Ricollocati nella Ue solo il 5% dei (pochi) migranti sbarcati

“Idee chiare, coraggio e si vince! #dalleparoleaifatti”. Ieri Salvini twitta e rilancia l’intervista rilasciata a Libero il 1° agosto: “Chi la dura la vince: l’Italia non prende i migranti”. Il trionfo consiste nel fatto che i 116 migranti a bordo della Gregoretti, nave della Guardia costiera, sbarcati al porto militare di Augusta il 31 luglio, verranno suddivisi tra Germania, Francia, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo e Conferenza episcopale italiana (che poi è in Italia).

In gergo questi trasferimenti si definiscono ricollocamenti e per Salvini sono la più grande vittoria del suo governo in Europa. Senza regole certe per gestirli, ora funziona tutto “su base volontaria” e a seguito di negoziati bilaterali. I numeri dimostrano che per l’Italia questa strategia è perdente. Salvini infatti tratta pochi trasferimenti sedendosi al tavolo con governi che dovrebbero rimandare in Italia non centinaia, ma decine di migliaia di richiedenti asilo: i cosiddetti casi Dublino.

Partiamo dai ricollocamenti. Dalla fine di giugno 2018 alla metà di luglio 2019 secondo i dati della Commissione europea i ricollocamenti da Italia e Malta, i due approdi della rotta del Mediterraneo centrale di questo 2019, sono stati in tutto 840, su un totale di 16.608 arrivi (di cui 13.850 in Italia). Questo significa che solo il 5% dei migranti è stato ricollocato. Gli altri sono rimasti dove sono arrivati e spesso hanno già fatto perdere le tracce. La strategia degli accordi bilaterali per i ricollocamenti da un anno si dice che non funzioni. Si sosteneva che i Paesi non rispettassero gli impegni presi. Invece i migranti per i quali è stata accettata la relocation da Italia e Malta sono 1.146, non molti di più degli 840 già trasferiti.

“Non essendoci un meccanismo automatico, c’è bisogno di una crisi per poter negoziare un ricollocamento”, spiega Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto Studi Politici Internazionali (Ispi) che ha elaborato questi dati. Per “indurre una crisi” Matteo Salvini annuncia di “chiudere i porti”, i maltesi invocano invece aiuto perché troppo piccoli. Il confronto diplomatico però richiede tempo che per le navi significa attesa di un “porto sicuro” dove sbarcare.

I Paesi che fino ad oggi hanno accettato più ricollocamenti dall’Italia sono gli stessi che hanno dato disponibilità a seguito dello sbarco dei migranti dalla Gregoretti. La Germania però è anche il Paese con cui l’Italia ha un conto aperto sui “casi Dublino”, ovvero persone che – come stabilito dal mai riformato Regolamento di Dublino – andrebbero riportate in Italia, perché è il Paese di primo arrivo in cui hanno fatto domanda d’asilo. I numeri sono enormi: “Nel 2018 la richiesta all’Italia è stata di riprendersi oltre 62 mila persone in totale, 26 mila dalla sola Germania. Ne abbiamo ripresi in tutto 6.300”, ricorda Matteo Villa di Ispi. Questo rende lo sforzo per i ricollocamenti dal mare un esercizio inutile: Germania, Francia, Svizzera, Austria e Svezia – i Paesi che più hanno chiesto all’Italia di prendersi indietro dei “casi Dublino” – tra il 2013 e il 2018 hanno fatto oltre 217 mila domande, ottenendo però l’effettivo ritorno di meno di 24 mila persone (dati Eurostat). A ottobre scorso Salvini era arrivato a dichiarare di voler “chiudere gli aeroporti” per impedire i rientri dei casi Dublino, se la Germania non avesse ricollocato i migranti appena sbarcati. Un teatrino che si ripresenta ogni anno, senza che la situazione venga davvero governata.

*Irpi-Investigative
Reporting Project Italy

Pd, ci mancavano solo le 2 petizioni

Democratici contro democratici. Sembra quel vecchio film con Dustin Hoffman e Maryl Streep, coniugi Kramer in aria di divorzio e in costante litigio. Qui però il fatto è paradossale, perché passino le divergenze programmatiche sul futuro, ma il Pd non riesce a stare unito neanche quando si tratta di fare opposizione a Matteo Salvini. Una specie di occasione a porta vuota. Puntualmente sbagliata. Ieri infatti un elettore dem di buona volontà avrebbe potuto sentire il suo segretario, Nicola Zingaretti, annunciare che il partito farà una raccolta firme per sfiduciare Salvini. Dove? Ai banchetti delle care vecchie feste dell’Unità. Niente di strano, se non fosse che nelle stesse ore Matteo Renzi stava lanciando una petizione tutta sua, ma con lo stesso identico obiettivo. Niente feste, però, in fede alla rottamazione. Solo adesioni online sul sito dei suoi Comitati di azione civile Ritorno al Futuro, con traguardo fissato a 20mila firmatari. A questo punto la domanda sorge spontanea: si potrà mica firmare entrambe le petizioni o si verrà espulsi per direttissima dal partito? Cari coniugi Kramer, quando siete in comodo fateci sapere.

Di Maio ancora contro Atlantia: “Revocare presto le concessioni”

Nuovo attaccodel vicepremier pentastellato Luigi Di Maio contro Atlantia. Il ministro dello sviluppo ha riacceso la polemica sul crollo del ponte Morandi, invocando l’urgenza di “avviare al più presto il procedimento di revoca” delle concessioni della controllata Autostrade per l’Italia. Immediata la replica dura della società: “Si rigetta in toto ogni accusa generalizzata di mancanza di manutenzione”. E aggiunge: “I difetti evidenziati dalla perizia non erano tali da compromettere la tenuta del ponte”. L’affondo di Di Maio prende infatti le mosse dalla relazione dei periti sulle condizioni del ponte Morandi e arriva poco dopo la pubblicazione dei risultati dei primi sei mesi del gruppo della famiglia Benetton. In Borsa il titolo, che già viaggiava in calo di oltre il 2%, peggiora dopo le parole del ministro, per chiudere la seduta a -3,02% (-2,41% Piazza Affari). I risultati del primo semestre includono il contributo del gruppo Abertis e presentano un utile in crescita a 777 milioni (+46%). La sola Autostrade ha registrato invece un utile in calo a 426 milioni. Sul tavolo dei rapporti tra la società e il Governo è ancora aperto il dossier della Gronda di Genova.

Salvini fa il premier, il Partito degli Affari ormai è la sua corte

C’è chi lo vuole già a Palazzo Chigi. Chi pensa che ci andrà e quindi meglio non rompere i rapporti. Difficile resistere al fascino di Matteo Salvini, a giudicare dalle adesioni delle parti sociali alla convocazione per un nuovo incontro, martedì 6 agosto, al Viminale. “Considerato che la netta maggioranza di voi ha dato la propria disponibilità a continuare la giornata di lavoro il 6 agosto” scrive Salvini nella lettera di convocazione, “Vi confermo che il tavolo di lavoro avviato il 15 luglio, proseguirà al Viminale martedì 6 agosto a partire dalle ore 10 fino alle ore 15 circa”.

Questo vertice si terrà il giorno dopo quello ufficiale, di governo, convocato dal presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. Come si vede si tratta di un appuntamento semplicemente aggiuntivo e, allo stesso tempo, lesivo delle prerogative del premier. Un modo da parte di Salvini per continuare la sua campagna di premier-ombra che ormai punta apertamente a prendere il posto dell’attuale capo del governo. Per sindacati e Confindustria c’erano tutte le condizioni per declinare l’invito anche perché dovrebbe essere interesse diretto delle parti sociali trattare con un governo unito, non con una sua parte. E invece hanno funzionato altre logiche.

La più folgorata sulla via del Papeete sembra essere Confindustria. Che non solo, in un’intervista al Corriere della Sera del suo direttore generale, assicura la presenza all’incontro del presidente Vincenzo Boccia, ma tramite il proprio giornale prende un’iniziativa che sa di politica. “Il 72% degli italiani vuole il voto anticipato” titolava ieri il Sole 24 Ore a tutta pagina pubblicando un sondaggio del professor Roberto D’Alimonte in cui si sostiene la volontà di quasi tutto l’elettorato, tranne quello 5Stelle, di finirla con questo governo e di andare alle urne. Probabilmente per issare a premier l’attuale leader leghista.

Eppure solo una settimana fa, il sondaggio Tecné Srl stimava nel 40,5% la quota di italiani che preferirebbero tornare a votare mentre il sondaggio Ipsos del 16 luglio indicava un giudizio positivo sul governo del 48% degli intervistati e sul presidente del Consiglio pari al 51%. In pochi giorni, quindi, secondo il Sole 24 Ore, si sarebbe strutturata una voglia di urne tra gli italiani che sono ormai in vacanza e magari seguono distrattamente la politica.

L’iniziativa sembra piuttosto una spinta affinché Salvini si muova in quella direzione e fa il paio con il sostegno al suo vertice che sarà fortemente centrato sul tema della Flat tax (ci sarà ancora Armando Siri?) e vedrà solo ministri leghisti.

Anche i sindacati cedono alla lusinga del tavolo nonostante la Cgil confermi che il segretario Maurizio Landini andrà solo a palazzo Chigi il 5 agosto e non si siederà all’incontro del Viminale. Scelta analoga dovrebbe fare la Cisl. Una presa di distanza ma in ogni caso ci saranno le delegazioni delle tre maggiori sigle. E questo in un momento in cui Salvini decide di far salire i toni di “inciviltà” politica, nel senso di giudizi ed espressioni spregiative che in bocca a un ministro destano preoccupazione: si pensi a termini come “zingaraccia” o alle intimidazioni verso i giornalisti.

Lo rileva con molta nettezza il quotidiano dei vescovi, l’Avvenire che in un corsivo pubblicato ieri scrive che “Salvini vuole governare l’Italia, ma per governare servono anche e soprattutto parole decenti e onorevoli”. Lo fa anche la presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, che attacca “l’irresponsabilità di chi, ai più alti livelli istituzionali, continua a soffiare sul fuoco di orrendi pregiudizi”, coincidono con il ricordo del Porrajmos, il massacro di centinaia di migliaia di Rom e Sinti nei campi di sterminio nazisti. Le voci religiose hanno quindi una sensibilità che nella politica e nelle organizzazioni sociali non si nota.

Il punto, però, è che Salvini gioca a fare il premier che ci sarà. In questa direzione anche la mini-scissione di Forza Italia, guidata da Giovanni Toti, tornerà utile. Per la prima volta il leader leghista potrà contare su un’alleanza, Fratelli d’Italia e il movimento del governatore ligure, che non vede più in campo Silvio Berlusconi. Un centrodestra che guarda al futuro e non più al passato. Quello che i poteri legati al partito degli affari chiedono e dal quale i sindacati non riescono a prendere le distanze.

Sandro Gozi e i suoi fratelli. I 27 fantasmi di Strasburgo

Li definiscono “congelati”, “in attesa”, o un po’ più enfaticamente perfino “fantasmi”. Sono i 27 europarlamentari di diversi Paesi, eletti ma non in servizio a Strasburgo, vittime della Brexit prima che accada, e anzi, momentaneamente senza seggio proprio perché non si è compiuta. Tra di loro Sandro Gozi – italiano ma eletto in Francia e ora assunto, con polemiche, da Macron come responsabile degli Affari europei. Che però non è un caso isolato.

In occasione dell’uscita del Regno Unito prevista in primavera, il Parlamento europeo aveva ricalcolato i seggi, che sarebbero passati da 751 a 705. Dei 73 assegnati al Regno Unito ne sarebbero stati ripartiti 27, di cui 5 in più a Francia e Spagna, 3 a Italia e Paesi Bassi, 2 all’Irlanda e uno ciascuno per altri Paesi tra cui Danimarca, Austria, Polonia, Romania e Svezia. Il fallimento di Theresa May e poi l’accordo per far slittare il divorzio tra Londra e Bruxelles al 31 ottobre, ha fatto il resto. Così, una pattuglia di potenziali eurodeputati rimane nel limbo: eletto, ma senza seggio né stipendio.

Tra gli italiani, resta in sospeso il seggio per il forzista Salvatore De Meo, arrivato secondo dopo Antonio Tajani nel centro Italia. Anche Fratelli d’Italia ha il suo scranno in più per Strasburgo, quello del veneto Sergio Berlato. Ma forse il più noto degli europarlamentari italiani in attesa – Gozi a parte – è quello di Vincenzo Sofo, leghista e ideologo del sovranismo, molto vicino all’estrema destra francese, noto per il fidanzamento con Marion Le Pen.

Sui tre, pende però un ricorso presentato a fine luglio che, se accolto dal Tar del Lazio, farebbe subentrare i primi eletti delle liste +Europa, Partito Comunista e Partito Animalista. Come in Italia, anche per quanto riguarda gli altri Paesi, la lista degli eletti effettivi in caso di Brexit non è definitiva, dato che le controversie legali non mancano.

Insomma, nel limbo, la sicurezza del seggio non c’è. Lo ha spiegato all’indomani delle elezioni Barry Andrews, del conservatore Fianna Fail e primo degli esclusi per i seggi addizionali dell’Irlanda. “Siamo ancora in attesa di sapere cosa succede nel frattempo”, aveva detto ai giornalisti, definendo le circostanze attuali “senza precedenti”.

“È una strana situazione, nessuno sa esattamente cosa succederà”, dichiara al sito Politico.eu la danese Linea Søgaard-Lidell, eletta con il partito liberale Venstre. “Potrebbe durare pochi mesi. Oppure cinque anni”. La giovane politica racconta di aver pianificato il trasferimento a Bruxelles insieme al suo compagno, in caso avesse ottenuto il seggio, commentando: “Tutto questo ha avuto un grande effetto non solo sulla mia vita professionale, ma anche personale”.

Tormenti personali ed effetti collaterali di Brexit si fondono in uno strano mix. Che dà luogo a un paradosso: se l’uscita del Regno Unito non si verificasse – come molti europeisti continuano a sperare – i seggi in sovrannumero, sparirebbero. C’è anche chi la prende bene, come Jean-Lin Lecapelle, eletto nel partito di Marine Le Pen e uno dei cinque francesi in attesa: “Sono per il rispetto di quanto ha deciso il popolo, ma Brexit o no, continuo il mio lavoro”.

Ursula vede Conte. La Concorrenza non tocca all’Italia

Ealla fine – dopo Berlino, Parigi, Varsavia e Madrid – Ursula arrivò a Roma. Trattasi della ex ministra tedesca von der Leyen – eletta a metà luglio presidente della Commissione Ue per soli 9 voti col contributo determinante dei 14 eurodeputati grillini – che gira l’Europa tentando di mettere assieme il prossimo esecutivo europeo. Ad attenderla, in questa sua tappa italiana, l’uomo che le ha regalato quei benedettissimi 14 voti, Giuseppe Conte, leader informale della truppa M5S a Bruxelles.

Il rapporto tra i due, insomma, è buono, ma la cordialità non può sostituire la forza in quel ring addobbato coi fiori che è la politica continentale: l’Italia non avrà quello che aveva chiesto alla signora Ursula (la poltrona della Concorrenza) e lei non avrà quel che aveva chiesto al signor Giuseppe (un nome femminile o almeno un tecnico comm’il faut per la prossima Commissione). Roma dovrà “accontentarsi” dei portafogli Commercio o Industria, se va bene, e il nome sarà un politico della Lega e, s’intende, uno tipo Lorenzo Fontana, in grado di far venire l’orticaria a un bel pezzo dei burocrati e dei politici di Bruxelles.

Questo, all’ingrosso, l’esito del primo incontro a due tra Conte e von der Leyen, ieri mattina a Palazzo Chigi. Certo, a tavola non c’è stato solo l’arrosto. Quanto al fumo la presidente tedesca, oltre al rituale accenno alla “crescita”, s’è buttata sui grandi classici come la “riforma del Trattato di Dublino” (quello secondo cui i profughi devono restare dove sbarcano): “Vogliamo che le nostre procedure siano efficaci, efficienti ma anche umane. È necessario rivedere il concetto di ripartizione degli oneri. Sappiamo che Italia, Spagna e Grecia sono geograficamente esposte: è fondamentale poter garantire la solidarietà, ma questo non è mai un processo unilaterale” (piccola frecciata a Salvini). Chiusura sul “cambiamento climatico”, che si porta su tutto e piace pure ai 5 Stelle.

Anche Conte, va detto, non s’è risparmiato sul repertorio standard, citando – tra le altre cose – la riforma della governance Ue e il rilancio del Sud, su cui “chiediamo il pieno sostegno dell’Europa”. Subito ottenuto, almeno a parole.

In mezzo al fumo però, come detto, c’era l’arrosto. Conte ne ha parlato pubblicamente: “Rivendichiamo un portafoglio economico di primo piano, perché riteniamo che sia adeguato alle ambizioni e alle responsabilità che vuole assumersi l’Italia. Siamo disponibili a proporre e concordare il profilo di un candidato il più possibile adeguato per competenze e disponibilità a questo ruolo”.

L’Italia chiede la pesante poltrona della Concorrenza, dalla quale nella scorsa legislatura tanti problemi (dalle banche in giù) ci creò la danese Margrethe Vestager. Il problema è che Vestager, già candidata presidente dei liberali di Renew Europe (Macron e soci), è stata confermata anche nella prossima Commissione: per lei è pronta una poltrona economica di coordinamento che includerà anche pezzi delle sue vecchie competenze (ad esempio quel kamasutra regolamentare detto “divieti di aiuti di Stato”). Insomma, la Concorrenza verrebbe “spacchettata” a maggior gloria della fu spitzenkandidat macroniana: inaccettabile per l’Italia e infatti Conte ieri ha chiesto come unica garanzia a von der Leyen di non assegnarci portafogli depotenziati.

Se così dovrà essere, tra gli “economici” restano solo Industria e Commercio, fuori da quelli la “piccola” Agricoltura: e per sovrammercato potrebbe scapparci una vicepresidenza. La mezza sconfitta sui posti (sempre meglio degli evanescenti Affari esteri per Federica Mogherini “strappati” nel 2014) non nasconde a Conte che la sua vera via crucis sarà sui nomi. La scelta tocca alla Lega e ieri mattina Matteo Salvini ha comunicato al telefono al premier la short list dei papabili: ufficialmente non si sa chi ne faccia parte, ma si tratta solo di politici della Lega. Niente tecnici: candidati di bandiera, per così dire.

Nei palazzi romani si gioca da giorni al “totonomi”: vanno per la maggiore, in ordine di preferenza, il ministro degli Affari Ue Lorenzo Fontana, che in questi giorni lavora col capo al Papeete Beach; il viceministro all’Economia Massimo Garavaglia; la ministra Giulia Bongiorno; l’altro ministro Gianmarco Centinaio.

Come detto, in pole position sarebbe il primo, cioè quello che avrebbe più problemi ad essere confermato: i commissari devono infatti essere “approvati” dalle commissioni di merito dell’Europarlamento. E Fontana – leghista veneto di schietta destra identitaria (con annessa celebrazione della “famiglia tradizionale” contro tutte le altre) – rischia di venir bocciato come successe a Rocco Buttiglione nel 2004, respinto proprio per le sue posizioni su gay e dintorni: vero che il filosofo democristiano correva da commissario alla Giustizia, portafogli che comprende la pari opportunità, ma la voglia di fare uno sgambetto alla Lega potrebbe comunque prevalere. Salvini non si strapperebbe i capelli: l’ennesima dimostrazione, direbbe, che l’Ue non è democratica.

La comica finale

Ormai a parlare di Forza Italia si rischia il vilipendio di cadavere. Però con questo caldo bisogna pure svagarsi un po’. Non so se avete seguito gli ultimi sviluppi. A giugno quel che resta del Caimano nomina due coordinatori di FI: Giovanni Toti e Mara Carfagna. Ma Toti minaccia di andarsene un giorno sì e l’altro pure dal partito che dovrebbe coordinare. E tre giorni fa dà l’annuncio: “Stavolta me ne vado”. Ma si sa com’è fatto: lo chiamano “Io me ne andrei”, alla Baglioni. Dice sempre “Allora io vado”, “Guardate che sto andando”, “Mi avete sentito? Io esco”. Ma nessuno lo trattiene. E alla fine resta. Ma B. pensa che sia uscito e nomina la Carfagna coordinatrice unica. Lei, pur conoscendolo bene da un pezzo, ci crede. E si scorda quanta sfiga porta quella carica: per informazioni, rivolgersi a Scajola, Antonione, Verdini, Bondi e Alfano. Ne ha ammazzati meno il colera. L’altroieri B. riunisce un fantomatico “tavolo delle regole” a cui -non avendone mai rispettata una in vita sua- non partecipa. Toti invece, siccome se n’era andato, c’è. E pure Mara. A un segnale convenuto, B. dirama un comunicato che annuncia un Comitato di Presidenza con Carfagna, Bernini, Gelmini, Tajani e un certo Sestino Giacomoni. Toti scopre di non esserci, si incazza e dice che se ne va, come se non se ne fosse già andato 23 volte: “Oggi sono uscito da FI, ma domani non entro da nessuna parte. E da settembre inizierò un giro per l’Italia”. Quindi siamo alle minacce. Mara, passata in 24 ore da coordinatrice unica a una dei tanti, lascia il Comitato, ma non FI.

L’unico che se ne va davvero è quello che l’ha fondata: cioè B., che con agile mossa fonda “L’Altra Italia”. Nel senso che, dopo aver distrutto questa, ne cerca un’altra. L’annuncio lo dà sul Giornale, in una preziosa intervista a Sallusti, caposcuola della corrente bipolare del giornalismo: nei giorni pari lecca B., nei dispari incensa Salvini e la domenica riposa. Messo a dura prova dalle sue domande incalzanti -testuale: “Presidente, che sta succedendo. Lancia un nuovo predellino?”- il fu Caimano risponde: “Lancio l’Altra Italia dei veri italiani. Non sarà un partito, ma la casa di chi salverà il Paese”, “una federazione fra soggetti di centro-destra che si ispirano alle idee e ai valori liberali e cristiani e alle tradizioni garantiste della civiltà occidentale”. Tradotto: i soliti pregiudicati che vanno in chiesa e rubano pure dalla cassetta delle offerte. Il marchio, ancor prima del deposito Siae, è già un trionfo: “Poco tempo dopo la nostra uscita molte realtà politiche e civiche e personalità di primo piano hanno risposto positivamente al nostro appello”.

Non solo: “Altri si sono interessati e ci raggiungeranno: siamo solo all’inizio”. L’ingresso a Palazzo Grazioli è già transennato per contenere l’assalto. “È il segno che c’è una grande voglia di darsi da fare per liberare l’Italia da questa situazione disastrosa”, come del resto si era evinto dalle elezioni europee, con le forze di governo sopra il 51% e FI che vuole salvarci da loro all’8. Della fiumana di prestigiose adesioni, B. non fa un solo nome. Ma il Giornale anticipa in esclusiva il meglio dei “politici, manager, rappresentanti della società civile ed esponenti provenienti dalla trincea del lavoro” ansiosi di “riaccendere la scintilla del centro moderato”. Tenetevi forte: c’è l’ex ministro Maurizio Lupi, che paragona B. a “don Sturzo che trascorse anni a girare l’Italia per risollecitare pezzi di società viva”, “molto colpito in particolare dal suo riferimento alla gratuità”, che è da sempre il suo forte. C’è l’ex candidato trombato in Lombardia Stefano Parisi “con la sua Energie per l’Italia, forte del tour della Penisola alla ricerca di persone disposte a dare un contributo politico”. C’è l’ex-governatore campano Stefano Caldoro. C’è Clemente Mastella. Ci sono l’ex-sottosegretario Mino Giachino, reduce dalle marcette Sì Tav con le madamine; l’ex deputato ed ex inquisito siciliano Saverio Romano; l’ex-tutto Fulvio Martusciello. E – udite udite – “Daniele Priori, di Gaylib (i gay di centrodestra) e Francesco Pasquali, ufficio di segreteria nazionale del Pli”, che è un po’ come dire aiutante di campo di Annibale. Più che l’Altra Italia, ricorda quella che si sperava archiviata per sempre. Mancano solo Dell’Utri e Formigoni, momentaneamente agli arresti domiciliari, e Matacena, latitante.
Quindi il partito c’è e la federazione pure: mancano solo gli elettori, ma che saranno mai. I candidati invece stanno arrivando a frotte. Li contatta personalmente B. con le sue badanti, come Carlo Verdone di Un sacco bello che compulsa freneticamente l’agendina semivuota a caccia di un compagno di viaggio last minute : alla lettera E c’è “Elettrauto Silvano”, alla F “FFSS informazioni”, poi più nulla fino alla O di “Olimpico stadio” e alla S di “Stadio Olimpico” e “Sarta Adriana”. Allora chiama un ex-compagno di scuola, ma trova il fratello: “Senti, noi ancora non ce conosciamo, io so’ ‘n’amico de tu fratello. Siccome me s’è creata ‘na situazione strana e me s’è liberato ‘n posto in machina pe’ ‘n viaggio che m’ero organizzato ‘n Polonia, volevo sape’ se a tu fratello je ‘nteressava. É reperibile? É rintracciabile? ’O devo sape’, perchè c’ho ‘n’altro che m’ha già dato ‘na mezza risposta. A te per esempio te ‘nteresserebbe? Ma quanti anni c’hai? Ah, tredici. Vabbè, restamo ‘n contatto…”. “Pronto Amedeo, ciao, so’ Enzo! No Renzo, Enzo! Se te ricordi bene ce semo conosciuti du’-tre mesi fa ar Distretto militare in coda a pijà er duplicato der congedo. Io ero quello che stava dietro de te co’ la majetta de spugna girocollo, tipo mare… Volevo sape’ com’eri messo pe’ feragosto, perchè c’ho un progetto abbastanza str… Ah, ‘o passi co tu moje? Vabbè, buon feragosto! Anche a tu moje! Sarà pe’ ‘n’rtra vorta”. O per un’Altra Italia.

La top ten dei parlamentari: Camilleri, “M”, Sacchi (Arrigo)

Almeno nei gusti letterari, la classe politica è lo specchio del Paese: in spiaggia, da leggere, si porta Camilleri, Scurati, Auci, i bestselleristi di stagione. Non mancano, poi, guizzi originali – tipo il Grand tour nei monasteri –, qualche ovvietà – la rilettura dei Promessi sposi – e il titolo-mattone-ferma-ombrellone (leggasi: classico) come La montagna incantata. Buona per chi non vola con le compagnie low cost: Mann, da solo, vale il peso del bagaglio consentito.

Che l’umore del vicepremier, e ministro dell’Interno, Matteo Salvini si sia incupito lo rivelano pure le sue letture: qualche giorno fa era stato paparazzato in spiaggia con il conciliante, fin poetico, Terra degli uomini di Antoine de Saint-Exupéry, mentre in queste ore si sta spupazzando libri ben più truci, come Nella terra del niente. Storie di scomparse, storie di famiglie di Nicodemo Gentile e Milano assassina di Fabrizio Carcano. Petit Prince adieu, Bonjour tristesse.

“Quell’altro” (cit.) vicepremier, Luigi Di Maio, lo immaginiamo, invece, ancora alle prese con la monumentale Storia d’Italia di Indro Montanelli, che – ha confessato – occupa un intero scaffale della libreria nel suo ufficio. Anche la collega di partito (M5S) Laura Castelli – viceministro dell’Economia – si dà alla saggistica spinta: Ecologia del diritto di Fritjof Capra e Ugo Mattei, Sicurezza è libertà di Marco Minniti e Le interpellanze parlamentari di Leonardo Sciascia, riaffabulate anche da Andrea Camilleri nel volume Un onorevole siciliano.

Sciascia – nel Movimento 5 Stelle – tira: Nicola Morra, presidente della Commissione antimafia, sta rileggendo Il giorno della civetta e il classico di Manzoni, e sta leggendo L’illegalità protetta di Rocco Chinnici e La lingua geniale di Andrea Marcolongo. Letture forti anche per la senatrice del Pd Anna Rossomando: De valoribus disputandum est di Laura Pennacchi, la famigerata Montagna incantata e Lonesome Dove di Larry McMurtry, un romanzo di appena 952 pagine. Impegno e pensosità pure per Monica Cirinnà, che ha in programma La buona politica di Paolo Pombeni; Se i gatti scomparissero dal mondo di Kawamura Genki; La corsara di Sandra Petrignani.

Se curiose sono le scelte di Roberto Fico, presidente della Camera (M5S), e di Guglielmo Epifani, deputato di Leu (rispettivamente, Aprile spezzato di Ismail Kadare e Il filo infinito di Paolo Rumiz), più convenzionali sono i titoli dei dem: Davide Faraone legge Aria di Marzia Sicignano; Marie la strabica di Georges Simenon (altro titolo gettonato tra i parlamentari); I leoni di sicilia di Stefania Auci. Stesso romanzo di Simona Malpezzi, che si sta dedicando poi al Collegio di Tana French, alla Famiglia Aubrey di Rebecca West e ai Goldbaum di Natasha Solomons. Infine, nel Pd, Franco Mirabelli sta leggendo M di Antonio Scurati, fresco di Premio Strega, Tutta un’altra musica di Nick Hornby e Rosso mafia di Nando Dalla Chiesa.

E siamo di nuovo alla saggistica, prediletta dal leghista Lorenzo Fontana, da poco ministro per gli Affari europei, sul cui comodino stanno: La visione di Trump di Germano Dottori; Notre-Dame brucia di Giulio Meotti; Il suicidio della rivoluzione di Augusto Del Noce. Reggerà il comodino? Non molto più leggero quello di Renato Brunetta, che tra una rilettura e l’altra dell’Autunno del Medioevo di Johan Huizinga – il suo “libro della vita” – si sciropperà le cinque opere finaliste del Campiello: è in giuria. Tra i suoi sodali in Forza Italia Giorgio Mulé e Stefania Prestigiacomo hanno appena finito la succitata saga gattopardesca della Auci: il primo si dedicherà ora a Le benevole di Jonathan Littell e alla (sempre succitata) Strabica di Simenon; la seconda a Shantaram di Gregory David Roberts e Fedeltà di Marco Missiroli. Più impegnativi i titoli di Francesco Paolo Sisto (Daniel Barenboim, La musica sveglia il tempo; Nicholas Falletta, Il libro dei paradossi; Bruno Munari, Arte come mestiere; Raffaello Magi, Le trappole del ricorso per Cassazione), mentre c’è chi candidamente ammette di leggere libri pop, senza darsi troppe arie: Giuseppe Moles ha in valigia Il cuoco dell’Alcyon di Camilleri e The Outsider di Stephen King; Silvio Berlusconi, invece, è volato in Sardegna con La coppa degli immortali di Arrigo Sacchi.

A Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) hanno regalato Sottomissione di Michel Houellebecq: si sorbirà questo, in ferie, più le 57 favole, un suo libro dell’infanzia che leggerà alla figlia Ginevra, proprio come consiglia il Mibac per promuovere la lettura tra i bambini. Sì, ma cosa si legge in quel ministero? Alberto Bonisoli è diviso tra Sfido a riconoscermi di Angelo Guglielmi e M di Scurati, mentre il sottosegretario Gianluca Vacca (M5S) sta con altri finalisti allo Strega: Missiroli e Claudia Durastanti (La straniera), più l’Autobiografia del blu di Prussia di Ennio Flaiano, un salvagente contro la noia, della narrativa italiana soprattutto. Non pervenuta, invece, la sottosegretaria Lucia Borgonzoni (Lega): l’ultima volta aveva detto di non leggere libri da tre anni. Ormai sono quattro.

Pavese amante segreto della catechista Letizia

Doveva essere la primavera del 1949, nei giorni in cui Cesare Pavese (1908-1950) stava terminando di scrivere Tra donne sole, uno dei tre romanzi che compongono La bella estate. C’è un appunto nel diario, Il mestiere di vivere, datato 26 maggio 1949, che ne attesta la conclusione: “Finito oggi Tra donne sole. Gli ultimi capitoli scritti ciascuno in un giorno. Venuto con straordinaria, sospetta facilità”.

Magari è facile in quelle settimane anche il rapporto dello scrittore di Santo Stefano Belbo con Letizia, una giovane donna che insegna il catechismo alle bambine che frequentano l’oratorio della chiesa torinese della Santissima Annunziata. È un edificio secentesco, ma rifatto tra il 1919 e il 1934, situato nell’antica via Po, nel cuore della città; una strada che è al centro di Tra donne sole, come ricorda Clelia, la protagonista del romanzo, che in via Po ci va ogni giorno per allestire una boutique. “Soltanto le ore che passavo in via Po”, si legge nel libro, “non mi parevano perdute”.

Nelle biografie di Pavese, invece, la memoria di Letizia si è persa. Nessuna lettera, nessun biglietto, nessun accenno tra le carte pavesiane conservate all’Università di Torino. Non è neppure menzionata tra le donne sconosciute, delle quali non si è potuto stabilire l’identità, menzionate fra il 1948 il 1949 nel Mestiere di vivere, come Vanna, Filippa, Marisa, Irene. Solamente Emilio Azteni, che da anni gestisce una pittoresca e nota birreria della vecchia Torino, se la ricorda. E rammenta che a quell’epoca, sul finire degli anni Quaranta, tra i ragazzi e le ragazze dell’oratorio dell’Annunziata si diceva: “La catechista Letizia e lo scrittore Pavese escono assieme”.

Si incontravano con ogni probabilità mentre Pavese stava lavorando a Tra donne sole. Forse passeggiava con Letizia sotto i portici di via Po, fermandosi in qualche caffè, come il Caffè Elena, tuttora esistente. Com’era Letizia? “Alta e magra, graziosa”, dice Azteni, “e portava gli occhiali. Me la ricordo abbastanza bene, come ricordo che si diceva che fosse un’amica o la donna di Pavese. Lui, però, non me lo rammento, credo di non averlo mai visto. Qualcuno, comunque, lo aveva incontrato dalle parti dell’Annunziata, mentre fumava la pipa”.

Fu una vera relazione quella fra Pavese e Letizia, oppure una frequentazione sporadica? Chissà. Certo è che nella vita sentimentale – travagliata – dell’autore di La bella estate, segnata dalle passioni per Tina Pizzardo, Fernanda Pivano, Bianca Garufi e Constance Dowling, c’è stata un’altra donna, Elena Scagliola, l’identità della quale è rimasta sconosciuta fino a pochi anni fa. Un’assenza motivata, innanzitutto, dalla morte di lei, appena tre anni dopo il suicidio di Pavese, avvenuto il 27 agosto 1950; e poi dalla decisione, da parte di una sorella della donna, di bruciare le lettere inviatele dallo scrittore dagli inizi degli anni Trenta al 1942.

Il tempo cancella, a volte restituisce. Un pronipote di Elena, Paolo Scagliola, scoprì in casa, ad Alba, le copie di alcune poesie che Pavese aveva dato a Elena. Ne parlò con Ugo Roello, a lungo responsabile della Biblioteca “Luigi Einaudi”. I due andarono a trovare l’avvocato Igino Scagliola, anziano fratello della donna e nonno di Paolo. Così Elena Scagliola riemerse dall’oblio, e dunque la storia di una giovane donna bruna e minuta, libera (amava fumare il toscanello), vivace e colta, che non aveva esitato ad andare a vivere da sola per qualche mese in Francia per potere perfezionare il suo francese, che avrebbe insegnato. Era nata e cresciuta in una agiata famiglia di commercianti di vino di Santo Stefano Belbo.

L’avvocato Igino Scagliola, fratello di Elena, morto qualche tempo fa, ricordava bene la prima volta che vide Cesare in casa sua, a Santo Stefano Belbo. Era il periodo in cui lo scrittore veniva a trascorrere qualche giorno nel suo paese, affittando una stanza alla trattoria della stazione, nei pressi dell’abitazione di Elena. Raccontò l’avvocato: “Doveva essere settembre, si era all’imbrunire. Rientravo dopo avere fatto la mia partita di biliardo. In salotto trovai tutto buio. In un angolo mia mamma sonnecchiava su una poltrona. Pavese e mia sorella erano seduti sul divano, lui stava con le braccia dietro la testa, appoggiato allo schienale, e guardava verso il soffitto. Nessuno parlava. Ho acceso la luce, ci siamo salutati. Dopo, quando Pavese se ne è andato, ho chiesto a mia madre che cosa avesse detto ad Elena. E lei: ‘In due ore non ha detto una parola’. Ma è probabile che non parlassero perché non erano soli, come avrebbero preferito”.

Elena, nata nel 1899, morì nel 1953, dopo essersi sposata con un cugino nel 1947. Quando la sorella Gisella riordinò le sue carte, si imbatté nelle lettere di Pavese. E volle bruciarle. Del loro amore, allora, scomparve ogni traccia, fino al giorno in cui un pronipote scoprì le copie di quelle poesie. Accadrà anche per Letizia, la catechista della Santissima Annunziata?

Condividere il “mate” in periferia a Baires

Buenos Aires, maggio 2017. Lina veniva tutti i giorni a sbrigare le faccende di casa e io la seguivo di stanza in stanza per interrogarla sulle periferie della città. Ero ospite in un grattacielo di venti piani che dava sul Río de La Plata, in uno dei quartieri più lussuosi della capitale. Lina catturò la mia attenzione sin da subito. In pochi giorni diventammo amiche. “Dimmi qualcosa delle villas miserias?”, le chiedevo mentre mi preparava la colazione. E lei divagava. “Ti ho comprato l’abbonamento dell’autobus. Vai a Plaza de Mayo e smettila di pensare alle villas miserias”, mi rispondeva. Il giorno seguente tornavo sull’argomento e la scena si ripeteva, fino a quando cedette. “Vivo vicino a una villa miseria, domani vieni con me”, furono le sue uniche parole.

La mia gita verso la periferia di Baires iniziò poco prima di pranzo. Avrei voluto comprare dolci da portare alla sua famiglia, ma lei non volle. Mi disse che il pranzo c’era. Prendemmo tre autobus e un taxi abusivo. Un’ora dopo dal finestrino guardavo le baracche di una delle villas miserias più note per narcotraffico e sequestri. “Qui puoi scattare una foto – mi avvertiva il tassista –. Qui, invece, no”. Quando, d’un tratto, l’auto si fermò e Lina mi intimò: “Scendi e resta dietro di me”. Ci intrufolammo tra le lamiere. “Esta es mi casa. Bienvenida”, mi disse guardandomi negli occhi. Dentro mi attendevano una decina di bambini e le loro madri. Per pranzo c’erano delle gallette di riso e il mate, che bevemmo rigorosamente dalla stessa cannuccia. Ciascuna delle invitate a turno mi raccontò la sua storia. I sussidi dello Stato che tardavano ad arrivare, i mariti morti negli scontri con gli agenti, i bambini che crescevano in fretta. Vite da villa miseria che Lina, con mia grande sorpresa, aveva deciso di condividere con me.