Te lo ricordi Silvio? “È il sole per tutti noi”

Dunque sarà scissione, ma non prima di settembre. Dopo l’ennesimo schiaffo da parte di Silvio Berlusconi, Giovanni Toti (insieme a 6 senatori e 8 deputati, ma potrebbero essere di più) si prepara a lasciare Forza Italia, ultimo delfino spiaggiato dell’ex Cavaliere. Mara Carfagna, pure lei possibile delfina, ha preso una bella botta, ma resterà. E dire che Toti era stato scelto direttamente da Silvio come possibile successore, pescato nella truppa dei conduttori Mediaset. “È brillante, ha fiuto politico”, gli dissero. Et voilà, divenne il suo principale consigliere politico. Si era nel gennaio del 2014. Memorabile la presentazione a Cagliari. “Ho chiesto a un mio amico che da 20 anni lavora a Mediaset di venirmi a dare una mano: ha rinunciato a uno stipendio altissimo. Ve lo presento: si chiama Giovanni Toti ed è venuto per amore mio, ma voglio precisare che non siamo gay”, le parole di Silvio.

Toti, però, per i gusti dell’ex Cavaliere ha qualche chilo di troppo: un leader dev’esser magro. Così gli impone una settimana di remise en forme, a La maison du relax, a Gardone Riviera, sul Garda, vicino al Vittoriale: altra memorabilia la foto dal balcone con il prescelto in tuta bianca post seduta. Per quell’anno e in quelli a seguire Toti sarà il fedele scudiero del Caimano. “Io non sono un rottamatore. In Fi c’è un numero uno, che è Berlusconi, e poi infiniti numeri due”, spiegò sempre all’epoca dell’investitura.

Si era nell’anno del governo Renzi, col patto del Nazareno, le Europee in vista, B. ai servizi sociali e il processo Ruby ancora sul groppone. “Vorrei che i candidati azzurri alle Europee dedicassero qualche ora della loro campagna a opere di bene, per solidarietà al nostro leader, che la mattina va a Cesano Boscone”, se ne uscì Toti il 22 aprile. “Nel simbolo del nostro partito ci vuole il nome Berlusconi!”, sentenziò il 22 marzo. Le Europee si avvicinano. “Berlusconi fa paura, sono tutti terrorizzati dal nostro recupero”. All’epoca non gli piacevano nemmeno le primarie. “Sono una brutale conta numerica”, 15 giugno. “Il futuro di Fi è legato a Berlusconi leader, su questo non c’è discussione”, 3 novembre. “L’unico che può riunire il centrodestra è Berlusconi: lui è un grande padre, gli altri sono suoi figli”, 21 novembre. Un anno dopo gli scapperà anche un “Berlusconi è il sole cui tutti noi guardiamo ogni mattina”. Dentro Fi, però, Toti non è mai stato amato. “È un babbeo”, lo liquidò in un minuto Denis Verdini.

Ma pure gli altri possibili scissionisti non scherzano. Paolo Romani è stato per anni uno dei berluscones più fedeli, ex ministro dello Sviluppo economico ed ex capogruppo in Senato. “Io sono il più berlusconiano di tutti. Sto con lui da 20 anni, gli devo praticamente tutto. In politica ho iniziato con lui e finirò con lui…”, diceva nel marzo 2015. “Berlusconi è il nostro leader. Solo lui può guidarci”, sosteneva ogni due per tre, fino a poco fa, un’altra possibile scissionista, Laura Ravetto. Forse ci sarà anche Gaetano Quagliariello. “Berlusconi è uno di quei leader che, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo”, diceva nel 2008, da vicecapogruppo in Senato. E poi potrebbero esserci anche Giorgio Lainati, per anni pasdaran berlusconiano in Vigilanza Rai, il ligure Sandro Biasotti e il piemontese Osvaldo Napoli. Anche loro ultraberlusconiani, da tempo piuttosto critici col vertice azzurro e le scelte del leader.

I pm: “Siri voleva dissimulare l’origine dei soldi”

L’appuntamento è per martedì 6 agosto di buon mattino. Quando alle 8 in punto la Giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama si riunirà per esaminare la richiesta dei pm di Milano, Gaetano Ruta e Sergio Spataro. Che chiedono di poter entrare in possesso “il prima possibile” di due computer di Armando Siri, l’ex sottosegretario leghista alle Infrastrutture indagato per il reato di autoriciclaggio in concorso con Luca Perini, già capo della sua segreteria al Mit. Con l’aggravante “di aver commesso il fatto giovandosi del contributo di un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività criminali in più di uno Stato (Italia e San Marino)”.

Nel testo trasmesso il 30 luglio e nei prossimi giorni all’esame della Giunta del Senato, gli inquirenti hanno delineato gli elementi di indagine che hanno consentito di ricostruire l’ipotesi di autoriciclaggio. Siri avrebbe ricevuto dalla Banca Agricola Commerciale di San Marino un finanziamento a condizioni che – scrivono sempre i due pm milanesi – “appaiono all’evidenza di particolare favore”: circa 750 mila euro concessi a un tasso del 2,1%, in assenza di garanzie personali e reali e con un periodo di pre-ammortamento di 3 anni. E questo in contrasto con la normativa sanmarinese e le regole interne all’istituto di credito, come riscontrato da un’ispezione dalla Banca centrale del Titano, che ha poi inoltrato gli atti all’autorità giudiziaria interna e di lì, dopo rogatoria, trasmessi a Milano.

Le somme sarebbero state corrisposte “indebitamente” a Siri. Che le avrebbe usate per acquistare un immobile a Bresso poi intestato alla figlia Giulia (che contestualmente aveva rilasciato una procura irrevocabile a vendere al padre). E per il pagamento di casa, il leghista avrebbe utilizzato due assegni “tratti su un conto dedicato del notaio rogante”.

In breve le somme “così generosamente elargite a un personaggio politico di primo piano sono state utilizzate per investimenti economici col preciso intento di dissimularne l’origine”. Un’operazione di schermatura per ostacolare l’identificazione “della provenienza delittuosa della provvista”. Ma c’è di più. Perché accanto al credito per l’acquisto della casa, concesso a ottobre 2018, sotto la lente di ingrandimento della procura di Milano c’è pure un finanziamento concesso dalla Banca di San Marino ad aprile di quest’anno. Pure questo in assenza di garanzie, a favore di una società, la Tf Holding, e grazie al ruolo determinante dell’uomo di fiducia di Siri, Perini.

La Guardia di Finanza ha già eseguito una serie di perquisizioni, sia nei confronti dei soci della Tf holding che a casa di Perini a Cusano Milanino. E pure a Viale Monte Santo a Milano dove peraltro ha sede l’associazione “Flat tax per l’Italia”: ma la perquisizione si è dovuta interrompere quando sia Perini che Siri hanno indicato alle Fiamme Gialle la scrivania e i pc in uso al senatore quando è a Milano.

Di qui la necessità di procedere con la richiesta a Palazzo Madama per ottenere l’autorizzazione al sequestro dei computer. In modo che sia possibile verificare se all’interno della memoria dei due dispositivi siano presenti documenti relativi ai due finanziamenti: “Sarà necessario acquisire tanto gli atti che documentano passaggi formali quanto e soprattutto – scrivono i pm nella richiesta al Senato – i documenti che contengono tracce di rapporti e accordi non riversati in forma ufficiale che diano evidenza di rapporti, conversazioni e scambi di informazioni con i soggetti coinvolti”. Nel frattempo, mercoledì, sono stati effettuati perquisizioni e sequestri anche nell’abitazione di Rimini di Tiberio Serafini, vicedirettore della Banca di San Marino che ha concesso i due finanziamenti sospetti. Che il senatore leghista ha ribadito essere stati erogati in maniera regolarissima.

“L’Autonomia è un danno grave per i beni culturali”

ANOMALIE metodologiche, rischio di ampia discrezionalità dal punto di vista delle scelte normative, disgregazione territoriale dell’ordinamento nazionale della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio e del rispettivo apparato esecutivo. Sono queste alcune delle criticità rilevate nella riforma delle Autonomie differenziate dalle associazioni “Italia Nostra” e “Ranuccio Bianchi Bandinelli”, rappresentate rispettivamente da Mariarita Signorini e Rita Paris. Le hanno evidenziate in un appello, inviato ieri ai presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati, al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli. La prospettiva del trasferimento ad alcune Regioni di “forme particolari di autonomia” in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio lederebbero gravemente i principi sanciti dalla Costituzione e arrecherebbe un gravissimo danno funzionale all’organizzazione unitaria del sistema di tutela vigente. Nell’appello si fa riferimento anche alle sentenze della Corte Costituzionale in merito all’unitarietà del patrimonio culturale.

Bonafede pronto alla guerra dei dati

Farà asse con il presidente del Consiglio, entrato nell’orbita dei Cinque Stelle grazie a lui. E punterà sui suoi dati, quelli che secondo il ministero della Giustizia confermano che il termine massimo dei sei anni per ogni processo penale è assolutamente raggiungibile. Anzi, molti processi potranno durare “decisamente di meno” assicurano fonti di governo.

Ed è la chiave per respingere l’assalto della Lega alla sua riforma e alla prescrizione, secondo il Guardasigilli, il 5Stelle Alfonso Bonafede. “Se il problema del Carroccio riguarda i tempi del processo, allora il problema non c’è” fa trapelare ieri sera il ministro. Perché il nodo sollevato nell’infinito Consiglio dei ministri di mercoledì da Matteo Salvini e soprattutto Giulia Bongiorno, la responsabile Giustizia della Lega, è stato innanzitutto quello. “Questa non è una riforma epocale, e non taglierà i tempi dei procedimenti” hanno ripetuto per ore.

E il sospetto di Bonafede rimane quello, che la Lega voglia solo dare l’assalto alla riforma della prescrizione, già prevista dalla legge Spazzacorrotti. Dal prossimo gennaio la decorrenza dei tempi verrà congelata dalla sentenza di primo grado, una novità che la penalista Bongiorno non ha mai accettato. “D’altronde tante delle voci che si stanno levando contro la riforma non vogliono la prescrizione” ragionano fonti di governo. Ma Bonafede considera impossibile una marcia indietro. E ai suoi tecnici ha chiesto di lavorare nel dettaglio sui tempi del processo penale, per blindare con altri dati la sua riforma, in base a cui se un processo supererà i sei anni di durata scatteranno procedimenti disciplinari per i magistrati dell’accusa. Ma a via Arenula sono convinti che con le nuove norme molti dei processi potranno durare anche meno di sei anni. Quindi, che si arriverà a un robusto taglio dei tempi. Ma nella partita sulla giustizia contano anche altri fattori. Perché Bonafede, numero due del Movimento, è la mente dello Spazzacorrotti. Cioè un 5Stelle troppo forte agli occhi del Carroccio. Insomma lo scontro resta anche e forse soprattutto politico. E anche per questo il ministro della Giustizia si sta appoggiando al premier, l’avvocato Conte. Tornato dopo mesi a farsi ritrarre in una foto diffusa dal Movimento con i vertici dei 5Stelle, il capo politico Luigi Di Maio e i suoi due pretoriani, il ministro dei Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro e Bonafede. E lo ha fatto dopo il Cdm dell’assalto al Guardasigilli.

Per sostenerlo, ieri il premier ha fatto anche sapere di aver elogiato la riforma del processo civile nel colloquio con la commissaria europea Von der Leyen. “La riforma del Csm e del processo civile le abbiamo comunque portate a casa” rivendica infatti Bonafede. Che fa circolare un messaggio: “Vediamo se i leghisti fanno sul serio o se portano solo avanti un bluff”.

@lucadecarolis

Quei “450 giorni di nulla” della ministra Bongiorno

Qualcuno prenda le impronte digitali a Giulia Bongiorno. Perchè il ministro della Funzione c’è, ma è come se non ci fosse. Almeno stando a quello che raccontano i sindacati. Che sulla titolare del dicastero della Pubblica amministrazione danno un giudizio unanime: non pervenuta. Con buona pace di Matteo Salvini che la porta in palmo di mano tuonando un giorno sì e l’altro pure sull’efficienza dei ministri pentastellati. “Ci ha convocato una sola volta dal suo insediamento concedendoci 7 minuti a testa con la premessa che non dovevamo perder tempo con ragionamenti ‘politici’. Inutile dire che non ha ritenuto proficua quella interlocuzione: ci ha detto che da allora in avanti se proprio avessimo voluto parlare con qualcuno, ci saremmo potuti rivolgere al suo capo di gabinetto”, spiega il segretario della Cgil Funzione pubblica, Serena Sorrentino che sbotta: “La Bongiorno è peggio di Brunetta. Non ha proprio idea di cosa sia la pubblica amministrazione. Il resto è propaganda: dalle impronte digitali all’idea di un corso di laurea per chi voglia diventare dipendente della Pa. Che mi pare una semplificazione evidente data la complessità delle figure professionali di cui il sistema ha bisogno. Insomma volendo fare una ricognizione delle riforme portate a casa dal ministro della Pa, il bottino è piuttosto striminzito, al di là della narrazione giocata ad esempio sui controlli antifannulloni attraverso i rilievi biometrici o impronte digitali che dir si voglia”.

Molto più visibile il suo contributo ad altri dossier che con il ministero che ha sede a Palazzo Vidoni c’entrano poco o nulla: che sia riforma delle intercettazioni o quella della prescrizione. Il core business di Bongiorno, insomma è la Giustizia di cui è ministro ombra per la Lega. “Non a caso era presente all’incontro a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il Guardasigilli Alfonso Bonafede e Salvini. Mentre – si sottolinea sempre da fronte sindacale – sulla delega di Riforma della Pa mandata all’esame del Parlamento, così come sulla legge Concretezza non solo non c’è stato alcun vertice di governo ma neanche un incontro con i sindacati. Segno evidente di come ritenga essere la Pubblica Amministrazione, e il suo ministero, un affare minore”.

Anche per Nicola Turco della Uil Pa, il giudizio sul ministro della Pa è impietoso: “450 giorni di nulla. Se il buon giorno si vede dal mattino, è più che altro una buona notte. Alla Pa che è prossima al default quando è un patrimonio di tutti i cittadini. Un bilancio? Zero sui contratti pubblici e sulle assunzioni, a parte quelle nel settore delle forze dell’ordine, comunque meno di quelle promesse. Quanto alle relazioni sindacali siamo tornati indietro di vent’anni”.

Eppure proprio nella Pa l’emergenza è evidente. E sta tutta in un numero spaventoso determinato dalle uscite grazie a quota 100 che si sommano a quelle ordinarie: 650 mila dipendenti che bisognerà rimpiazzare al più presto per assicurare i servizi minimi. Come quelli nella sanità dove per tamponare l’emorragia il governo è stato costretto a richiamare in servizio i medici in pensione o quelli dell’esercito. “Abbiamo trovato una chiusura sistematica al confronto diretto con i sindacati” dice il segretario generale della Cisl Maurizio Petriccioli. “Al ministro abbiamo consegnato una piattaforma unitaria articolata su temi per noi fondamentali come lo scorrimento delle graduatorie, il superamento del precariato, l’avvio di un piano di assunzioni straordinario per ridurre l’impatto delle uscite per quota 100, la chiusura dei contratti di area dirigenziale, lo stanziamento di risorse adeguate per rinnovare i contratti del personale dei comparti, il rilancio di un piano formativo e di aggiornamento per i dipendenti pubblici, un adeguato rifinanziamento dei servizi del SSN e, infine, lo stop alle esternalizzazioni dei servizi pubblici. A partire da questi temi, noi vogliamo sfidare il ministro ad un cambiamento di paradigma: mettere da parte una visione poliziesca per la quale il lavoratore pubblico è un fannullone improduttivo da controllare e punire e rilanciare insieme l’idea che si può fare innovazione”.

Commissione banche, ci sono i nomi: si parte a settembre

La nuova Commissione d’inchiesta sul sistema bancario è pronta. Il debutto avverrà il 4 settembre. Sono stati comunicati tutti i nomi dei 40 parlamentari che ne faranno parte. Per la Camera: i deputati Francesco Boccia, Giuseppe Buompane, Giulio Centemero, Dimitri Coin, Silvia Covolo, Felice Maurizio D’Ettore, Guglielmo Epifani, Tommaso Foti, Sestino Giacomoni, Claudio Mancini, Alvise Maniero, Luigi Marattin, Tullio Patassini, Raphael Raduzzi, Marco Rizzone, Carla Ruocco, Bruno Tabacci, Riccardo Tucci, Franco Vazio, Pierantonio Zanettin. Per il Senato: Rossella Accoto, Alberto Bagnai, Anna Maria Bernini, Laura Bottici, Maurizio Buccarella, Roberto Calderoli, Francesco Castiello, Luciano D’Alfonso, Andrea De Bertoldi, Stanislao Di Piazza, Massimo Ferro, Elio Lannutti, Mauro Marino, Gianluigi Paragone, Daniele Pesco, Gaetano Quagliariello, Erica Rivolta, Renato Schifani, Dieter Steger e Luigi Zanda. Il primo atto sarà la nomina del presidente. I 5Stelle hanno indicato il senatore Gianluigi Paragone (la Lega non ha, per ora, messo il veto). La bicamerale indagherà sulle crisi bancarie, la vigilanza di Bankitalia e le nuove regole Ue sui dissesti del credito (bail-in).

Il tetto della Severino non esiste più: pure Corradino ha la deroga per l’Anac

Per un presidente dell’Anac che se ne va, Raffaele Cantone, un commissario che resta, Michele Corradino, consigliere di Stato, ex capo di Gabinetto dei ministri Giulio Santagata, Stefania Prestigiacomo e Mario Catania. Corradino, secondo quanto risulta al Fatto, il 19 luglio ha ottenuto il via libera dal Cpga (il Csm del Consiglio di Stato) con 10 sì e 5 no per proseguire il suo incarico all’Anticorruzione, anche se a settembre avrà raggiunto il tetto massimo di 10 anni come fuori ruolo stabilito dalla legge Severino. Una norma approvata trionfalmente in Parlamento nel 2012.

Sia il Cpga che il Csm hanno fornito controverse interpretazioni, ed è appellandosi a un paio di deroghe concesse dai due organismi nei mesi scorsi che Corradino ha chiesto – e ottenuto – di poter restare all’Anac fino a fine mandato: 14 luglio 2020.

Nella sua richiesta di proroga, il magistrato amministrativo ha ricordato ai membri del Cpga che avevano già concesso l’autorizzazione a superare il tetto ad un consigliere di Stato, ex componente di un’altra Authority che – come l’Anac – ha le stesse modalità di nomina: decreto del presidente della Repubblica su nomina del presidente del Consiglio e con “il parere favorevole almeno dei due terzi delle Commissioni parlamentari competenti”.

Corradino, naturalmente, non fa nomi, ma l’esempio citato pro domo sua è quello di Luigi Carbone, ex commissario dell’Authority per l’Energia, che a gennaio ha avuto il via libera del Cpga al fuori ruolo come capo di Gabinetto del ministro dell’Economia Giovanni Tria nonostante avesse compiuto già 10 anni di fuori ruolo. In quel caso il Cpga disse, in sostanza, che per il calcolo dei 10 anni non si dovesse tenere conto del periodo di Carbone all’Authority per l’Energia, dato che è un incarico equiparabile a una “carica elettiva”, visto che passa dal vaglio del Parlamento.

Corradino nella sua richiesta ha citato anche il Consiglio superiore della magistratura che ha concesso, ricorda, il fuori ruolo a un giudice che “aveva superato il limite dei 10 anni”, con le stesse motivazioni del Cpga del Consiglio di Stato. Il riferimento è al giudice di Napoli Roberto Rustichelli. Prima del terremoto politico giudiziario che lo ha investito, il Csm, in aprile, dopo quattro mesi di discussione in Terza commissione, a maggioranza ha autorizzato Rustichelli, per oltre 10 anni fuori ruolo, a ricoprire la carica delicatissima di presidente dell’Antitrust, nominato dai presidenti del Senato, Elisabetta Casellati e della Camera, Roberto Fico.

Questa particolare interpretazione della Severino, quando si ha a che fare con nomine “elettive”, ha suscitato molte perplessità tra giuristi fuori da palazzo Spada e da palazzo dei Marescialli.

Corradino, infatti, nel 2014 era stato autorizzato al fuori ruolo come commissario Anac per la durata di 5 anni e 2 mesi, cioè il periodo che gli rimaneva per non sforare il tetto dei 10 anni stabilito dalla Severino, ma le deroghe di quest’anno del Cpga e del Csm hanno reso inattaccabile la sua richiesta e d’ora in poi è facile immaginare che sarà così per casi analoghi che toccano magistrati ordinari e amministrativi.

Aggirata la legge una volta, aggirata per sempre.

Tav, la linea italiana “low cost” è un fantasma: il rebus dei costi

Invocano a ogni costo quella linea ferroviaria che nascerebbe già vecchia, obsoleta, e dalla Lega al Pd è tutto un minacciare mozioni e sostegni incrociati per dire sì al Tav in Parlamento. Ma se si scava dentro la grande torta della Torino-Lione, si scopre che di certo c’è ancora ben poco, se non una massa di promesse. Perché, come spiegano al Fatto fonti di governo e dei ministeri competenti, l’Italia a tutt’oggi dovrebbe in teoria sborsare quasi 4 miliardi e 600 milioni per la tratta nazionale di collegamento al tunnel transfrontaliero, con buona pace della project review del governo Gentiloni che aveva (anzi, avrebbe) ridotto il costo a un miliardo e 900, ma che non è mai stata approvata dal Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica. Dove il taglio dei costi è apparso solo con una fugace informativa. La tratta nazionale è tuttora in gran parte “scoperta”, visto che ad oggi risultano stanziati solo 146 milioni per studi preliminari. Ergo, serve trovare un’ingente quantità di risorse. Un’enorme incognita per un esecutivo già alle prese con una difficile manovra economica, su cui pesa l’esigenza di reperire 23 miliardi per scongiurare l’aumento dell’Iva. Ma la penuria di fondi effettivi conferma anche la volontà dei governi precedenti di rimandare la palla del Tav più lontano possibile, al di là dei proclami a favore di telecamere.

La confusione dei numeri è l’effetto voluto del gioco di prestigio compiuto in questi anni dai grandi fan dell’opera – dentro e fuori i governi – capitanati dall’ex commissario per il Tav Paolo Foietta.

Andiamo con ordine. Il 24 luglio scorso Giuseppe Conte indicò tra i motivi del via libera al Tav un presunto co-finanziamento europeo per la tratta nazionale “che costa 1,9 miliardi”. In realtà il costo reale è molto più alto. Otto anni fa Rfi, controllata delle ferrovie per i binari, trasmise al ministero delle Infrastrutture il progetto per la tratta nazionale di collegamento al tunnel di base sotto le Alpi. Costo: 4,6 miliardi. Comprende il potenziamento della linea Bussoleno-Avigliana-Orbassano (1,9 miliardi) più la Gronda che a Settimo Torinese permette di saltare il passante di Torino e connettersi alla linea dell’Alta velocità Torino-Milano (2,7 miliardi). Viste le proteste per l’esorbitante esborso, Foietta e compagnia tirarono fuori la geniale invenzione detta “fasizzazione”. Ossia si decise di avviare i lavori del tunnel di base (57 km) sotto le Alpi, spezzettando la tratta nazionale in diverse tappe (“fasi”). Nel 2017, il ministro dei Trasporti Graziano Delrio annunciò la “project review” della tratta, che si sarebbe limitata al solo tracciato fino a Orbassano evitando la Gronda, “con un risparmio di 2,7 miliardi”. E qui nasce il guaio: quel taglio sbandierato per dare il via libera agli stanziamenti per il tunnel di base (arrivato nell’agosto 2017) non è mai passato per l’approvazione definitiva del Cipe. In realtà non esiste nessun progetto definitivo della tratta nazionale approvato dal Comitato che stanzia le risorse. La stessa project review è arrivata al Cipe come semplice “informativa”.

La conseguenza è che il contratto di programma tra Rfi e il ministero delle Infrastrutture (2017-2021) oggi comprende ancora l’intero progetto da 4,6 miliardi, ma in due fasi: in attesa dell’ok del Cipe, dal 2021 si parte con la tratta da 1,9 miliardi, e per la Gronda se ne parla più avanti. Al momento, però, lo stanziamento complessivo ammonta a soli 146 milioni, per il resto andranno trovate le risorse, che variano da 1,9 a 4,6 miliardi.

L’effetto di questo gioco di prestigio è paradossale. A oggi il vecchio progetto per la tratta nazionale sopravvive ancora. Nelle intenzioni dei pasdaran dell’opera, la gronda di Settimo Torinese serviva a evitare il vero collo di bottiglia del traffico merci-passeggeri alle porte di Torino. Se quel traffico esistesse davvero. I tecnici della commissione incaricata dal Mit di effettuare l’analisi costi-benefici, capitanati dal professor Marco Ponti, hanno ricevuto l’indicazione di considerare tra i costi della tratta nazionale solo gli 1,9 miliardi della linea Bussoleno-Orbassano. Se avessero inserito anche quelli della Gronda il risultato sarebbe stato ancora più negativo dei 7 miliardi di danni economici stimati.

Tirate le somme, gli unici stanziamenti effettivi (quasi 3 miliardi) il governo italiano li ha decisi per il tunnel di base, pagato per due terzi dall’Italia pur essendo per quattro quinti in territorio francese. Parigi, peraltro, non ha stanziato quasi nulla e ha rimandato la sua tratta nazionale a dopo il 2038. Mentre dal lato italiano resta ancora l’intero progetto. La logica ferrea dei Sì Tav è questa: se ti dimostrano che sono soldi buttati allora basta promettere di spenderne la metà. Poi magari si scoprirà che non è neanche vero.

Accoltellato e gettato in un fosso: senegalese aggredito a Sulmona

Sarebbe stato prima affrontato da due persone per poi essere accoltellato alla gola e gettato in un fosso: vittima un giovane senegalese, ospite di una casa di accoglienza di Pettorano sul Gizio, ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Pescara. Il fatto sarebbe accaduto martedì scorso su una stradina di campagna tra Sulmona e Pettorano. Non chiari al momento i motivi che ci sarebbero al centro dell’aggressione. Secondo il racconto del giovane che presta servizio civile i due mentre lo aggredivano gli avrebbero detto: “Ti insegniamo noi a campare”. Sulla vicenda sta indagando la squadra anticrimine del commissariato di Sulmona. Da una prima ricostruzione da parte della polizia, il giovane sarebbe stato prima aggredito e poi trasportato in un luogo diverso e gettato in un fosso, dove avrebbe passato la notte privo di sensi. Ripresosi il giorno dopo avrebbe raggiunto la struttura di Pettorano dove è ospitato e da lì sarebbe stato accompagnato in ospedale a Sulmona. Viste le gravi condizioni i medici ne hanno deciso il trasferimento prima all’ospedale di Avezzano e poi a quello di Pescara.

Navi Ong verso le coste italiane. Ma la Alan Kurdi va a La Valletta

Il fronte Ong nel Mediterraneo è sempre caldo. La nave umanitaria Alan Kurdi si dirige verso Malta e Open Arms annuncia il salvataggio di altre 69 persone e lancia la richiesta di “un porto sicuro”, nonostante il divieto del governo italiano, mentre la Mare Jonio è stata dissequestrata. La Alan Kurdi – ha fatto sapere Sea-Eye – è diretta verso Malta. Al largo della Libia “abbiamo salvato 40 persone, 15 dei quali sono minori e in particolare necessità di protezione. Due di loro sono sopravvissuti al raid aereo di Tajura e ora sono tenuti in ostaggio da Matteo Salvini, non offriremo a Salvini un’altra base per un nuovo indegno show: andiamo a Malta”. La spagnola Open Arms, ha segnalato di aver salvato altre 69 persone. Mentre Mediterranea Saving Humans ha annunciato che la Procura di Agrigento ha disposto il dissequestro della nave Mare Jonio: “Ci stiamo già preparando a ritornare al più presto in mare”.