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Per Saviano la fame nel mondo è ineluttabile, ma ha torto

Roberto Saviano ha dedicato il suo articolo “Le terre dimenticate dove impera la fame”, pubblicato su L’Espresso il 28 luglio, al problema della fame nel mondo. Lo ha concluso con: “La fame nel mondo non è causata da eventi eccezionali, ma è la normalità per almeno 800milioni di persone, eppure nessun telegiornale ne parla, nessun giornale: è un dramma quotidiano, un dramma rimosso. Per fame, e per ragioni ad essa connesse, ogni giorno muoiono nel mondo 25mila persone. Più di 1000 ogni ora. Se impiegate 2 minuti e 30 secondi a leggere queste mie righe, sappiate che nel frattempo saranno morte per fame più di 35 persone. Così è e così sarà”. Non sono d’accordo. Non è vero che nessun telegiornale o giornale parla della fame nel mondo e non è vero neanche che il problema ha grosse dimensioni. L’Onu, la Fao e varie altre organizzazioni internazionali e associazioni no profit sono impegnate da molto tempo nella lotta alla fame. Nel libro Factfullness di Hans Rosling, Ola Rosling e Anna Rosling Rönnlund, pubblicato l’anno scorso anche in Italia, viene spiegato dettagliatamente perché negli ultimi decenni il numero di coloro che hanno fame è diminuito drasticamente. Venti anni fa il 29% della popolazione mondiale viveva in povertà estrema; ora questo numero è pari al 9%. Nel 1997, il 42% della popolazione indiana e cinese viveva in condizioni di estrema povertà. Nel 2017, in India, questa cifra era scesa al 12%, con 270 milioni di poveri in meno rispetto a soli venti anni prima. In Cina, nello stesso periodo, il dato è precipitato ad un sorprendente 0,7%. Nel frattempo l’America Latina ha registrato una diminuzione dal 14% al 4%: altri 35 milioni di persone.

Franco Pelella

 

Riscaldamento globale: basta estrarre combustibili

Ecco arrivare dallo spazio una voce colta e indipendente, di un militare astronauta italiano, Luca Parmitano, attualmente in orbita nella stazione spaziale internazionale in qualità di comandante. “Negli ultimi sei anni – ha detto – ho visto i deserti avanzare e i ghiacciai sciogliersi. Spero che le nostre parole e visioni possano essere condivise per allarmare davvero le persone verso quello che oggi è il nemico numero uno, cioè il riscaldamento globale”. Purtroppo per arrivare a invertire la tendenza al riscaldamento globale bisogna superare la ignorante e ottusa tesi dei negazionisti (Trump in testa), che non considerano l’economia mondiale basata sull’uso dei fossili (carbone, petrolio, gas) responsabile dei cambiamenti climatici, contrapposta a quella degli scienziati, che da 30 anni avevano previsto il fenomeno, confermato dalle osservazioni di Parmitano e dai fenomeni estremi che osserviamo sempre più di frequente. Senza una drastica “decarbonizzazione” del modo di produzione industriale, degli spostamenti delle merci e delle persone, dell’illuminazione e del riscaldamento, buona parte degli abitanti della Terra, soprattutto quelli che vivono in climi già caldi, rischiano un futuro tragico. A livello globale abbiamo una classe politica totalmente assente che, dal Trattato di Kyoto in poi, pur firmando solennemente impegni per diminuire le emissioni di gas serra e Co2, ha ottenuto il brillante risultato di aumentare l’inquinamento, senza mai produrre decisioni vincolanti e operative. Tutti coloro, soprattutto giovani e giovanissimi che vogliono un futuro senza tragedie, devono avere l’obiettivo di dare il potere politico a chi si impegna a decarbonizzare il pianeta lasciando carbone, petrolio e gas sotto terra.

Paolo De Gregorio

 

Il fine giustifica i mezzi? Molti crimini sono nati così

Sulla vicenda della diffusione della fotografia del giovane americano bendato, fermato per l’uccisione del Carabiniere di Roma, l’Assessore alla Polizia Locale del Comune di Pavia, Pietro Trivi, ha commentato sulla propria pagina Facebook: “Se bendare un uomo può servire a trovare l’arma di un delitto, per me, può essere bendato. Se quest’uomo ha ucciso senza ragione tuo figlio, tua madre o la persona a te cara, credo che tu vorresti che venisse ammanettato e interrogato. E se utile allo scopo, anche bendato. Se chiedete a un carabiniere di dare la vita, per difendere tutti noi, e lui lo fa, siate cauti nel giudicare i suoi colleghi che ogni giorno, per tutti noi, sono chiamati a fare altrettanto”. Sul piano giuridico, c’è poco da dire: il codice di procedura penale non prevede il bendaggio fra le modalità di interrogatorio dei fermati, e dunque, tale comportamento costituisce reato. Tuttavia, la perspicua presa di posizione dell’esponente leghista, verosimilmente del tutto inconsapevole, evoca un tema assai frequentato dalla filosofia morale: il fine giustifica i mezzi? La risposta positiva a tale interrogativo ha generato alcuni dei più grandi crimini della storia.

Andrea Nobili

Papa Francesco. Il ruolo riformatore e le accuse che vengono dall’Argentina

 

Ho letto l’articolo di Marco Marzano del 15 luglio su Papa Francesco. Che delusione! Un elenco di accuse già smentite dagli stessi giornalisti che le avevano scritte all’indomani della sua elezione. È importante ascoltare le opinioni degli argentini a proposito del presente e del passato di Bergoglio, ma… ancor più necessario verificare ciò che era successo e succede, e ascoltare ciò che il Papa dice, diceva, fa e faceva, realmente, raccogliendo documenti, scritti, decisioni prese da lui, cercare le motivazioni portate dall’interessato per le scelte fatte all’epoca della dittatura argentina… Mi hanno insegnato e ho insegnato ai bambini che la storia non si fa con i “se” e con i “ma”: i fatti, le scelte vanno considerati nel contesto; chi ha responsabilità pastorale o politica non sempre può fare tutto ciò che considera il meglio a livello teorico, bensì deve tener conto della realtà, delle eventuali ritorsioni, pensando sempre al bene dei più deboli.

Papa Francesco non è “un uomo ambiguo e assetato di potere, complice della dittatura militare, raffinato doppiogiochista capace di segnalare sacerdoti ai torturatori, uno che è impossibile riabilitare”. È semplicemente un battezzato coerente con il dono ricevuto, un sacerdote gesuita, un vescovo e ora un Papa che si è affidato a Dio. La serenità che il Papa esprime “sempre” nella sua pastorale, la sincerità cristallina delle sue parole e dei suoi gesti, la generosità del suo pregare per chi “sparla” di lui (senza neppure la tentazione di rispondere a tono o di replicare) danno a me cristiana praticante la consolazione di saperlo dono di Dio per l’umanità di oggi, e non frutto del “fiuto politico dei gerarchi cattolici, capaci di collocare al vertice dell’istituzione un uomo dall’apparenza simpatica e gioviale, dal tratto caloroso tipico di tanti potenti, ma in realtà cinico e spietato”. Il Papa non solo “aveva intenzione” di riformare la Chiesa, ma lo sta facendo, eccome! Basterebbe ascoltare le critiche di alcuni porporati e di tanti cattolici integralisti (che si ritengono più saggi e sapienti di Dio), per capire che lo ha fatto da subito e ogni giorno. Abbiamo bisogno di coraggio, fiducia, speranza e pazienza per rimanere “umani”, oggi!

Daniela Cantù

 

Gentile lettrice, mi spiace che la lettura del mio articolo l’abbia addolorata, ma dovrà ammettere che non tutti al mondo la pensano come lei su Bergoglio. Per giunta, le persone alle quali mi riferisco nell’articolo hanno il non piccolo vantaggio di conoscere l’attuale Papa da quasi mezzo secolo, almeno da quando, negli anni della dittatura militare, guidò i gesuiti della provincia argentina intrattenendo rapporti assai cordiali con molti tra i più feroci “terroristi di Stato”. In seguito, è stato a lungo un arcivescovo di Buenos Aires decisamente conservatore ed è normale che molti suoi connazionali progressisti, cattolici o laici, non lo dimentichino. Più in generale, è difficile che tanti argentini si facciano sedurre dai suoi gesti e dalle sue parole degli ultimi anni. A questi contrappongono efficacemente i comportamenti e le scelte di una vita intera.

Marco Marzano

Sorbillo, le vere “pizze” sono per i cugini e i nipoti

Bomba o non bomba, per citare Venditti, il personaggio mediatico Gino Sorbillo si sta sgonfiando come una pizza lievitata male. Il pizzaiolo giulivo, sempre col grembiule da pizzaiolo pure per andare a fare un prelievo al bancomat, da qualche giorno ha rimosso la patina del simpaticone e reagisce (male) alle critiche a cui non è abituato. La stampa, la politica, i vip, di fronte all’imperatore della pizza, sono sempre stati tutti proni. Se Sorbillo dice “con una goccia della mia bufala sulla fronte, i bambini guariscono dal morbillo”, i giornali lo scrivono.

Quando dalle intercettazioni viene fuori che già dal giorno dopo lui sapeva di non essere con certezza il destinatario della famosa bomba, Sorbillo sbrocca. Chiude i commenti sui suoi social, scrive che alcuni suoi detrattori sono “persone che fanno regolarmente uso di droghe”, a una pizzaiola che lo critica risponde “le femmine devono fare le femmine e i maschi devono fare i maschi, andate a fare le pizzette che è meglio”, deride gli altri pizzaioli (“hai tempo libero, si vede che fai poche pizze”), commenta “Stai attento” a un altro collega. Il tutto mentre minaccia di lasciare Napoli sperando che qualcuno, forse, lo tenga in ostaggio in un sacco della farina per non farlo andare via, per poi appendere il cartello fuori dal locale “chiuso per sequestro di persona”. Che però dalle parti di Sorbillo non sia tutto pomodoro quel che luccica, a Napoli si sa da un po’. In particolare, lo sanno bene quei parenti di Gino aggrediti legalmente dal pizzaiolo che sorride alle telecamere e ringhia a cugini e nipoti. La causa del contendere è il cognome Sorbillo. Gino fa causa a chiunque, della famiglia, decida di aprire una pizzeria sulla cui insegna appaia il cognome Sorbillo. E non importa che venga specificato “pizzeria Luciano Sorbillo” o “Carolina Sorbillo”, no, per lui, nel mondo delle pizze, non esiste altro Dio al di fuori di Gino. Il problema è che l’albero genealogico della famiglia Sorbillo è più complesso e numeroso di quello della famiglia Forrester. La prima pizzeria Sorbillo apre nel 1935 in Via dei Tribunali, fondata da Luigi e dalla moglie Carolina. I due, come si usava ai tempi, sfornano pizze ma anche figli in quantità. Ne nascono ben 21. La primogenita è Esterina, che erediterà la prima pizzeria divenuta poi “Pizzeria Sorbillo di Esterina Sorbillo”. Il famoso Gino è figlio del diciannovesimo erede di Luigi e Carolina. Insomma, tra figli e nipoti, c’è un’orda di Sorbillo che si dedica o si è dedicata alle pizze. E Gino lo sa bene, tanto che quando apre la sua prima pizzeria negli anni ’90 fa scrivere sulle tovagliette: “L’unica ed antica famiglia di 21 figli tutti pizzaioli”. Lo slogan è suggestivo, utile alla narrazione. Quando però Gino inizia ad avere successo, zitto zitto, dal 2007 in poi, deposita i marchi “Sorbillo”, “Pizzeria Sorbillo”, “Antica pizza fritta Esterina Sorbillo”, perfino “Gino Sorbillo 1935 – ripieno fritto al forno”. In pratica decide che i 21 Sorbillo (ed eventuali nipoti) non sono più pizzaioli e se lo sono, di cognome devono fare, chissà, “Esposito” o “Brambilla”. Nel frattempo ci sono (o ci saranno) Sorbillo con le loro pizzerie a Napoli, a Treviso, Padova, Trieste, perfino in Brasile. Quello su cui Gino si accanisce di più è il cugino Luciano Sorbillo, figlio di quel Rodolfo che inventò la pizza col cornicione di ricotta. Gino si rivolge al tribunale che con un’ordinanza cautelare vieta a Luciano di utilizzare il marchio “Sorbillo”. (il processo vero e proprio inizierà ad ottobre)

“Già a 9 anni facevo pizze da mia zia Esterina, ero un po’ il chimico della famiglia, quello che studiava gli impasti”, racconta Luciano. “Poi nella vita ho fatto altro finché nel 2016 apro una pizzeria, invito Gino all’inaugurazione e lui dopo tre giorni mi fa causa. La pizzeria si chiamava “Sorbillo Luciano”. “Gino è terrorizzato dal fatto che qualcuno gli possa dire che la pizza i cugini la fanno meglio di lui. Non ha mai avuto il coraggio di aprire una pizzeria in zone di Napoli dove i turisti non ci cascano dentro, ma dove vanno i napoletani”. “La storia della bomba non mi ha stupito, lui ne racconta tante. Dice sempre che è un ex carabiniere, ma ha fatto il servizio di leva nei carabinieri, c’è una bella differenza. E già che c’è potrebbe spiegare perché non ha fatto più il carabiniere”. “Sarebbe stato bello se a Napoli ci fossero state 50 pizzerie ognuna con il nome e cognome di un cugino Sorbillo. Peccato. Arriveremo fino alla Corte di giustizia europea, la causa non mi spaventa”. Carolina Sorbillo, sorella di Luciano e cugina di Gino, apre la pizzeria “Sorbillo di Carolina Sorbillo” col figlio Rodolfo a Salerno nel 2013. Gino inizialmente le dà una mano, poi dopo 4 anni e mezzo le fa scrivere dagli avvocati (se nessuno si oppone, dopo il quinto anno si ottiene il permesso all’utilizzo del marchio). “Gino ha registrato perfino il mio nome e cognome “Carolina Sorbillo” con la scusa che sua sorella si chiama Anna Carolina Sorbillo. Mi ha proposto di continuare ad usare il marchio dandogli 500 euro l’anno e garantendo di non aprire altre pizzerie in Italia”, spiega Carolina “Si ricordi della sua famiglia, anziché schiacciarci o farci i dispetti. Pensi che nel 2018 è venuto a inaugurare la pizzeria di un nostro concorrente qui a Salerno”. “Gino è stato bravissimo nel marketing, più scaltro di noi, ma noi non vogliamo aprire 50 pizzerie, non siamo ambiziosi, vogliamo solo lavorare. Io sono separata, gli chiedo solo questo: di lasciarci fare le pizze con i nostri nomi e il nostro cognome, cognome che non è la sua storia, è la storia della nostra famiglia”.

E c’è anche un Luigi Sorbillo, che ha aperto la prima pizzeria addirittura negli anni ’80 a Mergellina, per poi inaugurare anni dopo in via dei Tribunali, vicino a Gino. Con lui però il famoso pizzaiolo pare sia stato più blando nelle aggressioni legali, perché ha meno appigli. “Però si metteva fuori dalla pizzeria col megafono per urlare ai passanti che l’unico Sorbillo originale era lui, Gino”, ricordano in molti. Insomma, ora sappiamo di che pasta è fatto Gino Sorbillo. E non è quella morbida, invitante delle sue pizze.

Carabiniere ucciso, riascoltati Varriale e altri militari

Lunga giornata d’indagine alla Procura di Roma, per analizzare tutti gli elementi sulla morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso lo scorso 26 luglio con undici coltellate inferte dall’americano Elder Finnegan Lee. Gli inquirenti hanno ascoltato diversi militari, a partire da Andrea Varriale, collega di Cerciello Rega, presente al momento dell’aggressione e della colluttazione con i due americani. Si presume siano stati ascoltati anche il maresciallo Pasquale Sansone e i suoi tre uomini, che pur non essendo in servizio, erano intervenuti vicino piazza Mastai, al momento dell’acquisto della droga degli americani. Era stato lo stesso Sansone a contattare telefonicamente Varriale per invitarlo a raggiungerlo e ad aiutarlo nella “ricerca di un soggetto” sfuggito all’identificazione. In mano ai pm ci sarebbe anche l’informativa sulle registrazioni video delle telecamere presenti in piazza Mastai, nei momenti antecedenti allo spaccio, e quelle dell’hotel e delle zone limitrofe, dove alloggiavano gli americani, in cui si vedono i movimenti dei due giovani prima e dopo l’aggressione.

Lotti e i pranzi con l’amico. Salvi “Con l’inchiesta smise di vedermi”

La notizia gira nei desolati e caldi palazzi di giustizia di Roma da un paio di giorni: c’è una conversazione (chissà se intercettata e trascritta dalla Finanza) nella quale Luca Lotti svela a Cosimo Ferri e a Luca Palamara i suoi rapporti con il procuratore generale della Corte di appello di Roma, Giovanni Salvi. Lotti in questa conversazione si vanta di essere stato in ottimi rapporti con Salvi e di essere andato più volte a pranzo, negli anni scorsi, con l’alto magistrato.

La conversazione tra i tre, secondo una fonte del Fatto, dovrebbe risalire a un periodo successivo a quello in cui il trojan era stato attivato nel telefonino di Palamara dai pm di Perugia che indagano su di lui per altri fatti.

Il Fatto ha chiesto conferma ad alcuni dei commensali di quel pranzo a tre. La versione che ci è stata riportata è la seguente: “Lotti riferì quel giorno che, quando era al governo, era stato in ottimi rapporti con Salvi. Quando era andato a Catania si era sentito addirittura proporre una gita in Vespa sull’Etna da Salvi”.

Stando sempre al racconto che ci è stato fatto, poi, Lotti, quando gli fu chiesto se fosse già indagato per il caso Consip ai tempi della sua frequentazione con il magistrato, riferì un aneddoto gustoso. “Un giorno, Salvi venne a pranzo con me proprio qui dove stiamo seduti noi”, dice Lotti ai due amici. Il ristorante in questione, teatro sia del pranzo Salvi-Lotti sia di quello Palamara-Lotti-Ferri è Rinaldi al Quirinale. Lotti non è il solo a gradire la cucina e la saletta di Rinaldi. Questo ristorante in passato è stato teatro di una delle intercettazioni ambientali più famose. Qui il Noe, su delega del pm Henry John Woodcock, piazzò le cimici che registrarono la conversazione tra l’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e l’amministratore di Finmeccanica dell’epoca, Giuseppe Orsi.

Storie vecchie, senza rilevanza penale, probabilmente non note a un ministro giovane come Lotti. Comunque, quel giorno l’ex sottosegretario proseguì il suo racconto così: “Salvi mangiò qui con me tranquillo, come altre volte. Poi, dopo il primo, mi disse: ‘Mi dispiace Luca ma io non posso più frequentarti, perché sei indagato a Roma’. Si alzò e se ne andò”. La conversazione a tre Lotti-Palamara-Ferri non è mai uscita sui giornali e non risulta tra quelle depositate a disposizione del Csm e dei legali degli indagati di Perugia. Probabilmente perché – a differenza di quelle trascritte – non è stata ritenuta casuale dagli investigatori. Magari perché era chiaro ex ante ai finanzieri che stava per iniziare un appuntamento tra l’indagato Palamara e due parlamentari, non intercettabili senza autorizzazione del Parlamento.

La notizia però va contestualizzata per evitare strumentalizzazioni. I colloqui al Rinaldi “escono” in un momento molto delicato per la giustizia italiana.

Proprio Giovanni Salvi ha appena presentato domanda per ricoprire la poltrona chiave di procuratore generale della Cassazione. Potrebbe essere lui quindi a breve il nuovo titolare dell’azione disciplinare contro i magistrati, membro di diritto dell’ufficio di presidenza del Csm. Il caso Palamara e le intercettazioni sui giochi per le nomine nelle Procure hanno squassato la credibilità delle più alte istituzioni giudiziarie. Il procuratore generale della Cassazione uscente, Riccardo Fuzio, si è dovuto dimettere dopo l’uscita sui giornali delle sue conversazioni con Palamara.

Ovvio che l’uscita della notizia sui rapporti Lotti-Salvi potrebbe danneggiare la candidatura di un magistrato che, oltre alla militanza pluridecennale nella corrente di sinistra di Magistratura Democratica, vanta anche un percorso professionale di altissimo livello con riconoscimenti unanimi.

Al Fatto Salvi racconta: “Ho conosciuto nella primavera del 2015 il sottosegretario Luca Lotti con cui si sono instaurati cordiali rapporti istituzionali. Ricordo che in occasione di un suo viaggio a Catania i magistrati del mio ufficio e io gli illustrammo le difficoltà del nostro lavoro sull’immigrazione. Poi l’ho rivisto, anche a pranzo in qualche rara occasione, e abbiamo parlato di questioni di lavoro. Per esempio, grazie anche all’intervento del sottosegretario Luca Lotti fu possibile sbloccare l’impasse tra Difesa e Giustizia sulla Caserma Manara a Roma. Conservo ancora la mail con cui lo pregavo di intervenire. Grazie a un vertice a palazzo Chigi i problemi furono risolti e ora la caserma Manara diverrà sede della Corte d’Appello civile”. E il pranzo interrotto? “Non ho difficoltà – spiega con massima trasparenza Salvi – a confermare il pranzo, nel primo semestre del 2017, non ricordo con esattezza quando. Non è vero invece che mi sia alzato dopo la prima portata: sarebbe stata una inutile maleducazione. È vero invece che dissi al ministro che non era opportuno che vi fossero altri incontri, vista la sua posizione di indagato. Devo dire che la cosa mi dispiacque per il rapporto cordiale e fattivo che si era instaurato”. E la gita sull’Etna? “Non so se vi sia davvero una registrazione e se davvero Lotti abbia parlato di questo ricordo. Certamente la gita non ci fu e peraltro non avrei potuto fare una gita in Vespa, per ovvie ragioni di sicurezza quale procuratore della Repubblica di Catania, negli ambienti criminali non benvoluto. La cosa mi sembra comunque irrilevante. Certamente invece l’onorevole Lotti venne accolto favorevolmente dal mio ufficio, che ne ha apprezzato l’immediata disponibilità a conoscere le gravi problematiche di quel momento; da quell’incontro scaturì infatti la proposta della mobilità di una aliquota di magistrati, per fronteggiare il peso delle procedure sui migranti, che divenne legge pochi mesi dopo”. Il pg a inizio 2017 avrebbe risposto all’invito ricevuto dal ministro dello sport, indagato a Roma dal 21 dicembre 2016 nell’ambito dell’inchiesta Consip. Salvi aveva letto la notizia sul Fatto ma preferì comunicare di persona al ministro la ragione per cui avrebbe chiuso bruscamente la frequentazione. La decisione saggia del 2017 oggi per Salvi vale la possibilità di correre con la coscienza pulita a procuratore generale della Cassazione.

Coni-Sport e Salute, c’è l’accordo: ecco chi fa cosa dopo la riforma

La firma c’è: Giovanni Malagò e Rocco Sabelli, cioè il Coni e la nuova società governativa Sport e Salute, hanno trovato un primo accordo sulle rispettive funzioni, dopo la riforma voluta dal governo. Non si tratta ancora del vero e proprio “contratto di servizio” fra Comitato e partecipata ma di un “conto economico” che fissa le linee guida sugli ambiti di competenza, su cui si era riacceso lo scontro. Ecco dunque chi farà cosa: il Coni mantiene l’alto livello, i Centri di preparazione olimpica (come l’Acqua Acetosa), la giustizia sportiva, il registro Coni, l’istituto di scienze dello sport e il personale riconducibile a queste attività, per il totale fissato in manovra di 40 milioni (più la promessa di Giorgetti di eventuali rabbocchi). A Sport e Salute tutto il resto: sociale, scuola, territorio (nei comitati regionali il Coni avrà solo il presidente e qualche unità), Medicina dello sport, oltre a impiantistica e i fondamentali contributi alle Federazioni (quelli però non sono mai stati oggetto di trattativa, erano già persi). Il contratto dovrà essere firmato entro il 30 settembre, entrambe le parti sono ancora convinte di spuntare condizioni migliori. La trattativa continua, la partita è solo cominciata.

Dopo l’Unesco, è iniziata la caccia ai vigneti

Quando il 7 luglio scorso arrivò dall’Azerbaijan, la notizia che l’Unesco aveva riconosciuto le colline trevigiane, da Valdobbiadene a Conegliano, patrimonio paesaggistico dell’umanità, la nomenklatura politica ed economica del Veneto fece festa, per le nuove prospettive che si aprivano al business del prosecco. Ma il giorno dopo, 8 di luglio, qualcuno ha alzato i calici anche a Premaor, frazione di Miane, uno dei comuni della core zone, il cuore del sito meraviglioso. All’indomani dell’evento fortissimamente voluto dal governatore Luca Zaia, la ditta agricola Chech Stella Antonia, proprietaria di un ettaro in area sottoposta a vincolo idrogeologico, ha ottenuto dalla Regione una preziosissima autorizzazione. Può abbattere un bosco per impiantare un vigneto. Via le piante, su i filari. Con una miracolosa moltiplicazione di valore, come spiega il consigliere regionale Andrea Zanoni del Pd. “Un appezzamento di 8.140 metri quadri coltivato a bosco vale diecimila euro, con il prosecco, in piena area Docg, il valore sarà di 500 mila euro”.

La richiesta dell’azienda risale al 22 novembre 2018. Poi un iter complesso che ha coinvolto Comune di Miane, Pianificazione Territoriale della Regione Veneto, Unità Forestale Est della Regione, Soprintendenza alle Belle Arti (con silenzio-assenso), Genio Civile e Agenzia regionale per l’ambiente. Tutto regolare, il permesso è stato dato, con prescrizioni: pali in legno di castagno, piante di mitigazione, cautela nello sbancamento… “Con quello che è successo l’anno scorso, 28 mila ettari di bosco distrutti dall’uragano, la giunta Zaia dovrebbe tutelare i boschi, non contribuire a distruggerli. Il governatore e l’assessore Gianpaolo Bottacin fermino tale scempio in zona protetta dall’Unesco”. E così quel piccolo ettaro è diventato un simbolo, dopo che una decina di giorni fa il consiglio regionale ha già autorizzato la ristrutturazione dei casolari in zona protetta e in deroga alle norme urbanistiche per farne strutture alberghiere diffuse. Adesso, in nome del prosecco, verrà sacrificata un’altra fettina di bosco e 500 ambientalisti hanno sfilato l’altra sera davanti a noci e castagni, protestando contro Zaia e Lega Nord.

Apriti cielo. Si è scatenata l’ira dell’assessore Bottacin, la cui moglie – la deputata leghista Angela Colmellere, diventata famosa per le foto elettorali con la pistola – è stata sindaco di Miane fino a due mesi fa. Quattro comunicati in quattro giorni trasudano indignazione. Per dire che Zanoni mente. Che la Regione “non ha autorizzato il disboscamento di seimila ettari (in realtà è uno solo, ndr) di alberi per far posto a un vigneto in area Unesco”. Che “si tratta solo del recupero di coltivazioni già presenti”. Che di boschi ce ne sono troppi. Che le autorizzazioni non le danno gli “organismi politici”, ma le strutture tecniche.

È bastato un accesso agli atti per recuperare il documento, sei fogli su carta intestata “Regione Veneto – Giunta regionale” firmati dal dottor Gianmaria Sommavilla, direttore di Forestale Est. Zanoni ha esultato: “Ecco la prova. Zaia aveva promesso massima tutela per l’area. Promesse smascherate subito dopo la decisione dell’Unesco”. A Bottacin non è rimasto che fare il formalista: “Zanoni esibisca un documento firmato da Zaia o da un assessore oppure una delibera della giunta che autorizza il disboscamento!”. Ovvio che la firma del governatore non c’è. Ma la sostanza non cambia: il bosco cadrà e cresceranno i filari. Quaggiù, con la benedizione dell’Unesco, è cominciata la caccia all’oro. Con le bollicine.

Forever young: “Pensavo fosse amore invece era Sala”

Che sia “il sindaco di una città di successo” se lo ripete ogni mattina quando si guarda allo specchio. E travolto dalla passione, per spiegarci come si sta, Beppe Sala parafrasa perfino il titolo di un celebre film: “Pensavo fosse amore invece era Milano”. Siccome amore chiama amore, nell’infatuazione generale, l’ex Mr Expo a 61 anni ha finito per invaghirsi parecchio anche di se stesso. Se lo dichiara su Instagram appena sorge il sole: ecco la nuova giovinezza del primo cittadino. Anzi, di Beppe, che ormai ce n’è uno solo.

La politica senza rotta e la mousse della sinistra

Ho la sensazione che le ripetitive manifestazioni di mediocrità culturale da parte dei nostri vertici di governo contagino anche i migliori commentatori politici costringendoli entro confini intellettuali sempre più angusti e autistici.

I giorni scorsi sono stati ricchi di riflessioni sul destino della politica italiana. Su Repubblica, a distanza ravvicinata, sono intervenuti Scalfari, Veltroni ed Ezio Mauro. Secondo quest’ultimo – sempre il più acuto e raffinato tra i commentatori del quotidiano – “è arrivato il momento per i Cinque Stelle di dire finalmente alla democrazia italiana chi sono, da quale pasta sono composti, a quali culture fanno riferimento, in quale parte della loro geografia immaginaria collocano l’Italia nei prossimi anni, quali interessi vogliono rappresentare, qual è la loro visione del Paese”.

Mauro, chiedendo che i 5 Stelle “discutano alla luce del sole delle loro idee e del loro posto nel mondo”, sa bene che la sua è una richiesta provocatoria dal momento che questi suoi immaginari interlocutori, come egli stesso ci assicura, sono talmente ignoranti da non distinguere Voltaire da Rousseau.

A ben pensarci, però, per rispondere alle richieste di chiarimento inflitte da Mauro, non basterebbe saper comparare i due illuministi e neppure aver letto tutti i 35 volumi dell’Encyclopédie. Parliamoci chiaro: quale partito in Italia (ma anche in Europa) saprebbe dire chi è, da quale pasta è composto, a quali culture fa riferimento, in quale parte della sua geografia immaginaria colloca il suo Paese nei prossimi anni, quali interessi vuole rappresentare, qual è la sua visione del Paese?

Oggi, a domande del genere, riescono ad azzardare risposte solo i fascisti perché non hanno bisogno di capire e convincere ma solo di manipolare e imporre, e perché il loro linguaggio elementare non ammette dubitativi ma solo imperativi.

Certo è risibile Salvini quando, con scaltra rozzezza ripete all’infinito che lui è pagato per lavorare; Di Maio quando, con l’aria di cresimando, afferma perentoriamente che non c’è più differenza tra destra e sinistra; Casaleggio quando, con sicurezza analoga, dice che socialdemocrazia e neoliberismo sono categorie superate; e Di Battista quando nei suoi libri fa trasparire un infantilismo che fa tenerezza. Ma neppure Ezio Mauro va troppo per il sottile quando, a colpi d’accetta, mette sullo stesso piano la Lega e i 5 Stelle escludendo che sarebbe stato possibile colonizzare i pentastellati da sinistra così come Salvini, partendo da posizioni ben più svantaggiate, ha saputo colonizzarli da destra. Come mai la Lega, facendo il governo con i grillini, ha saputo pescare a striscio nel loro mare mentre il PD, giocando all’opposizione, non è riuscito a recuperare quasi nulla?

A quelle domande cruciali che Ezio Mauro ha posto ai 5 Stelle, tutto sommato non avrebbe saputo rispondere neppure il Veltroni della recente intervista a Repubblica. Come ricorda Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni, quando, nel 1922, il fascismo batteva alle porte, il primo ministro Luigi Facta continuava a ripetere: “Nutro fiducia”. Nell’attuale fase di pre-fascismo Veltroni inizia la sua intervista dicendo: “Nonostante tutto, io sono fiducioso”. La fiducia di questo leader della sinistra – rispetto alla quale egli si dice “esterno” ma “appassionato” – nasce dal fatto che “la stragrande maggioranza degli italiani aspetta la voce di qualcuno che sia in grado di contrapporre all’odio un sentimento diverso. Ma senza esitazioni. Apertura, inclusione, rispetto, diritti, giustizia sociale, cultura. In una parola: dialogo”. Sembra di ascoltare una telefonata di Papa Francesco a Eugenio Scalfari.

Di sicuro, da questa mousse di buone intenzioni è difficile ricavare di quale pasta sia composta la sinistra che ha in mente Veltroni, a quali culture faccia riferimento, in quale parte della sua geografia immaginaria egli collochi l’Italia nei prossimi anni, quali interessi vuole rappresentare, qual è la sua visione del Paese. I concetti-base della politica proposta da Veltroni, così come si evince dalla sua intervista, consistono in quattro assiomi: la politica attuale è “il baraccone del luna park dove passano gli orsi e di volta in volta ne cade uno”; “la sinistra sarà ambientalista o non sarà”; “l’acronimo è Ali. Ambiente, lavoro, istruzione”; “serve uno choc che passi alla storia” (e poi si scopre che questo choc consisterebbe in un taglio del cuneo fiscale).

Nel suo ultimo domenicale, Scalfari, per spiegare i rapporti tra Salvini, Di Maio, Meloni e Berlusconi, ricorre alla metafora del Dottor Jekyll e Mr. Hyde e la riassume per i lettori di Repubblica forse sospettando che essi ignorino Stevenson così come i 5 Stelle ignorano Voltaire. Secondo Scalfari, oggi i rapporti fra questi protagonisti sono più infidi perché “l’epoca in cui viviamo è quanto mai balorda”. Poi il fondatore di Repubblica lapalissianamente ci rivela che “la grande alleanza che contiene tutte le forze di centrodestra sta scricchiolando. Se la sinistra italiana, che Zingaretti sta cercando di rilanciare, riuscisse a rinascere come forza alternativa, la situazione politica del nostro Paese cambierebbe radicalmente”.

Insomma, a conti fatti, viene il dubbio che neppure la lobby culturale di Repubblica, la più compatta e influente d’Italia, potrebbe rispondere alle domande che Ezio Mauro ha posto ai 5 Stelle.

Il fatto è che la nostra attuale società postindustriale, a differenza di tutte quelle che l’hanno preceduta, non è nata da un compiuto modello concettuale come avvenne per il Sacro Romano Impero con il Cristianesimo, o per gli stati liberali con le idee di Smith e di Montesquieu. La nostra società è tutta disorientata perché, senza un modello teorico di riferimento, senza una ideologia, non le è possibile distinguere tra vero e falso, tra buono e cattivo, tra bello e brutto. “Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare” direbbe Seneca.

I modelli di società non sono elaborati dai politici ma dagli intellettuali. I politici si limitano a implementarli. Il modello cui ispirare lo sviluppo postindustriale non esiste perché gli intellettuali del nostro tempo, a differenza di quelli passati, non hanno saputo elaborarlo e tuttora non avvertono il dovere di elaborarlo. Perciò i politici di 5 Stelle avrebbero tutto il diritto di rivolgersi essi a Ezio Mauro – a lui che sa la differenza tra Rousseau e Voltaire – per chiedergli risposte non convenzionali alle sue stesse domande: Dr. Mauro, ci dica, per favore, a quale cultura dobbiamo fare riferimento; in quale parte della nostra geografia immaginaria dobbiamo collocare l’Italia nei prossimi anni; quali interessi dobbiamo rappresentare; quale visione del Paese dobbiamo nutrire. Se da solo non ci riesce, si faccia aiutare da Eugenio Scalfari, che conosce la differenza tra il Dottor Jekyll e Mr. Hyde.

Povero Rotondi, assediato nel caffè

Tragedia sfiorata a Pescara. Il protagonista dello spiacevole e cupo dramma è Gianfranco Rotondi, tormentato vicecapogruppo alla Camera di Forza Italia. Nulla meglio del suo racconto via Twitter per spiegare l’accaduto: “Cronache della Terza Repubblica: io e un giornalista siamo chiusi al caffè Berardo di Pescara in attesa del 113 perché alcuni fans di Matteo Salvini ci hanno aggredito mentre realizzavamo un’intervista davanti al caffé”. È panico. Gli utenti del social si preoccupano, chiedono aggiornamenti, i più agitati chiamano anche loro le forze dell’ordine, vogliono giustizia. Poi arriva il Verbo, ancora via tweet: “Grazie al tempestivo intervento del 113 i facinorosi si sono dileguati, facilmente saranno identificati. Questo è il clima del tempo”. Fiuuu. A mente lucida c’è tempo anche per le riflessioni: “Mi hanno dato del traditore e del maiale. Pongo la questione al presidente della Repubblica: ma Matteo Salvini è il garante della sicurezza di questo Paese o il principale agitatore? Non dico sia lui il responsabile di quanto accaduto, ma si è creato un clima infame”. Tutto è bene ciò che finisce bene. Per quanto si possa finir bene citando Bettino Craxi, si intende.