La Flat Tav

Mi scuso con i lettori per la nostra scelta eccentrica di aprire anche ieri la prima pagina con una notizia, anziché con l’ultima minchiata espettorata da Salvini spiaggiato con la bavetta agli angoli della bocca, l’ascella pezzata e la panza di fuori sul bagnasciuga del Papeete Beach. Noi, com’è noto, siamo strani e lo facciamo strano, il giornalismo: cioè con i fatti anziché con le parole. Certo, ci fa ribrezzo un vicepremier nonché ministro dell’Interno che insulta i giornalisti che gli fanno le pulci e dà della “zingaraccia” a una rom che gli ha augurato un proiettile in capo. Ne preferiremmo uno che: non usi i poliziotti per gli svaghi del pupo e le minacce a cronisti e contestatori; risponda anche alle domande che non gli piacciono; se una persona lo minaccia di morte, la quereli e, se proprio vuole dirle qualcosa, non usi riferimenti spregiativi alla sua etnia, ma aggettivi più appropriati e universali. Tipo “stronza”. Dopodichè, appena insigni colleghi si stracciano le vesti per le minacce “mai viste” alla “libera stampa” (mai vista pure quella), capiamo subito perchè un simile cazzaro veleggi nei sondaggi verso il 40%: perchè avevano fatto ben di peggio altri due cazzari prima di lui, B. e Renzi. Solo che ai tempi di B. era come oggi: si indignavano soltanto quelli di sinistra. E ai tempi di Renzi non si indignava nessuno, perché destra, centro e sinistra erano sdraiati ai suoi piedi (lo ricorda a pag.4 Antonio Padellaro, che l’altra sera in tv ha osato rammentare le intemerate del bulletto ai pochi che osavano contestarlo, e s’è subito beccato una minaccia di querela). Ormai Salvini conosce bene i suoi polli, e li usa a suo piacimento sparandone una al giorno, nella certezza che l’indomani finirà su tutte le prime pagine e il giorno appresso tutti lo intervisteranno per sapere se sia pentito della vaccata del giorno prima. Sempre meglio che lavorare, attività ormai vivamente sconsigliata ai politici di successo: infatti, nel governo giallo-verde, chi lavora perde voti, punti e copertine, mentre chi cazzeggia stravince.

Ma noi siamo strani e, anziché inseguire Salvini col suo Trota sull’acquascooter, preferiamo inseguirlo sui fatti. Tipo quello che abbiamo scoperto ieri a proposito del Tav Torino-Lione. Che, per inciso, non è un Tav: dagli anni 90 il treno ad alta velocità per i passeggeri è stato riconvertito, per mancanza di passeggeri, in un treno ad alta capacità per le merci, peraltro anch’esse scarsine. E non è neanche un Torino-Lione, visto che non è previsto alcun collegamento fra le due uscite del buco da 57,5 km. nelle Alpi, quelle di Bussoleno e di Saint Jean de Maurienne, e rispettivamente Torino e Lione.

Ma questo era già noto, almeno a chi legge il Fatto. La novità è che il non Tav non Torino-Lione costerà all’Italia circa 3 miliardi in più di quel che ci avevano raccontato. Cosa che, se l’avessero saputa i tecnici incaricati dal Ministero dei Trasporti dell’analisi costi-benefici sull’opera, avrebbe portato il loro esito negativo non più a 7 miliardi, ma a 10. E, calcolando solo i costi per l’Italia, escludendo quelli per Francia e Ue, non più a 3, ma a 6 miliardi. Cioè: se l’avesse saputo il premier Conte, quando ha annunciato che il Tav si deve fare, salvo un voto del Parlamento italiano che disdetti unilateralmente il trattato italo-francese, non si sarebbe azzardato a dire che ormai fermare le gare di appalto costerebbe più che vararli alla luce di un presunto cofinanziamento europeo al tratto ferroviario italiano “che costa 1,9 miliardi”. Vediamo perché. Ancora l’altro giorno l’ex ministro dei Trasporti Pd Graziano Delrio, che è un po’ il Lunardi di Renzi, raccontava a Repubblica che “l’opera, così come finanziata dai governi di centrosinistra, ha visto una forte riduzione dei costi che sono passati nella tratta in Val di Susa da 4 miliardi (in realtà 4,6, ndr) a 1,9. Quindi abbiamo fatto quello che era utile per evitare sprechi, utilizzando nel progetto in gran parte la linea storica, non come volevano Berlusconi e la Lega”. Peccato che sia falso. Al Cipe, cioè al Comitato interministeriale programmazione economica, del project review di Delrio (governo Gentiloni) esiste solo un’ “informativa”: un foglio di carta, mai dettagliato né approvato né deliberato come progetto definitivo. Un pour parler. Una supercazzola. Dunque, per il Cipe, cioè per il governo, la tratta italiana di collegamento al tunnel di base resta quella vecchia di B.&Lega, col potenziamento della Bussoleno-Avigliana-Orbassano e la Gronda di Settimo Torinese che bypasserebbe il capoluogo e confluirebbe sulla linea Tav Torino-Milano. Costo: 4,6 miliardi: quasi 3 in più di quel che si pensava dando per fatto il progetto “low cost!” di Delrio, che tagliava la Gronda fermando i lavori a Orbassano. Non solo, ma risultano stanziati solo 146 milioni: il 3,1% del totale.
Ora come farà il governo ad autorizzare Telt, la stazione appaltante italo-francese, a lanciare i bandi di gara senza soldi e con la prospettiva di dover spendere 3 miliardi in più del previsto? Boh. E su cosa voteranno mercoledì 7 al Senato i partiti pro e anti Tav? Ri-boh. Si attendono lumi dal ministro competente (si fa per dire) Toninelli, da Conte, ma soprattutto dagli ultimi convertiti al dogma dell’Immacolata Costruzione: i leghisti. Siccome già faticano a indicare le coperture per la Flat Tax, che richiederebbe 15 miliardi sull’unghia in aggiunta ai 23 necessari a scongiurare l’aumento dell’Iva, li vorremmo tanto vedere alle prese con la ricerca di altri 4,5 miliardi (4,6 meno i 146 milioni già stanziati) per la linea nazionale del Tav. Che dice il Salvini spiaggiato? Rinuncia a un’opera inutile e dannosa che, ancor prima di partire con 30 anni di ritardo, si sta già rivelando un pozzo senza fondo? Oppure taglia la Flat Tax da 15 a 10 miliardi? Nel caso, potrebbe chiamarla Flat Tav.

La verità, vi prego, sul cinema di Sorrentino

“Una mascalzonata” tuonava Andreotti jr. portavoce di un padre onnipresente, ancorché sepolto da quel dì. E nessuno può confutare la reazione che il senatore ebbe vedendo Il Divo, benché la memoria ci porta altrove.

“Quando vide il film, Andreotti mi disse che la parte pubblica era tutta inventata mentre realistica era la parte privata”, sorride Paolo Sorrentino, aggiungendo che le sue intenzioni tendevano al contrario, “giacché nulla sapevo, né volevo sapere del privato del divo Giulio, mentre la sua vita pubblica era finemente documentata”. Ma così va la Storia quando miti e leggende ci metton lo zampino.

Non è dunque un caso che una nuova monografia dedicata al premio Oscar titoli Vero, falso, reale. Il cinema di Paolo Sorrentino, laddove la sovversione dello sguardo dell’autore partenopeo gioca a carte scoperte su quanto di più ambizioso aspira il mezzo cinematografico: la creazione di un immaginario ambiguo, una rappresentazione ove “il reale è il falso, e proprio questa coincidenza tra reale e falso allude alla verità profonda”, si legge nel saggio d’apertura di Augusto Sainati, che del collettaneo è anche il curatore. D’altra parte di questo s’interessano gli artisti: “Ora non esagerare con tutta questa verità. Ricordati che la finzione è la nostra passione”, suggerisce il regista Mick (Harvey Keitel) ai giovani sceneggiatori in Youth.

Il volume pubblicato da Ets è fresco di presentazione a Fiesole in occasione dello storico Premio ai Maestri del Cinema, inaugurato nel 1966, che annovera fra gli eletti cineasti del calibro di Visconti, Rossellini e Buñuel. Sorrentino, che ha ritirato il riconoscimento accompagnato dall’attrice Elena Sofia Ricci (David di Donatello per la sua Veronica Lario in Loro), ha encomiato il libro – “è più interessante di tutto ciò che potrei dirvi io sul mio cinema” – una lode non scontata.

I venti saggi, firmati da membri del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (Sncci), sono organizzati fra osservazioni sulla geografia estetico-formale del cineasta e approfondimenti sulle opere, dall’esordio in lungo L’uomo in più (2001) al “dittico” Loro 1 e Loro 2 (2018), a oggi disponibile solo nella versione Loro, decurtata di circa 45 minuti e tale da costituire un’opera diversa, “non tanto nella sostanza quanto nella struttura dell’affabulazione”, nota l’autore del focus sul film dedicato a Berlusconi e alla “spregiudicata schiera di persone con cui ha a che fare”.

Guardando al futuro – il volume comprende una scheda di presentazione di The New Pope che “assaggeremo” alla Mostra –, le riflessioni contenute in Vero, falso, reale aprono alla comprensione della visione di mondo di uno dei massimi talenti del nostro cinema: una porzione di studio ben ragionato che prelude al tutto. Anche se per Loro “tutto non è abbastanza”.

Vian, il “libro che uccide” e il gangster esistenzialista

Il 28 marzo del 1947, nella camera di un albergo di Parigi, un tale Edmond Rouzé, rappresentante di commercio, uccide la sua donna, Marie-Anne Masson, e si suicida, abbandonando accanto al suo cadavere la copia di un romanzo poliziesco. Si tratta di J’irai cracher sur vos tombes, ovvero Sputerò sulle vostre tombe. Porta la firma dall’americano Vernon Sullivan, in realtà lo ha scritto il francese Boris Vian (1920-1959), poeta, narratore, drammaturgo e musicista jazz, uno dei personaggi più originali e singolari della Parigi del dopoguerra e animatore delle serate esistenzialiste nelle caves di Saint-Germain des-Prés.

Esattamente 70 anni fa il libro di Vian, poi diventato bestseller, è stato tacciato di oscenità. Il ritrovamento di quella copia nella camera di Rouzé, peraltro lasciata aperta alla pagina in cui il protagonista ammazza in modo efferato una donna, scatena i moralisti e i benpensanti. Così, il 4 maggio del 1947, il giornale France-Dimanche accusa Vian di essere “un assassin par procuration”, un “assassino per delega”, e titola: “Le roman qui tue”, “Il romanzo che uccide”. E, nel 1949, il libro verrà proibito; soltanto nel 1973 sarà ripubblicato in Francia.

Forse è anche per questa ragione, perché è un libro “che uccide”, che il 30 luglio del 1948, a due giorni dal suo arresto a Parigi in rue Charlot, nel Marais, il bandito Pierre Carrot si fa immortalare dai giornali mentre sta leggendo proprio il romanzo di Vian-Sullivan. Chi è Carrot? Nato nel 1922, bretone, figlio di un gendarme, rapinatore ma non assassino, sette evasioni dal carcere al suo attivo, sui giornali viene chiamato “Pierrot le Fou” (Pierrot il Pazzo) numero due per distinguerlo da un altro Pierrot le Fou. Quest’ultimo, il Pierrot numero uno, è il ben più sanguinario Pierre Loutrel, già membro della Gestapo francese durante il governo di Vichy e poi anche partigiano a Tolosa. Nel dopoguerra ha terrorizzato la Francia con la sua gang detta delle Tractions-avant, così chiamata per il modello delle automobili Citroën utilizzato nelle scorrerie criminali. Quasi nessuno sa, però, che Loutrel è morto da due anni, dal 10 novembre del 1946; si è sparato lui stesso, ubriaco, in automobile, mentre stava infilando la pistola alla cintura; una pallottola gli ha perforato gli intestini. La polizia lo ignora. E l’ispettore Roger Borniche, destinato a diventare uno dei poliziotti più famosi di Francia, che lo sta braccando da mesi, dovrà ammettere: “Per due anni avevo cercato un morto!”. Nel milieu, tra i camerati di Loutrel, come Jo Attia e Georges Boucheseiche, la verità è invece risaputa: sono stati loro due, insieme a un certo Edmond Courtois, a seppellirlo dalle parti di Porcheville. Nel 1949 i resti di Loutrel verranno scoperti, anche se la dichiarazione ufficiale di morte arriverà solo nel 1951.

Intanto, nell’estate del 1948, la stampa dedica le prime pagine a Carrot e alla sua compagna, “la belle Katia”. All’anagrafe è iscritta come Catherine Reynero; sarebbe più giusto dire che si chiama Caterina Reinero e che è nata in Piemonte, a Frassino, in Valle Varaita. Combat, il giornale di Albert Camus, il 30 luglio 1948, premettendo il titoletto “Le gangster existentialiste”, scrive di Carrot: “Per ridarsi coraggio, tra i due interrogatori, legge J’irai cracher sur vos tombes di Vernon Sullivan”. E l’Humanité, sempre il 30 luglio, afferma: “Carrot dà l’impressione di un uomo alla fine e totalmente demoralizzato. Quando i poliziotti interrompono i loro interrogatori, il bandito legge quel capolavoro della letteratura oscena che ha scritto Vernon Sullivan: J’irai cracher sur vos tombes”.

Pierre Carrot, comunque, continua a leggere Vernon Sullivan-Boris Vian. Lo stesso Vian, che sta per essere processato per J’irai cracher sur vostombes, su Combat del 24 novembre 1948 lo ricorda divertito. “M. Baurès è un giudice istruttore”, dice al giornalista che è andato a intervistarlo. “È quello che ha istruito l’affaire Pierrot-le-fou”, prosegue, “e se voi avete letto i grandi giornali di qualche mese fa, saprete che Pierrot leggeva ogni mattina un capitolo di J’irai cracher sur vos tombes, prima di commettere il suo misfatto quotidiano. Si va senza dubbio a collegare i nostri due affari”.

I due “affari” non saranno collegati, ma il libro di Vian verrà tolto dalla circolazione, come del resto accadrà a Carrot, condannato a oltre vent’anni. Quando Vian muore, nel 1959, Pierre per l’ennesima volta ha da poco tentato di evadere. Il bello è che Carrot, almeno secondo il Musée du Barreau di Parigi, il museo del Foro e degli avvocati, vive ancora oggi. Ha 97 anni, e forse rilegge Boris Vian.

Il disco ormai s’è rotto. Basta incisioni, meglio i live

Sul ponte della musica sventola bandiera bianca, o quasi. Ad agitare il vessillo della resa è stata, stavolta, Sheryl Crow. Il suo nuovo album Threads uscirà il 30 agosto, ma la cantautrice ha già deciso che sarà l’ultimo. A sentir lei, la gente non ha più voglia o tempo per ascoltare un’opera articolata come una raccolta di canzoni. Ne può bastare una. Il passaggio potrebbe essere epocale, ma non lusinghiero. Ci avventuriamo verso l’era tirannica dei 45 giri virtuali, sparsi lungo il cammino di un artista senza che il vecchio long-playing ne certifichi un’ambizione più corposa? E i musicisti italiani? Si stanno rassegnando al diktat tecno-antropologico o resistono in trincea?

Lo abbiamo chiesto ad alcuni di loro. Giuliano Sangiorgi si affida all’autocitazione: “3 minuti solo 3 minuti per poterti dire… cantavo e finivo così, restando sospeso tra il detto e non detto, in una canzone che sotto il vestito accomodante dell’amore nascondeva una critica alla costrizione radiofonica di avere un tempo massimo per esprimere un concetto musicale. Era il 2005, non parliamo di un passato così lontano. Erano solo 3 minuti all’epoca: oggi sembrerebbero uno spazio/tempo lunghissimo per potersi esprimere”, riflette il leader dei Negramaro. E ora? “Si ha poco tempo da dedicare alle persone, immaginiamoci alla musica. Per cui, in tutto questo ridursi all’osso del tempo a disposizione, soffre anche il concetto ‘antico’ di album. Non si ha tempo, sembra, per l’ascolto lento e lungo di un intero lp”, spiega. “Così basta un singolo per conoscere o conoscersi, in maniera superficiale e casuale. Ogni artista ha solo quei tre minuti per far capire tutto di sé e della sua visione. Un tempo lunghissimo, addirittura, considerato oggi. Un singolo brano racchiude il suo cammino. Si gioca il tutto per tutto in quei pochi minuti, ma che sembrano una carriera intera”. Qual è il rischio, in un simile scenario? “Da un lato”, argomenta Sangiorgi “di non riuscire a dire o cantare nulla, dall’altro c’è la sfida continua di poter creare un’opera compiuta in un tempo così piccolo. Io sono in bilico, nel mezzo. Resto un nostalgico amante del lungo periodo di gestazione che serve a partorire un album che resti e un eterno sfidante che vuole misurarsi continuamente con l’evoluzione dei tempi”. Per cui? “Continuerò a scrivere gli album finché avrò tanto da dire ma profitterò della possibilità che mi si darà di dire tutto di me in solo 3 minuti. Ci proverò, sempre, a parlare la lingua del mio tempo anche quando questo sarà piccolo, così piccolo da far scomparire anche la canzone stessa…”. Anche Fabrizio Moro, mentre scalda i motori per il tour, si chiede in quale modo praticare una forma di resistenza: “Inutile la nostalgia. È evidente che fra le nuove generazioni l’approccio alla musica è totalmente cambiato”, ammette l’autore di Figli di nessuno. “I ragazzi si sono abituati alle playlist, sono quelle i loro album. Capisco la provocazione della Crow e di tanti colleghi che pubblicano canzoni con cadenza periodica, raccogliendole magari in un album a chiusura di un percorso prestabilito. Ma è una strategia di marketing, non un’opzione creativa”, sostiene Moro. “Quanto a me, nasco sul palco, mi emoziono e gratifico molto di più in concerto che non in studio. Realizzo dischi per poter suonare dal vivo le nuove canzoni. È un privilegio al quale non rinuncerò mai, qualunque sia il destino degli album”. Diodato è più pragmatico. Confida di aver concluso il lavoro sulla prossima raccolta di inediti, e intanto ha saggiato il terreno con l’ironico singolo Non ti amo più. “Sì, lo step by step mi è servito per elaborare le lunghe fasi di lavorazione di un album. A volte ti trovi con dischi freschi di uscita ma composti anni prima. Nati già vecchi. La tecnologia virtuale offre nuove chance, tutto va in quella direzione”. Ma Diodato non alza le mani: “L’album resta un feticcio decisivo, anche per regalare qualcosa al pubblico. È un elemento del merchandising, come la spilla o la maglietta, ma più sostanzioso. E se il prodotto fisico rischia di morire lo salveremo col vinile”.

Sulla stessa linea c’è Renzo Rubino: “Il ritorno del vinile dimostra che l’album sia un elemento fondamentale del nostro lavoro. Racchiudere in un disco un certo numero di canzoni è l’approdo di un percorso fatto di idee, registrazioni, incontri, alchimie. Però”, argomenta Rubino, “rivendico il diritto di viaggiare leggeri, offrendo frammenti di quotidianità con un brano che non farà parte di nessun album, come ho fatto giorni fa con Dolce Vita. Avevo voglia di raccontare un sentimento, e l’ho fatto senza attendere un progetto più complesso”, conclude Rubino. Ma che ne sarà dei cantautori di nicchia, che non sentono la pressione del mercato? Ivan Talarico, apprezzato con il suo ‘gaberiano’ Un elefante nella stanza, la mette giù così: “Manca la disponibilità per sentire un disco: tutto è frantumato. Ormai basta una canzone, da tenere in testa per una stagione e dimenticare per il resto della vita. E forse, in assenza di concept album indispensabili, va bene così. Ma tra poco non avremo nemmeno più tempo per pensare, o per vivere”, profetizza Talarico. “La colpa però è anche nostra. Io ho appena registrato un disco ma non ho avuto il tempo di sentirlo per intero”.

Travolti da un insolito imbarcadero a Varadero

Estate 1991, non avevo vent’anni e mi sentivo un grande marinaio, almeno quando non c’era troppo vento. Così sulla spiaggia di Varadero, a Cuba, presi in affitto un piccolo catamarano di 5-6 metri, un Hobie Cat credo, insieme a mia madre che ne sapeva meno di me. Mi ero divertito tanto al Circeo, qualche volta mi avevano anche ripescato in mare, ma cosa mai poteva succedermi nell’Atlantico? Partimmo velocissimi nel primo pomeriggio e in pochi minuti eravamo in mezzo al mare.

Filavamo avanti e indietro quando feci una sciocchezza e rovesciai la barca. Niente di grave, pensai, altre barchette a vela le avevo raddrizzate mille volte, è una delle prime cose che ti insegnano, anzi mi ci divertivo. Basta mettersi prua al vento e buttare il peso sulla deriva: torna su come niente. Dei catamarani, però, non sapevo nulla: bisognava far passare una cima sulla testa dell’albero, ma io non ci arrivai. Peggio ancora uno dei due scafi, rotto nella parte superiore, cominciò a imbarcare acqua. Un’ora dopo era completamente immerso e noi eravamo aggrappati all’unico scafo rimasto. Non l’avrei tirato su neanche se avessi saputo come fare. La corrente ci portava fuori.

Erano già anni difficili per Cuba, i carburanti scarseggiavano, non si vedeva una barca. Altro che Tirreno. Ormai faceva notte, le onde erano altissime, pensavo con terrore agli squali mentre mia madre era tranquillissima. Per fortuna a terra c’erano, oltre al proprietario del catamarano che giustamente lo rivoleva, la mia fidanzata e mia sorella, che diedero l’allarme. Così un mercantile che passava di là fu avvisato, ci cercò a lungo nel buio con i fanali e finalmente ci vide. Calarono in mare una lancia per venire a prenderci. Il catamarano lo presero con una gru e lo sbatterono senza complimenti sul ponte.

“Il Cenacolo? Non si vede. E Roma è per ciarlatani”

Un americano a Roma, e Firenze, e Venezia, e Milano… Ovvero un turista banalotto, anche se si chiama Mark Twain ed è il padre nobile della letteratura statunitense. Almeno è sincero: In questa Italia che non capisco, scrive nei suoi appunti sparsi del Grand Tour, editi nel 1869 e ora riproposti da Mattioli 1885.

Bacchettone, provinciale, grossolano: il Twain pellegrino è il tipico uomo del fare che non apprezza, e forse neanche capisce, l’arte: “Quanto a quegli schizzi (di Michelangelo e Leonardo, ndr), beh, meglio lasciar stare”. All’Italia contesta soprattutto l’indolenza e l’immobilismo, tipici del Paese “più miserabile e principesco della terra”, adagiato sulle gloriose rovine del passato. Ecco le sue cartoline.

Genova. “La ‘Superba’ sarebbe un appellativo calzante se si riferisse solo alle donne: bellissime, chiarissime di carnagione; molte hanno gli occhi azzurri”. Lo scrittore marpione è selettivo anche in altri vizi: “Non azzardatevi a fumare il tabacco italiano” perché scadente e riciclato da perniciosi “cacciatori di mozziconi”, che infestano la città insieme a “fantasmi, deprimenti lacchè e frati, cioè consumati affamatori del popolo”.

Milano. Che meraviglia, il Duomo, “così enorme e solenne, così imponente! Lì siamo rimasti impalati”, per poi “bighellonare” tra l’Arco della Pace, la Scala e la Biblioteca Ambrosiana. C’è tempo pure per una sosta pensosa, in cui compiangere la sorte del “signor Laura, quel povero misconosciuto” marito della donna amata da Petrarca. Spiace, invece, per le signore della buona borghesia meneghina: hanno “un lieve accenno di baffi, sono vestite senza troppe pretese”. E che delusione L’ultima cena: “Le copie sono di gran lunga meglio dell’originale… Non si vede nulla! I colori sono sbiaditi, i volti scomparsi, i capelli una macchia confusa”.

Como. Cittadina “curiosa”, lago “pittoresco”, ma troppo piccolo e limaccioso: uno sputo al confronto col lago Tahoe, e alla faccia di George Clooney. L’attrazione migliore – nel comasco – sono le ville. Meritano una visita anche la “graziosa” Lecco e Bergamo, “famosa perché è la città natale di Arlecchino”.

Venezia. “Arrogante, invincibile, magnifica. La sua gloria è finita, la sua grandezza sgretolata: galleggia su lagune stagnanti, abbandonata e ridotta sul lastrico, dimenticata dal mondo… È un paradiso per gli storpi e sembra una città dell’Arkansas”. Solo di notte, al chiaro di luna, ritrova il suo antico splendore. Ocio.

Firenze. “Per un po’ mi è piaciuta”, ma solo per un po’. Che fatica “quelle noiosissime gallerie di quadri, lunghe miglia e miglia”, altrimenti dette Palazzo Pitti e Uffizi e circondate da “folle di luridi mendicanti”. Vergogna. Anche Pisa, “carina”, è piagata da “povertà, decadenza e rovina”. Ma peggio di tutte è Civitavecchia: “Fa un caldo asfissiante. E non c’è nulla da vedere”.

Roma. “Sembra una fiera di ciarlatani, imbroglioni e truffatori. La religione è il commercio e la ricchezza della città, come letame nella Foresta Nera: è difficile rendersi davvero conto dell’antico splendore”. È molto triste zigzagare oggi “tra le sue meraviglie fatiscenti: ci siamo alimentati della polvere e del decadimento fino al punto che ci è sembrato che anche noi stessimo ammuffendo”. Quanto al Vaticano, somiglia proprio all’Ufficio brevetti americano – uguali –, entrambi “nasi governativi con un certo caratterino”: il primo “conserva tutto ciò che è curioso e ammirevole nel campo artistico”; il secondo si attiene invece al campo della tecnica.

Napoli. Il trionfo dei luoghi comuni, tra “canagliume”, colera, superstizione e ruberie varie. Che cinema, che teatro, “come se Broadway si replicasse in ogni strada”. Attenzione, però, a “non guardare la città troppo da vicino: eliminerebbe gran parte del romanticismo”. Il tipico romanticismo napoletano.

Il pianerottolo e il mistero della porta (aperta) del vicino

Il caso, l’imprevisto, vicini che all’improvviso diventano maschere da commedia all’italiana.

Ritorno a casa. Ore una e quindici della notte.

Pianerottolo.

“Oddio, la porta del vicino è semiaperta”, allarmo mia moglie Francesca.

“Ah, è vero! E ora?”.

Silenzio. Pausa. Altro silenzio. Dubbi.

“Non possiamo entrare, è pericoloso. Suoniamo il campanello, magari ha solo chiuso male” rispondo da vero maschio.

Movimenti felpati, gesti intensi, un po’ solenni, cinematografia e letteratura (adeguata) iniziano ad addensarsi nel mio cervello, costruiscono immagini e ipotesi su quanto accade e sta per accadere. Insomma, nulla sarà più come prima.

Driiiinnnnn. Niente.

“Riprova”. Driiiiiiiiinnnnnnnnnnnn. Niente. Toc toc. Niente. Secondi d’attesa. Macché. Driiiiiiiiiiiiiiiinnnnnnnnnnnnnnn.

Sempre silenzio.

“Quindi? – insiste mia moglie – Suoniamo alla porta accanto, sento vociare, c’è una festa”.

Toc toc.

Si affacciano cinque quarantenni o intorno alla quarantina, giustamente un po’ sfatti, gesti ovattati. Stupiti dallo scampanellio.

“Scusate la rottura, ma avete sentito qualcosa? La porta del vicino è semiaperta…” esordisce Francesca (e inizia un breve racconto sulla situazione).

“Che può essere successo? Magari è morto, magari è a terra! Apriamo”, la vicina entra subito nello spirito giusto.

“No, non possiamo”, rispondo sempre più in preda a quelle suggestioni cinematografiche e letterarie.

“Chiamiamo la polizia!”, parola di Francesca. E prende il cellulare, 112, altro breve resoconto agli agenti.

“Arriviamo”.

“Ma dobbiamo entrare?” domanda mia moglie alle forze dell’ordine, giusto per ottenere la certificazione di “comportamento corretto”.

“No signora, aspetti noi”.

Bene, bravi, bis.

Ore una e quaranta, già dieci minuti di mistero. E il pianerottolo prende sempre più vita. La festa si è spostata davanti la porta semiaperta del vicino. Rientrano altri componenti del palazzo. “Che è successo?”

Francesca offre la solita breve storia.

“Ah, sono entrati di sicuro i ladri”.

Sicuro.

Francesca alza la mano e l’avvicina alla fessura della (benedetta) porta semiaperta. “Sentite, arriva aria fredda, la finestra è aperta”.

“Eh certo, sono entrati i ladri!”

Occhi impauriti dei presenti. Il capofamiglia dell’ultimo gruppo arrivato sblocca la situazione, è il momento di ritirare le sue truppe. “Noi andiamo a letto, è tardi, poi Fra (sempre Francesca) domani mi racconti”.

Buonanotte.

La formazione davanti la porta (semiaperta) resta quella originale, iniziano le ipotesi incrociate. La tensione sale. Sale. Sale. Nessuno tra i dirimpettai si era mai parlato tanto.

Ore una e quaranta, i cervelli dei presenti sono sintonizzati. “Basta, questi della polizia non arrivano, io entro, magari sta male e lo possiamo ancora salvare”, la vicina è proprio un’interventista.

“No, richiamo la polizia e sollecito”, sempre io. “Buonasera, ho telefonato prima…” (e via con la solita breve storia).

“Il problema è che abbiamo un caso più grave del vostro… e… insomma e… quindi e….”, replica il centralino delle forze dell’ordine.

“Ma come fate a giudicare se è più grave del nostro? Magari c’è qualcuno a terra che sta male”.

“Per ora l’altro caso è più grave del vostro. Ma arriviamo”.

Tensione e imbarazzo sul pianerottolo. Come impegnare il tempo? Di cosa si parla in questi casi? È un po’ come prendere l’ascensore quando è complicato trovare l’argomento adeguato per il tempo adeguato.

Mi dileguo dal gruppo, meglio un rhum.

Nel frattempo dal pianerottolo partono altre ipotesi e riflessioni.

“Questa città è invivibile”.

“Pericolosa”.

“Pericolosissima”.

“Ladri ovunque”.

“Io ho paura”.

“Anche io”.

“Il mio cane non abbaia mai, in questo è inutile”.

“Io ho i gatti”.

“Non si possono assegnare i lavori di ristrutturazione agli stranieri, poi sono matematici i furti in casa”.

“Ma che c’entra? Magari sta male e noi parliamo”.

“Io ho le grate”.

“Bah, inutili”.

“Vivere a piano terra è pericoloso”.

“Tutti i piani sono uguali”.

“Io ho paura. Pure l’altro cane è diventato sordo, prima abbaiava”.

“Ma questi non arrivano?”.

Silenzio.

Ore una e cinquanta. Lampeggianti. Quatto poliziotti.

“Che succede?” (E vai con la breve storia)

“Scansatevi”.

Prendono i guanti, se li infilano, uno di loro accende la torcia, un altro avvicina la mano alla pistola, ma senza toglierla dal fodero. Sguardi concentrati, i miei “echi” trovano la giusta soddisfazione, i poliziotti sono perfetti nel ruolo, scrutano la fessura, non si vede nulla, Francesca sbircia con loro, piano piano varcano la soglia.

“Francesca ti vuoi togliere?”.

“No, voglio vedere”. Dietro di lei, in fila, pure gli altri, accucciati.

La porta è spalancata.

Sono dentro.

Tutti e quattro.

La pistola non è più nel fodero. La torcia detta la strada.

“Oddio che succede!!!! Oddiooooooo”.

Appare un uomo in pigiama.

È il padrone di casa.

“Me so’ cagato sotto. Dormivo”.

Buonanotte.

@A_Ferrucci

Da Jfk a Bob, i morti e le tragedie che hanno falcidiato la dinastia

UN ARRESTO CARDIACO, probabilmente causato da overdose, ha stroncato la vita di Saoirse, nipote di Bob Kennedy. Studentessa di comunicazione a Boston, 22 anni, era nella villa di sua nonna Ethel a Hyannis Port quando sono stati chiamati i soccorsi. È stata dichiarata morta nell’ospedale di Cape Cod. “I nostri cuori sono devastati. La sua vita era piena di speranza, promessa e amore”, ha scritto la famiglia Kennedy in una nota. Si allunga la lista dei decessi improvvisi nella più famosa dinastia politica americana. Cinque anni dopo l’assassinio del 35° presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre 1963 a Dallas in Texas, anche suo fratello Bob, nonno di Saoirse, fu ucciso. Era la notte tra il 5 e il 6 giugno del 1968. Successivamente morirono anche due suoi figli: uno nel 1984 in un albergo della Florida a seguito di un’overdose e I’altro in un incidente con gli sci. Il figlio minore di JFK perse la vita assieme a sua moglie e alla cognata in un incidente aereo, che lui stesso pilotava, il 6 luglio 1999, precipitando di notte di fronte alle coste del Massachussets. Stessa sorte per il maggiore dei fratelli Kennedy, Joe, ucciso nel 1944 in volo in Francia durante la Seconda Guerra Mondiale. Stesso luogo, quattro anni dopo, per un’altra sorella di JFK, Kathleen Kennedy.

Gli anti Brexit del Galles affondano Johnson

Il primo ostacolo per il neo premier britannico Boris Johnson si chiama Brecon e Radnorshire, collegio elettorale rurale nel Galles,
66 mila abitanti. Alle elezioni politiche suppletive di giovedì scorso, i Tories hanno perso il loro seggio e ora hanno solo un voto di maggioranza alla Camera dei Comuni, in una fase politica in cui il futuro della Brexit e quindi del paese si giocherà, da settembre, proprio a colpi di voti in Parlamento. Brecon era considerato un primo test per Johnson e la sua nuova, muscolare linea politica, tutta orientata a preparare il paese per uscire dall’Ue il 31 ottobre, con o senza senza accordo con l’Unione Europea, se Bruxelles dirà ‘no’ alla richiesta di riaprire i negoziati.

Il deputato Tory in carica era stato eletto nel 2015 con un vantaggio di 8.000 voti, ma poi era stato coinvolto in uno scandalo di note spese gonfiate. Questo non gli ha impedito di ricandidarsi alle elezioni suppletive di giovedì vinte dai Lib-Dem, il partito del Remain, con 13.826 voti contro i 12.401 dei Tories, in un collegio elettorale dove al referendum su Brexit avevano prevalso i Leave. Una differenza di 1.425 voti, che sarebbe stata ampiamente colmata se la nuova linea dura di Johnson avesse convinto i 3,331 elettori del Brexit Party di Nigel Farage. Quanto al Labour, è arrivato quarto con 1.680 voti, poco più del 5%: brutto segnale.

“È un risultato di portata nazionale, che riduce ulteriormente la maggioranza di Boris Johnson e dimostra che non ha il mandato politico per una hard-Brexit” ha subito capitalizzato la neo leader dei Lib-Dem, Jo Swinson. Con un candidato così debole, per i Tories le elezioni di Brecon erano in salita, ma non c’è stato il Boris bounce, l’effetto galvanizzante che il premier, secondo un sondaggio Ipsos-Mori, sta avendo sul partito conservatore, salito al 34%, 8 punti percentuali nell’ultimo mese, mentre il Labour resta fermo al 24% e i Lib-Dem sono al 20%. La vittoria dei Lib-Dem è stata possibile grazie ad un accordo con gli indipendentisti gallesi e i verdi, che hanno rinunciato a loro candidati per non disperdere il voto pro-Remain, e al voto di molti laburisti delusi dal rifiuto di Jeremy Corbyn a schierarsi decisamente per il Remain. Un esperimento riuscito, che potrebbe portare alla creazione di un ampio fronte nazionale pro-Remain in caso di elezioni politiche anticipate. Ma sul fronte opposto Brecon suggerisce che, se Johnson vuole vincere eventuali elezioni, non può farlo al centro: deve conquistare gli elettori del Brexit Party portando a casa la Brexit entro il 31 ottobre “a tutti i costi”. Bivio impossibile: se non mantengono la promessa, i Tories rischiano una pesantissima batosta elettorale. Se la mantengono. si prendono la responsabilità di trascinare il paese in un ‘no deal’ che più si avvicina più appare catastrofico, con previsioni di crollo della sterlina, carenze di cibo e medicinali, perdita di migliaia di posti di lavoro e spinte secessioniste in Scozia e Irlanda del Nord.

Risiko in Europa: Trump e Putin giocano con i missili

Tutti dicono di non volere una ripresa della corsa agli armamenti, retaggio della Guerra Fredda; e probabilmente la Russia non la vuole davvero, memore dell’errore fatto negli Anni Novanta, quando l’ambizione di tenere dietro ai rilanci dell’Occidente di Ronald Reagan portò alla fine dell’Unione sovietica. Ma, intanto, l’America di Trump prosegue lo smantellamento dell’apparato di sicurezza e di disarmo costruito tra gli Anni Ottanta e Novanta: ieri, come già annunciato, gli Stati Uniti si sono ritirati formalmente dal Trattato sui missili nucleari a medio raggio (Inf), gli euromissili, concluso con la Russia. Il Trattato era stato siglato nel 1987 da Reagan e Mikhail Gorbaciov: la foto di quella firma è un’immagine simbolo della fine della Guerra Fredda.

Che quell’epoca sia ormai chiusa, lo conferma un’altra coincidenza: mentre denuncia l’Inf, l’Amministrazione Usa colpisce la Russia con l’inasprimento delle sanzioni per il tentato assassinio lo scorso anno in Gran Bretagna d’una ex spia sovietica, Sergei Skrypal. C’è un che di strabico nelle reazioni alla denuncia degli Inf degli alleati europei degli Stati Uniti. La Nato fa propria la decisione dell’America di Trump, affermando di “non avere alcuna intenzione di spiegare nuovi missili nucleari sul terreno in Europa”. L’affermazione del segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg è liquidata dal Cremlino: “Sono solo parole”. L’Ue, invece, dà l’impressione di essere più critica e più preoccupata: “riafferma l’impegno per un disarmo e un controllo efficace delle armi nucleari basato sui Trattati” e “incoraggia a preservare i risultati dell’Inf”. La Germania teme “una nuova fase di proliferazione nucleare”. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres lamenta che si sia “perso un freno alla guerra nucleare”.

L’abbandono dell’accordo sugli euromissili segue la denuncia del Trattato sul commercio delle armi e dell’intesa sul nucleare con l’Iran e prelude ad altri passi sulle armi intercontinentali. “Il Trattato Inf cessa di esistere – twitta Stoltenberg -. La Russia è l’unica responsabile della sua fine. La Nato risponderà in modo misurato e responsabile e continuerà a garantire deterrenza e difesa credibili”. La colpa della Russia è di “avere schierato il sistema missilistico SSC-8: i nuovi missili sono nucleari, mobili e difficili da rilevare e “possono raggiungere le città europee con un preavviso di pochi minuti”.

“Non ci sono nuovi missili statunitensi in Europa, ma ci sono nuovi missili russi in Europa”; e “tutti gli alleati concordano che questi missili violano il Trattato Inf”, conclude la Nato.

Le reazioni più dure vengono da Mosca e da Pechino: una doppia conferma, che Russia e Cina stanno allineando le loro visioni militari e strategiche; e che le mosse di Washington le spingono ad avvicinarsi ulteriormente. Trump ipotizza di negoziare un nuovo trattato con Putin e Xi, ma, intanto, li colpisce con sanzioni e dazi e li induce a fare comunella. Per il Cremlino, “gli Stati Uniti hanno deliberatamente creato una crisi quasi insormontabile” perché “volevano sbarazzarsi delle restrizioni del Trattato Inf”. Sul fronte interno, Trump licenzia il nuovo capo dell’Intelligence ancor prima di assumerlo: John Ratcliffe, il deputato scelto dal presidente come capo della National Intelligence al posto di Dan Coats, resterà in Congresso: lo ha annunciato lo stesso tycoon, evocando una ingiusta copertura mediatica. La scelta di Ratcliffe aveva suscitato critiche, soprattutto tra i democratici, perché considerato persona di parte e senza esperienza nel settore.