Rivelò la malattia di Mihajlovic, niente sanzioni per Zazzaroni

Il caso di Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport-Stadio che aveva rivelato la malattia dell’allenatore del Bologna, Sinisa Mihajlovic, è stato archiviato. Tutto nasce da un articolo a sua firma intitolato “Mihajlovic, un’ altra battaglia per il guerriero”, apparso sul quotidiano sportivo il 13 luglio scorso. Il Collegio di Disciplina Territoriale dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna ha deciso di chiudere la vicenda con l’ archiviazione. “Nell’articolo preso in esame l’autore ipotizzava più volte che l’assenza del mister dal ritiro della squadra non fosse dipesa da alcune linee di febbre – come riportato dall’ufficio comunicazione del Bologna pochi giorni prima – ma da una grave malattia, senza tuttavia specificarne la natura. Lo stesso Mihajlovic aveva esplicitato nei giorni precedenti la volontà di comunicare pubblicamente la notizia della malattia che gli era stata diagnosticata. In sostanza il giornalista ha delineato una situazione di cui, in una conferenza stampa già programmata avrebbe riferito in maniera particolareggiata direttamente lo stesso Mihajlovic”. Per questo l’Ordine ha ritenuto che non ci fossero gli elementi per l’avvio di un procedimento disciplinare, e quindi ha disposto l’archiviazione.

Furti, escrementi, petardi e microspie. Salvate il soldato Gianfranco Rotondi

Un grido di dolore si alza da Pescara, Roma, Avellino, ovunque metta piede l’ex ministro oggi deputato forzista Gianfranco Rotondi. Due giorni fa protagonista dell’ennesima aggressione, fuori da un bar di Pescara mentre stava realizzando un’intervista. Attaccato “dai fans di Salvini”, come ha scritto su Twitter, per colpa “del clima infame” creato dal vicepremier leghista. Magari fosse un caso isolato, negli ultimi 11 anni.

4 novembre 2008 Spariscono impermeabile e valigetta 24 ore: “Senza congetture persecutorie, siamo vigili e preoccupati”, commenta il portavoce.

7 gennaio 2011 Ladri nella casa romana, rubato il pc: “Lo usavano le mie figlie, ci avranno trovato video delle Winx”.

2 aprile 2011 Il ministro denuncia: “Inseguito da due mafiosi”. All’altezza di Ceprano (Frosinone), la scorta nota un suv che segue l’auto da molti chilometri. Una volta bloccato, la Polstrada identifica due pregiudicati con precedenti per associazione mafiosa.

18 ottobre 2011 Svaligiata la residenza avellinese di Rotondi, aggredita la governante.

21 gennaio 2014 Rotondi viene svegliato da una citofonata anonima. “Vi verremo a prendere a casa come in Spagna”. Lui non perde l’ironia: “Almeno venite di giorno”.

27 novembre 2014 Microspie in casa. “Mia moglie ha udito una sorta di microfono aperto che diffondeva la voce di due uomini che parlavano. ‘Che faccio?’. Le ho risposto: ‘Che te frega, denunciamo per avere la bonifica in casa’”.

2 marzo 2015 Auto imbrattata con escrementi di animale. “Perché così tante aggressioni? Mezza Italia odia i democristiani, l’altra mezza i berlusconiani. Io li rappresento entrambi”.

22 giugno 2015 Raid nella dimora di Montefredane (Avellino): “Casa a soqquadro, non hanno preso cose di valore”.

16 febbraio 2016 Email pirata viola il computer, “danno irreversibile”. In fumo “l’archivio politico” dell’ex ministro, che però non è sorpreso: “Una lettera anonima è stata recapitata nella mia casella postale pochi giorni fa”.

6 gennaio 2017 Minacce sul web dopo la partecipazione a Otto e mezzo: “Il popolo dell’antipolitica ha contestato le tesi di Rotondi con qualche eccesso – rende noto l’ufficio stampa – talvolta con vere e proprie minacce di morte”.

5 agosto 2017 Altre minacce online. “Spacchiamogli il culo, se lo trovo per strada lo ammazzo di botte e la mia non è una minaccia, è una garanzia”, “un porco vero da scannare e fare un falò”, “impiccagione”.

12 settembre 2017 Rotondi trova nella casella postale una busta con due proiettili Magnum 357: “Erano avvolti in un ritaglio del quotidiano Libero del 6 agosto nel quale si parlava di minacce di morte online”.

31 luglio 2018 Ladri nella sede Dc: “I malviventi hanno gettato a terra i faldoni dell’archivio, probabilmente sottraendo alcune carte”.

28 marzo 2019 Esplosioni sotto casa: “Ho temuto l’attentato, nei giorni scorsi mi hanno bussato più volte in piena notte”. Ministro Salvini, faccia qualcosa.

Oltre il ridicolo: il Pd litiga anche sui no al leghista

“Avverto forte il rischio di cadere nel ridicolo. E per questo dico che stoppiamo subito la raccolta firme”. Quando Matteo Renzi, nel pomeriggio, dichiara via Facebook che la “sua” raccolta di adesioni per sfiduciare Matteo Salvini è interrotta, il ridicolo, in effetti, avvolge l’intero Partito democratico.

La vicenda ruota attorno allo scontro che si è aperto tra l’iniziativa dei comitati Azione civile (ma non è il nome che ha preso la lista Ingroia?) di Matteo Renzi e quella, analoga, della segreteria Pd. Due raccolte di firme tra la “gente” per chiedere al ministro dell’Interno di dimettersi. Se da un lato l’idea di combattere contro la tracotanza salviniana – si guardi al modo di attaccare la stampa o di rendere popolare un linguaggio razzista – sfiora l’impalpabilità, farlo con due raccolte di firme separate equivale al suicidio politico. Non a caso Salvini, lesto, su Twitter commenta: “”Il Pd, dopo anni di disastri, pretenderebbe di cacciare la Lega con una raccolta firme (e litigano pure). Geniali, no?” Appunto.

A rendere la storia ancora più sconfortante ci si mette Carlo Calenda, deputato europeo, con un’ambizione politica pari al suo sfrenato utilizzo di Twitter. L’ex ministro pubblica infatti la riscrittura dei due documenti, fatta “in 15 minuti” chiamando Renzi, Paolo Gentiloni e Nicola Zingaretti a “uno sforzo di unità”. Passano pochi minuti e lo stesso Calenda deve ammettere, ancora su Twitter, ça va sans dire, di essere rimasto “basìto dall’astio nei miei confronti da parte dei comitati di Azione civile”. I quali non hanno gradito lo sforzo unitario, a quanto pare.

Ed ecco allora che Renzi, prende dita e tastiera e digita su Facebook il proprio messaggio: “Ho promesso di non parlare delle discussioni interne al Pd perché litigare tra noi in presenza di un Governo come questo è allucinante. Purtroppo anche oggi ci sono polemiche inspiegabili sul fatto che i bravissimi comitati di #AzioneCivile hanno presentato una raccolta firme per la mozione di sfiducia a Salvini”. Anche se tutto ciò è ridicolo, ammette l’ex premier, “noi blocchiamo la nostra raccolta di firme, spero che altri blocchino le loro ossessioni ad personam”. Cioè contro di lui, che continua a vedersi al centro di tutto.

Per la segreteria del Pd interviene la vice di Zingaretti, Paola De Micheli, provando a spegnere l’incendio: “Basta con queste discussioni ridicole sulle firme. Nessuno impedisce o ha impedito nulla a nessuno. Gli avversari sono fuori di noi. Più siamo meglio è”. Ma ormai il ridicolo è stato toccato e superato. Se ne accorgono gli avversari, e abbiamo visto lo sberleffo di Salvini. Se ne accorge probabilmente anche la base e tutto il partito visto che, in una giornata deprimente, non si leggono dichiarazioni o messaggi sui social dei vari dirigenti in genere prodighi di esternazioni.

Il punto è che il Pd non sa che pesci prendere. L’idea di contrapporrre a Salvini una raccolta firme assomiglia alla guerra fatta dai bambini con le pistole ad acqua.

Due giorni fa, sul quotidiano il Manifesto, Luciano Canfora proponeva alla sinistra italiana, o a quel che ne resta, di rilanciare le parole d’ordine fortissime “della vera socialdemocrazia”. Ma solo “se la sinistra avesse il coraggio di fare politica – spiegava il professore – di darsi un obiettivo, di spiegarlo chiaro e tondo, non reagire al seguito della cronaca, commentare i fatti magari con gesti nobili”. Un invito che non riguarda il Pd, che “ormai è nulla”, ma quelli che a sinistra non si riconoscono più in quel contenitore. La sollecitazione resta aperta lo stesso. In un’Italia che è stata democristiana, poi berlusconiana e che sta per diventare salviniana, una sinistra ci vorrebbe. Quella esistente non serve a molto.

lo batterò e darò i soldi ai truffati di etruria&C.

Probabilmente depresso dal fatto che i giornali non si occupano più di lui, Matteo Renzi si occupa dei giornalisti per strappare una breve in cronaca. In ogni caso plaudo alla querela che l’ex premier ha annunciato contro di me dopo il mio intervento alla trasmissione In Onda Estate di giovedì scorso, anche se egli non spiega affatto quali sarebbero gli estremi della mia presunta diffamazione.

Impaziente di vederlo finalmente in un’“aula di tribunale”, gli darò una mano reiterando il reato che non c’è. Ho infatti detto che l’arroganza di Matteo Salvini verso i giornalisti che fanno il loro mestiere ha dei precedenti. E ho citato il collega del Corriere della Sera Marco Galluzzo che qualche estate fa in Versilia la scorta dell’ex statista di Rignano tentò di intimidire solo perché s’informava sulle tariffe di un lussuoso hotel della zona. Presso il quale Renzi e i suoi cari avevano ottenuto affettuosa ospitalità. Trattamento subìto da Galluzzo che tutti in studio ricordavano e che il direttore del Corriere, Luciano Fontana, in collegamento, non ha certo smentito.

Ho accennato anche all’amichevole telefonata subita dal direttore del Giornale, Alessandro Sallusti (“ti spacco le gambe”) da parte di un tipo che sosteneva di essere il presidente del Consiglio.

Dunque grazie di cuore allo spericolato querelante perché, con la sfilata di testimoni e testimonianze che intendiamo richiedere, forse per la prima volta un personaggio politico risponderà dei suoi comportamenti con la stampa.

S’intende che, nel caso il Renzi fosse condannato a versare un risarcimento per la sua lite temeraria, m’impegno a devolvere la relativa somma ai risparmiatori truffati di Banca Etruria e ai dipendenti lasciati sul lastrico dall’intraprendente Babbo.

Renzi minaccia querele e fa compagnia a Salvini

Premessa: venerdì alle 21.51 Matteo Renzi ha messo in rete questo tweet. “Ieri mentre su La7 discutevano di Salvini, #Motodacqua, insulti ai giornalisti, l’ex direttore del Fatto Padellaro ha tirato in ballo me. Sono ossessionati. Per me è diffamazione, ci vediamo in tribunale #AzioneCivile”. Seconda premessa: anche Renzi, quando annuncia un’iniziativa legale infondata contro il fondatore del nostro giornale, colpevole di averne pronunciato invano il nome nel contesto delle sguaiate esternazioni di Matteo Salvini sullo scoop del videomaker di Repubblica, compie un’intimidazione alla stampa. Forse meno grave delle pesanti allusioni del ministro del Papeete Beach su Valerio Lo Muzio, autore dello scoop sul rampollo 16enne del vicepremier in sella alla moto d’acqua della polizia, “che vada a filmare i bambini in spiaggia, che le piace tanto”. Anche se in questa storia ciò che spaventa davvero è la polizia ridotta a security privata del capo del Viminale, l’agente in bermuda che si fa consegnare i documenti di Lo Muzio e poi gli sibila “adesso sappiamo dove abiti”.

Però se l’annuncio di citazione in giudizio proviene dal Matteo toscano, offeso per essere stato accostato all’omonimo lumbard, allora corre l’obbligo di ricordare che Renzi vanta un ricco curriculum di minacce, denigrazioni e insulti a cronisti e testate. Al confronto del quale persino Silvio Berlusconi, le sue epurazioni bulgare, e il gesto del mitra alla giornalista russa, potrebbe accreditarsi come strenuo difensore dell’articolo 21.

Renzi, ovviamente, nutre una predilezione per il Fatto quotidiano. In noi è vivo il ricordo della Leopolda 2015. Quando la platea dem fu aizzata contro “la top 11 delle balle del governo Renzi”, ed invitata a votare contro “il peggior titolo di giornale”. Tra le 16 prime pagine messe alla gogna, 11 erano nostre, grazie. Peraltro Renzi è gentile se ci cita col nome giusto. Quando gli salta la mosca al naso, diventiamo per lui “Il Falso Quotidiano”. Il calembour fu coniato nell’aprile 2017 al culmine del caso Consip. L’ex premier era ebbro di entusiasmo per le notizie sul maggiore del Noe Gianpaolo Scafarto accusato di aver taroccato alcune intercettazioni per aggravare la posizione di Babbo Renzi, e per sillogismo i falsificatori erano anche chi le aveva scoperte e pubblicate. Renzi junior e i suoi corifei gridarono al complotto, ricordate? Due anni dopo siamo qui con Scafarto imputato in udienza preliminare, ma riabilitato dal Riesame e dalla Cassazione, e la richiesta di archiviazione di Tiziano Renzi respinta dal Gip di Roma.

Non siamo gli unici ad aver goduto delle attenzioni di Renzi. Ne sa qualcosa Alessandro Sallusti. Intervistato nel febbraio 2016 a Un giorno da Pecora, il direttore de Il Giornale rivelò un aneddoto: “Con Renzi avevo un ottimo rapporto, quasi confidenziale. Poi abbiamo scritto una cosa che non gli piaceva, mi ha chiamato, mi ha riempito di insulti e mi ha detto che sarebbe venuto sotto casa a spaccarmi le gambe”.

Un paio di anni dopo ricorderà la vicenda in un’intervista al programma La Confessione di Peter Gomez. E solo allora si manifesterà, a scoppio ritardato, la minaccia di querela dell’ex segretario del Pd.

Ma il culmine della tracotanza di Renzi contro la stampa rimane la sfuriata contro il giornalista del Corriere della Sera Marco Galluzzo, inviato a seguirne le ferie in un albergo di Forte dei Marmi. Quando il collega, che aveva preso una stanza nello stesso hotel, si avvicina al premier per salutarlo, ne riceve una sequela di urla e invettive. Poi un uomo che si qualifica “dei servizi” andrà a bussare alla porta di Galluzzo per dirgli: “So chi sei, so chi è tua moglie e chi la tua amante”. Roba da far impallidire lo zelante poliziotto del Papeete.

E meno male che era un No-Triv

Una volta indossava fieramente la maglietta No Triv (come quella, girata sul web, No Tav). Ma il temposcorre veloce. Così ora Matteo Salvini invoca il sì alle estrazioni petrolifere in interviste a Corriere della Sera e Stampa e anche nelle dichiarazioni a torso nudo da Milano Marittima. Ma il comitato No Triv non dimentica e non perdona, ed elenca al capo della Lega tutte le sue bugie: “Non è il ministero dell’Ambiente – e tanto meno il ministro – a rilasciare titoli o a rigettare istanze di ricerca e prospezione, o domande di coltivazione (estrazione a fini produttivi), bensì il ministero dello Sviluppo economico. Non c’è alcun blocco delle estrazioni. La legge 12 del 2019 è stata frutto di una lunga mediazione tra M5S e Lega e non ha sospeso le attività di estrazione all’interno delle aree interessate da concessioni”. Infine: “La perdita dei posti di lavoro non ha niente a che fare con i fatti italiani”. E salutoni al capitano.

Il leader della Lega insiste: “Ruspa contro la zingara”

Matteo Salvini non rinuncia alla ruspa. Nemmeno sulla spiaggia di Milano Marittima dove si trova per la Festa della Lega Emilia Romagna. Ieri si è improvvisato deejay: costume da bagno, ciabatte da mare e cuffie da consolle. Ma ha avuto anche il tempo di usare i social per tornare a inveire contro la donna che gli aveva augurato la morte. E che il ministro dell’Interno aveva definito “zingaraccia”. Sul suo profilo twitter ha rilanciato il video di Rete 4 in cui a parlare sarebbe il marito della donna. Commentandolo così: “Il marito della zingara che vorrebbe mi sparassero: ‘Non è giusto che mi tolgano la casa, io ho rubato tanto per costruirla’. Che bella famigliola! E c’è chi li difende… Serve una democratica ruspa!” ha chiosato Salvini ottenendo una valanga di commenti favorevoli. Le telecamere di “Stasera Italia” sono tornate più volte al campo rom in via Monte Bisbino, nella periferia nord di Milano. Dove in un primo momento era stata intervistata la donna che aveva augurato “un proiettile in testa” a Salvini da cui dice di sentirsi minacciata. “Penso che lui ce l’abbia proprio con gli zingari, con il nostro popolo”.

“Di Maio non mi ha perdonato quell’intervista: mi dimetto”

Ne sono successe tante, forse troppe. E lo strappo con il capo, con Luigi Di Maio, si è dilatato, diventando una voragine. Così Massimo Bugani, bolognese di 41 anni, veterano del M5S, ha deciso che è ora di uscire da quella porta. “Mi dimetto da vice-caposegreteria di Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, e lascerò anche i ruoli di referente del Movimento in Emilia Romagna e dei sindaci”.

Rimarrà consigliere comunale a Bologna, l’amico di vecchissima data di Beppe Grillo e dei Casaleggio, “perché sono convinto di aver svolto un grande lavoro in Comune”. Ma è pronto anche a un altro addio: “Se dovessi rendermi conto che la mia permanenza nell’associazione Rousseau può diventare un problema per Davide Casaleggio, non avrò problemi a farmi da parte. Voglio troppo bene ai miei soci e all’associazione”. Bugani spiega, precisa, e lo ripete più volte: “Non sono attaccato alle poltrone”. E la voce a tratti s’incrina. Perché racconta la rottura con il capo politico del Movimento, con Di Maio, politica e in parte umana. “Certe coppie che stanno assieme da anni poi iniziano a convivere, ma dopo pochi mesi capiscono di far fatica a stare vicini” prova a scherzare.

Ma la sostanza dei fatti è cruda, dritta: “È iniziato tutto dopo la mia intervista al Fatto del 19 giugno, in cui auspicavo unità nel Movimento e sostenevo che Di Maio e Di Battista non sono alternativi ma complementari. Poche ore dopo mi chiesero di non rilasciare più interviste. E non capisco perché, visto che io non volevo certo mettere in difficoltà Luigi. Ritenevo doveroso richiamare alla compattezza in un momento difficile, e invitare a non puntare il dito contro Di Battista o altri, perché le diverse anime del M5S vanno tenute assieme”. Ma il leader l’ha presa malissimo. “In quella circostanza ho capito che il mio ruolo veniva messo in discussione e che non c’era più fiducia in me. E nel giro di qualche giorno mi hanno fatto sapere che il mio stipendio da vice-caposegreteria sarebbe stato dimezzato per contenere le spese”. Da lì inizia il grande freddo tra Bugani e Di Maio. Ma tutto si spezza un paio di settimane fa, quando il socio di Rousseau attacca a muso duro il ministro dei Trasporti Toninelli e il sottosegretario Dell’Orco, invocandone la cacciata per il sì al Passante di Bologna. “Lo ridirei mille volte, ho dato 14 anni di vita al Movimento e alle sue battaglie per la tutela dell’ambiente, contro opere inutili e costose come l’allargamento di un’autostrada” rivendica Bugani.

Però ai piani alti s’infuriano, e un paio di giorni fa gli è arrivato il conto: “Il suo caposegreteria Dario De Falco, persona per bene, mi ha invitato a dimettermi e io ho replicato che Luigi poteva rimuovermi. Poche ore dopo mi hanno mandato un provvedimento con cui riducono il mio stipendio da 3800 a 1600 euro. Io non sono aggrappato ai contratti, e allora ritengo doveroso dare le dimissioni. Anche per il bene che voglio a Di Maio, nonostante in questi mesi non abbia condiviso molte sue scelte”. Nessun contatto con il vicepremier? “Non ultimamente”.

Il filo per ora si è spezzato. “Ho informato delle mie dimissioni Grillo, Casaleggio, Di Battista e ad altri amici – continua Bugani – Ma quello che ci siamo detti rimarrà tra di noi”. Però il consigliere comunale tiene a dirlo: “Quella di lasciare è una mia decisione totalmente autonoma, e voglio anche precisare che non ho alcuna intenzione di candidarmi alle prossime Regionali in Emilia Romagna”. Ma ora come sta il Movimento? Bugani riflette, poi lo dice: “Ora nei sondaggi siamo al 14 per cento, è il momento più difficile per il M5S, e sinceramente non credo di essere io il problema”. E perché va male, perché Di Maio sta sbagliando rotta?

Piccola pausa, poi arriva la metafora: “Parafrasando quel film Ogni maledetta domenica, potrei dire che in politica se cedi un centimetro alla volta, poi ti ritrovi nei guai”. E quei centimetri sono (o sarebbero) stati tutti ceduti all’avversario che non vuole citare, alla Lega. “Io ho una storia, e la voglio preservare” conclude Bugani. Dopo aver chiuso quella porta.

 

“La Lega ci ripensi. Votando sì al Tav viola il contrattto”

Il Tav è una ferita che non smette di pulsare per i Cinque Stelle, e da qui a due o tre giorni in Senato faranno l’ultimo tentativo per suturarla, con la loro mozione contro la tratta ferroviaria. “In vista del voto ci appelliamo agli eletti di tutti i partiti, e in particolare ai senatori piemontesi di Lega e Forza Italia” invoca il capogruppo del M5S a Palazzo Madama, Stefano Patanuelli.

Il Fatto ha rivelato che finora per la tratta nazionale del Tav sono stati stanziati solo 146 milioni, e che la linea costerebbe a tutt’oggi oltre 4 miliardi e 600 milioni all’Italia, perché la project review del governo Gentiloni che doveva tagliare i costi a un miliardo e 900 milioni non è mai stata approvata dal Cipe. Che ne pensa?

È evidente che quello dei tanti soldi da reperire diventerà un enorme, effettivo problema per questo governo se arriverà uno scellerato sì al Tav. Non sarà un tema che affronteremo in questa manovra, ma si porrà. E mi chiedo come si possa pensare di spendere tutti questi miliardi per un buco inutile in una montagna quando nel contratto di governo c’è scritto chiaramente che dobbiamo ridurre le tasse e introdurre il salario minimo. Abbiamo ben altre priorità e ben altre risposte da dare ai cittadini.

Magari dovreste ricordarlo a Matteo Salvini, non crede?

Non abbiamo ancora discusso in tavoli ufficiali delle risorse. Ma il fatto che la tratta nazionale possa costare quasi 5 miliardi rappresenta un nodo per il futuro del Paese.

Il premier Giuseppe Conte, indicato da voi Cinque Stelle, sostiene che il Tav vada comunque fatto perché non realizzarlo costerebbe di più.

Ha detto anche che il Parlamento è sovrano e quindi avrà l’ultima parola.

La contraddizione tra voi e Conte rimane.

Abbiamo il massimo rispetto per il presidente Conte, ma non siamo d’accordo con la tesi secondo cui che non fare l’opera costerebbe di più rispetto al fermare l’opera. L’analisi costi benefici, fatta da esperti riconosciuti nominati dal ministero delle Infrastrutture, ha dimostrato che realizzando il Tav l’Italia ci rimetterebbe diversi miliardi.

Esistono delle penali, no?

Accordi alla mano, potrebbero costare fino a un massimo di un miliardo e 300 milioni, molto meno dei costi dell’opera. Ma non è affatto detto che si debba pagare una cifra del genere. Ricordo che per la mancata realizzazione del Ponte di Messina si sarebbero dovute pagare penali per 700 milioni, ma che poi in sede giudiziaria lo Stato ha vinto tutte le cause.

Resta il fatto che questo governo è spaccato, innanzitutto sulla Torino-Lione. Tanto che la mozione di voi 5Stelle impegna il Parlamento e non l’esecutivo a fermare l’opera. Una chiara ammissione di debolezza.

Niente affatto. Per rivedere un trattato internazionale è obbligatorio il via libera del Parlamento, mentre il governo non ha uno strumento giuridico autonomo per farlo. Abbiamo scelto la formula necessaria da un punto di vista normativo.

La vostra mozione sarà solo un atto di presenza. Non può passare.

In Parlamento ci sono due forze storicamente no Tav, noi e la Lega. In Piemonte i leghisti fecero campagne contro la tratta.

Appunto, fecero. Ora il Carroccio cosa farà in Parlamento?

A quanto ho capito dalle dichiarazioni che ho letto non presenterà una propria mozione, ma voterà contro la nostra e a favore di quelle pro Tav.

Dovrebbe bastare per una crisi di governo. Nel contratto con la Lega c’è scritto che i contraenti “si impegnano a non mettere in minoranza l’altra parte in questioni che per essa sono di fondamentale importanza”. E la Torino-Lione pare esserlo, no?

Io ricordo il voto su Radio Radicale e altre votazioni nelle commissioni in cui la Lega ha messo in minoranza il M5S, votando con gli altri partiti. E comunque nel contratto di governo non c’è scritto che il Tav va fatto così com’è, piuttosto c’è “l’impegno a ridiscutere integralmente il progetto”. Mentre oggi il Carroccio vuole votare per il progetto originario della Torino-Lione. E questa sarebbe sicuramente una violazione del contratto.

Una volta che la Lega avrà varcato questo Rubicone, voi cosa farete?

Aspettiamo la votazione, e vedremo quali conseguenze politiche avrà. Ma noi dovevamo presentare questa mozione, perchè siamo convinti che le vere opere utili per il Paese siano altre, a partire dalla messa in sicurezza delle infrastrutture esistenti.

Toti in soccorso a Salvini. Ma i suoi ora tentennano

I totiani sono attesi al varco. Perché il voto di fiducia sul decreto sicurezza-bis, che la Lega vuole approvare a tutti i costi prima che il Senato chiuda i battenti per ferie, sarà il banco di prova per verificare se fanno sul serio. E se davvero sono pronti a puntellare il governo abbandonando ufficialmente Forza Italia che oggi, nonostante l’emorragia di consensi, è il secondo gruppo in termini di eletti a Palazzo Madama. Nel partito, per la verità, si ostenta indifferenza per le loro mosse. Sulla fiducia e pure sulla mozioni sul Tav che andranno al voto sempre in settimana. Anche perché l’impressione è che i senatori accreditati dell’uscita imminente da FI, stiano indugiando un po’ troppo. E il loro atteggiamento lascia supporre che alla fine rimarranno dove sono, lasciando Toti solo o quasi. Proprio per questo il doppio voto in Parlamento sarà utile a farne il conto effettivo.

A sentire i fedelissimi di Silvio Berlusconi alla fine saranno davvero pochi a “tentare il salto nel buio al seguito del governatore ligure”. Ma il problema esiste comunque perché al Senato i numeri della maggioranza sono ballerini e sul testo caro al Carroccio si registrano le solite resistenze nei 5 Stelle che potrebbero far mancare all’appello voti decisivi, almeno stando al pallottoliere. Elena Fattori ad esempio ha già detto che non voterà la fiducia. E con lei altri 6 o 7 pentastellati al minimo. Che potrebbero non essere determinanti solo nel caso in cui le assenze dell’opposizione facessero abbassare il quorum. Ma se invece non fosse così e il fronte vasto che va dal Pd a Forza Italia passando per Fratelli d’Italia e Leu, si presentassero regolarmente ai loro posti per tentare la spallata al governo gialloverde (che sulla carta tutti dicono di volere, anche se di più temono il ritorno alle urne), allora sì che i senatori totiani farebbero la differenza. E il loro voto a favore del governo potrebbe determinare un fatto politico nuovo.

Lo scisma del governatore ligure oltre a accelerare il processo di disgregazione di Forza Italia, ben potrebbe attagliarsi ai progetti di Matteo Salvini. E non solo in Parlamento dove riservisti con ruolo ancillare al Carroccio possono sempre far comodo. Il ‘Capitano’ infatti punta a colonizzare anche le regioni del Sud dove si voterà nel 2020. Come ad esempio in Puglia dove l’uomo di Toti è il senatore Luigi Vitali che di Forza Italia è stato coordinatore regionale. In Calabria Tonino Gentile, ex potente sottosegretario alfaniano da mesi lavora a sostegno del progetto del governatore ligure insieme all’ex senatore Piero Aiello e a una serie di consiglieri regionali. E lo stesso discorso vale per le altre regioni dove la Lega ha più bisogno di radicarsi facendone pagare magari il conto a Forza Italia che un tempo al sud la faceva da padrona.

Sono voti ritenuti in libera uscita su cui, nel campo del centrodestra vuol mettere le mani anche Fratelli d’Italia. Che osserva il disfacimento di Forza Italia “vittima – secondo Guido Crosetto – di una sclerotizzazione berlusconiana ininterrotta”. Le voci di dentro al partito dell’ex Cav raccontano ovviamente un’altra storia. Di speranza nel capo “che ha sempre portato il 90% dei voti di Forza Italia”. E dove le battaglie interne, al di là delle belle parole “si sono sempre consumate attorno a una questione: chi farà le candidature al prossimo giro”. Sempre che un prossimo giro ci sia. Ma se la barca è messa male, sta peggio chi l’ha abbandonata: “Fitto, Alfano: sulla carta tutti dicevano di contare in Parlamento e negli enti locali. Alla prova del voto non è stato così”. Forza Italia è sopravvissuta, loro no. E Toti e i suoi? “Per condannarli all’irrilevanza definitiva basterà aspettare che se ne vadano”.