L’idea del nuovo collegamento ferroviario tra Torino e Lione è dei primissimi anni ’90 e nasce in concomitanza con la realizzazione dell’Eurotunnel tra Francia e Inghilterra, lo sviluppo della rete ferroviaria ad alta velocità francese e la progettazione iniziale di quella italiana. All’epoca la liberalizzazione europea del trasporto aereo era solo agli inizi e nessuno era in grado di prevederne i dirompenti effetti in termini di incremento della concorrenza, abbattimento dei prezzi ed esplosione della domanda. In quegli anni i due tunnel europei, sotto la Manica e sotto le Alpi, erano parti integranti dei progetti ferroviari nazionali di Francia e Italia, finalizzati a trasportare molto più velocemente le persone. Da allora i passeggeri sulle tratte infraeuropee si sono tuttavia trasferiti in gran parte all’aereo, attratti dalle basse tariffe e dai minori tempi di percorrenza, e quelli sui collegamenti tra l’Italia e la Francia sono quasi quintuplicati, passando da due milioni e mezzo a quasi dodici all’anno.
Questi cambiamenti radicali nelle abitudini di trasporto non hanno tuttavia fatto sorgere alcun dubbio sulla validità dell’opera ai promotori della Torino-Lione. Semplicemente se non serviva più ai passeggeri sarebbe servita per le merci. Purtroppo per loro anche i flussi alpini di merci tra Italia e Francia sono in declino da un ventennio su tutte le modalità: dalla fine degli anni ’90 si sono ridotti di due terzi sul vecchio Fréjus ferroviario e di un quarto nei due trafori alpini complessivamente considerati. A cosa serva esattamente la nuova Torino-Lione non è pertanto dato sapere e resta il mistero del perché vi sia questo accanimento trilaterale da parte di Italia, Francia e Ue nel volerla a tutti i costi. Per l’Italia la spiegazione più verosimile è la scarsa razionalità dei nostri decisori pubblici che hanno sottoscritto i diversi trattati bilaterali che si sono susseguiti nel tempo: come si può giustificare che si faccia carico del 60% dei costi di costruzione non rimborsati dall’Europa quando la parte italiana della tratta internazionale supera di poco il 20% del percorso?
Per la Francia vale la spiegazione speculare: evidentemente la partecipazione ai costi in raffronto alla partecipazione ai benefici risulta vantaggiosa. Da un lato ha infatti rinviato a dopo il 2038 la realizzazione della sua tratta nazionale, motivandolo col fatto che non vi è alcun rischio di saturazione della linea, ma dall’altro non ha concesso nulla all’Italia in tema di rinvio o rinuncia alla tratta internazionale. Questa doppia scelta è incoerente: a cosa servono i 60 km di nuova galleria sotto le Alpi se poi confluiscono negli attuali 170 km di vecchia linea francese a basse prestazioni e sulla quale anche il Tgv non supera gli 80 km orari? E inoltre, se nella tratta nazionale francese, in cui transitano 48 treni regionali al giorno e circa 25 internazionali merci e passeggeri, non vi è rischio di saturazione per il prossimo ventennio, come si giustifica l’accanimento nel volere la tratta internazionale sulla quale il traffico è pari solo a un terzo? Se il rifacimento della prima è inutile per il prossimo ventennio allora la realizzazione della galleria internazionale è tre volte inutile.
La spiegazione per cui la Francia non vuole la sua tratta nazionale è che essa è integralmente a suo carico e i costi, stimati in otto miliardi, non sono compensati dai benefici attesi. Come potremmo dargli torto? Invece i costi della tratta internazionale sono solo per il 25% a carico suo, per il 35% a carico dell’Italia e per il 40% dell’Unione Europea. Ma la tratta internazionale è per l’80% in territorio francese e al termine del periodo di concessione in capo alla società binazionale Telt diverrà per questa parte di proprietà della Francia. Essa paga pertanto il 25% per la futura proprietà dell’80% dell’opera mentre l’Italia paga il 35% per la futura proprietà del 20% dell’opera, con un costo al km sostenuto dall’Italia pari a cinque volte e mezza quello sostenuto dalla Francia.
Bisogna infine considerare un’altra peculiarità. La società Telt, concessionaria per la costruzione e l’esercizio e a proprietà paritetica dei due Paesi, è di diritto francese e paga le imposte nel suo paese, al quale potrebbe apportare un vantaggio fiscale in grado di attenuarne l’onere netto per la realizzazione dell’opera. Qual è il regime fiscale che regola la costruzione della tratta internazionale e a chi va l’Iva che sarà caricata sulle fatture emesse delle imprese costruttrici? Si potrebbe forse desumere dai bilanci d’esercizio che tuttavia non sono pubblici. Se la quota relativa alle opere realizzate in territorio francese, il cui valore è stimabile nei quattro quinti dei costi totali è pari a 7,7 dei 9,6 miliardi totali accertati dal nostro Cipe, dà luogo con aliquota al 20% a un debito Iva di 1,54 miliardi ed esso è destinato al fisco francese, è evidente che tale cifra riduce di due terzi i 2,4 miliardi di oneri lordi di costruzione a carico di quel paese, portandoli a un importo trascurabile rispetto al valore dell’opera.
Mail box
Rifiuti industriali: i sindaci dovrebbero verificare di più
Anche a Reggio Emilia sono stati trovati due capannoni pieni di rifiuti industriali. Mi domando chi si occuperà ora di bonificare l’area inquinata. In genere si tratta di immobili presi in affitto da aziende che hanno pochissimi capitali e di soci inattaccabili per le spese di bonifica. I proprietari degli immobili affittati dovrebbero essere loro a controllare l’attività che tipo di attività svolge l’inquilino, ma chi ha maggiore responsabilità sono i sindaci, i quali con l’ausilio dei vigili urbani dovrebbero controllare periodicamente i capannoni industriali per verificare se all’interno ci siano accatastamenti di rifiuti industriali. Adesso nel caso di Scandiano e Luzzara, come verranno smaltiti i rifiuti? Speriamo che questo episodio serva ai sindaci a riflettere su come fare prevenzione e a non sottovalutare uno dei compiti più importanti dello Stato: controllare il territorio per evitare altri casi come questi.
Enrico Reverberi
Sì alla riforma della giustizia di Bonafede: basta leggi truffa
Negli ultimi 6 mesi abbiano registrato un vera e propria escalation di arresti, rinvii a giudizio e indagini su molti politici di destra (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia) e del Pd. Non che sia una novità perché, purtroppo come afferma giustamente il magistrato Davigo, i politici non hanno smesso di rubare ma hanno solo smesso di vergognarsi di rubare. Si capisce quindi l’interesse comune dei partiti di cui sopra di affossare il disegno di riforma del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e in primis la legge sulla prescrizione, spostando l’attenzione sui magistrati (separazione delle carriere, sanzioni disciplinari etc). Si cerca insomma di menare il can per l’aia facendo finta di dimenticare che il problema della giustizia non è e non può essere addebitato esclusivamente ai magistrati (che per la cronaca lavorano più di quelli degli altri paesi europei) ma alle leggi truffa che vorrebbero i politici “soluti” dalla legge. Mi auguro quindi che la riforma proposta da Bonafede vada in porto e che si cominci ad applicare davvero quello che è scritto in tutti i tribunali ovvero che “la legge è uguale per tutti”.
Leonardo Gentile
L’Italia, un carrozzone da circo dove potersi divertire in libertà
I mezzi della Polizia di Stato per fari divertire il proprio figlio sulla spiaggia di Milano Marittima è gravissimo. Mentre lui si diverte, i giornalisti vengono addirittura allontanati. Ma di che s’impicciano? Siamo o no nella Repubblica delle noci di cocco? Dunque il cocco di papà deve potersi divertire. Salvini continua imperterrito a farsi beffa dello Stato di cui è servitore, servendosi di tutto quello che può far divertire lui e la sua famiglia. Allora, se è permesso a suo figlio fare un giro coi mezzi della Polizia, perché non dovrebbe esserlo anche a me? L’Italia è in mano a questo carrozzone da circo. E siamo alla stagnazione: crescita zero. L’importante è che Salvini senior e junior si divertano! E che i grillini siano soddisfatti di scaldare le poltrone con grande soddisfazione dei due padri del movimento, Grillo e Casaleggio.
Mariagrazia Gazzato
Il no di Piombino alla discarica: violate le distanze di sicurezza
Ormai è un dato di fatto: con il nuovo sindaco Francesco Ferrari, nella mia città, Piombino, si è imboccata la strada giusta. Questo territorio ha ribadito giustamente un no secco al raddoppio dei volumi della discarica. La parte più importante è la tutela ambientale, in particolare per i cittadini che vivono nelle zone di Montegemoli e Colmata Gagno, nel rispetto delle distanze di legge tra la discarica e i centri abitati. Grazie a una più approfondita analisi richiesta dal Comune, è emerso che tali distanze non sono rispettate.
Massimo Aurioso
Cassa del Mezzogiorno: quando il Nord toglieva al Sud
Sarebbe bene e giusto ricordare ai signori del Nord che hanno defraudato il Sud, motivo per cui si credono migliori, che dimenticano di aver sfruttato gli operai meridionali. Vorrei anche ricordare che la vecchia Cassa del Mezzogiorno, tanto vituperata ma mai abolita per anni, che quei soldi destinati al Sud venivano incassati dalle aziende del Nord. In questo modo al Sud finivano macchinari vecchi ed obsoleti e con i soldi della Cassa del Mezzogiorno venivano rinnovati i macchinari al Nord. Ero all’epoca giovincello ma queste erano notizie quotidiane.
Domenico Iubatti
B. confonde l’Ue con gli Eau: più che alleati, cerca sudditi
B. si propone di essere leader del cambiamento pur avendo 82 anni ed essendo da 25 in politica senza aver vinto le primarie. Conoscete quella vignetta in cui B. si presenta all’assemblea del Partito popolare europeo e dice: “Sono venuto qui a portare la mia idea di democrazia”. Uno del Ppe risponde: “Amico, mi sa che lei confonde la Ue con gli Eau, gli Emirati arabi uniti”. Cioè B. più che alleati cerca sudditi e complici, finchè non si stufano e vogliono andarsene. Ma lui gioca d’anticipo cercando di interferire nelle scelte interne degli altri partiti, aiutando altri leader a sostituire quelli in carica.
Paolo Novi
Torino-Lione Conte ha anteposto la difesa del governo a quella del M5S
L’idea del nuovo collegamento ferroviario tra Torino e Lione è dei primissimi anni ’90 e nasce in concomitanza con la realizzazione dell’Eurotunnel tra Francia e Inghilterra, lo sviluppo della rete ferroviaria ad alta velocità francese e la progettazione iniziale di quella italiana. All’epoca la liberalizzazione europea del trasporto aereo era solo agli inizi e nessuno era in grado di prevederne i dirompenti effetti in termini di incremento della concorrenza, abbattimento dei prezzi ed esplosione della domanda. In quegli anni i due tunnel europei, sotto la Manica e sotto le Alpi, erano parti integranti dei progetti ferroviari nazionali di Francia e Italia, finalizzati a trasportare molto più velocemente le persone. Da allora i passeggeri sulle tratte infraeuropee si sono tuttavia trasferiti in gran parte all’aereo, attratti dalle basse tariffe e dai minori tempi di percorrenza, e quelli sui collegamenti tra l’Italia e la Francia sono quasi quintuplicati, passando da due milioni e mezzo a quasi dodici all’anno.
Questi cambiamenti radicali nelle abitudini di trasporto non hanno tuttavia fatto sorgere alcun dubbio sulla validità dell’opera ai promotori della Torino-Lione. Semplicemente se non serviva più ai passeggeri sarebbe servita per le merci. Purtroppo per loro anche i flussi alpini di merci tra Italia e Francia sono in declino da un ventennio su tutte le modalità: dalla fine degli anni ’90 si sono ridotti di due terzi sul vecchio Fréjus ferroviario e di un quarto nei due trafori alpini complessivamente considerati. A cosa serva esattamente la nuova Torino-Lione non è pertanto dato sapere e resta il mistero del perché vi sia questo accanimento trilaterale da parte di Italia, Francia e Ue nel volerla a tutti i costi. Per l’Italia la spiegazione più verosimile è la scarsa razionalità dei nostri decisori pubblici che hanno sottoscritto i diversi trattati bilaterali che si sono susseguiti nel tempo: come si può giustificare che si faccia carico del 60% dei costi di costruzione non rimborsati dall’Europa quando la parte italiana della tratta internazionale supera di poco il 20% del percorso?
Antonio Maldera
Per la Francia vale la spiegazione speculare: evidentemente la partecipazione ai costi in raffronto alla partecipazione ai benefici risulta vantaggiosa. Da un lato ha infatti rinviato a dopo il 2038 la realizzazione della sua tratta nazionale, motivandolo col fatto che non vi è alcun rischio di saturazione della linea, ma dall’altro non ha concesso nulla all’Italia in tema di rinvio o rinuncia alla tratta internazionale. Questa doppia scelta è incoerente: a cosa servono i 60 km di nuova galleria sotto le Alpi se poi confluiscono negli attuali 170 km di vecchia linea francese a basse prestazioni e sulla quale anche il Tgv non supera gli 80 km orari? E inoltre, se nella tratta nazionale francese, in cui transitano 48 treni regionali al giorno e circa 25 internazionali merci e passeggeri, non vi è rischio di saturazione per il prossimo ventennio, come si giustifica l’accanimento nel volere la tratta internazionale sulla quale il traffico è pari solo a un terzo? Se il rifacimento della prima è inutile per il prossimo ventennio allora la realizzazione della galleria internazionale è tre volte inutile.
La spiegazione per cui la Francia non vuole la sua tratta nazionale è che essa è integralmente a suo carico e i costi, stimati in otto miliardi, non sono compensati dai benefici attesi. Come potremmo dargli torto? Invece i costi della tratta internazionale sono solo per il 25% a carico suo, per il 35% a carico dell’Italia e per il 40% dell’Unione Europea. Ma la tratta internazionale è per l’80% in territorio francese e al termine del periodo di concessione in capo alla società binazionale Telt diverrà per questa parte di proprietà della Francia. Essa paga pertanto il 25% per la futura proprietà dell’80% dell’opera mentre l’Italia paga il 35% per la futura proprietà del 20% dell’opera, con un costo al km sostenuto dall’Italia pari a cinque volte e mezza quello sostenuto dalla Francia.
Bisogna infine considerare un’altra peculiarità. La società Telt, concessionaria per la costruzione e l’esercizio e a proprietà paritetica dei due Paesi, è di diritto francese e paga le imposte nel suo paese, al quale potrebbe apportare un vantaggio fiscale in grado di attenuarne l’onere netto per la realizzazione dell’opera. Qual è il regime fiscale che regola la costruzione della tratta internazionale e a chi va l’Iva che sarà caricata sulle fatture emesse delle imprese costruttrici? Si potrebbe forse desumere dai bilanci d’esercizio che tuttavia non sono pubblici. Se la quota relativa alle opere realizzate in territorio francese, il cui valore è stimabile nei quattro quinti dei costi totali è pari a 7,7 dei 9,6 miliardi totali accertati dal nostro Cipe, dà luogo con aliquota al 20% a un debito Iva di 1,54 miliardi ed esso è destinato al fisco francese, è evidente che tale cifra riduce di due terzi i 2,4 miliardi di oneri lordi di costruzione a carico di quel paese, portandoli a un importo trascurabile rispetto al valore dell’opera.
Stefano Feltri
Trovato morto sull’Appennino, due fermati per omicidio
I carabinieri di Bologna, su disposizione della Procura felsinea, hanno fermato, questa mattina all’alba, un 34enne di origine serba e un 50enne rumeno per la morte di Consolato Ingenuo, il 42enne trovato, privo di vita, ieri pomeriggio, in un pendio ai lati di una strada provinciale a Vergato, nella frazione di Tolè, sull’Appennino Bolognese. L’accusa è omicidio in concorso, aggravato dai futili motivi ed occultamento di cadavere. Il decesso, secondo un primo esame, potrebbe essere riconducibile a percosse o a un evento traumatico.
I due, secondo le risultanze investigative, avrebbero trascorso l’ultima serata prima dell’omicidio, insieme al 42enne. L’uomo risultava disperso da martedì scorso. A portare gli investigatori sulla strada giusta un’auto con all’interno tracce di sangue, risultata riconducibile a una delle due persone poi fermate e alcuni indumenti sequestrati, in cui è stata riscontrata la presenza di tracce ematiche che verranno poi analizzate dai Ris di Parma. Il movente potrebbe essere legato ad una lite finita male.
Minori, giudici contro pm. “Non segnalarono atti falsi”
Non era un minore “strappato alla famiglia” e “rinchiuso” chissà dove. Il bambino, cinque anni, è rimasto sempre con la madre in una struttura protetta. È durato poco meno di sei mesi, dal provvedimento provvisorio eseguito a fine novembre 2018 al 13 maggio 2019, quando il Tribunale dei minori di Bologna ha disposto che potevano tornare tutti insieme a casa loro. Il padre infatti, assistito da un avvocato, aveva messo a verbale: “Ammetto di aver abusato di sostanze alcoliche e qualche volta di avere litigato con mia moglie davanti a mio figlio, mi rendo conto che sono stati comportamenti dannosi per lui e giuro che non accadrà mai più”. C’era anche una vecchia denuncia per rissa.
Contrariamente a quanto abbiamo scritto, la pm di Reggio Emilia Valentina Salvi, titolare dell’inchiesta sui presunti affidi abusivi che ha portato il Comune di Bibbiano sulle prime pagine di tutti i giornali, non ha mai scritto al giudice minorile di Bologna Mirko Stifano che il provvedimento provvisorio era stato adottato sulla base di “relazioni false” dei servizi sociali. Gli ha solo scritto che “non sono emerse condotte penalmente rilevanti poste in essere” dall’uomo “a danno del nucleo familiare”. L’ipotesi era che avesse picchiato la moglie davanti al figlio, così aveva detto il bambino a due maestre che chiedevano spiegazioni su un disegno: è nei verbali trasmessi dalla stessa Procura di Reggio Emilia alla Procura e al Tribunale dei minori di Bologna. Altre maestre dicono cose diverse. E la madre nega qualsiasi violenza. È fin troppo evidente che le valutazioni del giudice minorile sulla capacità genitoriale di un padre o di una madre vanno al di là dell’accertamento di un reato con i criteri di prova della giustizia penale. E sono valutazioni delicatissime, in parte affidate ai servizi sociali e in parte no, ma soprattutto urgenti.
Il caso Bibbiano è ormai al centro della campagna elettorale per le Regionali dell’Emilia-Romagna del prossimo autunno. La Lega e le destre cavalcano l’inchiesta che riguarda dieci minori e ha portato all’arresto della responsabile dei Servizi sociali di Bibbiano, Federica Anghinolfi e del fondatore dell’associazione torinese Hansel & Gretel che lavora nella comunità “La Cura” nel Comune emiliano (misura poi attenuata in obbligo di dimora). Per loro quello è “il sistema Pd” che “ruba” i figli alle famiglie inventando gli abusi. Matteo Salvini chiede una commissione parlamentare d’inchiesta, il ministro della Giustizia Alfredo Bonafede ha mandato gli ispettori al Tribunale minorile. Almeno quattro minori sono stati restituiti alle famiglie prima degli arresti di fine giugno. Anche il bambino del disegno, mai allontanato dalla mamma, è tornato a casa a maggio con il papà. Decine di altri casi sono stati riesaminati in queste settimane.
Ora però un altro scontro si è aperto tra i magistrati. Nei giorni scorsi il giudice Stifano e prima ancora il procuratore minorile di Bologna, Silvia Marzocchi, hanno smentito le ricostruzioni giornalistiche che accusavano i loro uffici di aver chiesto e adottato il provvedimento in base a relazioni false. Nelle carte trasmesse dalla Procura di Reggio non ci sono accenni ai falsi di cui, anche in questo caso, è accusata Anghinolfi: la casa descritta come “spoglia” e “senza giochi” dai servizi sociali è in seguito apparsa ai carabinieri, mandati dalla Procura, “adeguatamente ammobiliata” e dentro “vi erano ordinari giochi, anche elettronici”; non si escludevano con sufficiente nettezza abusi sessuali, peraltro mai ipotizzati neppure dai magistrati minorili; il pediatra aveva visitato il bambino tre volte nel 2018, il bambino non era così “depresso”, il padre non era così “violento” e così via. Un altro operatore risponde di frode processuale. Se ne discuterà nel processo. Il procuratore di Reggio Emilia, Marco Mescolini, contattato dal Fatto preferisce non replicare ai suoi colleghi. Nei giorni scorsi con la sostituta Salvi ha incontrato il procuratore generale di Bologna, Ignazio De Francisci, alla presenza anche di Marzocchi: hanno discusso del mancato coordinamento tra i diversi uffici inquirenti, che si occupano degli stessi fatti sia pure da angolazioni e con finalità differenti. Il clima è incandescente. Quasi peggio della campagna elettorale.
“Li drogava e li violentava”. Prete arrestato a Piacenza
Prima li avrebbe drogati per renderli incoscienti, poi avrebbe abusato sessualmente di loro. L’incredibile storia arriva da una parrocchia di Piacenza e ha come protagonista un sacerdote, don Stefano Segalini, che da mercoledì pomeriggio è agli arresti domiciliari con l’accusa di violenza sessuale aggravata e procurato stato di incapacità, reato regolato dall’articolo 613 del codice penale.
Le vittime, secondo quanto ricostruito dalla squadra Mobile e dalla Procura, sono ragazzi maggiorenni che hanno frequentato nel tempo la parrocchia di San Giuseppe Operaio nel comune lombardo. Gli atti dell’indagine, vista la delicatezza del caso, sono stati secretati dal procuratore di Piacenza.
L’inchiesta nasce nel maggio scorso dopo che alcuni esposti sono arrivati alla Diocesi. In quel momento si attivano le indagini della polizia. Sempre a maggio don Stefano Segalini è stato destituito dall’incarico su decisione del vescovo Gianni Ambrosio. Le accuse, a quanto si apprende, sono apparse fin da subito circostanziate. Don Segalini così è stato trasferito in un centro diocesano di “cura spirituale” sempre in Lombardia. La squadra Mobile diretta dalla dottoressa Serena Pieri ha ascoltato diverse testimonianze. Da qui la necessità di eseguire un’ordinanza restrittiva, visto che dopo i primi riscontri, basati anche su una perquisizione in parrocchia, sussistono concrete esigenze cautelari date dal pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento probatorio. Nei prossimi giorni il sacerdote sarà sentito per l’interrogatorio di garanzia. Un atto dovuto e necessario per consentire al religioso, se vorrà, di spiegare la sua posizione ai magistrati. Dagli atti emerge uno spaccato allarmante. Secondo quanto avrebbero accertato gli investigatori, infatti, don Stefano Segalini prima somministrava droghe o sostanze chimiche alle sue vittime per poi commettere gli abusi.
La perquisizione in parrocchia è avvenuta il 7 luglio. Sotto sequestro sono finiti gli apparecchi elettronici (cellulari, computer, tablet) nella disponibilità del sacerdote. Ancora prima, il 29 maggio, il vescovo Ambrosio, come detto in base a diverse denunce, ha sospeso don Stefano e lo ha fatto con queste motivazioni: “Presunti e deprecabili comportamenti”. Ancora meglio: “Comportamenti ritenuti moralmente inammissibili per un sacerdote della Chiesa cattolica”. Il caso ha scosso la città e fin da subito molti frequentatori della parrocchia hanno dato solidarietà al sacerdote. Mentre don Segalini a maggio così scriveva sul suo profilo Facebook: “Preghiamo Gesù e Maria che ci aiutino a trovare tutti la vera pace! Fidiamoci! Guardiamo avanti con speranza”. Nella parrocchia di San Giuseppe (la terza più grande della città), don Segalini ci è arrivato nel 2014. Al suo arrivo, all’epoca, fu accolto da don Giancarlo Conte, fondatore della stessa parrocchia. In quel giorno don Segalini disse: “Questa parrocchia mi ha accolto come fosse la mia famiglia”. Cinque anni dopo dovrà difendersi da un’accusa grave.
Si improvvisa controllore: “Sei nero? Dammi il biglietto”
“Hai fatto il biglietto? Fammi vedere il biglietto”. Sono alcune delle frasi pronunciate da un uomo nei confronti di un ragazzo di colore su un treno da Milano Centrale a Verona, registrate in un video postato su Facebook da una ragazza che segnala anche diversi insulti razzisti pronunciati dall’uomo. Il ragazzo chiede “perché dovrei mostrarlo a te?” e l’uomo risponde dicendo che la sua maglietta verde è la sua divisa, lo accusa di non avere il biglietto e quindi di non avere diritto a essere sul treno. L’uomo poi chiede al ragazzo: “È tua quella bici? Pure la bici hai. Ora è mia, spetta a me, sono italiano”. Nel video si vede poi l’uomo spostarsi in un altro vagone e apostrofare un altro giovane: “Questo è il mio treno”, “a te non controllano il biglietto solo perché sei colorato”, aggiunge l’uomo dopo aver sputato. La ragazza segnala, in un post a corredo del video, che l’episodio si è ripetuto con diverse persone di colore che venivano accusate di non avere il biglietto, “per arrivare poi alla minaccia di fare una strage prima o poi, perché a lui ‘i neri gli stanno sui coglioni perché non lavorano’ “.
Omicidio Alfano, la revisione beffa del processo
Se lo contendono accusa e difesa, l’una per dimostrare che è stato scritto dietro un compenso, l’altra per sostenerne la fondatezza, e cioè l’innocenza del boss barcellonese Giuseppe Gullotti, condannato definitivamente a 30 anni per l’omicidio del giornalista barcellonese Beppe Alfano, assassinato l’8 gennaio 1993 da tre colpi di una calibro 22. Ora quell’anonimo che solleva dubbi sulla responsabilità del boss, inviato nel 2006 per mail dal pm Olindo Canali a un cronista del quotidiano Gazzetta del Sud (poi rivendicato come proprio) a distanza di tre anni e mezzo dal deposito dell’istanza è diventato il perno del processo di revisione fissato per il 10 ottobre, senza alcun filtro preliminare di ammissibilità, dalla corte di Appello di Reggio Calabria, città in cui Gullotti deve rispondere di corruzione in atti giudiziari per avere favorito Cosa nostra, insieme proprio a Canali, sospettato di essere stato corrotto dal boss per inviare il memoriale che lo scagiona. Sia dalle accuse di mafia nel processo Mare Nostrum, sia da quelle più gravi dell’omicidio Alfano, per le quali era stato lo stesso Canali, che in aula aveva sostenuto l’accusa senza contestare l’aggravante della premeditazione, a chiederne la condanna ridotta a 30 anni (e non l’ergastolo).
“Davanti a vicende così scandalose – ha detto Fabio Repici, avvocato della famiglia Alfano – sono curioso di vedere fino a quando si protrarrà il silenzio complice delle istituzioni politiche e dei grandi organi di informazione”. Il paradosso giudiziario sulle sponde calabresi dello stretto dove la giustizia mette in discussione una condanna definitiva per un mafioso sulla base della stessa prova utilizzata dalla Procura per dimostrare che il boss ha corrotto il “suo giudice”, è la cartina di tornasole delle difficoltà, a distanza di 26 anni dall’omicidio, di restituire la piena verità su movente e mandanti di un giornalista scomodo, tra i pochi a denunciare il malaffare politico, puntando volta per volta il dito sugli intrecci che legano insieme nell’area di Barcellona il potere politico, economico, giudiziario e prettamente mafioso. Alcuni scandali, tradotti negli anni in inchieste sfociate nell’arresto di colletti bianchi, sono stati sollevati proprio dagli articoli di Alfano, convinto della presenza a Barcellona di uno dei più pericolosi latitanti di Cosa Nostra, Nitto Santapaola. È certo che il boss dimori in zona e frequenti il complesso residenziale di Portorosa, citato poi dalle rivelazioni di numerosi collaboratori al centro di cointeressenze mafiose. Alfano ne parla con sua figlia e perfino con Olindo Canali, di cui è amico: si scoprirà dopo il suo omicidio che il boss catanese abitava ad appena trenta metri da casa sua, protetto da un sodalizio criminale agganciato ai più alti circuiti della strategia stragista di Cosa Nostra. Fu Giovanni Brusca, l’uomo della collinetta di Capaci, davanti al sostituto della dda di Messina Gianclaudio Mango, il 7 maggio del 1998, a introdurre la partecipazione dei mafiosi barcellonesi sullo scenario stragista di Capaci: “I telecomandi utilizzati per la strage di Capaci – disse Brusca – mi vennero recapitati da Pietro Rampulla, tramite un’autocarro che trasportava una cavalla che Pippo Gullotti mi aveva regalato’’. Lo stesso Gullotti condannato per l’omicidio Alfano che un processo di revisione si avvia, nelle intenzioni della difesa, a scagionare sulla base di un memoriale di un pm che per Gullotti aveva chiesto (e ottenuto) 30 anni, che la procura, sempre di Reggio Calabria, considera la prova della corruzione.
2 agosto, Ciavardini ora fa la “vittima” su Facebook
Sono passati 39 anni da quel 2 agosto 1980 in cui scoppiò la bomba alla stazione di Bologna. La più sanguinosa delle stragi italiane: 85 morti, oltre 200 feriti. Alla vigilia dell’anniversario, uno dei condannati, Luigi Ciavardini, scrive su Facebook di essere una delle vittime della strage: “Oltre alle vittime di quel giorno (per le quali tutti abbiamo il massimo rispetto), disgrazie e sofferenze parallele hanno toccato altre persone come le morti collaterali delle bombe intelligenti”. Ciavardini è stato condannato in via definitiva insieme a Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. Intanto si sta celebrando a Bologna un nuovo processo, con imputato di strage Gilberto Cavallini.
“Le udienze svolte finora”, secondo Nicola Brigida, uno degli avvocati dell’Associazione familiari delle vittime presieduta da Paolo Bolognesi, “hanno confermato e rinsaldato le prove che hanno portato alla condanna di Fioravanti, Mambro, Ciavardini. E stanno aprendo uno spiraglio sui mandanti”.
Non hanno agito da soli, i “neri” dei Nuclei Armati Rivoluzionari. Lo hanno già dimostrato le condanne a Licio Gelli e agli ufficiali del servizio segreto militare, per il depistaggio realizzato mettendo su un altro treno dell’esplosivo simile a quello della stazione, insieme a due biglietti aerei Milano-Monaco e Milano-Parigi: era il primo tentativo di indirizzare le indagini verso una inesistente “pista internazionale” che periodicamente torna alla ribalta, indicando come possibili responsabili i libici di Gheddafi, i palestinesi del Fronte popolare di liberazione, i guerriglieri di Carlos “lo Sciacallo”… La pista “nera” resta invece solida, secondo i magistrati di Bologna. Quelli della Procura, che hanno mandato a processo Cavallini, uomo di collegamento tra i “giovani” dei Nar e i “vecchi” di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, già protagonisti della stagione stragista iniziata nel 1969 in piazza Fontana e proseguita a suon di bombe fino al 1974. E anche quelli della Procura generale, che hanno avocato un’inchiesta sui mandanti, alla ricerca dei livelli superiori del network stragista. Nella nuova indagine è confluito un vecchio documento sequestrato a Gelli, Gran Maestro della P2, intestato “Bologna-525779XS”, che racconta di milioni di dollari usciti dal conto svizzero numero 525779XS proprio tra il luglio 1980 e il febbraio 1981, i mesi della strage e dei depistaggi. Una mezza banconota da mille lire, trovata nel 1983 in un “covo” di Cavallini a Milano, potrebbe essere il lasciapassare – lo usavano i membri di Gladio, o quelli di una pianificazione ancor più segreta, l’Anello – per presentarsi nelle caserme e ritirare armi ed esplosivo. In una agenda sequestrata a Cavallini compare poi il numero di telefono 342111, utenza “riservata” di un ufficio di via Mantegna, a Milano, collegato ad Adalberto Titta, uno dei capi del “Noto Servizio” o “Anello”.
Nel nuovo processo bolognese è emerso anche che Fioravanti e il suo gruppo, dopo la strage, furono ospitati a Milano in un appartamento di via Washington 27. Allo stesso indirizzo aveva sede (anzi, ce l’ha ancora oggi, secondo le visure) la Siati, società di copertura del Sifar, il servizio segreto militare.
Nelle nuove indagini è entrato anche Paolo Bellini, terrorista nero e infiltrato dei carabinieri nella Cosa nostra stragista del 1993: in un filmato amatoriale girato da un turista alla stazione il giorno della strage, compare un uomo, capelli ricci e baffoni neri, che potrebbe essere Bellini.
Indagato (per depistaggio) anche l’ex generale dei servizi segreti Quintino Spella, che ha negato di aver ricevuto, nel luglio 1980, dal giudice Giovanni Tamburino le dichiarazioni del “nero” Luigi Vettore Presilio, il quale rivelava che era in preparazione una strage.
Ha scordato l’arma e non è un eroe
A quanto pare è saltato fuori che il vicebrigadiere Cerciello Rega pur essendo in servizio si era dimenticato la pistola d’ordinanza in caserma. Più che un eroe, termine di cui in questi anni enfatici si è fatto uso e abuso, mi sembra un incapace. Ma anche l’altro brigadiere coinvolto, Andrea Varriale, non scherza, non è stato in grado di portare alcun aiuto al collega in difficoltà perché, come ha dichiarato Francesco Gargaro, comandante provinciale dei carabinieri di Roma, “sopraffatto e buttato a terra” dal ragazzo americano. Se queste sono le nostre Forze dell’Ordine stiamo freschi. Ma ho l’impressione che nemmeno nel nostro esercito la valentia e il coraggio abbondino. Si veda il patto leonino fatto con i Talebani in Afghanistan: loro non ci attaccano, in compenso noi non controlliamo il territorio. In quanto ai servizi segreti siamo messi ancor peggio. Qualcuno ricorderà, forse, l’epopea di Giannettini che spacciava come informazioni di sua mano ciò che sull’Europeo scrivevano i colleghi Corrado Incerti e Sandro Ottolenghi oppure il capitano La Bruna o, più recentemente, “Betulla”, alias Renato Farina, un obeso buono a nulla come giornalista, tanto più come “informatore”. Meno male che c’è il Mossad.