E Scalfarotto va dai 2 detenuti: assist a Salvini, litigano i dem

Un’iniziativa “personale”, una visita per verificare il rispetto dei diritti dei detenuti. Che però diventa un caso politico, visto che a farla è Ivan Scalfarotto, deputato del Partito Democratico. E a riceverla non sono due carcerati qualsiasi, ma gli americani accusati dell’omicidio del carabiniere Rega.

Martedì l’onorevole dem era stato al carcere di Regina Coeli, a Roma, all’indomani delle polemiche sul trattamento di Elder Finnegan Lee e Gabriel Hjorth, dopo che quest’ultimo era stato fotografato bendato e ammanettato in caserma. L’iniziativa era anche passata sottotraccia, fino a quando non è giunta all’orecchio di Matteo Salvini: un parlamentare Pd che fa visita agli “assassini” di un carabiniere, l’assist ideale per gli slogan del leghista. “Il Pd va in carcere a verificare che il criminale americano non sia maltrattato, non ho parole”, ha subito twittato. Il problema è che la visita non pare essere piaciuta nemmeno ai suoi colleghi di partito. Mentre il leader del Carroccio tornava alla carica (“Noi stiamo con gli italiani, il Pd sempre dalla parte sbagliata”), anche il segretario dem Zingaretti ieri ha preso le distanze: “È una sua iniziativa personale, non è fatta a nome del Pd”. Ancora più duro Calenda: “È il caldo: stiamo raggiungendo vette di stupidità mai conquistate”. Che andare a trovare i presunti omicidi di un carabiniere, sull’onda dello sdegno popolare, non fosse una mossa geniale era facile immaginarlo. Scalfarotto però lo rivendica: “La salvaguardia dello Stato di diritto non sia mai messa in secondo piano per opportunità politica”. Anche il suo partito, però, non la pensa così.

McDonald’s non potrà andare a Caracalla, il Pd per le feste elettorali sì

Il vivaio Eurogarden, proprietario degli 800 metri quadri dove dovrebbe sorgere il “bistrot” di McDonald’s alle spalle delle Terme di Caracalla, ha ospitato per due volte di fila – nel 2013 e nel 2016 – i festeggiamenti per le vittorie elettorali di Sabrina Alfonsi, presidente del I Municipio Centro Storico di Roma. Parliamo dello stesso Ente che dovrà dare la licenza di somministrazione cibi e bevande al futuro ristorante, terminati i lavori di “riqualificazione”. Questo, ovviamente, se la multinazionale americana riuscirà ad opporsi allo stop intimato dal ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli, sulla base di un vincolo risalente al 1956 scovato da Il Fatto Quotidiano. McDonald’s ha infatti annunciato l’intenzione di ricorrere al Tar del Lazio.

Le immagini del comizio post-elettorale, datato 24 giugno 2016, sono ancora sul profilo Facebook della presidente, corredate da un testo dove si ricorda anche l’iniziativa di tre anni prima. La minisindaca del Pd, molto vicina al segretario nazionale Nicola Zingaretti, era ben a conoscenza del progetto di portare la nota catena americana di fast-food in una delle aree archeologiche più importanti del mondo. “Siamo nel libero mercato, un McDonald’s vale come qualsiasi altro ristorante”, aveva detto al quotidiano Repubblica, che ha tirato fuori la vicenda. All’oscuro, invece, pare fosse gran parte della maggioranza dem che popola la municipalità del Centro Storico, tanto che proprio ieri il Pd locale si è detto contrario al progetto e anche all’interno della stessa giunta si è cercato di scaricare la responsabilità altrove.

Fra l’altro, lo stesso vivaio – la cui proprietà da tempo cerca di trovare dei progetti alternativi economicamente sostenibili per rilanciare la propria attività – avrebbe dovuto traslocare da tempo fuori dall’area archeologica, almeno a leggere il Piano Territoriale Paesistico approvato il 10 febbraio 2010: “Si prevede – si legge nella relazione allegata – la riqualificazione complessiva dell’intera sottozona in modo da creare un’area di rispetto più ampia per le Terme di Caracalla, creando un unico parco, delocalizzando lo Stadio delle Terme posto a nord e l’area dei vivai posta a sud. L’area così liberata deve essere mantenuta a prato, la viabilità carrabile lungo il margine delle Terme deve essere eliminata”.

Chi ha dato dunque i permessi ai lavori, bruscamente interrotti dal ministro Bonisoli? Stando ai documenti acquisiti, nessuno ha mai comunicato formalmente al Dipartimento Urbanistica del Comune di Roma e alla Soprintendenza capitolina l’intenzione di realizzare un McDonald’s. Gli atti rimpallati da un ufficio all’altro sin dal 2015, con il parere definitivo dettato proprio dalla Soprintendenza ministeriale sulla “assenza di vincoli”, riguardavano sostanzialmente l’autorizzazione ai lavori di riqualificazione di un capannone abbandonato. Sarebbe dovuto essere l’ente territoriale di prossimità a fornire la licenza definitiva per il ristorante, ma solo alla fine dei lavori.

Intanto nella giornata di ieri, gli agenti della Polizia Locale di Roma Capitale, alla presenza del comandante Antonio Di Maggio, hanno visitato il cantiere a Caracalla: i lavori appaiono in stato piuttosto avanzato. Silenzio, per il momento, dalla Regione Lazio, che sta lavorando al nuovo Piano Territoriale Paesistico nella cui bozza, per il momento, non è stata ancora inserita fra le aree vincolate quella delle Mura Aureliane, patrimonio dell’Unesco.

Carabiniere ucciso, i legali: “Liberare l’altro americano”

Gli avvocati di Christian Natale, uno dei due americani coinvolti nel caso dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, hanno presentato istanza al Tribunale del Riesame per chiedere la scarcerazione del loro assistito. Già quando è stato fermato, poco dopo l’omicidio avvenuto nella notte del 24 luglio, il 19enne si era difeso spiegando di non essersi reso conto di quanto stava avvenendo al suo fianco, con Finnegan Lee Elder che sferrava undici coltellate al vicebrigadiere. Non solo, il giovane – poi fotografato da qualche carabiniere quando è stato bendato dopo il fermo (anche su questo è in corso un’indagine) – ha sostenuto di non sapere che l’amico avesse con sè un coltello, circostanza confessatagli solo quando sono tornati in albergo. La sua è una versione che però nei giorni scorsi non ha convinto il gip Chiara Gallo che ha convalidato l’arresto dei due americani. “La sua linea difensiva – scrive il giudice – basata sulla mancata consapevolezza che il compagno fosse armato di coltello non appare credibile: i due indagati hanno reso, su questo e altri punti significativi (…) dichiarazioni contraddittorie. Elder ad esempio ha riferito che era stato Natale a nascondere il coltello, dopo che lui l’aveva lavato (…) e ha dichiarato che quando il vicebrigadiere dopo i primi colpi aveva gridato, Natale e Varriale (il militare che ha avuto invece una colluttazione con Natale, ndr) si erano ‘resi conto che era successo qualcosa di brutto’”.

Il gip ritiene credibile la versione di Elder. Per questi motivi, secondo il giudice, “è certamente configurabile un concorso di entrambi gli indagati nel reato di omicidio”. E ne spiega i motivi: “Sotto il profilo materiale, la presenza di Natale che ha impegnato Varriale nella colluttazione ha certamente agevolato la condotta materiale posta in essere da Elder impedendo al Varriale di intervenire in aiuto del collega e consentendo al complice di portare a termine il delitto”. Ora sarà il Tribunale del Riesame a decidere: si vedrà se ci sarà una valutazione diversa, consentendo la scarcerazione di Natale. La difesa di Elder invece sta ancora valutando se presentare l’istanza.

Intanto sono stati consegnati agli inquirenti che indagano sull’omicidio i risultati del preliminare dell’autopsia sul corpo del carabiniere, dove è stabilito che a Cerciello sono state inflitte ripetute coltellate sia al fianco destro che a quello sinistro e un colpo più profondo inferto da dietro che ha raggiunto lo stomaco. A breve arriveranno anche le conclusioni del medico legale che ha eseguito l’autopsia.

Rottamazione Ter, per la prima rata slitta ancora la scadenza

Cinque giorni extra a disposizione dei contribuenti che entro il 31 luglio 2019 dovevano pagare la prima rata della cosiddetta “rottamazione-ter” delle cartelle. C’è tempo fino a lunedì 5 agosto, infatti, per coloro che entro lo scorso 30 aprile hanno aderito alla definizione agevolata e devono procedere con il primo pagamento previsto dal piano di rateizzazione scelto in fase di adesione. È quanto prevede la Legge n. 136/2018 che ha introdotto la possibilità di pagare con un lieve ritardo e senza oneri aggiuntivi. Per il versamento si deve utilizzare il bollettino Rav con scadenza 31 luglio inviato nelle scorse settimane dalla Agenzia delle entrate-Riscossione insieme al piano complessivo dei pagamenti (si può richiedere la copia sul sito dell’Agenzia delle entrate-Riscossione). L’attenzione deve essere massima perché, come fa sapere l’Agenzia delle entrate-Riscossione, il mancato, insufficiente o tardivo pagamento della rata, oltre la tolleranza di cinque giorni prevista per legge, determina l’inefficacia della definizione agevolata. In soldoni: il debito non potrà essere più rateizzato e l’agente della riscossione dovrà riprendere, come previsto dalla legge, le azioni di recupero.

Pronto soccorso le nuove regole: numeri, colori e tempi certi

Codici numerici da 1 a 5, ai quali le Regioni potranno abbinare dei colori, e tempi certi con un’attesa massima prevista di 8 ore. Cambiano le regole al Pronto soccorso, con tre obiettivi prioritari: evitare i ricoveri inappropriati, ridurre i tempi di attesa e aumentare la sicurezza delle dimissioni. Il nuovo sistema, che ha ottenuto il via libera della conferenza Stato-Regioni, dovrebbe entrare a regime entro 18 mesi. Nel nuovo sistema la selezione per gravità dei casi si baserà su 5 numeri e colori: 1 “rosso” per l’emergenza con intervento immediato; 2 “arancione” per urgenza entro 15 minuti; 3 “azzurro” per urgenza differibile con intervento entro 60 minuti; 4 “verde” per urgenza minore (entro 120 minuti); 5 “bianco” per la non urgenza con intervento entro 240 minuti. Altra novità è la creazione di un’area cosiddetta see and treat: qui infermieri in possesso di una “formazione specifica” applicheranno protocolli standard per curare le urgenze minori, con l’obiettivo di ridurre ulteriormente il sovraffollamento nei Pronto soccorso. Prevista pure un’area di osservazione breve e intensiva, per terapie a breve termine e la possibilità di approfondimenti diagnostici. In questo caso, l’obiettivo è ridurre i ricoveri inappropriati e aumentare la sicurezza delle dimissioni dal Pronto soccorso.

“L’Accordo Stato-Regioni è positivo perché allinea l’Italia agli standard della maggior parte degli altri Paesi, considera la presa in carico della persona nella sua interezza e pone le basi per ridefinire e valorizzare il ruolo della medicina d’emergenza”, spiega Sergio Venturi, coordinatore vicario della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Che aggiunge: “È previsto un periodo di transizione di 18 mesi e si punta a una migliore organizzazione delle aree e degli spazi, distinguendo un’area di osservazione breve e intensiva che comporti, oltre all’osservazione clinica, una terapia a breve termine e la possibilità di approfondimenti diagnostici”.

Rwm, stop alle armi ad Arabia ed Emirati

Sospensione di 18 mesi delle licenze per l’esportazione di bombe d’aereo e componenti verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. La Rwm, l’azienda del gruppo tedesco Rheinmetall con sede a Domusnovas (Sulcis) e a Ghedi (Brescia), ha recepito l’invito del Parlamento che il 26 giugno aveva approvato una mozione, a prima firma del deputato M5S Pino Cabras, che impegnava il governo “ad adottare gli atti necessari a sospendere le esportazioni verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi”.

L’annuncio della sospensione è stato dato dal dg Rwm Fabio Sgarzi in una lettera ai lavoratori, in cui chiarisce che la volontà politica “va serenamente accettata, nel rispetto delle leggi che da sempre hanno guidato l’operato dell’azienda”.

Esulta il capogruppo in Commissione Esteri del M5S al Senato, Gianluca Ferrara: “Una vittoria arrivata dopo una lunga azione di pressione politica e civile che mette in luce la necessità di sottrarre queste doverose decisioni alla discrezionalità e ai tempi della politica, creando un meccanismo normativo che renda automatica e immediata la sospensione delle forniture belliche quando il destinatario entra in un conflitto senza autorizzazione Onu o peggio ancora commette crimini di guerra. Così sarà – prosegue Ferrara – se verrà approvato il ddl di rafforzamento della legge 185/90 proposta dal Movimento 5 Stelle. A quel punto non serviranno più lunghe trattative per garantire ciò che è assicurato per legge. E non mi riferisco solo alla sospensione di forniture non più rispondenti alla legge, ma anche alla loro autorizzazione iniziale, oggi sempre concessa grazie a trucchi e sotterfugi”.

Intanto l’azienda rassicura i lavoratori, parlando di “periodo non semplice”, che richiederà “la collaborazione di tutti”, affinché si possa andare avanti nella prevista “realizzazione degli investimenti strategici”, trovandosi pronti “al termine del periodo di sospensione”. Ma sugli auspici dell’azienda pesa ora anche il ricorso presentato dalle associazioni ambientaliste contro l’ampliamento degli stabilimenti, che sarebbero stati autorizzati senza le necessarie procedure di via, attraverso l’escamotage tecnico dello spacchettamento di porzioni di progetto.

Il 12 luglio il Tar Sardegna ha emesso un’ordinanza con la quale procede alla nomina di un consulente tecnico d’ufficio e fissa al prossimo 20 gennaio la discussione dei numerosi vizi di legittimità sollevati sul rilascio delle autorizzazioni per l’ampliamento dello stabilimento di Domusnovas-Iglesias-Musei. Sarebbe il colpo finale sui piani strategici della Rwm in Sardegna.

“Morandi, ultime misure efficaci fatte 25 anni fa”

“Difetti esecutivi” e “mancanza di interventi significativi di manutenzione” almeno negli ultimi venticinque anni.

L’inchiesta per il crollo del ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto 2018, potrebbe segnare una svolta: ieri i tre periti incaricati dal gip Angela Maria Nutini hanno depositato la loro perizia per l’incidente probatorio. Sono 72 pagine predisposte dagli ingegneri Gianpaolo Rosati, Massimo Losa e Renzo Valentini. È il frutto di mesi di sopralluoghi tra Genova e Zurigo, di analisi compiute da università italiane e da esperti svizzeri. E di esami delle parti del ponte rimaste in piedi (in particolare la pila 10, ma anche le altre) e dei detriti raccolti per conto della Procura (i resti della pila 9 il cui crollo ha causato il disastro).

Da qui, dallo studio dei trefoli d’acciaio e del cemento, si è cercato di ricostruire l’intera storia del ponte. A cominciare, appunto, dalle anomalie legate alla costruzione negli anni ’60. I periti a questo proposito parlano di “difetti esecutivi” rispetto al progetto nato dalla matita di Riccardo Morandi. Ma è soltanto il primo passo. Perché, come si ricorda a pagina 9, “le attività ispettive” che devono essere compiute da chi gestisce un’opera, “fanno parte del processo decisionale di gestione della manutenzione dell’opera al fine di recuperare almeno in parte il moltiplicatore di collasso ‘perso’ nel tempo trascorso”. Insomma, se anche un’opera era sicura all’inizio della sua esistenza, l’usura ne modifica le caratteristiche strutturali. Vale soprattutto per un ponte come il Morandi che negli anni ha visto moltiplicare esponenzialmente il traffico (fino a picchi di centomila vetture al giorno).

Il quesito fondamentale posto ai periti era il numero 2: descrivere lo stato di conservazione e manutenzione del materiale. L’attenzione si è concentrata sul reperto 132, relativo all’ancoraggio dei tiranti sulle sommità delle antenne del lato Sud, che, secondo gli inquirenti, è quello dove si sarebbe prodotto il primo cedimento strutturale che ha provocato il disastro. Qui i periti esaminando i trefoli – i cavi d’acciaio immersi nel cemento che a loro volta sono composti da centinaia di fili di metallo – hanno riscontrato “uno stato corrosivo di tipo generalizzato di lungo periodo, dovuto alla presenza di umidità, di acqua e contemporanea presenza di elementi aggressivi come solfuri, derivati dello zolfo, e cloruri”.

Un’analisi che si basa proprio sugli studi effettuati nel laboratorio specializzato di Zurigo di cui il Fatto anticipò i risultati. I trefoli analizzati sono 458. Nella categoria 0 (dal 90 al 100% di riduzione di sezione) sono stati inseriti il 19% dei cavi primari e il 25 di quelli secondari. Nella categoria 1 (riduzione del 75% di sezione) si parla del 22% di cavi primari e del 30 dei secondari. Nella 2 (riduzione del 50) si trovano il 27 e il 20 dei trefoli. A livello 3 (riduzione di appena il 25%) si scende al 18 e al 12 del materiale esaminato. I cavi sani (categoria 4, intorno al 10% di sezione) sono il 14% tra quelli primari e il 3 tra quelli secondari. I periti annotano: “Non si evidenziano interventi atti a interrompere i fenomeni di degrado… Gli unici ritenuti efficaci risalgono a 25 anni fa”, quando Autostrade era in mano pubblica. Insomma, peccati originali e sopravvenuti si intreccerebbero. All’epoca della costruzione risalirebbe il fatto che “i cavi secondari sono spesso liberi di scorrere: alcuni trefoli non sono stati trovati dentro le guaine”. Ma emerge anche che “in generale i cavi secondari nelle guaine presentano fenomeni di ossidazione e, in alcuni casi, con riduzione di sezione, i quali hanno effetti diretti sulla sicurezza strutturale”. Anomalie anche negli elementi non crollati, dove sarebbero state trovate reti metalliche elettrosaldate per contenere il distacco di calcestruzzo dalle stampelle e selle Gerber il cui “stato di conservazione è caratterizzato da un livello generalizzato esteso e grave di degrado”.

Immediata la reazione di Autostrade secondo cui la perizia non proverebbe un difetto di manutenzione: “La relazione riporta soltanto la classificazione degli stati di corrosione dei fili di acciaio componenti i trefoli, classificazione determinata in modo sommario e quindi utilizzabile soltanto ai soli fini descrittivi. Tale classificazione consente comunque di escludere che sia stato lo strallo la causa primaria del cedimento”.

Iliad contro Vodafone, chiesti 500 milioni per ritardi portabilità

Francia contro Inghilterra, ma il terreno di scontro non è quello calcistico ma delle telecomunicazioni. Iliad ha deciso di fare causa a Vodafone e chiedere circa 500 milioni di danni per presunte condotte illecite avvenute nel periodo luglio-settembre del 2018. Secondo Iliad, Vodafone non avrebbe evaso entro i tre giorni previsti per legge le richieste di portabilità del numero, impiegando talvolta varie settimane. “Con i conseguenti danni patrimoniali e di immagine che ne derivano per la società”, si legge nella denuncia. Poi Iliad ritiene che Vodafone avrebbe diffuso comunicazioni (anche attraverso sms, siti Internet, locandine nei negozi) per pubblicizzare alcune delle proprie offerte in maniera ingannevole e senza descrivere in modo completo le condizioni economiche praticate agli utenti che avevano richiesto da poche settimane di passare ad Iliad. Il problema della trasparenza di queste offerte “di ritorno” dedicate agli ex clienti è approdato nei mesi scorsi, su esposto di Iliad, anche sul tavolo dell’Antitrust che ha aperto un procedimento a proposito. Secondo Vodafone quella di Iliad “è un’iniziativa totalmente strumentale nel merito e priva di ogni fondamento”.

Nuovo scalo, i ricorsi all’insaputa dei ministri

Il cortocircuito politico, per non dire istituzionale, è sotto gli occhi di tutti. Da una parte l’Avvocatura dello Stato che in una mattina di calura estiva presenta ricorso al Consiglio di Stato contro la bocciatura del decreto Via (Valutazione impatto ambientale) sull’ampliamento dell’aeroporto di Firenze. Dall’altra il Movimento 5 Stelle che, tramite due dei suoi ministri più rappresentativi, Sergio Costa (Ambiente) e Alberto Bonisoli (Beni Culturali), decide di sconfessare l’Avvocatura e ritirarsi dal ricorso perché contrario all’ampliamento dello Scalo di Peretola. Con un risultato paradossale: lo Stato dovrà difendere davanti ai giudici amministrativi una decisione presa dai ministeri che adesso ne prendono le distanze. Il caos, insomma.

Tutto inizia nel 2017 quando la commissione tecnica del ministero dell’Ambiente approva il decreto Via per la nuova pista dell’aeroporto, un’opera voluta fortemente da Matteo Renzi e dal suo braccio destro Marco Carrai. Ma sette comuni della piana fiorentina (Prato, Sesto Fiorentino, Campi Bisanzio, Calenzano, Carmignano, Poggio a Caiano e Signa) e i comitati “No aeroporto” fanno ricorso al Tar. Il 28 maggio, due giorni dopo la rielezione a furor di popolo, per il renzianissimo sindaco di Firenze Dario Nardella arriva la doccia fredda: il Tar della Toscana dà ragione ai sindaci della Piana e boccia il decreto Via criticando aspramente il lavoro dei dirigenti del ministero dell’Ambiente e dei Beni Culturali: “La previsione di un numero così elevato di prescrizioni ma soprattutto il carattere e il tenore di queste ultime – si legge nella sentenza – dimostra inevitabilmente il difetto di istruttoria in cui sono incorsi i ministeri”.

Così l’opera, che nel frattempo aveva incassato il parere favorevole della conferenza dei servizi al ministero delle Infrastrutture, viene bloccata. In condizioni normali, però, i due ministeri competenti presenterebbero ricorso al Consiglio di Stato per difendere l’operato dei propri dirigenti. E invece no, perché il M5S è da sempre contrario all’opera. Mercoledì mattina, l’Avvocatura dello Stato presenta il ricorso ma dopo poche ore si scatena la protesta dei comitati e poi dei consiglieri regionali 5Stelle che tempestano di sms i ministri Sergio Costa e Alberto Bonisoli: “Ma come? – è il tenore dei messaggi – noi siamo da sempre contrari all’opera e, una volta che siamo riusciti a bloccarla, voi la difendete facendo ricorso?”.

Così, dopo poche ore, arriva il passo indietro. Prima è l’Enac, l’ente dell’aviazione civile, a ritirare il suo patrocinio al ricorso per un difetto di competenza: il direttore Nicola Maccheo (nominato a gennaio dal governo) spiega che il suo ente aveva commesso un “errore” in quanto “l’impugnazione era relativa a un atto non emanato dall’Enac”. Poi, in serata, dopo le pressioni dei 5 Stelle locali e del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, arriva anche il passo indietro di Costa e Bonisoli che ritirano la partecipazione al ricorso perché “inopportuna politicamente”. “I ministri non erano stati informati del ricorso – spiega una fonte del ministero dell’Ambiente – e alla fine abbiamo deciso di prendere questa decisione per dare un forte segnale politico”. Il dietrofront e la figuraccia, però, rimangono agli atti: “È stato un pasticcio”, conclude amaro un esponente del M5S toscano. L’avvocatura continuerà il suo ricorso, ma a nome di nessuno. Sul tavolo rimangono anche quelli presentati da Toscana Aeroporti e, da ieri, dalla Regione Toscana per non bloccare l’opera.

All’Ilva torna lo scudo penale, ma sarà parziale e a scaglioni

Lo scontro è ormai più di facciata che di sostanza. Ed è avvenuto solo per le improvvide parole sfuggite al direttore finanziario di Arcelor Mittal, Aditya Mittal, che ha violato il riserbo imposto sulla trattativa che dovrebbe portare a un parziale ripristino dell’immunità penale garantita dal governo Renzi ai vertici del siderurgico tarantino, oggi in mano al colosso franco-indiano, ed eliminata con una norma del decreto Crescita a partire dal 6 settembre.

Durante una conference call con gli analisti sui conti trimestrali, Mittal ha spiegato che l’esecutivo “sta lavorando a una nuova legge che ripristini” lo scudo. Al ministero dello Sviluppo non l’hanno presa bene. Dallo staff di Luigi Di Maio è arrivata una smentita “categorica” che però fa intuire a cosa si stia lavorando: “Come più volte ribadito, si vuole intervenire esclusivamente sull’attuazione del piano ambientale nel più breve tempo possibile. Non esisterà più alcun scudo penale per morti sul lavoro e disastri ambientali”. Il ministro su Facebook ci è andato giù duro: “A Taranto abbiamo abolito l’immunità penale che aveva introdotto il Pd. Proteggeva chi gestiva quello stabilimento anche in caso di responsabilità da morti sul lavoro o disastri ambientali. Oggi qualcuno ha detto che l’immunità tornerà. È falso”.

Dopo il botta e risposta, Mittal ha diffuso una laconica nota in cui chiede al governo “la necessaria tutela giuridica per poter continuare ad attuare il proprio piano ambientale e resta fiduciosa che si troverà una soluzione”. Due settimane fa aveva annunciato che il 6 settembre fermerà gli impianti senza il ripristino dello scudo. A quel punto la trattativa è partita, con tanto di incontri e interlocuzioni con i tecnici del ministero. Nella versione iniziale “l’esimente penale” copriva tutto l’arco del piano ambientale, che si conclude nel 2023, e aveva una portata assai vasta, comprendendo non solo materie “ambientali” ma anche “di tutela della salute, dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”. Con il decreto Crescita, lo scudo è stato eliminato e lasciato solo ai commissari della vecchia Ilva in amministrazione straordinaria, che si occuperanno delle bonifiche, ma circoscritto all’attuazione del piano ambientale. Ora al ministero si lavora sostanzialmente per estendere quest’ultima versione anche ai vertici della nuova Ilva.

L’idea è di garantire l’immunità per eseguire i lavori nei limiti temporali definiti dal cronoprogramma. Se si sforano, decade lo scudo, così come se si compiono operazioni fuori dal perimetro fissato dal piano ambientale. Se, per dire, l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) impone di mettere a norma entro il 2020 un reparto dell’area a caldo entro il 2021, lo scudo per i vertici dell’azienda sarà valido fino a quella data. Insomma, un’immunità un po’ meno omnibus e a tappe, anche se non sarà semplice delimitare davvero le singole operazioni. In ogni caso, nelle intenzioni del ministero la nuova norma dovrebbe eliminare anche il rischio per gli attuali vertici di dover rispondere per attività “omissive”, cioè per gli effetti di prescrizioni non ottemperate in passato. Andrà poi trovato il veicolo normativo dove inserirla.

Detto della trattativa, non è chiaro se alla fine si chiuderà l’accordo. Il rischio che Mittal molli l’Ilva, con tanto di mega causa allo Stato, è concreto. I clienti li ha già presi e, in un settore in sovracapacità produttiva, tenere aperto l’impianto conviene solo a certe condizioni. A Taranto, Mittal – che ha chiuso il primo trimestre 2019 con utili sotto le attese e l’annuncio di nuove dismissioni – ha già avviato unilaterlamente la cassa integrazione per 1.400 operai, mentre il target di produzione a 5 milioni di tonnellate d’acciaio annue si allontana. A complicare il quadro arriverà anche la revisione dell’Aia avviata dal ministro dell’Ambiente, Sergio Costa.