimmi cos’è che ci fa sentire amici, anche se non ci conosciamo…”)

Onu. ”isis può colpire entro fine anno”

 

Le Nazioni unite avvertono: la violenza terroristica internazionale potrebbe tornare a colpire entro fine anno. In un rapporto, gli esperti del Consiglio di sicurezza Onu descrivono lo scenario dell’estremismo islamico globale, sottolineando come esso continui a costituire una forte minaccia. Concentrano l’attenzione sul rischio rappresentato da circa 30mila “foreign fighters” che hanno combattuto per il Califfato, circa 6mila dei quali provenienti da Paesi europei. “Le loro prospettive costituiscono una preoccupazione internazionale”, hanno scritto nel rapporto, aggiungendo che “alcuni potrebbero unirsi ad al-Qaeda o ad altri gruppi emergenti, altri potranno diventare leader o reclutatori”. Il documento sottolinea anche che, sebbene concretamente il Califfato non esista più, gli Stati dove era situato concordano nel dire che i fattori che gli diedero vita persistono. Nonostante ci siano stati pochi attentati dopo quelli del 2015 e 2016 in cui centinaia di persone furono assassinate in Europa, la minaccia per quest’ultima “resta alta”. Gli esperti elencano il rischio rappresentato da nuove persone radicalizzate nelle carceri, nonché dal rilascio degli jihadisti incarcerati al loro ritorno, sottolineando anche che i programmi di deradicalizzazione “hanno dimostrato di non funzionare del tutto”. Ansa