Giornalisti, la guerra (persa) dei pensionati d’oro

Grave sconfitta nella battaglia di alcuni pensionati d’oro per stoppare e farsi risarcire il contributo di solidarietà triennale imposto dall’istituto di previdenza dei giornalisti (Inpgi) sugli assegni pensionistici più elevati. Per il Consiglio di Stato è legittimo, equo e giustificato dalla necessità di fronteggiare la crisi finanziaria in cui versa l’istituto privato, per assicurare le prestazioni future senza oneri per il bilancio pubblico.

Lo ha stabilito la terza sezione del Consiglio di Stato presieduta da Franco Frattini, confermando una precedente sentenza del Tar del Lazio. Il prelievo viene applicato sugli assegni dai 38mila euro annui in su con aliquote progressive in funzione della somma percepita. Per i 2050 titolari di pensione fino a 56.999 euro lordi il contributo va da un minimo di 0,1 a un massimo di 189,9 euro lordi annui (15,8 euro lordi mese). Ai 70 pensionati che percepiscono un assegno tra i 150 mila e i 199.999 euro lordi è applicata un’aliquota del 15%, da un minimo di 6.300 euro lordi annui (525 euro mese) ad un massimo di 13.797,4 euro (1.150 mese). Oltre i 200 mila euro (35 pensionati), il prelievo, del 20%, va da 1.150 euro al mese ai 4.358 euro. Quelli che percepiscono somme superiori ai 300 mila euro sono solo 9. Su circa 10 mila iscritti, hanno avuto la trattenuta in 6.554. Ma a presentare ricorso in punta di principio è stato un gruppetto di pensionati collocati nell’alta gamma reddituale. Tra questi, l’editorialista Marcello Sorgi, già direttore del Tg1 e del quotidiano La Stampa e Guido Paglia, per dieci anni direttore della Comunicazione, relazioni esterne e rapporti Istituzionali della Rai. Paglia è stato membro della giunta esecutiva della Fnsi, presidente dell’Ordine dei giornalisti di Roma e del Lazio ed è attuale direttore delle testate online Sardinia Post e Sardinia Post Magazine. Nell’elenco dei ricorrenti c’è anche l’editore Marco Benedetto, ex capoufficio stampa della Fiat, ex ad della Stampa e del Gruppo Espresso. Grandi professionisti pensionati da tempo e che continuano a lavorare con sostanziose retribuzioni. Ma che si sono sentiti nel pieno diritto di denunciare “l’erroneità e l’ingiustizia” della sentenza del Tar.

Il contributo di solidarietà, in media 80,5 euro al mese, ha fatto risparmiare alle agonizzanti casse dell’Inpgi circa 19 milioni di euro dal 2017 al 2019, permettendo di non far gravare solo sulle ormai magre retribuzioni dei giornalisti “attivi” il pagamento dei trattamenti pensionistici e di disoccupazione, in drammatica crescita. Nel ritenere infondato l’appello, il Consiglio di Stato ha ribadito l’autonomia dell’ente sulle misure per assicurare le prestazioni future. “L’Inpgi ha voluto ripartire gli oneri conseguenti alle misure volte al contenimento della spesa previdenziale – si legge nel dispositivo della sentenza – mediante l’applicazione del criterio di equità tra diverse generazioni di iscritti, in contemperamento col principio del pro rata, ovvero tenendo conto legittimamente della improponibilità di porre esclusivamente a carico delle generazioni di futuri pensionati il peso economico delle necessarie riforme”.

La pronuncia di secondo grado arriva in una fase delicata per il tentativo di salvataggio dell’Inpgi messo in atto dal governo. Il Cda dell’istituto ha deliberato nei giorni scorsi le prime misure di rafforzamento dell’equilibrio di bilancio chieste nel decreto Crescita: nuovi tagli alle spese e un incremento delle entrate contributive anche con il trasferimento di alcune categorie di lavoratori dall’Inps all’Inpgi. L’ampiamento della platea è stato già finanziato dal decreto, anche se si demanda a disposizioni successive al febbraio del 2021 il compito di individuarei profili contrattuali che traslocheranno.

L’accordo sulla Asti-Cuneo regala ai Gavio 1,2 miliardi

I dieci chilometri che mancano per il completamento della Asti-Cuneo passeranno alla storia come il tratto autostradale più caro dell’universo se alla fine saranno costruiti in base all’accordo tra il gruppo Gavio e il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Con il lodevole intento di sbloccare i cantieri e realizzare quel pezzetto di asfalto, il ministro sta coprendo d’oro i Gavio, i signori delle autostrade del nordovest, così come i Benetton lo sono nel resto d’Italia. In cambio dell’impegno di finire in fretta l’opera attesa da quasi un decennio in quell’area del Piemonte, lo Stato consente ai Gavio di incassare tra 12 anni la bellezza di circa 1 miliardo e 200 milioni di euro per quello che in gergo tecnico viene conosciuto come il valore di subentro. Che in pratica è una specie di buonuscita che i Gavio potranno riscuotere per cedere la concessione della Asti-Cuneo e contemporaneamente quella della Torino-Milano (A4), che è una delle autostrade gestite dallo stesso gruppo.

Per la Torino-Milano il valore di subentro previsto è di circa 890 milioni di euro, una novantina in più rispetto agli 800 che venivano riconosciuti ai Gavio con il precedente Piano economico finanziario (Pef) elaborato da Toninelli appena tre mesi fa. Per la Asti-Cuneo il valore è di oltre 300 milioni ed è una novità rispetto al piano di primavera. La sua introduzione è stata giustificata dal ministro con la circostanza che la durata della concessione viene accorciata dal 2045 al 2031, cioè vengono negati per 14 anni ai Gavio i benefici stimati 500 milioni di euro che altrimenti avrebbero ottenuto con la gestione dell’autostrada. Ma una cosa per un’impresa è riscuotere tutto e subito in anticipo e un’altra una somma diluita in un quindicennio. Inoltre ai Gavio, con il nuovo Pef, è assicurato un incremento di remunerazione al casello di ben 7 punti percentuali, dal 13 precedente stimato dall’Agenzia di regolazione dei Trasporti (Art) all’attuale 20 per cento circa. Senza che nel frattempo il gruppo abbia apportato nuovo capitale.Il miliardo e 200 milioni di valore di subentro dovrà essere pagato da chiunque volesse prendere il posto dei Gavio nella gestione delle due autostrade, sia esso un imprenditore privato oppure lo Stato. Ma è evidente che di fronte a un valore così elevato c’è la possibilità che privati e Stato stiano prudentemente alla larga e a quel punto è facile prevedere che i Gavio continueranno anche dopo il 2031 e per un altro bel po’ a essere gli indisturbati signori del casello in Piemonte e dintorni. Si profila, insomma, molto concreto il rischio di un’alterazione vistosa della concorrenza che farà drizzare i capelli in testa ai commissari dell’Unione europea.

Anche in Italia, del resto, il piano Toninelli-Gavio non piace granché e il primo agosto il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) non l’ha affatto approvato, contrariamente a quanto è stato comunicato a livello ufficiale. Quasi di sicuro, quindi, i lavori non potranno partire in tempi brevi. Il Comitato si è limitato a “prendere atto” che il piano per la Asti-Cuneo esiste, lasciando intendere che l’esame vero e proprio avverrà in un secondo momento.

I precedentinon sono incoraggianti: il vecchio piano Toninelli-Gavio di primavera non era stato apprezzato dalle istituzioni preposte alla sua valutazione e sia l’Art (Agenzia di regolazione dei trasporti) sia il Nars (Nucleo di valutazione per i servizi di pubblica utilità) lo avevano bocciato. Il nuovo è la rielaborazione del vecchio ma, oltre al valore di subentro monstre, contiene molti altri punti critici. Per esempio: per i 10 chilometri della Asti-Cuneo mancanti dovranno essere investiti complessivamente circa 630 milioni di euro, 350 per i nuovi lavori, 280 per quelli fatti e non pagati. I Gavio si finanzieranno chiedendo i soldi alle banche, pagando il denaro il 4 % circa. Lo Stato per quel finanziamento riconoscerà loro, invece, una remunerazione più che doppia: 9,23 % per cento.

C’era una volta “Papi” Berlusconi. Da Noemi al raìs: il 2009 di follie

A metà di giugno, Massimo D’Alema l’aveva detto: sarà l’anno delle “scosse”. E in effetti, quella del 2009, è stata una stagione in cui ci si è annoiati poco. Non fosse altro per il suo indiscusso protagonista, l’allora premier Silvio Berlusconi, che proprio quell’estate vedrà cominciare la discesa del suo impero: sono in giorni in cui venne scovata la partecipazione del leader di Forza Italia al compleanno delle 18enne Noemi Letizia, gli stessi in cui venne diffuso l’audio delle notti a palazzo Grazioli con Patrizia D’Addario. Ma non solo: esattamente dieci anni fa, Berlusconi si faceva (ri)conoscere dal mondo con il suo evidente apprezzamento per Michelle Obama, durante l’incontro ufficiale con il presidente americano. O ancora la maestosa accoglienza per il colonnello Gheddafi in visita a Roma, o la trionfale campagna messa in piedi con i terremotati d’Abruzzo. Poi, a dicembre, un uomo gli tirerà in volto una statuetta del Duomo: per la prima volta, Silvio, non ha più tutto sotto controllo.

Nissan e Renault ridiscutono l’alleanza. Per la fusione con Fca?

I dirigenti di Nissan e Renault stanno cercando un accordo per rinegoziare la loro alleanza: per i francesi sarebbe un passo da compiere nella speranza di riaprire la strada alla fusione con Fca. A dirlo è il Wall Street Journal, spiegando di aver preso visione di scambi di email tra persone coinvolte nelle trattative e accennando a informazioni avute da fonti informate sui colloqui che sarebbero in corso da giugno. Per ora da Fca nessun commento. Nissan, secondo quanto riporta il quotidiano statunitense, vorrebbe che Renault riducesse la sua quota del 43,4% nella società giapponese, che ha solo il 15% di azioni (senza diritto di voto) in quella francese. Questo al fine di riequilibrare l’incrocio azionario tra le due case automobilistiche, che era diventato un problema per la possibile fusione: proprio la posizione non paritarie fra i due gruppi, infatti, è stato motivo di contrasto, per la preoccupazione di Nissan di poter essere indebolita all’interno dell’alleanza. Per questo i giapponesi si sono messi di traverso all’intesa tra Renault e Fca, poi naufragata. Ma adesso le cose potrebbero cambiare con un diverso rapporto di forza.

Bussetti fa il decreto preventivo: “Avrò conflitti d’interessi”

“Excusatio non petita, accusatio manifesta”: Marco Bussetti, ministro dell’Istruzione, uomo di scuola se non proprio di lettere (da insegnante di educazione fisica il suo forte è sempre stato lo sport), conoscerà bene il significato della proverbiale locuzioni latine. “Scusa non richiesta, accusa manifesta”. Come descrivere altrimenti lo strano decreto pubblicato dal Miur a metà luglio, dove si legge che se il ministro ha un “conflitto d’interessi” su una nomina, si astiene e viene fatta dal suo capo dipartimento. Ma perché mai l’irreprensibile Bussetti, leghista convinto, fedelissimo di Giorgetti, lavoratore indefesso a parte qualche gaffe mediatica (su meridionali e famiglia tradizionale le sue preferite), dovrebbe mai trovarsi in una posizione simile?

A viale Trastevere è in corso una giravolta di poltrone per riorganizzare il ministero. È una consuetudine nell’amministrazione: quando si insedia un nuovo governo soltanto gli uffici di diretta collaborazione e i capi dipartimento rimettono il loro incarico. Uno spoils system limitato. Per questo di solito segue un rimpasto più grande, che riguarda anche le direzioni generali: ruoli apicali, con poteri di firma e di spesa, decisivi per il funzionamento della macchina. Bussetti non ha fatto eccezione.

Ad aprile il ministero ha avviato la riorganizzazione, che porterà, fra le altre cose, alla creazione di una nuova direzione per il contenzioso e alla separazione di ricerca, università e Afam (l’alta formazione artistico-musicale). A metà giugno sono stati pubblicati i bandi, scaduti a fine mese. A giorni era atteso l’esito degli interpelli. Prima, però, è arrivato il decreto in cui il ministro stesso parla di “conflitto d’interessi”, a candidature già chiuse, sollevando più di un interrogativo: “Se il ministro scrive una cosa del genere, vuol dire che ha già deciso le nomine e che sa che qualcosa potrebbe creargli problemi”, è il ragionamento che circola nell’ambiente.

La procedura è regolata da norme precise. C’è l’obbligo di trovare un posto ai direttori di ruolo (quelli che hanno almeno 5 anni sulla carica: possono essere spostati, non lasciati a casa), ci sono dei requisiti di merito e anzianità più o meno stringenti, ma la componente discrezionale è enorme. Come il rischio che un potenziale conflitto possa favorire un candidato piuttosto che l’altro. In ballo ci sono poltrone pesanti: nove direzioni generali centrali, più altre cinque a livello regionale, che erano rimaste o saranno presto vacanti per scadenze naturali e sono state aggiunte all’infornata. Si tratta di Sicilia, Lombardia, Lazio, Friuli Venezia-Giulia e soprattutto Liguria. Proprio a quest’ultima potrebbe riferirsi il decreto.

Il ministro viene dal mondo della scuola. “Conosce tante persone nell’amministrazione, è normale che voglia tutelarsi dal punto di vista giuridico”, spiegano. Alcune le conosce meglio di altre. In corsa per la sede di Genova, ad esempio, c’è la dottoressa Luciana Volta, nome noto agli uffici ministeriali e ancor più al ministro: i due hanno lavorato insieme fianco a fianco per oltre dieci anni all’Ufficio scolastico regionale (Usr) della Lombardia, da dove viene Bussetti e di cui lei è dirigente di seconda fascia. Sono stati vicini, si conoscono bene: se non si tratta di “conflitto d’interessi” in senso tecnico (scatta in caso di parentele o legami patrimoniali), qualcuno avrebbe potuto sollevare una questione di opportunità.

Sarà un eccesso di prudenza, sarà la classica ammissione di chi ha la coda di paglia, il risultato è che al Miur è tutto paralizzato: ad oltre un mese dalla chiusura delle candidature, le nomine non sono ancora state completate, solo negli ultimi giorni cominciano a muoversi i primi tasselli. Mentre la Liguria aspetta un direttore da quasi un anno. Tanto che il deputato Alessandro Fusacchia (+Europa) ha anche presentato un’interrogazione parlamentare in cui chiede conto del ritardo. A viale Trastevere si sentono comunque tranquilli. Il decreto ha già ricevuto l’ok della Funzione pubblica e della Corte dei conti. E poi la Volta ha tutti i requisiti: proprio all’Usr Lombardia con Bussetti ha maturato l’anzianità che le permette di ambire al salto di carriera; forse anche per la sua amicizia col ministro ha scelto di non candidarsi a Roma, dove una sua promozione avrebbe fatto più rumore. A quanto filtra, per la direzione ligure sarebbero pervenute altre 3-4 domande e il suo curriculum sarebbe il più forte. La nomina pare fatta. Ma non la firmerà Bussetti: al massimo le farà i complimenti.

L’Italia spera ancora nella Concorrenza. Gli incarichi già dati

Il rapporto è difficile se non impossibile. Salvini e Conte, sul dossier “commissario europeo”, si muovono su linee rette. Il vicepremier è convinto che l’Italia non avrà la Concorrenza e per questo punta all’Agricoltura e all’Industria oltre che al Commercio. La rosa di nomi che finora è circolata, lo fa pensare: Massimo Garavaglia, Giulia Bongiorno, Lorenzo Fontana, Gian Marco Centinaio.

Da palazzo Chigi, invece, si ostenta sicurezza sul fatto che la Concorrenza sia ancora in ballo. Nell’incontro con Ursula Von der Leyen, Giuseppe Conte ha ricevuto “ampie garanzie” dalla neo-presidente della Commissione che ha ribadito la “massima attenzione” nell’evitare che ci siano “sgambetti”. Un approccio che punta a sollecitare un nome dal profilo adeguato, magari lo stesso Giancarlo Giorgetti, per ottenere nella configurazione europea quel ruolo a cui punta Conte e che invece la Lega, antieuropeista, non vuole. Il problema è che gli altri paesi i nomi li hanno fatti o li stanno già facendo. Una decina di incarichi sono già presi: Valdis Dombrovskis, lettone vice presidente per l’euro sarà probabilmente riconfermato così la bulgara Mariya Gabriel, attualmente all’Economia digitale (ma sconterà la promozione della connazionale Georgieva). L’austriaco Johannes Hahn, commissario all’allargamento è in cerca di un nuovo ruolo; l’irlandese Phil Hogan, potrebbe restare all’Agricoltura, la Ceca Vera Jourová, oggi è alla Giustizia domani si vedrà così come per lo slovacco Maroš Šefcovic, all’Energia. L’olandese Frans Timmermans dovrà essere risarcito per aver perso la presidenza mentre la danese Margrethe Vestager oggi alla Concorrenza ha uno standing rilevante. In corsa per la nomina c’è ovviamente lo spagnolo Josep Borrell che per gli Affari esteri ha bisogno del voto del Parlamento, la maltese Helena Dalli, la cipriota Stella Kyriakides, lo sloveno Janez Lenarcic, la greca Margaritis Schinas, il lussemburghese Nicolas Schmit, l’estone Kadri Simson che punta ai Trasporti, il polacco Krzysztof Szczerski, l’ungherese László Trócsányi, la finlandese Jutta Urpilainen. Possibile membro per il Portogallo invece l’europarlamentare Pedro Marques.

Chi prendere al posto di Gozi?

Ha scatenato accese polemiche nei giorni scorsi la notizia dell’incarico all’ex sottosegretario agli Affari Europei, Sandro Gozi, nel governo francese. Il renziano sarà infatti consigliere delle politiche europee nel governo guidato dal premier Edouard Philippe, su input di Emmanuel Macron (Gozi si era già candidato alle europee con il suo partito macroniano). E in Italia è scoppiata la polemica, con interventi da ogni parte politica: “Immaginate di chi facesse gli interessi questo personaggio quando era nel governo italiano… Pazzesco, questo è il Pd” ha detto il vicepremier della Lega Matteo Salvini mentre Fratelli d’Italia ha presentato una interrogazione per sapere quali fossero i dossier trattati da Gozi quando era a palazzo Chigi. Anche il vicepremier del M5s, Luigi Di Maio, ha definito “inquietante” che un ex membro dell’esecutivo italiano abbia un ruolo in un governo di un Paese con il quale “abbiamo molte cose in comune” ma anche “interessi confliggenti”. Quindi l’affondo: “Nulla contro la Francia ma bisogna valutare se togliergli la cittadinanza”.

Abbiamo così chiesto alle nostre firme cosa pensano della vicenda e, in caso, chi sceglierebbero per l’Italia se potessero “importare” un politico.

 

Silvia Truzzi
Importiamo Bernie Sanders, è più di sinistra di “Sandrò”

Noi onestamente non ci credevamo che dal mazzo avessero estratto proprio lui. Invece Monsieur le president si è scelto proprio quel po’ po’ di statista che è Sandrò Gozì – soldatino neo reclutato tra le fila di En Marche a Strasburgo – per fare all’Eliseo quel che faceva qui con Renzi e Gentiloni. No, non è un Erasmus fuori tempo massimo, è proprio un conflitto d’interessi così gigantesco che riesce a metterci d’accordo perfino con Carlo Calenda: “Sa un sacco di cose di sui nostri dossier riservati relativamente a materie di cui si occuperà Oltralpe”. Più che uno sgarbo all’Italia, un’inopportuna e irricevibile scorrettezza. Ma loro sono francesi, hanno l’allure, lo charme, l’élégance e tutte quelle cose che fanno profumare di acqua di colonia anche le peggio porcherie (vedi i respingimenti alle frontiere): dunque non succederà nulla. Se volessimo fare uno scambio con un politico prelevato a caso nell’intero orbe terracqueo? Bernie Sanders, che perfino essendo americano del Vermont è certamente più di sinistra di Gozi (sia in salsa italica che alla vinaigrette di Macron).

 

Tomaso Montanari
La Francia dovrebbe farci causa Intanto, prendiamoci Tsipras

A parte il fatto che dovrebbero farci causa i francesi, visto che un tempo cedevamo loro Mazzarino, e oggi Gozi… A parte questo, dico, l’intemerata di Luigi Di Maio che minaccia di togliere la cittadinanza al sullodato rappresenta l’ennesima caduta verticale nel ridicolo.
La legge 91 del 1992 prevede che “il cittadino italiano perde la cittadinanza se, avendo accettato un impiego pubblico od una carica pubblica da uno Stato …, non ottempera, nel termine fissato, all’intimazione che il Governo italiano può rivolgergli di abbandonare l’impiego, la carica”. E dunque il governo dovrebbe, se è così stolto da credere che la Francia sia un nemico, ‘intimare’: non rilasciare interviste.
Meglio però prenderla come un gioco estivo di società: “Scambia il politico”. Io cederei volentieri Salvini (con Savoini e tutto il cucuzzaro) alla sua generosa Russia, e mi prenderei Alexis Tsipras, ora che è più libero. Una sinistra in outsourcing mi pare, infatti, l’unica speranza dell’Italia. E sui suoi numeri ci metterei la firma.

 

Luisella Costamagna
L’esterofilia della politica e i conti con quel che ci resta

Basta attacchi, si dicano le cose come stanno: quella di Sandro Gozi in Francia è la classica malattia italiana della “fuga dei cervelli”. Perdita inestimabile di una delle migliori menti politiche del nostro Paese, che non sentendosi valorizzata emigra là dove potranno apprezzarla. Come lui, negli anni, abbiamo perso altre gemme preziose della sinistra: Enrico Letta, che al Parlamento ha preferito l’insegnamento, sempre all’ombra della Tour Eiffel; Massimo D’Alema, che nel 2018 commentò i festeggiamenti di Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi per il deficit al 2,4% con un emblematico “ero all’estero”. Solo Walter Veltroni, nella sua infinita generosità, ha rinunciato all’Africa (e alla politica) per regalarci libri, programmi tv, film degni di Cannes. Tocca ammetterlo: la sinistra italiana è… all’estero. E noi dobbiamo fare con quello che abbiamo, perchè – punto 1 – “Prima gli italiani!”, per cui nessun Papa straniero; e – punto 2 – in Italia il perfetto leader di sinistra (Renzi docet) è bene che sia di destra. Deragliato il treno Gianfranco Fini, perché non puntare sul nuovo Spartaco, libero e liberatore, Giovanni Toti?

 

Andrea Scanzi
Parigi ora ha il suo Big Jim. Noi? Guadagneremmo con chiunque

È incredibile come la Francia non ci abbia ancora dichiarato guerra: rifilargli Gozi è una provocazione inaudita. La Prima Guerra Mondiale cominciò per molto meno. Vedere Gozi responsabile degli Affari Europei nel governo francese, dopo avere rivestito ruolo analogo in Italia, è ulteriore espressione plastica della miseria “politica” italiana. Incapace di trovare 95 firme (95, eh: non 95mila) per candidarsi alle Primarie Pd nel 2012; trombato alle politiche 2018 nostrane; di nuovo trombato a marzo in Francia: Gozi è il niente del niente, cioè del renzismo. Un Big Jim di sfavillante insipienza. La sua parabola fa ridere e il masochismo Pd resta titanico. Sperando che la Francia se lo tenga in eterno, ho pensato a un politico straniero da “acquistare” per il nostro governo: abbiamo “politici” così ridicoli che ci guadagneremmo a prescindere. Io vorrei Bernie Sanders. Non tanto perché creda nella sinistra radicale, ma perché Sanders piace a Rosario Dawson. E una divinità come Rosario Dawson non può mica sbagliare.

 

Pietrangelo Buttafuoco
Bravi, ce lo invidiavano tutti Ora perchè non prendersi il Pd?

Il cittadino italiano Sandro Gozi – l’uomo di Matteo Renzi finito alla corte di Emmanuel Macron – è come Palmiro Togliatti ai vertici del Soviet supremo a Mosca. Nulla di nuovo per l’internazionalismo proletario si potrebbe dire. Nessuno, infatti – al tempo – trovava motivo di scandalo.
Ma c’è un aggiornamento d’obbligo visto che il materialismo scientifico del marxismo-leninismo – tutto quel po’ di centralismo democratico – ha dovuto lasciare le nevi di Russia, dove quel tutto d’Italia fu tragedia, per risciacquarsi nella Senna e scoprirsi liberista, eurocratico e altolocato.
Sandro Gozi è senza dubbio l’uomo che tutto il mondo ci invidia. In tutto questo suo trionfare planetario la Francia è stata lesta a pigliarselo e a Parigi, però, qualcos’altro si potrebbe chiedere. Per esempio: non potrebbero annettersi il Partito Democratico per intero e rinverdire così, per proprio divertimento, i fasti della Comédie-Italienne. A Parigi, appunto, dove quel tutto d’Italia è già una triste commedia.

Una donna anche all’Fmi: i volti (e i voti) di Kristalina

Si rafforza il potere femminile sulle Istituzioni internazionali a competenza finanziaria: dopo l’accoppiata Ursula von der Leyen, tedesca, alla Commissione europea e Christine Lagarde, francese, alla Banca centrale europea, ecco profilarsi Kristalina Georgieva, bulgara, alla guida dell’Fmi, il Fondo monetario internazionale, dove darà il cambio alla Lagarde il primo novembre.

Sempre che i diavoli, Donald Trump e Boris Johnson, non ci mettano lo zampino: è vero che le regole dell’Fmi prevedono che il direttore generale sia un europeo, ma gli Stati Uniti hanno la maggioranza assoluta delle quote e i britannici si sono riservati di presentare un candidato entro il termine ultimo del 6 settembre – ed europeo non vuole necessariamente dire dell’Ue, specie al tempo della Brexit -. La scelta definitiva dovrà avvenire entro il 4 ottobre.

La Georgieva è una figura sperimentata: 56 anni, nel 2009 arrivò alla Commissione Ue dalla Banca Mondiale, dov’era funzionaria, come ruota di scorta bulgara perché la prima scelta, Rumiana Jeleva, era stata giudicata incompetente dall’Europarlamento. Nella Commissione Barroso 2 fece bene come responsabile per la cooperazione internazionale, gli aiuti umanitari e la risposta alla crisi e, nel 2014, fu promossa vicepresidente e responsabile del bilancio e delle risorse umane nella Commissione Juncker. Che però lasciò il 2 gennaio 2017, quando divenne direttrice generale della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Bird) e dell’Agenzia internazionale per lo sviluppo. Studi a Sofia, alla London School of Economics e al Mit di Boston, la Georgieva ha le carte in regola per soddisfare tutti. E tura una falla nelle nomine europee del mese scorso, quando i Paesi dell’ex Europa comunista erano rimasti a bocca asciutta. Ma la sua scelta è stata ugualmente combattuta e contestata: battuto, per una volta, l’asse tedesco-olandese, che sosteneva l’ex ministro delle Finanze ed ex presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, arrivato al ballottaggio dopo il ritiro, fra gli altri, della candidata spagnola Nadia Calvino (un’altra donna, ministro dell’economia spagnola) del portoghese Mario Centeno (presidente dell’Eurogruppo) e del governatore della Banca di Finlandia, Olli Rehn, ex commissario Ue agli affari economici.

I Paesi del Sud – in particolare Spagna, Italia e Portogallo – si sono opposti a Dijsselbloem, cui rimproveravano di averli accusati di essere stati più colpiti dalla crisi perché sprecano i soldi in bevute e donne. Anche i Paesi dell’Est hanno preferito la Georgieva e Dijsselbloem, alfiere dell’austerità. L’Italia, per una volta, nelle scelte europee, s’è trovata dalla parte dei vincitori e può persino appuntarsi sul petto una medaglietta da voto determinante. Il ministro del Tesoro francese Bruno Le Maire, che ha guidato il processo di selezione, aveva inviato ai 28 ministeri una mail con le istruzioni: il candidato sarebbe stato scelto a maggioranza qualificata, cioè ci volevano i voti del 55% dei 28 Stati Ue che rappresentassero almeno il 65% della popolazione dell’Unione. Un’intesa informale, non una regola cogente. Nessuno dei due candidati ha centrato i due i criteri, ma la bulgara era avanti su entrambi e Dijsselbloem, alla fine, ha ammesso la sua sconfitta.

Addii da nababbi: pensioni d’oro per Juncker e i suoi

In Europa il 2019 è un anno di addii ma anche di soldi per chi se ne va, da Jean-Claude Juncker a molti dei suoi commissari. I più anziani godranno di una eccellente pensione, i più giovani di un generoso paracadute. Discorso simile per gli europarlamentari: le elezioni di maggio ne ha “licenziati” il 60% (450). Che faranno? A quanti soldi avranno diritto?

Per calcolare la pensione dei commissari alla soglia dei 66 anni, bisogna partire dai loro stipendi. Le cariche di vertice sono le più pagate in Ue: il presidente della Commissione guadagna, secondo le regole, il 138% dello stipendio del funzionario Ue più alto in grado, quindi oltre 27mila euro al mese. Seguono l’Alto rappresentante per la politica estera, i 7 vicepresidenti dell’esecutivo Ue e gli altri 21 commissari con almeno 22mila euro mensili. Cifre che non considerano i benefit da mandato e da cui si ricava l’indicazione della pensione maturata.

Il presidente uscente Jean-Claude Juncker, che ha quasi 70 anni ed è stato in carica per cinque, dovrebbe ricevere circa 22mila euro. La pensione che spetterà in futuro (ora ha 45 anni) a Federica Mogherini, invece, sarà di almeno 20mila euro. Gli altri commissari uscenti avranno diritto a trattamenti non inferiori ai 18mila euro. Per molti si tratterà di un assegno fra gli altri. Juncker, per esempio, è stato anche primo ministro del Lussemburgo e ha ricoperto varie cariche in Ue.

In attesa degli assegni da pensionati, invece, per il ricollocamento nel normale mondo del lavoro le regole Ue prevedono una “indennità di transizione”, che va dal 40 al 65% dello stipendio base per un periodo fino a 24 mesi. Così, l’ex ministro Ue può arrivare a percepire anche 200mila euro complessivi in due anni. Un paracadute molto discusso. In attesa di vedere chi della commissione Juncker sarà riconfermato e chi invece “licenziato” (con buonuscita), è utile guardare al passato. Nel 2016, il settimanale tedesco Die Zeit segnalava che, dopo un anno e mezzo dalla fine dell’esecutivo Barroso, 16 ex commissari erano ancora a carico dei contribuenti Ue per una cifra media di 8.330 euro di indennità mensile. Nelle intenzioni di chi lo aveva predisposto, l’assegno doveva servire a mantenere l’indipendenza dei politici ed evitare conflitti d’interesse. Non fu però il caso di Karel de Gucht, ex commissario belga al Commercio, che nel 2016 era già nel consiglio di grandi aziende come Arcelor Mittal e Proximus. O la danese Connie Hedegaard, già responsabile Ue per l’Ambiente, poi consigliere dell’energetica Danfoss. Lo stesso ex presidente della Commissione, José Manuel Barroso, passò in meno di due anni dal vertice Ue a quello di Goldman Sachs. Nell’elenco degli ex commissari pagati ancora con l’indennità transitoria c’erano anche Dacian Ciolos, nel frattempo diventato primo ministro in Romania, e l’italiano Ferdinando Nelli Feroci, il diplomatico che aveva sostituito Antonio Tajani al Commercio, quando quest’ultimo era stato eletto eurodeputato.

I deputati di Strasburgo hanno invece riformato da alcuni anni il loro sistema pensionistico. Fino al 2009 potevano ottenere una baby pensione dai 50 anni, oggi devono aspettare i 63. Anche per loro c’è un’indennità transitoria pari al salario base mensile che gli permette per altri due anni di accantonare 200mila euro. lo stipendio base è di 8.758 euro lordi al mese, 6.825 netti. Sulla base di questa cifra, si ricava l’importo della pensione. L’intera legislatura produce un assegno di circa 20mila euro all’anno, ma si matura anche per un periodo breve. I veterani invece possono contare su assegni molto generosi. Nigel Farage, al suo quinto mandato, ha già maturato una pensione di almeno 70mila euro all’anno. Matteo Salvini, con tre legislature e mezzo, lo segue poco distante.

Ruotolo minacciato di morte via web dopo le critiche al ministro

“Fossero tutti come te con un proiettile alla nuca ne toglieremmo 6”. L’intimidazione arriva via social al giornalista Sandro Ruotolo cronista da anni sotto scorta – la revoca era stata sospesa a febbraio -, per le minacce subite dalla camorra. Ma questa volta la matrice potrebbe essere diversa. All’indomani della vicenda della parola “zingaraccia” pronunciata da Salvini in tv, il cronista aveva scritto sui social: “Io sono terrone, io sono zingaro, io sono ebreo, io sono musulmano. Io sono io, e tu non sei nessuno #salvinidimettiti”. Poco dopo – racconta – “si è scatenato l’inferno dei commenti. Un insulto dietro l’altro e poi questa frase che è decisamente qualcosa in più di un insulto. Ne ho fatto uno screenshot che ho consegnato ai carabinieri”. Si dice preoccupato. “Non tanto per me ma per l’andazzo generale. Si sta sdoganando il razzismo con un linguaggio di parole e gesti sempre più violenti”. A Ruotolo la solidarietà dalla Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana) e dal Sindacato unitario giornalisti della regione Campania.