All’Arabia Saudita arriva una notizia positiva, almeno per le donne, la categoria più oppressa del Paese assieme ai cittadini di religione sciita. Il giovane principe ereditario Mohammed bin Salman ( chiamato Mbs), che di fatto guida il più ricco e potente paese sunnita, consentirà alle donne con più di 21 anni di età di viaggiare senza il permesso e la compagnia di un “guardiano” maschio. Le controverse leggi sulla tutela, che hanno mantenute segregate le donne di qualsiasi età dalla fondazione dell’Arabia Saudita, hanno costretto molte saudite a tentare di fuggire in segreto. Alcune ci sono riuscite, ma la maggior parte è stata arrestata. L’agognato permesso arriva dopo mesi di aspre critiche e denunce da parte degli alleati occidentali – che però continuano a vendergli armi ufficialmente o sotto banco – contro Mbs, accusato di alimentare da 4 anni una guerra crudele nello Yemen bombardando ospedali e scuole. Ma è dallo scorso ottobre, quando il giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi fu ucciso e fatto a pezzi all’interno del consolato di Istanbul da uomini dei servizi vicini all’erede al trono dei Saud, che la sua politica di apertura si è rivelata una trovata di marketing. Un’ulteriore dimostrazione dell’ipocrisia dell’erede di Re Salman, è stata l’autorizzazione alla guida per le donne. Salvo poi mettere dietro le sbarre le tante che l’avevano presa sul serio. Forse per tentare di frenare, almeno in parte, il crollo di credibilità, Mbs permetterà dunque alle donne di richiedere un passaporto per viaggiare liberamente, ma anche di avere maggiore controllo sugli affari di famiglia, rendendole eleggibili per essere tutrici legali dei bambini, registrare nascite, matrimoni e divorzi e ottenere documenti legali, anziché continuare a imporre che a fare tutto ciò sia il tutore maschio. Peccato che le tradizioni difficilmente si cancellino con una legge. Ed Mbs lo sa bene.
Sequestro Romano: Silvia poteva essere liberata subito
“Che i rapitori cercassero Silvia e solo lei, non c’è dubbio. Quando si sono avvicinati all’edificio dove c’è la sua stanza mi hanno chiesto se c’era Silvia e dov’era. Gli ho indicato la porta numero 7. Quindi cercavano proprio la mia amica”. Chi parla è Ronald un ragazzo che conosceva bene la giovane milanese. Il suo racconto è avvalorato dal capo villaggio, Mac Donald Ngowa Mwaringa, che conferma e aggiunge: “Qualcuno deve aver chiesto agli uomini del commando di portare via Silvia. Questo qualcuno deve aver fornito anche il denaro per organizzare l’operazione”.
La misera stanzetta dove abitava la ragazza è una celletta di tre metri di larghezza per quattro di lunghezza: due letti a castello, con i materassi piuttosto malconci, e senza corrente elettrica, solo una lampadina con luce fioca grazie all’energia solare. La descrizione della toilette la lascio all’immaginazione dei lettori.
A Chakama sono in pochi a conoscere i tre indiziati, Moses Luari Chende, Abdulla Gababa Wari (le udienze che li riguardano sono state celebrate il 29 e 30 luglio) e Ibrahim Adan Omar (che sarà processato il 19 agosto). Solo il primo è noto perché viveva con una ragazza del villaggio, Elisabeth Kasena, e poi il 17 e il 18 novembre, due giorni prima del rapimento, aveva dormito in una guest house di fronte alla casa di Silvia. Moses è a piede libero perché ha pagato una cauzione di 25 mila euro, una cifra enorme da queste parti. Secondo il capo villaggio “ora rischia di essere ucciso da chi ha ordinato il sequestro. Lui sa troppe cose e conosce i mandanti. Se lo ammazzano si porterà il suo segreto nella tomba. Come avrà fatto a pagare la cauzione?”, si domanda poi Mac Donald. Una visita al tribunale di Malindi permette di scoprire come ha fatto a pagare. Due persone che sostengono di essere lo zio e il nonno di Moses hanno dato in pegno altrettanti terreni. Il primo si chiama Charles Kazungu Ngala e dichiara di guadagnare 60 mila scellini (520 euro) all’anno, il secondo George Karisa Kitsao, sempre secondo i documenti che riusciamo a visionare, 1.048 euro all’anno. Ciascuno dei due si impegna ad andare in prigione se il loro protetto non si presenterà in tribunale per il giudizio e ciascuno dei due risponde per 25 mila dollari. Inoltre George Kitsao è di Marafa, lo stesso villaggio di Francis Kalama, il pastore anglicano che Silvia aveva denunciato alla polizia per pedofilia.
“Siamo scioccati – dicono due amici che conoscono bene Moses – i suoi genitori sono poverissimi, ai limiti della sopravvivenza”. Secondo quanto emerso durante le due udienze del processo gli accusati, tramite loro complici, per arrivare a Chakama avrebbero acquistato due motociclette per 40 mila e 35 mila scellini, rispettivamente 350 e 300 euro. Durante il sopralluogo alla centrale di polizia di Malindi salta fuori un particolare sconcertante: il 21 novembre, cioè il giorno dopo il rapimento di Silvia, i ranger del Kenya Wildlife Service, una sorta di guardie forestali, avevano individuato il luogo dove la ragazza era tenuta prigioniera. Ma per paura che con le poche armi in dotazione non sarebbero stati in grado di contrastare i banditi, gli è stato impartito l’ordine di fermarsi in attesa della polizia. Nel frattempo gang e ostaggio si sono allontanati facendo perdere le tracce.
Dall’incartamento processuale emergono almeno altri due fatti inquietanti. Il rapporto della polizia mette in guardia dalle conseguenze provocate dal rilascio su cauzione dei due indiziati che potrebbero sottrarsi alla giustizia. E poi, tra i capi d’accusa, l’organizzazione del rapimento per costringere l’ambasciata italiana a pagare un riscatto “come esplicita condizione per il rilascio della ragazza”. Particolare finora inedito. Mai si è saputo di una richiesta di riscatto. Infine risulta frutto di fantasia la notizia secondo cui gli indiziati hanno confessato e collaborato con la giustizia. Al tribunale sono stati categorici: “Si sono dichiarati innocenti e all’oscuro di tutto”.
Tombe scomparse e ’ndrangheta: arresti e minacce al sindaco
“Non c’è bisogno che parliamo… c’è bisogno solo che ci vedono”. In questa frase è sintetizzata tutta la forza della cosca Cordì che a Locri controlla tutto, dal mercato del pane agli appalti pubblici. Finanche il cimitero è “cosa loro” e la gestiscono attraverso la famiglia Alì. È quanto emerso dall’inchiesta “Riscatto” condotta dai carabinieri e dalla guardia di finanza che ieri hanno eseguito 10 fermi disposti dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Dalla vendita dei fiori alla costruzione di cappelle: tutto è in mano agli Alì che decidevano anche i morti e le tombe che dovevano sparire per far posto ai nuovi loculi rientranti nella lottizzazione selvaggia. Una storia che il Fatto Quotidiano aveva raccontato a giugno dopo le denunce del sindaco Giovanni Calabrese che, per questo è stato minacciato sui social. “Domani dirò dov’è sepolto qualche tuo parente” gli aveva scritto un familiare degli arrestati. Dopo il blitz, la figlia di un boss dei Cordì, invece, ha commentato il post del primo cittadino: “Per una città pulita – scrive – dovremmo solo cambiare sindaco perché si sente solo puzza di fogna e immondizia”.
Paesaggio, il Mibac pronto a impugnare il piano del Lazio
Dopo venti anni il Lazio ha il suo Piano territoriale paesistico regionale, uno strumento per la gestione e la tutela del territorio. Ma è subito polemica con il Ministero dei Beni culturali che annuncia di impugnare il provvedimento perché, come scritto su questo giornale da Tomaso Montanari, non sono state tenute in considerazione le 445 criticità segnalate dalle Soprintendenze, veri “scempi territoriali” per Montanari. Oltre alla mancata “tutela” del centro storico di Roma. “Nel Lazio si volta pagina compiendo un salto di qualità in un settore strategico per lo sviluppo del nostro territorio consentendo di soddisfare le richieste di amministratori locali, operatori economici, associazioni ambientaliste e cittadini”, spiega invece il governatore del Lazio Nicola Zingaretti. Ma dal ministero arrivano, appunto, i malumori per la scelta dell’approvazione “unilaterale” senza informare il Mibac né tenere conto delle 445 criticità segnalate dalle Soprintendenze.
Così Montanari ha scritto sull’edizione del Fatto di lunedì scorso: “La cosa ha del clamoroso, anche perché nel 2013 il governatore del Lazio firmò un protocollo di intesa con l’allora ministro per i Beni culturali Massimo Bray in cui si impegnava a collaborare per adeguare il Piano al Codice dei Beni culturali: quel governatore era già Nicola Zingaretti. Per fortuna il direttore generale delle Belle Arti, Archeologia e Paesaggio Gino Famiglietti (che, per disgrazia del Paese e gioia dei palazzinari, va in pensione dopodomani) si è accorto della mina innescata, e ha scritto una lettera ufficiale al ministro Alberto Bonisoli (nella foto) per informarlo che, con l’approvazione del Piano, la Regione Lazio viola “il principio di leale collaborazione tra istituzioni, e soprattutto violerà la legge. Dal 2008, infatti, il Codice dei Beni Culturali (articolo 135, comma 1) proibisce alle Regioni di pianificare da sole (cioè senza il Mibac) proprio riguardo ai vincoli sul paesaggio”.
Rifiuti, Zingaretti vuole la discarica Raggi attacca: “Minaccia i romani”
Anni per pensare a come risolvere l’emergenza rifiuti e la soluzione è sempre la stessa: una nuova discarica a Roma. Il governatore Nicola Zingaretti la vuole, Virginia Raggi no. Fin qui tutto normale: se non fosse che la Regione si appresta a varare il nuovo piano di rifiuti, dove mette nero su bianco la necessità di aprire il centro (senza dire dove). E lo scontro si riaccende: “È una nuova Malagrotta. Cosa fa Zingaretti, minaccia i romani?”, dice la sindaca.
Il documento approvato dalla giunta regionale è fondamentale: nella Capitale lo aspettavano da tempo, la stessa Raggi l’aveva più volte rinfacciato al governatore. Il precedente era carta straccia, tarato nel 2012 su Malagrotta, la discarica più grande d’Europa di Manlio Cerroni che sarebbe stata chiusa l’anno dopo. Da allora si è andati avanti per 7 anni con un piano col “buco”. Adesso ne arriverà un nuovo (manca l’ultimo passaggio in Consiglio). Dentro si parla di “economia circolare”, “recupero di materia”, aumento della differenziata fino al 70% nel 2025 (oggi siamo fermi sotto il 50). Tutti ottimi propositi. Il punto cruciale però è un altro: “L’autosufficienza impiantistica” per la Capitale. Tradotto: serve una nuova discarica.
La Regione non lo scrive esplicitamente ma il senso è chiaro. Tanto più che il piano reputa sufficiente l’unico inceneritore attivo a San Vittore (almeno su questo sono d’accordo). È una soluzione, però, che la Raggi non accetta. Sia perché contraria politicamente alla discarica, difficile da far accettare al territorio (nessuno ne vuole una dietro casa). Sia perché – filtra dal Campidoglio – il piano non sarebbe redatto correttamente, tenendo conto di tutti i flussi né dei fattori di pressione ambientale. “Troppo facile dire ‘fate una discarica’, senza spiegare come e perché”, la riflessione.
Il piano include le mappe delle zone disponibili, dal Municipio 4 (Tiburtino), al 10 (Ostia) e 11 (Laurentino), fino al 13 e 14 (periferia Nord). La Regione preferirebbe una discarica pubblica, individuata e gestita dal Comune (o Ama), per cui metterebbe un contributo di sei milioni. In alternativa potrebbero farsi avanti i privati: a Riano è aperta la conferenza dei servizi per una discarica a Pian dell’Olmo, l’unica opzione concreta attualmente sul tavolo, su cui la Regione ha già dato un primo ok. La Raggi fa le barricate, ma con un documento che ne prevede una per i tecnici capitolini potrebbe essere più difficile negare l’autorizzazione. “Siamo pronti a collaborare, ma ospitare in eterno i rifiuti di Roma non succede in nessuna capitale europea”, minaccia Zingaretti. Col nuovo piano ora la palla torna nelle mani del Comune. E scotta parecchio.
In ospedale a dieci anni: “Cocaina o psicofarmaci”
Una presunta dipendenza da cocaina a 10 anni. Ne dà notizia, ieri, il Quotidiano nazionale. Teatro della vicenda un paese della Brianza. Il caso, se accertato, sarebbe allarmante. Però molti dei protagonisti di questa storia rimodulano i contorni del quadro. In questi casi dati e cronologia sono dirimenti. La bimba è figlia di un’ordinaria famiglia italiana. I genitori lavorano. Lei frequenta la quinta elementare. A volte, come capita in molte famiglie, resta da sola. Tra aprile e maggio il suo carattere si modifica. A tal punto da esplodere in crisi di rabbia fuori dalla norma. Ad aprile i genitori la portano all’ospedale di Monza per una visita. Altri due controlli avvengono a maggio all’azienda sanitaria di Vimercate.
Ira, rabbia, voglia di fuga e di chiusura. Il disagio manifestato è evidente. I genitori non riescono a darsi una risposta. È un disagio legato a dipendenza da droga? Il Quotidiano nazionale nell’occhiello del titolo riporta il virgolettato di un medico. Dice: “La bimba è cocainomane”. Posizione netta e certamente verificata dai cronisti. Posizione che però ieri non è stata confermata. Dopo la visita a Monza e a Vimercate, il caso finisce sul tavolo della Procura dei minori. I primi atti trasmessi agli investigatori riguardano le analisi cliniche. Da queste emerge chiaramente presenza nel sangue di benzodiazepine, una classe di psicofarmaci. Che la bimba abbia assunto questo tipo di sostanza è un dato che confermano i carabinieri e anche il dottor Antonio Amatulli, primario del reparto di psichiatria dell’ospedale di Vimercate che ha preso in carico la piccola paziente: “Io – dice al Fatto – però non ho mai visto la piccola, se ne sono occupati i miei collaboratori”. Amatulli citato nell’articolo di Qn non parla mai esplicitamente di “bambina cocainomane”. E non lo fa nemmeno con il Fatto. “Quello che posso dire è che confermo la presenza di benzodiazepina. La presenza, invece, di cocaina non la posso confermare”. Una marcia indietro rispetto a quanto dichiarato nella mattinata di ieri al sito di Repubblica dove confermava la presenza di cocaina. Nel pomeriggio la posizione si chiarisce, anche se non risolve la situazione. L’uso di sostanze stupefacenti non può essere escluso. E questo in relazione al cambiamento di umore che in molti casi maschera una dipendenza. Sul fronte giudiziario, poi, l’indagine parte da due elementi: il disagio della bambina e l’uso di
psicofarmaci. Papà e mamma cadono dalle nuvole. Non sono certo stati loro a dare psicofarmaci alla figlia. La cosa viene messa a verbale. S’inizia così a studiare la compagnia di amici della bimba. L’indagine allo stato è chiusa e a quanto risulta al Fatto gli investigatori hanno individuato cinque ragazzini, già consumatori di droga in contatto con la bimba che si trova in una comunità protetta. In serata, poi, il procuratore capo dei minorenni di Milano Ciro Cascone ha ribadito: “Nel nostro fascicolo non vi è traccia di cocaina in nessun referto”. In un comunicato lo stesso ospedale ha spiegato “che la piccola paziente non è stata mai abituale consumatrice di droghe ed è fuori luogo identificarla come cocainomane”. Nell’articolo di ieri si spiega poi che la piccola ha iniziato con gli spinelli (“Gli esiti parlano chiaro”, si legge), anche se il principio attivo della cannabis non è stato trovato.
E se Amatulli da un lato non vuole parlare del caso specifico, dall’altro spiega che “l’allarme sociale sull’uso di droghe da parte di giovanissimi è sempre più in crescita”. E molto spesso capita che lo spacciatore sia un compagno di giochi. Spiega ancora Amatulli: “Con percentuali differenti, i più piccoli fanno uso di ogni tipo di sostanza”. Secondo la relazione del 2018 al Parlamento sulle tossicodipendenze “il 34,2% degli studenti ha utilizzato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della vita. Tra questi il 10,5% è definibile poliutilizzatore”. In via generale, poi, negli ultimi due anni l’uso di droghe tra i minori è aumentato del 39%.
Lo spettacolo che ci resta è una supercazzola lacaniana
Di fronte alla scomparsa di un quieto, infaticabile innovatore di linguaggi quale è stato Paolo Giaccio durante i migliori anni della televisione italiana, quando il talento non era ancora diventato un format, viene da chiedersi cosa sia rimasto dell’eredità di un programma manifesto come Odeon-Tutto quanto fa spettacolo, firmato da Giaccio insieme a Brando Giordani e Emilio Ravel. Cerca che ti ricerca, si fatica a trovare. In Rai la cultura è stata affidata in blocco a Gigi Marzullo (facciamoci una domanda e diamoci una risposta). Quanto allo spettacolo, ha quasi smesso di dare spettacolo; ormai il miglior varietà è di gran lunga Techetechetè (rifacciamoci una domanda e ridiamoci una risposta).
Ma allora oggi cosa fa spettacolo? Guy Debord, aiutaci tu. Fanno spettacolo i politici a orario continuato; fanno spettacolo gli opinionisti, i mezzibusti, le veline, i baccelloni, i casi umani, gli avvocati, gli anatomopatologi, qualche volta pure i cadaveri. Fanno spettacolo gli psicanalisti, primo tra tutti Massimo Recalcati con le sue lezioni d’amore. Mantieni il bacio, l’ultimo libro appena allegato a Repubblica, ricalca l’elogio del “bacio col rifrullo” tessuto da Francesco Nuti a Ornella Muti in Tutta colpa del Paradiso. Dalla Leopolda a Rai3 a Repubblica, non c’è miglior emblema della sinistra italiana. Come in Odeon, anche in Recalcati tutto fa spettacolo. Renzi, Gentiloni, Martina passano, lui resta. Le supercazzole lacaniane durano più degli 80 euro.
Se Cairo diventa l’erede politico di Sua Emittenza
“Se un Berlusconcino americano sceglie la politica, allora deve vendere. Se non lo fa, allora è costretto a dimettersi”.
(da Il Sultanato di Giovanni Sartori – Laterza, 2009 – pag. 56)
Con i venti di crisi che soffiano quotidianamente sul governo gialloverde, e l’ombra delle elezioni anticipate all’orizzonte, è comprensibile l’allarme suscitato tra i giornalisti del Corriere della Sera, della Gazzetta dello Sport e di tutte le altre testate del gruppo Rcs, in seguito all’ipotesi che il loro editore, Urbano Cairo, decida di “scendere in campo” per fare politica, nel solco tracciato un quarto di secolo fa da Silvio Berlusconi. Del resto, Cairo non è stato soprannominato da sempre “Berluschino” e considerato a torto o a ragione un “clone di Berlusconi”? Pubblicità, editoria, calcio e televisione, sono i medesimi pilastri su cui Sua Emittenza ha costruito la propria popolarità e il proprio successo elettorale. Lo stesso Cairo, peraltro, pur smentendo per il momento un’intenzione del genere, s’è schermito dietro un “mai dire mai” che lascia aperte le porte a ogni supposizione.
Diciamo subito che un imprenditore ha tutto il diritto, al pari di qualsiasi altro cittadino, di presentarsi alle elezioni e candidarsi al Parlamento. Si dà il caso, però, che Cairo – oltre a concentrare già nelle sue mani un grosso potere mediatico nella carta stampata – possiede anche una rete televisiva come La 7, un’emittente privata che trasmette in forza di una concessione pubblica. E questa circostanza, come già per Berlusconi, lo rende ineleggibile: a stabilirlo è una legge del 1957 (n.361), tuttora in vigore, laddove all’articolo 10 prevede che non possano essere eletti come parlamentari i “titolari di particolari rapporti economici o di affari con lo Stato” e più in particolare “i soggetti titolari o legali rappresentanti di società o di imprese private titolari (…) di concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica”. E ciò, in un settore nevralgico come quello televisivo e pubblicitario, per impedire di condizionare la vita politica compromettendo il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza.
Mettiamo, allora, le cose in chiaro. Che cosa potrebbe o dovrebbe fare Cairo se volesse scendere in campo, sgomberando il terreno da sospetti e polemiche? Per quanto riguarda i giornali del gruppo Rcs, di cui il Nostro è legittimo proprietario, basterebbe anche ricorrere a un “blind trust” (letteralmente, fondo cieco) per sterilizzarne la gestione in modo da renderla neutrale e indipendente. Ma per La 7 il problema risulta invece più delicato e complesso.
Al pari di qualsiasi altra concessione pubblica, la gestione di una rete televisiva implica un contratto con lo Stato. E quindi, il titolare non può essere controparte di se stesso, senza cadere in un palese conflitto d’interessi. È proprio dallo status di concessionario pubblico che derivava originariamente l’ineleggibilità di Berlusconi: solo che nel ’94 la Giunta per le elezioni a maggioranza di centrodestra lo “assolse”, in ragione del fatto che formalmente il titolare della concessione non era lui bensì il legale rappresentante della società del gruppo Mediaset (Rti, Reti televisive italiane) a cui era stata assegnata.
Qualcuno pensa che nell’Italia di oggi si possa ripetere una simile pantomima? Verosimilmente, no. Sarebbe il caso, comunque, di stabilire in modo esplicito che l’ineleggibilità si applica anche al proprietario o al maggior azionista della società concessionaria. In questo modo, oltre ai giornalisti del Corriere, della Gazzetta e a quelli che lavorano per La 7, potrebbero stare più tranquilli anche i cittadini italiani.
I demoni di Luca, nato ai bordi di periferia
Pubblichiamo stralci di “Tuttofumo”, l’ultimo romanzo di Eugenio Raspi edito da Baldini+Castoldi.
Stamani l’aria è frizzante, la sente nel naso e nelle giunture. Risale via Mazzini con passo da montagna, piega lo sguardo sulle scarpe da ginnastica, scollate in punta; i sampietrini paiono scaglie di un drago imprigionato da un letargo millenario. La via, poco più che deserta, si anima per il cantiere di San Domenico, i muratori sono già all’opera, chiacchierano e urlano pimpanti. Luca li supera a testa bassa, sbuffando.
Nonostante lo sforzo per la salita, infila una sigaretta tra le labbra, l’accende. Marco lo sta aspettando vicino alla fontana. Si salutano col cenno del mento, pugno contro pugno, il viso nascosto per trequarti dal cappuccio della felpa. Gli allunga la sigaretta, in un passaggio di testimone. La staffetta riparte silenziosa. Che avranno mai da dirsi? La crisi economica toglie la voce, azzera la voglia di parlarne, vale anche per Marco: il padre è senza lavoro, licenziato dalla fabbrica chimica, all’ex Montedison, che ha smantellato gli impianti. Entrambe le famiglie vivono chiuse a riccio nella tana in attesa di una primavera che tarda, semmai arriverà davvero.
Arrivati alla tabaccheria, Luca dà a Marco gli spicci che ha in tasca, smezzando la spesa per il pacchetto quotidiano. La figura filiforme davanti a lui è un quasi diciottenne che va a lezione controvoglia, lo spinge solo la certezza che l’estate prossima andrà a Riccione insieme al suo amico, a fare la stagione; mattine dietro a un bancone, tardi pomeriggi steso in spiaggia e notti in discoteca. Se gli va bene, non ci ritorna in paese, a due passi c’è un mondo che di alternative ne offre, basta avere coraggio, quello che non ha più il padre…
Luca non è il padre che non perde la voglia di farsi umiliare dai potenti che giostrano con la vita delle persone, perché stavolta la dirigenza della fabbrica lo ha detto e lo farà: chi dentro e chi fuori, coi sindacati impotenti, tenuti all’oscuro delle decisioni. Non capisce la sua ostinazione per una causa persa, si facesse furbo, guadagnasse soldi coi lavoretti extra, in nero.
“Non lo rubo il pane di bocca a un altro operaio”, dice. Bel fesso, ché a rimetterci sono i suoi figli a vantaggio di altri. Se ne sta all’ombra di una fottuta ciminiera pure se non glielo obbliga nessuno. Era la speranza di uno stipendio, del matrimonio, una famiglia, dei figli. Le tante promesse si sono rivelate bugie belle e buone, e quel naso da pinocchio, cresciuto a dismisura, sta lì a testimoniarlo.
Ieri, all’ennesimo discorso del padre sulla scesa in campo di un gruppo pronto a rilevare l’azienda, Luca è uscito di casa per non sentirlo… Rimessa la sigaretta tra le labbra, in pochi minuti l’ha ridotta a una cicca; gettandola oltre il muretto, gli era parso che dalla bocca di cemento uscisse un refolo appena percepibile, quasi che all’interno della fabbrica resistesse un fuoco testardo che non vuol spegnersi. Vale anche per la sua scontentezza verso la famiglia e il mondo racchiuso tra le mura secolari del paese, a guardia di un territorio che va man mano disfacendosi, anche se in apparenza resta immutato, impoverito da uno strano sortilegio, artefice una strega cattiva che la tiene in letargo o un enorme occhio malvagio che si accanisce su questa terra di mezzo, una volta laboriosa e fattiva, ora incupita da una cappa di neri auspici che succhia via ossigeno togliendole il respiro.
Il grande pasticcio del commissario Ue
Si era messa bene, un po’ a sorpresa, poi ha iniziato a mettersi male. In poche settimane il governo Conte ha dilapidato il potere negoziale che si era ritrovato ad avere nel negoziato sulla nuova Commissione europea. Prima la Lega ha tentato di affondare la nomina di Ursula von der Leyen, all’Europarlamento, senza riuscirci. Questo ha bruciato il nome di Giancarlo Giorgetti, candidato credibile per la squadra dei commissari: la Von der Leyen non poteva affidare incarichi di peso al numero due di un partito che la osteggia.
I Cinque Stelle, invece, si erano scoperti decisivi con i loro 14 voti a favore a Strasburgo. La Von der Leyen deve a loro la conferma. E il premier Giuseppe Conte ha subito cercato di sfruttare la cosa: ha chiesto il portafoglio della Concorrenza, cruciale per le decisioni sugli aiuti di Stato, i salvataggi bancari, le fusioni e molto altro. Uno dei pochi cui è associato potere vero. Poi sono iniziati i problemi.
La fine della candidatura Giorgetti è stata gestita dall’interessato e dalla Lega come una prova generale di crisi di governo. Il sottosegretario è addirittura salito al Quirinale per ritirare una disponibilità all’incarico che, per la verità, non era mai stata formalmente sollecitata o esplicitata. A quel punto i Cinque Stelle hanno commesso la prima ingenuità tattica: hanno capito che per Salvini trovare un’alternativa a Giorgetti sarebbe stato difficile e hanno colto l’occasione per far emergere le fratture interne alla Lega, rifiutandosi di suggerire un nome alternativo. Salvini ha vinto le europee, se la sbrighi da solo.
Poi Luigi Di Maio ha superato quel confine sottile tra un’auspicabile trasparenza sugli intenti e una esecrabile ingenuità tattica. Ha spiegato che l’Italia voleva il ruolo di commissario alla Concorrenza perché così “spetterà a noi vigilare sulla corretta competizione commerciale tra Paesi a tutela anche delle nostre imprese e del tessuto produttivo”. Che è un po’ come se una squadra di Serie A rivendicasse il diritto di scegliere gli arbitri per ottenere più rigori a favore (vi ricorda qualcosa?).
Terza complicazione: la Von der Leyen ha fatto capire che avrebbe gradito dall’Italia un commissario donna, per rispettare la parità di genere. Ma nessuno dei due partiti sembra avere alcun nome valido da suggerire. Se i Cinque Stelle avessero avuto una candidata credibile, avrebbero potuto bruciare la Lega e sfruttare il rapporto positivo tra Conte e la Von der Leyen, che si è declinato anche nella visita di ieri a Roma della presidente della Commissione. E invece niente. Nessuna donna pentastellata, anche se il segretario generale della Farnesina Elisabetta Belloni sarebbe più che all’altezza del ruolo. Nessuna donna leghista, il nome di Giulia Bongiorno circola solo nei retroscena dei giornali.
Il bilancio del primo tempo di questa partita, che si chiude il 31 agosto quando tutti i 27 Paesi dovranno aver indicato i commissari, è piuttosto negativo per l’Italia. Le possibilità di ottenere la Concorrenza sono molto inferiori a un mese fa. Ci vorrebbe un nome inattaccabile, di prestigio internazionale, che dia garanzie di indipendenza e non sembri troppo pronto a fornire quei trattamenti preferenziali che Di Maio auspica. Nel 1994 il governo Berlusconi mandò in quella posizione Mario Monti, che passò alla storia per la guerra a Microsoft. Oggi di eredi di Monti, soprattutto di area gialloverde, non ce ne sono. Massimo Garavaglia, viceministro dell’Economia della Lega, è competente sui dossier fiscali, ma non ha certo il profilo adatto a superare tutti i paletti politici che questo mese di negoziati ha frapposto tra il governo italiano e il portafoglio della Concorrenza.
Visto che il percorso decisionale seguito finora non ha dato i risultati sperati, forse sarebbe meglio azzerare e ricominciare da capo. Trattare la poltrona di commissario come bottino di guerra da assegnare al dominatore della politica italiana post-europee, cioè Salvini, rischia di condannarci all’irrilevanza. Anche perché i guai della Lega con l’inchiesta sui possibili finanziamenti occulti da Mosca discussi all’hotel Metropol di Mosca preclude a un commissario leghista anche tutti i portafogli che hanno a che fare con politica estera e sicurezza.
Sarebbe meglio individuare prima i nomi più forti e indipendenti che l’Italia ha da spendere a Bruxelles e poi, facendo leva sull’autorevolezza della candidatura, reclamare una casella che trasmetta il messaggio di un’Italia centrale negli equilibri europei. Di nuovi Monti o Draghi non ce ne sono, ma di potenziali commissari dignitosi ne abbiamo parecchi. E pazienza se non hanno fatto professione di fede per Lega o M5S. Anzi, meglio così.