Vatti a fidare di Google Translate. Avrebbero voluto farsi beffa delle indagini sull’incontro all’hotel Metropol e sui soldi arrivati da Mosca al Carroccio e così i responsabili della Lega di Isola e Val San Martino, in provincia di Bergamo, hanno fatto stampare delle magliette verdi con una scritta in cirillico in occasione della “Festa di Pontida”, una delle roccaforti leghiste. Dopo aver inserito il nome della rassegna, il risultato in russo suonava come “Partito di Pontida”. Nessun cambio di nome e nessuna scissione, soltanto un errore ingenuo. “Per fortuna ne avevamo stampate poche”, ha detto all’edizione bergamasca del Corriere della Sera Christian Colleoni, responsabile di zona del Carroccio. Soltanto a cose fatte l’errore è stato notato da alcuni conoscenti che parlano russo. Eppure sarebbe bastato chiedere all’Associazione Lombardia-Russia di Gianluca Savoini e Claudio D’Amico, la cui moglie è stata interprete di russo per Umberto Bossi. Ora le magliette sbagliate finiranno in uno scantinato, mentre quelle corrette saranno vendute in occasione del partito. Scusate, in occasione della festa.
“Università e musei devono collaborare: NY ha nostri reperti”
Se uno (ostinatamente) vuole affidarsi agli stereotipi, Gabriel Zuchtriegel è quadrato e serio esattamente come vuole la leggenda teutonica, e con una leggera inflessione tedesca. Per il resto è quasi napoletano: “Quattro anni fa, quando sono arrivato in città, stracarico, con tutta la famiglia, ho immediatamente scoperto un’altra realtà: i vicini sono scesi per darci una mano, alcuni ci hanno aiutato a montare i mobili di Ikea e la signora del pianerottolo ha messo a disposizione la sua cucina in attesa dell’arrivo della nostra. Che meraviglia. Subito accettati, subito in famiglia, subito convivialità”.
Gabriel Zuchtriegel era lì perché a 34 anni, il più giovane in Italia, era stato nominato direttore responsabile del Museo Archeologico Nazionale di Paestum, incarico pochi giorni fa confermato.
Direttore…
Posso dire? Sono felice.
Ci sta.
Così posso proseguire con quanto realizzato finora.
A partire da?
Poche settimane fa ci siamo riuniti con sindaco, prefetto e soprintendente per ragionare sulla legge di tutela del 1957, e sul divieto di edificabilità e modifica delle strutture esistenti a un chilometro dal sito.
E…
Quella legge del 1957 è stata violata migliaia di volte con abusi drammatici: è inutile parlare di valorizzazione e tutela se il paesaggio attorno è distrutto.
Purtroppo è storia.
Sì, ma ciò compromette la fruizione e la valorizzazione, e di conseguenza viene meno la ricerca archeologica.
C’è un “però”?
Sono ottimista perché il Segretario generale del ministero della Cultura, per la prima volta da sessant’anni, ci ha dato priorità e attenzione rispetto a questa problematica.
Paestum è ancora una miniera?
A livelli che non possiamo immaginare. Qualche mese fa, durante un lavoro di manutenzione e disboscamento per la fruibilità delle mura, abbiamo ritrovato frammenti molto importanti di un edificio dorico.
Tipo?
L’angolo di un fregio, il cornicione, intonaco con sopra ancora del colore; per questo vogliamo avviare una ricerca sul campo.
Nel frattempo.
Abbiamo portato i reperti al museo e li restauriamo davanti al pubblico; sarebbe importante avere i margini di ricerca.
Non è così…
La ricerca è affidata esclusivamente alle università e non ai musei: per me la pluralità sarebbe più importante, perché ognuno ha un proprio approccio.
Invece.
I musei sono istituti con competenze legate alla ricerca, ma queste competenze non vengono riconosciute dal Miur, così non possiamo candidarci per i progetti e i finanziamenti europei.
All’estero è possibile?
Anche in altre nazioni c’è la divisione dei compiti, laddove il museo racconta la ricerca, l’università la pratica.
E allora?
Sono cambiati i tempi: un museo che non si occupa di ricerca è destinato a morire; non si può vivere solo di marketing.
Si rischierebbe il conflitto con le università.
No, sarebbe competizione, e la considero sana. E grazie all’Europa aumenterebbero i budget.
Quanto personale ha il museo?
80 a tempo indeterminato più gli stagionali, ma un tempo solo per i custodi erano 140; insomma siamo al limite, e la questione riguarda tutta l’Italia.
Scavi clandestini?
Il fenomeno esiste ancora, per fortuna ridotto rispetto ai decenni 70 e 90.
Ma…
La colpa non è più solo dei collezionisti con villa e yacht, ma anche dei musei stranieri e pure importanti.
Come è possibile?
Non vogliono sapere l’origine o fingono di non conoscerla.
Ripeto: come è possibile?
Al Getty di New York è esposto un Lisippo, al Metropolitan una lastra dipinta che arriva da Paestum e sull’etichetta è specificato solo “Campania”.
Come è entrata?
Nel 1994 e come acquisto da collezione privata, senza altra informazione. Comunque ora c’è la questione Internet, che ha allargato il mercato parallelo verso oriente.
Numero visitatori a Paestum?
Quando sono arrivato nel 2015 erano 300 mila all’anno, nel 2018 siamo arrivati a 430 mila.
Non male.
Sì, ma non bisogna esagerare: chi entra in un museo deve avere la piena possibilità di goderne, crescere, avvertire l’esperienza culturale. Altrimenti si è solo parte di un gregge.
@A_Ferrucci
26 agosto, muore Ligato. Nasce l’Italietta vigliacca
I giornalisti trentenni degli anni ’80 erano bravi a capire che c’era qualcosa da capire. I quaranta-cinquantenni erano bravissimi a fingere di aver già capito. Anche politici e manager credevano di capire tutto: lo provava il fatto che fossero classe dirigente. Solo che non hanno capito il 1989, e la prova è che poco tempo dopo non erano più classe dirigente. Non hanno capito la fine del comunismo e la globalizzazione. Il futuro bussava alla loro porta e i Craxi, gli Andreotti, i Forlani, ma anche gli Agnelli e i De Benedetti, pensarono bastasse fingere di non essere in casa. Piccoli uomini prepotenti, presuntuosi, provinciali e ignoranti che hanno innescato il declino italiano credendosi infallibili solo perché i giornalisti loro dipendenti, un po’ servi e specchi delle loro brame, glielo facevano leggere ogni mattina.
Dopo 30 anni è possibile mettere in fila le cose. E ripartire da quella notte del 26 agosto, quando nei pressi di Reggio Calabria alcuni killer assoldati dalla ’ndrangheta massacrarono con 26 (ventisei) colpi di pistola (una Glock, l’arma dei servizi segreti) l’ex presidente delle Ferrovie dello Stato Lodovico Ligato, 50 anni appena compiuti. La misteriosa morte di Ligato simboleggia il suicidio della Prima Repubblica. L’estroverso esponente della Dc calabrese, pupillo di Riccardo Misasi, era uno degli uomini più potenti d’Italia. Sulla sua scrivania giravano piani d’investimenti ferroviari oggi misurabili in 50-100 miliardi di euro (fino alla caduta del muro di Berlino l’Italia era piena di soldi assicurati dall’America pro bono pacis, per così dire, e gli sventurati non videro che la pacchia stava finendo). Il cadavere di Ligato era ancora caldo e già veniva diffusa la vulgata liberatoria: regolamento di conti tra mafiosi. Era la tipica storia anni ’80 su cui un giornalista con poca esperienza si buttava pensando: “Qui si capirebbe tutto, se solo fossi in grado di capirlo”. Nessun politico andò al funerale, nemmeno il suo padrino. Solo un politico calabrese, il socialista Giacomo Mancini, spese parole decenti per il trucidato marchiando Misasi a lettere di fuoco: “Una sfinge gelida, di pietra e senza pietà, senza un fremito di umanità nei confronti dell’amico ucciso”. Poi incoraggiò il giovane cronista con una rivelazione a metà: “Indaghi, indaghi. Si ricordi che pochi giorni prima di essere ucciso Ligato mi venne a trovare e mi disse che aveva deciso di rivelare molte cose che sapeva”.
Che cosa sapeva Ligato? Sapeva che nel novembre 1988 l’aveva disarcionato dalle Fs un’inchiesta giudiziaria farlocca, passata alla storia come “lenzuola d’oro”, uno di quei capolavori della malagiustizia che piacciono molto ai garantisti a gettone e in cui la procura della Repubblica di Roma eccelle da sempre. Ligato voleva costruire la ferrovia ad alta velocità e il sistema politico bollava i suoi piani come faraonici. Dopo 30 anni è tutto più chiaro. Ligato voleva bandire le gare d’appalto internazionali previste dalle regole europee sul mercato unico che dovevano entrare in vigore il 1° gennaio 1993. Due anni dopo la sua morte le Fs di Lorenzo Necci affidarono l’alta velocità a trattativa privata ai sette consorzi guidati dall’Iri e dall’Eni (pubblici) e dalla Fiat e dalla Montedison (privati). Il disegno era di tagliare fuori la concorrenza straniera per riservare il grande affare ai costruttori italiani e tenerli indenni dal futuro che stava incominciando.
Nella morte dimenticata di Ligato si riassume il 1989 italiano che inizia con la cacciata dalla Fiat di Vittorio Ghidella. Il padre della Uno e della Thema vuole giocare la partita facendo auto migliori.
Gianni Agnelli e Cesare Romiti invece decidono di difendere dalla globalizzazione i loro “tesoretti” mollando ai clienti di un mercato protetto la Duna, e allargando il loro potere su tutto ciò che muove denaro. Il 2 maggio la Fiat compra la maggiore impresa di costruzioni, la Cogefar di Franco Nobili, e crea la Cogefar-Impresit, gigante destinato a fare la parte del leone nell’alta velocità. Il 14 maggio Bettino Craxi e il segretario della Dc Arnaldo Forlani stringono a margine del congresso socialista di Milano il patto del camper, che porterà alla caduta di De Mita e alla nascita del governo Andreotti, dando corpo al cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani). Eugenio Scalfari lo definisce “un accordo dal quale emergono alcuni lineamenti di regime, un organigramma spartitorio e, come presto vedremo, una divisione di spoglie negli enti e nelle banche”. Pochi giorni dopo l’Iri di Romano Prodi (creatura di De Mita) consegna il Banco di Santo Spirito alla Cassa di Risparmio di Roma dell’andreottiano Cesare Geronzi che poi si prenderà dall’Iri anche il Banco di Roma. In poche settimane, in nome del “primato della politica”, Prodi viene comunque cacciato dall’Iri e sostituito proprio da Nobili, altro andreottiano a 24 carati. Franco Reviglio viene sostituito all’Eni dal socialistissimo Gabriele Cagliari. Si chiude la stagione dei “professori”, si torna ai lottizzati. Credevano di blindare il proprio potere, stavano solo innescando la crisi terminale della loro Italietta vigliacca e impaurita che avrà la prima esplosione tre anni dopo con Mani Pulite. Aiutati anche dall’incidente che ha tolto di mezzo Carlo Verri, 50 anni come Ligato, l’uomo a cui Prodi aveva chiesto di rendere decente l’Alitalia. Il 6 novembre, tre giorni prima della caduta del muro di Berlino, un autobus dell’Atac, per una volta puntuale, travolse la sua Thema uccidendo lui e l’autista. Pare che fossero passati con il rosso. Una tragica casualità che incarnò lo spirito dei tempi.
Settanta donne arrestate: andavano in bicicletta
Le donne in Iran possono scegliere le facoltà universitarie che preferiscono ma è meglio se non vanno a seguire le lezioni in bicicletta. Intanto perché è un mezzo considerato non consono alla morale dato che pedalando le donne potrebbero mostrare le caviglie e, al contempo, non accorgersi che il chador (hijab) è scivolato lasciando scoperti i capelli. In questi giorni circa 70 donne cicliste hanno pedalato assieme fino a piazza Vali-Asr, nel centro della capitale Teheran. Gholam Hossein Ismaeli, portavoce della magistratura, ha confermato la notizia degli arresti spiegando che il motivo delle misure cautelari è da attribuirsi alla violazione delle regole di “castità e Hijab”.
Anche se Massoumeh Ebtekar, incaricato del presidente Rouhani per le questioni familiari e femminili, aveva confermato che “in Iran non esistono regole che possano impedire alle donne di andare in bicicletta”, il modo per impedirlo viene sempre trovato dalla polizia per la morale pubblica. Una ricerca condotta dall’Office of Cultural Studies del Centro di ricerca del parlamento ha indicato che circa il 70% delle donne iraniane non crede nel codice di abbigliamento obbligatorio, nonostante questo, anzi proprio per questo, il regime islamico sciita ha intensificato la pressione. Abol-ghassem Shirazi, presidente dell’Unione dei produttori e grossisti di abbigliamento di Teheran, ha annunciato che stanno implementando un piano per impedire la produzione e la vendita di mantelli femminili trasparenti o aperti. Nella provincia di Gilan, nel nord dell’Iran, il comandante della Forza di sicurezza dello stato, Mohammad Reza Is’haghi, ha annunciato di aver inviato 66.000 messaggi ai cellulari dei conducenti di mezzi pubblici chiedendo di denunciare le passeggere che lasciano cadere il velo o lo spostano mostrando parte dei capelli.
Biden resiste agli attacchi dei rivali
Tutti contro Trump. E questo è ovvio. Ma, soprattutto, tutti contro Joe Biden: non solo Kamala Harris, la senatrice della California che, dopo il primo dibattito, è entrata tra i Fab Four, ma anche gli altri per ora outsiders di questa affollata corsa alla nomination democratica per Usa 2020. Il che significa che, nonostante gli attacchi subìti e le gaffes ripetute – pure l’altra sera, sul palco di Detroit -, Biden resta fin qui il battistrada e il candidato da battere e, quindi, da abbattere. Un’operazione cui, da mesi, dà un contributo la stampa di qualità Usa, anti Trump, ma non pro Biden. New York Times, Washington Post, Los Angeles Times sono unanimi nel giudicare l’ex vice di Barak Obama, e prima senatore del Maryland per 36 anni, figura troppo legata all’ establishment per battere Donald Trump. Biden è entrato nel dibattito sotto pressione: gli si chiedeva di meglio articolare e focalizzare il suo messaggio. Se l’è cavata e questo, per il momento, gli può anche bastare. Tanto più che i suoi rivali diretti l’altra sera non hanno particolarmente impressionato: Harris, che non poteva più contare sul fattore sorpresa, è stata aggressiva, forse troppo; altri, il senatore Cory Booker, nero, l’ex ministro di Obama e sindaco di San Antonio Julian Castro, ispanico, e l’imprenditore filantropo Andrew Yang, che la prima volta aveva quasi fatto scena muta, hanno preso voti discreti sulle pagelle dei media americani.
Sono saliti sul palco del Teatro Fox come candidati minori e ne sono scesi senza stellette, il governatore dello Stato di Washington Jay Inslee, un progressista; il senatore del Colorado Michael Bennet, un moderato; e la deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard, volontaria nella guerra in Iraq, che però lascia intravedere delle potenzialità. Ne scendono peggio messi di come vi erano saliti il sindaco di New York Bill de Blasio, al secondo flop consecutivo, e la senatrice di New York Kirsten Gillibrand, una paladina di #Metoo. Nella media delle pagelle dei commentatori del New York Times, Booker è l’unico a meritarsi un 7, mentre gli altri stanno intorno alla sufficienza, magari stiracchiata, tranne la Gillibrand e de Blasio, bocciati. I vari fact checking delle affermazioni fatte puniscono Biden, ma per uno dei suoi soliti lapsus, non per una questione di sostanza: ha cioè sbagliato la referenza per le donazioni alla sua campagna. Lato contenuti, a Detroit s’è parlato di razzismo – quello di Biden, non quello di Trump – e d’immigrazione (e Biden finisce sotto attacco perché definisce “un reato” l’immigrazione illegale), di giustizia e d’assistenza sanitaria, di marijuana (e qui la Gabbard mette sulla graticola la Harris) e di clima.
Ma nella memoria resta il “Vacci piano con me, kid”, ragazzina, con cui Biden si rivolge alla Harris; che lo chiama ‘senatore’, invece che ‘vice-presidente’. Contrasti, ma un minimo comune denominatore: l’imperativo di battere un presidente volta a volta “razzista”, “suprematista”, “predatore”. La Harris è per l’impeachment; gli altri tirano il freno, perché i tempi sono stretti e perché il Senato a maggioranza repubblicana lo assolverebbe.
Sánchez, ultima trovata: il governo “portoghese”
Un governo “alla portoghese”, vale a dire un esecutivo monocolore di minoranza socialista in grado di guidare il Paese grazie all’appoggio esterno di una coalizione progressista di sinistra. È questa la via che da ieri il premier spagnolo incaricato, Pedro Sánchez, ha intrapreso per rimediare al fallimento del “governo di coalizione”, accantonato la settimana scorsa dopo il rifiuto dalla sinistra radicale Unidas Podemos di Pablo Iglesias che non ha gradito l’offerta al ribasso dei ministeri.
Il re Felipe VI ha concesso più tempo a Sanchez che ha deciso di tentare così la strada del coinvolgimento delle parti sociali e dell’associazionismo dei diritti che tanto può a sinistra per spingere Podemos, ma anche altri soggetti politici interessati a sottoscrivere il suo progetto.
L’obiettivo – ha scritto in una lettera ai militanti del Psoe – è continuare il percorso delle riforme sociali ed economiche e non trascinare di nuovo il Paese alle urne.
“La situazione è abbastanza complessa, anche se c’è ancora più di un mese per poter ricomporre il quadro”, ne è convinto Stefano Sannino, ambasciatore italiano in Spagna che vive a Madrid dal 2016, secondo cui però “l’alternativa del voto non sarebbe compresa dall’elettorato. Il jolly te lo puoi giocare una volta – ricorda riportando l’esempio delle Politiche del 2015 ripetute nel 2016 – altrimenti sembra un po’ strano che per la seconda volta consecutiva si arrivi alla ripetizione elettorale come se le prime votazioni non contassero: quattro elezioni in quattro anni senza contare Regionali ed Europee. C’è anche una fatica e una stanchezza dell’elettorato che si è espresso. Ora sta alla classe politica ritrovare un punto di equilibrio”. I sondaggi su questo sono chiari. Il Psoe è dato al 40% ma pur sempre impossibilitato a governare da solo. “La verità è che la Spagna era abituata a un quadro politico più semplice – continua Sannino – si è passati da due partiti nazionali a cinque con il voto più frammentato e quindi la necessità di creare delle coalizioni”. Ma il quadro si è complicato anche per la questione catalana, con i leader indipendentisti in carcere in attesa di una sentenza e Podemos che su questo tema ha posizioni diverse dai socialisti, che hanno una linea unitaria e non per il referendum”, ricorda l’ambasciatore italiano, secondo cui però a pesare di più sul fallimento del governo di coalizione è stata “l’idea che fossero i socialisti a portare Podemos al potere; Sánchez ha prima chiesto a Ciudadanos e Popolari di astenersi sul voto di fiducia e poi si è rivolto a Iglesias, come a dire ‘siete voi che mi costringete a fare il patto con Podemos’, io non volevo”.
Un accordo che, se continua a essere l’unico possibile per gli elettori di sinistra, – ieri l’ultimo sondaggio dava d’accordo con nuove elezioni solo il 5% dei militanti Psoe e Unidas Podemos, contro il 64% dei votanti Popolari, il 52% dei centristi di Ciudadanos e il 79,9% di Vox – non è ben visto dal mondo imprenditoriale spagnolo con cui, secondo Sannino, “Sanchez non vuole scontrarsi, ma rassicurare. È come se dicesse agli imprenditori – spiega l’ambasciatore – che dare attenzione alle classi sociali più deboli non significa andare oltre alcuni limiti importanti per l’industria e quindi per l’economia del Paese. Un’economia che cresce ancora a ritmi molto significativi nonostante i venti di coda della crisi degli scorsi anni e alcune fragilità strutturali, come il regime contrattuale a ribasso per i lavoratori”.
Un’economia leggera, frutto di un “Paese giovane di testa, non viziato, che si rimbocca le maniche e che ‘tiene hambre’, ha fame di fare e si impegna”, spiega l’ambasciatore. Tornando a Sánchez, di sicuro in questo suo estremo tentativo di formare il suo governo si gioca anche il ruolo di punto di riferimento della socialdemocrazia in Europa, oltreché quello di terzo leader accanto a Emmanuel Macron e Angela Merkel, ruolo questo che gli spagnoli si contendono con gli italiani a fasi alterne.
Mariti “onnipotenti”. Divorzio all’indiana: ora dire “Talaq” è fuorilegge
Talaq, talaq, talaq. Per divorziare dalla propria moglie ad un marito musulmano, in India, fino a pochi giorni fa bastavano queste tre parole: “Dette al telefono, via Skype, scritte su un pezzo di carta, via Whatsapp. L’India permetteva ad un uomo di divorziare unilateralmente, senza una ragione specifica, senza prove a carico, persino senza che la donna fosse presente”. È da un decennio che Noorjehan Safia Niaz, cofondatrice della associazione Bharatiya Muslim Mahila Aandolan (Bmma), combatte perché questa pratica venga abolita in tutto il Paese, e ora che la sua battaglia è stata vinta, la voce le trema per l’emozione. “Per anni ho incontrato donne abbandonate per aver partorito figlie femmine, per essere tornate tardi dal lavoro, per aver salato troppo la zuppa dhal. L’intera vita di una donna era nelle mani di un uomo. Ora è finita” ripete.
In India il “triplo talaq” – pratica che consente a un marito di divorziare da sua moglie ripetendo la parola tre volte e in qualsiasi forma – è stato dichiarato incostituzionale già nel 2017, con una sentenza della Corte Suprema. Nello stesso anno il partito nazionalista induista attualmente al governo, il Bharatiya Janata (BJP), ha presentato una legge che prevede, per chi utilizzi la formula, la detenzione fino ad un massimo di tre anni. Dopo essere rimasta a lungo arenata nella camera alta del Parlamento, martedì scorso la legge è stata approvata e ieri, con la firma del presidente Ram Nath Kovind, è entrata in vigore.
Noorjehan Safia Niaz racconta che, solo nei centri della sua associazione, negli ultimi tre anni si sono contati centinaia di casi. La pratica è illegale in 22 nazioni al mondo, molte delle quali a maggioranza musulmana, compresi i vicini Pakistan e Bangladesh. “La ragione è semplice: è solo una tradizione – ricorda Niaz – e non è prevista dal Corano, nel quale peraltro si tratta ampiamente il tema, sottolineando l’importanza di una conciliazione o una negoziazione. Se queste falliscono, si può procedere con il divorzio”.
Accusato di aver sostenuto la misura in chiave anti musulmana, il ministro Narendra Modi, leader per partito nazionalista BJP, ha scritto su Twitter: “Una pratica arcaica e medievale è stata finalmente confinata alla pattumiera della storia! Il Parlamento abolisce il Triplo Talaq e corregge un errore storico fatto alle donne musulmane. Questa è una vittoria della giustizia di genere e favorirà ulteriormente la parità nella società. Oggi l’India gioisce!”.
Tanto è bastato per opporre, sui social, le due principali associazioni di donne musulmane indiane, la Bmma contro lo storico Bebaak Collective, che ha immediatamente postato: “In un momento nel quale tutti gli indiani pensanti sono allarmati per i barbarici atti di quotidiano linciaggio ai danni dei musulmani, e dell’impunità per gli autori da parte del governo, questo disegno di legge si presenta come una farsa completa. Non puoi fingere di salvare le donne musulmane, quando al contempo cerchi di mettere in ginocchio la comunità musulmana”. Secondo il collettivo si tratta di una legge inutile, su una questione che era già chiarita dalla sentenza della Corte Suprema, pensata con il chiaro intento di criminalizzare i musulmani.
Dissente la cofondatrice di Bmma: “In India sistema giudiziario e legislativo sono separati, le leggi hanno una valenza ben diversa rispetto alle sentenze: la legge è il vero deterrente, non la sentenza”. Respinge anche l’accusa di fomentare l’odio su base religiosa: “I casi di violenza contro i musulmani non sono una ragione sufficiente per tollerare pratiche retrograde e patriarcali. Quello in carica è un governo democraticamente eletto e noi ci siamo appellate a questo primo ministro esattamente come abbiamo fatto con i precedenti. Che, peraltro, non hanno mai fatto nulla per le donne musulmane”. Nonostante il sostegno arrivato da numerosi uomini all’interno della comunità, non sono mancati gli attacchi: “Da parte delle famiglie delle donne, di uomini che hanno paura di perdere l’egemonia, persino di altri gruppi di donne che si definiscono musulmane, ma preferiscono accettare una pratica patriarcale”.
La prossima battaglia? “Valuteremo come sarà applicata questa norma. Poi inizieremo a muoverci contro la poligamia: dopo questa legge, ci aspettiamo un aumento di casi all’interno della comunità”.
Mughini ora ulula alla luna (l’hanno rimasto solo)
Giampiero Mughini è sempre stato un pioniere; fu il primo intellò a darsi alla Tv (Ieri, Goggi, domani, 1987), un sentiero destinato a diventare autostrada, subito ribattezzato “Mughetti” da Sergio Saviane, come lui stesso ricorda nell’autobiografia Memorie di un rinnegato. Eppure è arrivato a 78 anni per vedere quanto sa di sale la conduzione propria; il suo Quelli della luna (martedì sera, Rete4) quanto a ascolti se la batte con il segnale orario. Seguendo orme di Federico Buffa, Mughini racconta con partecipazione i campioni dello sport come metafora della vita, forse l’ultima che ci è rimasta. Un altro mondo rispetto al “Mughetti” da talk show con quell’allure da santone indiano, ma sempre pronto a sbroccare come da copione. E poi, all’uomo che inventò l’ospite castigamatti mancano gli ospiti (qui bisognerebbe chiedere a Freud). Anche volendo, con chi interloquire, con chi inalberarsi? Al massimo, con i cameramen. Ci vuol altro, per sfondare in video. Tipo una bella rissa con Vittorio Sgarbi, da cui c’è sempre da imparare. Sgarbi ha sparato su Mughini perché non era d’accordo con lui, perché aveva dimenticato le medicine, perché lo aveva scambiato per un altro, o perché deve fare la tigre del circo, altrimenti al circo non lo chiamano più? Chissà. Di sicuro quel che accade in televisione resta in televisione, e soprattutto su internet; però devi fare la cosa giusta. Tutto si può fare in Tv, meno essere sinceri. Possibile che Mughini se ne sia dimenticato?
I parlamentari tagliati e il rischio di autoritarismo
Caro Marco Travaglio, per una volta non la pensiamo allo stesso modo. Mi riferisco alla riduzione dei parlamentari. Che può essere affrontata, ma con serietà, non con le ridicole motivazioni della riduzione dei costi e tanto meno di una maggiore funzionalità del Parlamento, che avrebbe bisogno di fare cessare la grandinata dei decreti legge, dei voti di fiducia, dei ricatti del governo. La nefasta capacità di Calderoli, che ha già regalato all’Italia il “porcellum”, ha imposto alla maggioranza l’approvazione della nuova legge elettorale prima dell’approvazione definitiva della modifica della Costituzione. Il risultato è che già oggi è certo che se andrà in porto la modifica della Costituzione che riduce i parlamentari avremo un “rosatellum” peggiorato, con difetti moltiplicati per 2/3 volte e la soppressione di fatto delle formazioni politiche più piccole, vecchie e nuove. In altre parole i 5 Stelle e la Lega di qualche anno fa non sarebbero entrati in Parlamento.
Anzichè rappresentare il Paese in Parlamento avremo un accentramento pazzesco: 3/4 partiti e nessuna possibilità per gli elettori di scegliere i loro deputati e senatori. Perché prendersela con la Costituzione? Il problema principale è il ruolo del Parlamento, su questo il mio dissenso è radicale. Il Parlamento è centrale nel nostro assetto costituzionale, manometterne il ruolo è un’azione con conseguenze in parte già prevedibili, in parte no, ma non incoraggianti. Preoccupa la supponenza e l’autoreferenzialità delle motivazioni, l’ignoranza sulle conseguenze.
La critica senza attenuanti alla responsabilità storica di Renzi che ha voluto la schiforma, come la chiami tu, che abbiamo contribuito a bocciare nel 2016 non può essere un alibi per l’oggi. Rodotà decenni or sono immaginò una riduzione dei parlamentari superando il bicameralismo paritario senza fare del Senato un fantoccio come quello bocciato nel 2016. Anche la proposta di Rodotà può essere discussa, ma le motivazioni e gli obiettivi hanno fondamenti solidi che oggi non esistono.
Se si inizia e nessuno reagisce altre iniziative seguiranno e temo saranno di segno autoritario, accentratore. Salvini punta a essere votato direttamente, quanto ci metterà a pensare che tanto vale fare il presidenzialismo per diventare l’uomo solo al comando? Anche per reggere le pretese lombarde e venete. Penso che il referendum sia necessario e possa essere un’occasione per bloccare una deriva politica e istituzionale che trovo preoccupante.
Caro Alfiero, rispetto la tua posizione ma non la condivido, anche perchè la mia – anzi quella del Fatto, suffragata da consenso che in merito mi espressero a suo tempo Rodotà, Zagrebelsky e altri insigni giuristi e costituzionalisti con cui l’avevamo elaborata – l’abbiamo pubblicata nella primavera 2016 sul nostro giornale e nel libro Perché No. E prevedeva, fra l’altro, una riduzione dei parlamentari molto simile a quella dell’attuale riforma costituzionale: i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 100, con indennità dimezzate rispetto alle attuali. I nostri sistemi elettorali preferiti erano il Mattarellum o il doppio turno alla francese, per avere dei parlamentari eletti e non più nominati. Ma la legge elettorale non sta nella Costituzione: è una legge ordinaria. Tu giustamente critichi il Rosatellum, e anche noi continueremo a batterci perchè venga spazzato via, anche se in questo Parlamento gli unici che non l’hanno votato (5Stelle e FdI) sono minoranza. É il Rosatellum che svilisce il Parlamento ed esclude le piccole minoranze. Non il taglio dei parlamentari, che ci darebbe due Camere più snelle e meno costose, in linea con i Parlamenti del resto d’Europa, ma con gli stessi poteri di oggi: non vedo dove sia il pericolo di “autoritarismo”. Infatti la Lega, senz’altro autoritaria, ha osteggiato fino all’ultimo il progetto.
Marco Travaglio
Rep si accorge della “droga” del jobs Act
Su Repubblica ieri si poteva leggere questo titolo: “Occupazione record, purtroppo non è vero”. Per non sbagliare ci siamo andati a rileggere i dati dell’Istat sull’occupazione che citiamo senza commenti: “Anche su base annua l’occupazione risulta in crescita (+0,5%, pari a +115 mila unità). L’espansione riguarda entrambe le componenti di genere, i 15-24enni (+46 mila) e soprattutto gli ultracinquantenni (+292 mila) mentre risultano in calo le fasce di età centrali. Al netto della componente demografica la variazione è positiva per tutte le classi di età. La crescita nell’anno si distribuisce tra dipendenti permanenti (+177 mila) e a termine (+14 mila) mentre sono in calo gli indipendenti (-76 mila). Nei dodici mesi, la crescita degli occupati si accompagna a un forte calo dei disoccupati (-10,2%, pari a -288 mila unità) e a un aumento degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+0,2%, pari a 23 mila)”.
La positività appare chiara, anche se è bene non lanciarsi in esultanze acritiche. E infatti non lo facciamo. Resta però lo straniamento. Anche perché il titolo citato, che è di Repubblica, è supportato in prima pagina dall’editoriale dell’ex presidente dell’Inps, Tito Boeri, che inizia così: “Ci sono voluti undici anni, un’infinità, per riportare il lavoro ai livelli pre-crisi”. Capito? Roba che Luigi Di Maio dovrebbe ballare attorno a palazzo Chigi.
Dice Boeri, e lo dicono anche altri commentatori, che quel dato in parte dipende dalla demografia: “Un Paese in calo demografico ha una tendenza inerziale a far crescere i tassi di occupazione, anche se la domanda di lavoro ristagna assieme all’ economia nel suo complesso”. Riprendiamo i dati Istat: in termini assoluti gli occupati passano da 22,629 milioni del gennaio 2016 ai 23,399 milioni del giugno 2019. Non è quindi solo un aumento percentuale, ma un aumento assoluto di 770 mila unità.
È vero che sono aumentati gli occupati sopra i 50 anni e questo, forse, per effetto della riforma Fornero che impedisce di andare in pensione: la fascia sopra i 50 anni, infatti, è quella che fa aumentare i lavoratori di 292 mila unità. Ma a questo dato non corrisponde una penalizzazione visibile per i giovani visto che anche la fascia di età tra i 15 e 24 anni cresce di 46 mila occupati in più (sacrificata invece la fascia centrale tra 34 e 49 anni).
C’è poi una componente legata al part-time, ormai componente strutturale del mercato del lavoro. Dal 2007 al 2018, dati l’Inps, si è passati da 2,5 a 3,6 milioni di lavoratori a mezzo servizio con il 20% della forza lavoro dipendente.
Questo spiega perché all’aumento degli occupati non corrisponda un aumento delle ore lavorate, e quindi perché non ci siano impatti sulla produttività e sul Pil. È un problema serio che riguarda la complessiva politica economica e le politiche di sviluppo e crescita che, da almeno venti anni, latitano in maniera consistente. Se c’è una critica da fare al governo attuale che su questo punto non presenta significativi cambi di indirizzo.
C’è infine, come sottolinea Boeri, una “terza ragione”: “La creazione di posti di lavoro è stata fortemente incentivata negli ultimi anni”. E qui non possiamo che dire “finalmente”. Ci si accorge infatti che i dati sul lavoro sono stati sostenuti da un finanziamento pubblico che lo stesso Boeri quantifica, nel quadriennio 2015-18, in 73 miliardi per agevolazioni contributive. “La parte del leone l’ha giocata l’esonero triennale dal pagamento dei contributi sociali per i neo-assunti con contratti a tempo indeterminato varato nel 2015 contestualmente al Jobs Act”.
Esatto, è stato il Jobs Act di Matteo Renzi a dare il via alla “droga” del mercato del lavoro e la tendenza dura da almeno quattro anni. Periodo nel quale questi allarmi e queste preoccupazioni non si sono mai avvertiti. Per carità, sono reali, ma perché produrle a corrente alternata?