Stop al McDonald’s alle Terme di Caracalla a Roma. Dopo una settimana di indagini, polemiche e scaricabarili il ministero dei Beni culturali ha firmato il provvedimento che impedisce la costruzione del fast food nel cuore verde di Roma. A darne il giusto richiamo è Repubblica di ieri che, in prima, ricorda che se la vicenda è stata bloccata è proprio merito del quotidiano, grazie alla “campagna di denuncia” che ha portato avanti, “accendendo i riflettori sulla questione che qualcuno aveva tenuto nascosto”. Peccato che Repubblica non legga gli altri quotidiani, altrimenti saprebbe che a denunciare “l’installazione tragicomica all’ombra delle Mura Aureliane”, aprendo “uno spaccato impietoso sul tasso di ignavia e incompetenza di cui sono affette le nostre amministrazioni”, è stato Tomaso Montanari sulle pagine de il Fatto Quotidiano. Lo storico dell’arte ha raccontato che l’area rientrando in un vincolo paesaggistico – apposto dalla Regione Lazio nel 2010 – ha fatto scattare l’articolo 146 del Codice dei Beni Culturali, che proibisce modificazioni come quella prospettata e impone a Comune e a Soprintendenza di vagliare in questo senso le eventuali domande: cosa che entrambi gli enti si sono ben guardati dal fare, prima di metterlo nero su bianco sul Fatto. Così è facile fare le campagne di denuncia.
È già costato 5,5 miliardi e partirà (forse) nel 2022
La storia del Mose (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) – il sistema di paratoie mobili di cemento alle bocche di porto del Lido, di Malamocco e di Chioggia concepite nel 1981 per proteggere Venezia dalle alte maree e i cui lavori sono iniziati nel 2003 – è un’antologia degli orrori. Invece di entrare in funzione nel 2011, partirà (forse) nel 2022; invece di costare 1,6 miliardi di euro, ne è già costato 5,5 cui si aggiungeranno circa 80 milioni l’anno per la manutenzione. Tutta l’opera è stata segnata da gravissimi episodi di corruzione, culminati in un processo che si è concluso nel 2017 rivelando un turbinoso giro di mazzette per coprire lavori e opere mal progettati e mai realizzati. L’inchiesta giudiziaria venuta alla luce con i 35 arresti del giugno 2014 ha portato alla condanna in primo grado per corruzione dell’ex ministro Altero Matteoli, poi deceduto e dell’imprenditore Erasmo Cinque. Due anni (in continuazione con i patteggiamenti del 2013) all’ex presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita. Ha patteggiato due anni e 10 mesi Giancarlo Galan, governatore del Veneto dal 1995 al 2010 e poi ministro dell’Agricoltura di Silvio Berlusconi. Ma quel che è più paradossale, nonostante un esborso pazzesco, una volta in funzione il sistema di 78 paratie mobili chiuderà la porta alle maree eccezionalmente alte, da 110 centimetri a tre metri. Ma non potrà fare nulla per limitare i danni quando arrivano le acque medio-alte, quelle tra gli 80 e i 100 centimetri, sempre più ricorrenti. Il Mose rischia anche cedimenti strutturali per la corrosione elettrochimica dell’ambiente marino e per l’uso di acciaio diverso da quelli dei test. Le cerniere che collegano le paratoie mobili alla base in cemento – ce ne sono 156, ognuna pesa 36 tonnellate, un appalto da 250 milioni affidato senza gara al gruppo Mantovani – sono già corrose. È stato già indetto un bando da 34 milioni, dalla durata di 10 anni, per le nuove cerniere, ma le spese future per la manutenzione sono del tutto imprecisate.
Il Mose non ha mai avuto un piano di manutenzione
Il Mose, la più grande opera idraulica mai realizzata in Italia, non ha un piano di manutenzione. Incredibile, ma vero. Accade anche questo attorno alla greppia da 5,5 miliardi di euro dove si sono abbuffati politici e funzionari di Stato e imprese, prima che nel 2014 decine di persone finissero in manette. Il documento completo più recente risale al 1992 (l’anno di Tangentopoli) ed è legato a uno studio di massima, poco più dell’abbozzo di un’idea. Ma non è l’unica cosa che manca al Mose. Ad esempio, non sono mai stati fatti i collaudi delle gigantesche cerniere, corrose dalla ruggine prima ancora di entrare in funzione. I collaudatori non hanno sottoscritto che le opere fossero fatte a opera d’arte, proprio a causa delle prime manifestazioni del deterioramento delle parti che devono alzare le paratie per difendere la città di Venezia dall’acqua alta. Se non funzionano le cerniere, non funziona neanche il Mose. Il Fatto Quotidiano ha già raccontato dell’appalto da 34 milioni di euro appena bandito dai commissari del Consorzio Venezia Nuova per trovare aziende che si occupino di questa emergenza. Ma non si sapeva, finora, che i collaudi fossero stati interrotti già due/tre anni fa.
La conferma è contenuta in una lettera che Roberto Linetti, provveditore interregionale alle opere pubbliche del Nordest ha scritto al deputato Giuseppe L’Abbate (M5S), al Consorzio Venezia Nuova e al ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Risponde a una doppia richiesta di accesso agli atti che il parlamentare ha formulato dopo il clamore delle cerniere arrugginite: avere il piano di manutenzione allegato al Mose e l’elenco dei collaudatori. Linetti ha girato queste richieste al Consorzio. E poi ha risposto nella sostanza. Ecco la prima ammissione sconcertante: “Al progetto Mose nella sua interezza non era allegato alcun piano di manutenzione.
Ciò è dovuto al fatto che si tratta di un progetto di dimensione ciclopica, sia in senso fisico che, soprattutto, in termini di complessità e varietà di componenti”. Quindi 27 anni fa, prima che le aziende private – poi coinvolte nelle inchieste – prendessero in carico l’opera mangiasoldi, il problema era ben presente. Scrive Linetti: “Agli atti di questo Ufficio vi è un’approfondita relazione del 1992 sulla manutenzione. Si era nella fase del progetto di massima, prima che potesse formarsi una totale consapevolezza del sistema”. Archeologia industriale: il progetto definitivo è del 2002, mentre i cantieri partono nel 2003. Il provveditore aggiunge: “Il piano di manutenzione, oltre ad essere costituito da un numero elevato di specifici piani di manutenzione (cassoni, gallerie, singoli impianti, paratoie, fino alla qualità dell’acqua, agli organismi vegetali ed animali…), deve fare i conti con la condizione di opera sommersa in ambiente salino e alla sinergia degli elementi che compongono il sistema, affinché esso funzioni”.
Insomma, qualcosa si fa, ma il discorso della manutenzione è differito perché nessuno può sapere, e solo ora si comincia a sospettare, quanto le condizioni ambientali avrebbero alterato i meccanismi. Linetti scrive di “una popolazione oggetto di manutenzione che si compone di circa 70.000 unità, una popolazione cittadina di un apposito sistema di gestione che si sta implementando in questi mesi”. E poi ammette: “Le regole del gioco faranno parte del piano per l’avviamento del sistema Mose, in corso di redazione”. Quindi non è ancora pronto, a 16 anni dall’apertura dei cantieri.
Il provveditore Linetti affronta anche il problema della corrosione. La premessa è una novità: “Le cerniere delle paratoie delle quattro bocche di laguna non sono ancora state collaudate”. I gruppi di cerniere-connettori sono 156. È lì che è spuntata la ruggine. E lo si sapeva da tre anni. “Quando è emerso il problema della corrosione, già nel corso del 2016, a seguito dell’attività di alta sorveglianza svolta dal Provveditorato, le diverse commissioni di collaudo, tutte nominate in corso d’opera, hanno comunicato, con nota congiunta del 29 maggio 2018, di voler sospendere le operazioni fino a che non si fosse individuata una soluzione per ovviare alle ossidazioni e non fosse completo il sistema di climatizzazione degli ambienti ove sono collocate le strutture”. Per questo è partita ora la gara da 34 milioni di euro per le nuove cerniere? “Deve individuare una soluzione che consenta di garantire nel tempo i manufatti ed evitare, in una prospettiva più lunga, maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
In realtà, dai documenti del Mose emergono tanti singoli piani di manutenzione, ma manca il quadro d’insieme. Scrive l’Ordine degli ingegneri di Milano per le paratie di Malamocco: “Le opere di questa singola parte nell’ambito dell’intera durata dei lavori limitata a pochi anni non richiedono interventi di manutenzione… infatti il piano di manutenzione classico verrà portato all’approvazione del concedente dopo l’approvazione dell’ultima parte in cui l’intero lavoro è stato svolto”.
“È gravissimo. Sono anni che il piano di manutenzione fa parte degli elementi imprescindibili di un progetto e – commenta sconfortato l’onorevole L’Abbate – viste le tante varianti che ha subito il Mose, si sarebbe dovuto provvedere anche in corso d’opera. E, invece, non è stato mai richiesto. Come si fa a gestire la durabilità del Mose, come previsto dalle norme tecniche per le costruzioni del 2008? E come fa lo Stato, che dovrà accollarsi quest’opera mastodontica, a sapere quanto costerà mantenerla?”.
Il presidente Usa annuncia altri dazi contro Pechino
Mentre tratta con Pechino Donald Trump annuncia via Twitter dal primo di settembre una nuova raffica di dazi del 10% su 300 miliardi di dollari di merci e prodotti cinesi importati in Usa.
Una mossa che ha terremotato i mercati: il petrolio ha perso il 6% a New York e i principali indici borsistici di Wall Street sono andati in rosso.
“Pensavamo di avere un accordo con la Cina tre mesi fa ma purtroppo ha deciso di rinegoziarlo prima di firmarlo”, ha denunciato il presidente. Poi però: “Più recentemente la Cina aveva concordato di acquistare prodotti agricoli dagli Usa in grande quantità ma non lo ha fatto. Inoltre il mio amico presidente Xi aveva detto che avrebbe fermato la vendita di Fentanyl in Usa ma questo non è mai avvenuto e molti americani continuano a morire!”.
La Cina non ha ancora reagito ma, proprio poco prima dell’annuncio dei nuovi dazi, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi aveva definito l’ultimo round di negoziati “un importante passo avanti”. Trump, con la sua solita tattica ha deciso di farne altri due indietro.
Dal Sud se ne sono andati in due milioni
Mentre, sempre più stanco, continua a Roma il dibattito sul “regionalismo differenziato” per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – cioè le tre Regioni che producono il 40% del Pil e vogliono più soldi per sé – il Mezzogiorno s’avvita in una crisi che non pare conoscere fine. Lo confermano, una volta di più, le anticipazioni del Rapporto Svimez (associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), secondo cui è l’emigrazione “la vera emergenza meridionale, che negli ultimi anni si è via via allargata anche al resto del Paese”.
I numeri ci riportano quasi agli esodi del Novecento. Nel quindicennio tra il 2012 e il 2017 – scrive Svimez – sono oltre due milioni i cittadini del Mezzogiorno che sono emigrati verso il CentroNord o altri Paesi. Nel solo 2017, ad esempio, sono state 132.187, la metà giovani, dei quali il 33% (quasi 22mila) in possesso di una laurea. Nel quindicennio il saldo migratorio interno – cioè il conto tra chi è andato e chi è arrivato – è negativo per 852 mila unità. Per capirci sull’ordine di grandezza, Palermo ha 670mila abitanti, Bari 325mila.
Nelle parole del rapporto: “Sono più i meridionali che emigrano dal Sud per andare a lavorare o a studiare al Centro-Nord e all’estero che gli stranieri immigrati regolari che scelgono di vivere nelle regioni meridionali”; “l’emergenza emigrazione del Sud determina una perdita di popolazione, soprattutto giovanile, e qualificata, solo parzialmente compensata da flussi di immigrati, modesti nel numero e caratterizzati da basse competenze”. Il rischio, a lungo andare, è lo “spopolamento” che già è un problema attuale per i piccoli centri.
Motivi per restare, d’altronde, ce ne sono pochi e anzi la situazione continua a peggiorare. Ad esempio, se quest’anno l’Italia nel suo complesso crescerà poco e niente, il Sud è in recessione dalla metà del 2018: “Nel 2019 il Pil calerà dello 0,3% mentre il resto del paese crescerà dello 0,3%” e questo “alimenta grande preoccupazione anche per l’impatto sulla dinamica dell’occupazione, già negativa al Sud e che può peggiorare ulteriormente”. Riassumendo, “se l’Italia rallenta, il Sud subisce una brusca frenata e si consolida il ‘doppio divario’: dell’Italia rispetto all’Ue e del Sud rispetto al Centro-Nord”.
Lo Stato non pare interessato alla cosa, anzi sta progressivamente abbandonando l’idea di politiche mirate: “L’indebolimento delle politiche pubbliche nel Sud incide significativamente sulla qualità dei servizi erogati ai cittadini” e finisce per scaricarsi su “diritti fondamentali di cittadinanza: in termini di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura”. Un solo esempio: nel Mezzogiorno ci sono 28,2 posti letto di degenza ordinaria ogni 10 mila abitanti, al Centro-Nord 33,7 (e, se parliamo di servizi socio-sanitario il divario si fa incolmabile).
A fronte di questi dati, dice il segretario della Cgil Maurizio Landini, “progetti come l’autonomia differenziata, che puntano ancora di più ad aprire divari sociali e territoriali, vanno respinti con decisione. È necessario un piano straordinario di investimenti per il Sud, anzitutto in infrastrutture sociali e per la mobilità”.
L’americana Sky in Italia si affida ai cinesi di Huawei
Una multinazionale americana che stringe un accordo con i cinesi di Huawei per il debutto nel mercato dell’Internet veloce. Accade in Italia.
Huawei è sospettata di spionaggio dall’amministrazione di Donald Trump, è nella lista nera della Casa Bianca come minaccia per la sicurezza nazionale, eppure Sky Italia, di proprietà degli americani di Comcast, sceglie gli apparecchi e le tecnologie dei cinesi – si tratta dei sistemi terminali – per portare internet in fibra ottica nei salotti, negli uffici, nei locali d’Italia.
Il gruppo televisivo utilizza Huawei per “attivare” la rete in cavi che compra da Open Fiber, azienda italiana controllata da Enel e Cdp, da tempo alleata dei cinesi e principale fornitore dell’emittente con sede a Rogoredo. Il contratto di Sky Italia con Huawei ha un valore di decine di milioni di euro e i cinesi, per il ruolo che svolgono, avranno accesso ai dati sensibili degli utenti.
Con l’avvento al vertice di Maximo Ibarra (da ottobre), un esperto del settore telefonico per la carriera tra Omnitel, Wind e Veon, Sky Italia si prepara a offrire ai circa 5,2 milioni di clienti un abbonamento integrato: i pacchetti televisivi del gruppo e la connessione domestica a Internet. Il progetto di espansione, in ritardo rispetto alle intenzioni (il Fatto ne parlò in ottobre), ricalca il modello di Sky nel Regno Unito e s’interseca con gli affari di Comcast, principale venditore di telefonia fissa e televisione via cavo negli Stati Uniti con un fatturato di oltre 95 miliardi di dollari e una capitalizzazione in Borsa di 197 miliardi. All’asta di Londra, un anno fa, la famiglia Roberts ha strappato Sky Europa alla famiglia Murdoch – fu pure una battaglia di dinastie – per 33 miliardi di euro più altri 13,5 miliardi per completare l’operazione. Per i Roberts, nel gigantismo dell’economia, Sky Europa è la più florida emittente a pagamento del continente, ma soprattutto un serbatoio con più di 23 milioni di clienti da Londra a Roma, da Madrid a Berlino. Per puntellare i bilanci e sfornare guadagni non bastano più gli eventi sportivi o le serie tv più raffinate, che richiedono investimenti sempre più ingenti con una concorrenza mondiale, perciò il cliente deve pagare il solito contenuto a cui non può rinunciare (il calcio) e lo strumento (Internet) che gli permette di gustarsi una partita a casa in alta definizione. Il concetto è ben chiaro a Sky Italia, che spende 1,115 miliardi di euro di diritti tv per l’esclusiva delle coppe europee di calcio e del 70 per cento del campionato italiano a fronte di 3 miliardi di ricavi.
Huawei è al bando negli Stati Uniti, ma scorrazza felice in Italia con un controllo statale blando, il governo diviso, la Lega che raccoglie i timori dei diplomatici americani, i Cinque Stelle col cuore sempre più a Pechino. E la beffa per Trump è che Comcast s’affida ai cinesi proprio in Italia. Al Comcast Center di Filadelfia sono informati delle strategie di Sky Italia? A Rogoredo dicono di sì, ma non commentano il patto con Huawei per ragioni di riservatezza.
La nave di Sea Eye resta in mare. Salvini: “Saliamo a bordo”
Per il momento la Alan Kurdi è ferma, l’imbarcazione della ong tedesca Sea-Eye, si troverebbe a circa 7 miglia dalle acque italiane, e a poco meno di venti dall’isola di Lampedusa. Mercoledì ha soccorso 40 migranti a bordo di un gommone che rischiava il naufragio. L’equipaggio resta in attesa di poter ottenere un porto sicuro, dopo aver rifiutato di trasportare, su invito della guardia costiera libica, i migranti a Tripoli. “Obbediremo al diritto internazionale e non riporteremo nessuno in un paese dove è in corso una guerra civile. La Libia non è sicura”, hanno spiegato dalla Sea-Eye. Tra i naufraghi ci sono un neonato, due bimbi piccoli, due donne, di cui una incinta, e due superstiti del centro di detenzione di Tajoura, finito sotto un bombardamento lo scorso luglio, che ha provocato la morte di 53 persone e 130 feriti.
Il ministro Matteo Salvini, che ha già disposto il divieto d’ingresso in acque italiane per la ong, è pronto all’ennesimo braccio di ferro: “Basta, mi sono rotto le palle. Se entrano in acque italiane prenderemo possesso di quella imbarcazione. Sarà requisita e saliremo a bordo”.
FI, Toti se ne va: 25 parlamentari con lui
Il sinedrio di Forza Italia finisce in un harakiri: Giovanni Toti sbatte la porta e se ne va. Mara Carfagna, l’altra coordinatrice forzista si sfila dal nuovo comitato a 5 lanciato dal leader Silvio Berlusconi senza nemmeno informarla. E ora il ‘divorzio’ all’italiana consumato al Tavolo delle regole per il congresso convocato ieri a Roma, rischia di avere altri strascichi: 25 parlamentari tra Camera e Senato hanno già pronta la valigia per seguire il governatore della Liguria. E non sono nomi di poco peso: c’è l’ex capogruppo Paolo Romani, Gaetano Quagliariello. Osvaldo Napoli, Laura Ravetto, Luigi Vitali solo per citarne alcuni. E poi ci sono tanti amministratori locali: in Lazio 3 consiglieri forzisti su 4, in Lombardia quasi mezzo gruppo regionale. Ma ora cosa succederà? I totiani torneranno a vedersi prossima settimana sempre nella Capitale perchè il Parlamento ancora non è in ferie e deputati e senatori non possono mancare ai lavori. In calendario provvedimenti di un certo peso su cui voteranno presumibilmente con maggiore libertà. Anche se è sicuro che i totiani non lasceranno il gruppo forzista, almeno per ora. Se ne riparlerà a settembre, sempre che, si lascia sfuggire qualcuno, “Antonio Tajani a cui il Cav pare aver affidato le sorti del partito che ha contribuito ad affossare, non decida di cacciarci: magari deferendoci ai probiviri”. Ora però questa ipotesi non spaventa nessuno, anzi. Perchè c’è pure chi rilancia: “Se mi cacciassero mi farebbero un piacere dato che verso al partito in cui non contiamo nulla 900 euro al mese”.
Ma altri ancora non si considerano in uscita. Perchè – spiegano – “il soggetto politico a trazione civica su cui spinge Toti non è incompatibile con Forza Italia, anche se lo potrebbe diventare. Ma per decisione di altri: quelli a cui sta bene che prosegua l’agonia del partito. E che insufflano Berlusconi affinché nulla cambi e i loro posti di sottopotere vengano conservati”. Divorzio vero o schermaglie politiche che siano, Giovanni Toti è intenzionato ad andare avanti: ha lanciato i suoi circoli sul territorio che fino a dopo l’estate visiterà come una trottola. Si parte il 2 settembre con un’iniziativa in Calabria fino all’appuntamento conclusivo del 5 ottobre a Bari. Quello che succederà fino ad allora nessuno può prevederlo, ma in molti credono, sondaggi alla mano, che poi le nuove energie che verranno mobilitate torneranno a casa. Sotto l’ala di Berlusconi. Che però dovrà mandare segnali chiari per ricomporre la frattura che si è consumata ieri. L’ex Cav nel frattempo dovrà dare pure una risposta al quesito posto da Mara Carfagna. Che di lasciare il partito, alla cui guida in un futuro più o meno prossimo sembra destinata, non ci ha pensato neppure per un momento. Anche se i suoi ammettono: “alla riunione di ieri è entrata cardinale ed è uscita vescovo”. Ma non è detta l’ultima parola. Perché dal Cav si aspetta una risposta: con un partito al 5 percento che senso ha fare un coordinamento a 5? Forse è il caso che sia solo 1. E, manco a dirlo, l’identikit perfetto non può che essere il suo.
Tremonti alla Ue, l’ultima provocazione della Lega
L’Italia ha la possibilità di ottenere il portafoglio alla Concorrenza della Commissione europea. Giuseppe Conte ne è sicuro, ma la decisione dipende dalla Lega e dal nome che Matteo Salvini avanzerà per questo incarico. Questa decisione, a sua volta, dipende dall’approccio che il leader leghista intende assumere rispetto alla Ue: entrare nella stanza dei bottoni oppure mettersi all’opposizione come ha fatto nel voto sulla presidente Ursula Von der Leyen.
Ieri il leader leghista ha annunciato che il nome sarà proposto a stretto giro e ha assicurato che sarà “qualcuno che si occupi di dossier economici che riguardano la vita reale, commercio, industria, concorrenza”. Non un tecnico, ma “un professionista che è nella Lega da anni”. Il candidato migliore sarebbe Giancarlo Giorgetti, che però si è sfilato da tempo con disappunto dello stesso Conte che quel nome aveva iniziato a spenderlo in Europa. Gli unici altri nomi possibili sembrano essere il viceministro all’Economia, Massimo Garavaglia, addirittura il “no-euro”, Claudio Borghi, ma anche del ministro dell’Agricoltura, Gianmarco Centinaio o di quello alla Famiglia, Lorenzo Fontana.
Potrebbe però esserci una sorpresa, quella di Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia nel governo Berlusconi, spirito critico della globalizzazione su posizioni più protezioniste e da tempo ormai figura fidata nell’ambito leghista. Il suo nome è accreditato tra quelli che Salvini ha in mente anche se, di nuovo, non sembra corrispondere a quel profilo adeguato al vero obiettivo di Conte e di cui il premier discuterà oggi con Von der Leyen.
Si tratta di una tappa del tour europeo che la neo-presidente della Commissione ha cominciato già la scorsa settimana recandosi, oltre che a Berlino e Parigi, anche a Varsavia, Budapest, Zagabria, Madrid e Roma. L’idea è chiara: i nuovi assetti non si decideranno solo sull’asse franco-tedesco, ma dovranno coinvolgere anche quei Paesi che sono stati decisivi nell’imporre, per solo nove voti, il nome dell’ex ministra della Difesa tedesca. A partire da Ungheria, Polonia e Italia.
Conte si è speso molto per questo risultato, ha appoggiato la candidata tedesca e, soprattutto, le ha garantito il sostegno della pattuglia di eurodeputati M5S che alla fine hanno fatto la differenza.
A Palazzo Chigi non si fa mistero di voler puntare alto e di non accontentarsi di commissari meno rilevanti come, ad esempio, l’Agricoltura.
Anche per queste ragioni ieri sera Conte si è irritato con Salvini e Di Maio, chiedendo con insistenza di avere un nome spendibile. Il problema è che tra le ragioni del ritiro di Giorgetti c’è il fatto che il suo nome avrebbe significato per la Lega assumere in prima persona le scelte politiche dell’Unione europea verso la quale invece, in alleanza con formazioni nazionaliste come l’Afd tedesco o la stessa Marine Le Pen, Salvini vuole stare all’opposizione. Ecco perché se avanzerà un nome à la Tremonti farà un passo tattico con l’obiettivo di mandare all’aria il lavorìo diplomatico di Conte.
La scelta, comunque, come Conte ha sempre assicurato, spetta alla Lega. Ma il candidato in ogni caso dovrà passare l’esame del Parlamento europeo. Solo se dovesse subire una bocciatura, molto probabile, allora potrebbero tornare in pista quei nomi che circolano nei palazzi romani: il ministro degli Esteri, Enzo Moavero o, in subordine, il Segretario generale della Farnesina, ambasciatrice Elisabetta Belloni, ma anche l’ex capo del Dis, anche lui diplomatico, Giampiero Massolo.
La Bonafè rinuncia alle Regionali toscane: “Non mi candiderò”
L’eurodeputataSimona Bonafè non sarà la candidata del Pd alle prossime regionali in Toscana del 2020. Lo ha annunciato la stessa Bonafè, a lungo indicata – anche all’interno del suo partito – come il nome più accreditato per difendere la roccaforte rossa dall’assalto elettorale del centrodestra, che negli ultimi anni ha già strappato al centrosinistra diversi Comuni. Bonafè, che è anche responsabile regionale del Pd, ha escluso la candidatura in un’intervista a Repubblica: “Non nego che in molti mi abbiano chiesto di pensarci. Ma non mi candido”. Il motivo? “Sono stata eletta al Parlamento europeo con 170 mila preferenze. Significa che 170 mila persone mi hanno dato il mandato per stare in Europa. Questo è un impegno da onorare. Non sarebbe corretto il contrario”. La decisione, stando a quanto dichiarato dalla Bonafè, non sarebbe frutto di un confronto – tantomeno di un imposizione – con Matteo Renzi: “Lo stimo, l’ho sentito il 12 luglio per il mio compleanno perché mi ha fatto gli auguri, ma le mie decisioni le prendo in autonomia”.