Le liti gialloverdi riescono a ricompattare Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, almeno per un giorno. Ieri l’ex deputato M5S se l’è presa su Facebook con Matteo Salvini, provocando la replica del leghista e venendo poi soccorso da Di Maio: “Uguale al Pd sul Tav e sulle altre mangiatoie – ha scritto Di Battista –, uguale ai radicali sulle privatizzazioni selvagge e allo stesso sempre sul salvataggio con denaro pubblico delle radio di partito. Uguale a FI sulla giustizia. Questa è la Lega Nord. Un banalissimo partito di sistema capace solo di camuffarsi meglio degli altri. Prima o poi gli italiani se ne renderanno conto”. Parole a cui Salvini ha risposto dal Papeete, lo stabilimento balneare a Milano Marittima: “Gli insulti del signor Di Battista, il vacanziero più pagato al mondo, non mi interessano. Lottiamo contro mafiosi, spacciatori e scafisti, abbiamo la fiducia degli italiani, chi se ne frega di Di Battista”. E mentre Di Battista invitava il ministro a “andare in Parlamento a rispondere sui suoi rapporti con Savoini” e in Antimafia per il caso Arata, all’esponente 5 Stelle è arrivata la solidarietà di Di Maio: “Trovo curioso che si dia a Di Battista del vacanziero da una spiaggia. Alessandro merita rispetto, così come tutto il M5S”
“Conversione verde? Solo moda, contano i fatti”
“Il Pd è a favore del Tav, ha gestito malissimo la questione Ilva, ha boicottato il referendum sulle trivelle. È il partito di Vincenzo De Luca, che ha fatto una legge per sdoganare l’abusivismo edilizio. Quando sento i proclami ambientalisti dei loro leader, mi viene da sorridere”. Elena Grandi, portavoce dei Verdi, guarda alla sterzata ecologista del Pd con un velo di scetticismo.
Grandi, c’è un po’ di confusione in quel partito…
Attendo con ansia una conversione ecologica del Pd, che per ora non vedo. Parlare di ambiente adesso va di moda, porta voti. Siamo in piena onda verde, Greta Thunberg ha avuto la forza di generare un fortissimo movimento tra i giovani. L’emergenza climatica esiste, la gente la percepisce, i nostri nuovi iscritti sono donne e giovani coppie che temono il surriscaldamento del pianeta. L’Italia è un paese temperato, non un posto dove ci sono 35 gradi per tre settimane.
Torniamo al Pd.
I politici hanno annusato l’aria e capito che parlare di ambiente conviene. Ci si buttano sopra. Proclamarsi ecologisti, però, comporta l’obbligo di abbandonare certe politiche in favore di altre. L’ecologismo si misura in fatti, non in parole.
E i fatti cosa dicono?
Che i dem in questi anni sono andati nella direzione opposta. Lo stesso Zingaretti nel Lazio sta facendo leggi che non tutelano il territorio. Invece dovrebbero battersi contro il consumo del suolo e per un piano contro il dissesto idrogeologico. O per dare incentivi alle aziende che scelgono processi di produzione non inquinanti.
Veltroni si è detto favore di un nuovo partito verde perché L’Italia “è l’unico Paese dove non c’è”.
Non so se l’ex segretario soffre di amnesie, ma sono parole gravissime. Noi non solo esistiamo, ma siamo la forza politica più antica: siamo nati nel 1986. Se poi auspicano la nascita di un nuovo partito verde, beh, auguri!
I Verdi in Italia non hanno mai sfondato…
I motivi sono diversi. Abbiamo una storia travagliata, con alti e bassi. Se fossimo stati in Parlamento negli ultimi 15 anni, certi scempi si potevano evitare. Ora però siamo in ripresa: lo dimostra essere passati dallo 0,6% delle Politiche al 2,3% delle Europee. I nostri consensi, in prospettiva, fanno gola, anche al Pd.
Cosa ne pensa del cedimento del governo sul Tav?
La decisione di Conte non mi sorprende, ho sempre pensato che sul Tav i giochi fossero fatti. I 5 Stelle sono diventati il primo partito anche grazie a battaglie ecologiste, con questo cedimento perderanno ancora elettori, nonostante il loro voto contrario per marcare il territorio. Il governo, però, non cadrà sul Tav: nessuna delle due forze ha interesse a far saltare il tavolo.
Anche voi siete contro la Tav…
Noi non siamo contrari alle linee veloci in generale, ma siamo per il No a quel progetto, calato dall’alto, con un forte impatto ambientale, deciso senza un processo di partecipazione della popolazione.
Tap, Ilva, Triv e cemento: l’anima anti-green del Pd
È l’ora del green new deal, delle Feste dell’Unità plastic free, delle marce per l’ambiente. Vecchi e nuovi leader del Pd riscoprono la vocazione ambientalista, sbandierata di recente su Repubblica da Walter Veltroni e rilanciata dal segretario Nicola Zingaretti nella sua Costituente delle Idee. In questa battaglia, però, il Pd deve fare i conti con il suo passato. Gli stessi Verdi, tanto corteggiati ora, negli ultimi anni hanno denunciato enormi abusi ambientali da parte dei dem.
Di questi giorni è il Sì ribadito dal Pd al Tav, considerato fondamentale anche per lo spostamento su rotaia del traffico su gomma. Poco importa che però, come ha spiegato sul Fatto Luca Mercalli, anche qualora ci fossero riduzioni di CO2 si dovrebbe aspettare il 2045, perché per oltre dieci anni di cantiere sono previste – dati forniti dai promotori del progetto – 10 milioni di tonnellate di CO2. Questo senza considerare l’impatto paesaggistico del tunnel, la colata di cemento e il rischio, denunciato dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa, della presenza di amianto.
Dal treno alle auto, l’anima green del Pd non cambia. Qualche mese fa, mentre i gialloverdi cercavano un compromesso su un ecobonus per le auto elettriche che non penalizzasse troppo chi acquista un mezzo più inquinante, il Pd si mobilitava. Per l’ambiente? No, in difesa dei grandi colossi dell’auto danneggiati dalla nuova norma. Molto verde anche la posizione sul Tap, il gasdotto che dovrebbe collegare l’Italia al confine greco-turco. Gli ambientalisti cercano da anni di fermare l’opera perché ne lamentano gli effetti sul paesaggio. Quindici persone delle ditte che gestiscono il progetto sono indagate per reati come il deturpamento di bellezze naturali e l’inquinamento di una falda acquifera. Michele Emiliano si lamentava del passaggio del tubo a Melendugno invece che nella zona industriale di Brindisi, “cosa che eviterebbe il passaggio sulla terra per quasi 60 chilometri del gasdotto”. Ma il Pd nazionale ha sempre tirato dritto.
Ancora in Puglia c’è poi la grana Ilva. È a firma del governo Renzi, nel 2015, l’immunità penale per i commissari e per i gestori dello stabilimento, scudo che un anno dopo è allargato ai futuri acquirenti (Arcelor Mittal). Tradotto: nessuno paga per eventuali disastri ambientali.
Del 2016 è poi lo Sblocca Italia, il decreto renziano che stabilisce una serie di norme molto criticate dalle associazioni verdi. Alle attività di “prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi”, per esempio, il decreto riconosce “lo status giuridico di interesse strategico, pubblica utilità e urgenza”. Riconoscimento che facilita le procedure di esproprio e riduce la possibilità di ricorsi regionali, dando il via a trivellazioni in acqua e in mare. Le stesse trivelle difese da Renzi nel referendum del 2016 (sostenuto invece dai Verdi), che chiedeva di bloccare le concessioni per estrarre gas o petrolio da piattaforme offshore, in vigore fino all’esaurimento dei giacimenti. “Se diciamo basta – diceva Renzi – poi compriamo dagli altri? Spero che questo referendum fallisca”.
Di referendum falliti, in effetti, il Pd ne sa qualcosa. Nel 2011 gli italiani hanno votato per dire che la gestione dell’acqua non dovesse finire sul mercato, ma essere pubblica e senza fini di lucro. Peccato che nella scorsa legislatura proprio i vertici del Pd abbiano fatto naufragare a colpi di emendamenti un progetto di legge sull’acqua pubblica firmato da alcuni dem, da Sel e dal M5S.
Molto meglio occuparsi di Expo, se non fosse che anche l’esposizione del 2015 a Milano, fatto passare per emblema di sostenibilità che avrebbe regalato a Rho un’area verde, oggi ha lasciato in eredità una landa desolata ancora tutta da bonificare. Sotto terra anche amianto, arsenico e solfati. Ma Beppe Sala, all’epoca commissario unico e ora sindaco di Milano, è sotto il mirino dei Verdi anche per i progetti di cementificazione delle aree degli ex scali ferroviari. Guai anche nel Lazio, dove il governatore Zingaretti sta approvando una versione del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale che apre il centro di Roma a nuove opere edilizie senza più il controllo diretto dei Beni culturali. Avanti cemento, dunque. Forse si tratta di un omonimo del segretario Pd.
I comitati: “A Roma ascoltano più Telt di noi”
Un incontro di reduci e combattenti, gente che ancora ci crede, anche se si sente sconfitta e tradita. La sala polivalente di Bussoleno, in Val Susa, è piena mercoledì sera. C’è un’assemblea convocata dai sostenitori valligiani del M5S per capire cosa fare dopo il via libera del governo alla Torino-Lione. “Dobbiamo uscire dai social e dalle chat, dobbiamo guardarci negli occhi”, dice la capogruppo M5S in Piemonte, Francesca Frediani, una delle promotrici dell’incontro. Per tre ore si alternano interventi di No Tav, elettori, eletti ed ex M5S. I sentimenti sono misti: rabbia, delusione, disillusione.
Partono critiche a Luigi Di Maio, alla sottosegretaria Laura Castelli e al deputato Luca Carabetta, cresciuto coi No Tav e ora definito dai più miti come un “signorino”. Lodi ad Alberto Airola, che ancora si batte, all’ex senatore Marco Scibona e al suo collaboratore Stefano Girard. Molti dei 5 Stelle però sembrano pugili frastornati su cui i No Tav continuano a scaricare pugni. Come fa Alberto Perino, leader del movimento valsusino: “La fiducia nel M5S è pari a zero, ma quella nelle persone che abbiamo mandato in Comune, Regione e alcuni di quelli a Roma è altissima”. A loro chiede di uscire dalla formazione di Luigi Di Maio e restare nei loro ruoli per rappresentare gli elettori No Tav: “Le minoranze possono sempre lavorare”.
Luca Giunti, uno dei tecnici No Tav, aumenta il carico: “Questo governo ha fatto più sgarbi a questo territorio rispetto ai governi precedenti – è la sua accusa –. Qualcuno a Roma ha ascoltato i consigli di Mario Virano (il vertice di Telt, ndr) e non i nostri. Danilo Toninelli non ha mai incontrato sindaci e rappresentanti della Comunità montana”. Per l’ex consigliere regionale Federico Valetti “il M5S ha fatto salire arrivisti e mediocri”.
Alcuni pentastellati chiedono scusa ai No Tav. Poi si passa alle proposte. L’ex vicesindaco di Torino Guido Montanari, cacciato da Chiara Appendino a metà luglio, ricorda di essere stato l’unico della giunta alle marce con la fascia tricolore: “Dopo la mia esclusione, Torino si è allineata alle posizioni di Di Maio. Bisogna fare come la consigliera Marina Pollicino, andare nel gruppo misto, appendere la giunta a un filo e fare pressione”. Nilo Durbiano, ex sindaco di Venaus, propone l’uscita dei No Tav dal gruppo M5S al Senato per entrare nel gruppo misto. Un altro ex primo cittadino, Sandro Plano (Pd), tende un filo tra i dem e i grillini.
Poi vanno in scena le confessioni dei più tormentati, come la consigliera torinese Maura Paoli, una delle “dissidenti”: “Non so più se il M5S rappresenti ciò in cui credo, ma non c’è alternativa se non fare opposizione per sempre. Abbiamo anche la responsabilità dell’amministrazione Appendino, se lei cade poi la colpa cadrà sui dissidenti”. “Nessuno pensava di giungere ad una conclusione netta perché siamo tutti in condizioni diverse”, conclude Frediani, che poi lamenta l’impossibilità di comunicare con Roma: “Mi hanno messo un muro davanti”.
FI, idea aiutino ai No Tav per la spallata al governo
Sarà un martedì di passione quello che si preannuncia in Parlamento in vista del voto sulle mozioni sull’Alta Velocità. Perché sull’argomento, nonostante quel che recita il contratto di governo, la maggioranza non c’è più e si preannuncia uno scontro tra No Tav e Sì Tav che potrebbe mettere a dura prova i gialloverdi. A pochi giorni dalla svolta del premier Giuseppe Conte, che ha annunciato il proseguimento dei lavori, M5S e Lega restano su fronti opposti: pentastellati contro l’opera e leghisti, per una volta, al fianco del presidente del Consiglio.
Ma in queste ore a far tremare la maggioranza è soprattutto l’atteggiamento che terrà in Aula Forza Italia al momento del voto sulla mozione grillina. Nel partito di Silvio Berlusconi, infatti, si sta valutando se dare una mano ai pentastellati per dare una spallata al governo. La mozione dei 5 Stelle anti-Tav, sulla carta, può contare su 107 voti. Con l’aggiunta di altri No Tav sparsi, da Leu a Tommaso Cerno del Pd, potrebbe arrivare a quota 115. Lega e Pd, insieme, fanno 109 senatori. Numeri che stanno facendo tremare tutti in Parlamento: se la mozione grillina, dovesse passare, significherebbe l’apertura di una crisi di governo e un’autostrada verso le elezioni anticipate. Difficile, poi, che questo accada, perché in caso di rischio ai voti contrari alla mozione No Tav si aggiungerebbero almeno quelli dei 18 senatori di Giorgia Meloni, raggiungendo così quota 127. Ma solo il fatto che se ne parli e che la conta si giochi sul filo del rasoio sta generando psicodrammi in tutte le forze politiche.
Per ora nulla è stato deciso, anche perché non è chiaro quante mozioni verranno presentate. Al momento si sa che ci sarà quella dei 5 Stelle contro, un’altra di Leu sempre per il No, poi quelle di Pd, Forza Italia e FdI a favore. E la Lega? Ieri da Via Bellerio si è fatto trapelare che i senatori padani non presenteranno un testo, ma voteranno contro quello dei 5 Stelle e a favore di tutti quelli Sì Tav, compreso quello del Pd. “La mozione M5S contro la Tav? L’ha detto anche il premier Conte che costa meno farla che non farla. Non so se vogliono sfiduciare il premier…”, ha detto ieri sera Matteo Salvini a SkyTg24, auspicando dunque un passo indietro di Luigi Di Maio.
E si torna a Forza Italia, perché molto di quel che accadrà dipenderà dal partito azzurro. La decisione sull’uscire o meno dall’Aula sarà presa da Silvio Berlusconi, che ieri si è ripreso il partito, facendo fuori Giovanni Toti e Mara Carfagna dalla stanza dei bottoni in vista del congresso. Con conseguente esplosione del malcontento interno, specialmente da parte dei peones che, in caso di elezioni ravvicinate (cui l’ex Cav è tornato a credere), sarebbero spacciati. E che quindi sono contrari alle spallate. “Con un partito messo in questo stato è complicato elaborare tattiche e strategie. Quella sul Tav sarebbe una ghiotta occasione per dare un duro colpo al governo, ma dubito si metta in pratica”, racconta un deputato berlusconiano. Poi ci sono ragioni di coerenza politica. “Noi siamo sempre stati a favore della conclusione dell’opera, come potremmo ora favorire, anche solo uscendo dall’Aula, una mozione che vuole bloccare tutto?”, è il ragionamento che fanno in molti.
Se Forza Italia è spaccata, anche nel Pd non si dormono sonni tranquilli. In primo luogo perché altri senatori potrebbero seguire Cerno con una scelta No Tav o comunque assentarsi al momento del voto. Poi perché votare insieme a Lega, FI e FdI rischia di mettere in serio imbarazzo il partito di Nicola Zingaretti. “Sul Torino Lione andiamo avanti senza tatticismo”, ha annunciato qualche giorno fa Graziano Delrio. Dimenticandosi, però, che molti elettori dem sono contro il Torino Lione, come ha dimostrato un sondaggio commissionato tempo fa dal segretario. Insomma, un caos. E qualcuno nemmeno esclude che alla fine M5S e Lega possano trovare un accordo in extremis per non accoltellarsi a vicenda. Chissà…
“Zingaraccia” etc. levategli il fiasco
L’estateè un periodo complicato, si sa, specie per i soggetti deboli tra cui annoveriamo senz’altro il nostro ministro dell’Interno. Da quando ha spostato la sua residenza al “Papeete beach” di Milano Marittima, l’impressione è che i già consumati freni inibitori di Matteo Salvini non tengano proprio più. D’altronde può capitare: una birretta qui, uno spritz lì, un beach party là e si finisce a dire “zingaraccia” in tv. Ieri Salvini è partito rifiutando di rispondere alle domande del videomaker di Repubblica che aveva ripreso quello straordinario ritratto sociologico che è il giro con la moto d’acqua della polizia del Salvini pargolo: “Vada a riprendere i bambini, visto che le piace tanto” (“mi sta dando del pedofilo?”, la replica rimasta senza risposta). Poi il capolavoro a SkyTg24: “Ma vi pare normale che ci sia una zingara di un campo rom abusivo a Milano, una zingaraccia che va a dire ‘Salvini dovrebbe avere un proiettile’? Preparati che arriva la ruspa”. Espressione schiettamente razzista la cui portata risulta non compresa dall’interessato neanche qualche ora dopo: “Roba da matti. Il problema non è una zingara che minaccia di morte il ministro dell’Interno, per qualcuno è la parola zingaraccia”. È estate, va bene, ci si rilassa e si fa festa, però, ecco, quando ci sono delle telecamere in giro, il suo amico proprietario del Papeete gli dica che il bar è chiuso.
La sfiducia al Viminale va a settembre: bagarre alla Camera
Bisogneràaspettare il rientro dalle ferie per portare in Parlamento la sfiducia al ministro Matteo Salvini presentata dal Pd dopo le notizie sulla presunta tangente di cui gli emissari della Lega avrebbero discusso a Mosca. La conferenza dei capigruppo ieri ha calendarizzato il voto per il 12 settembre alle 15 alla Camera. L’annuncio ha scatenato una bagarre ieri a Montecitorio con i deputati Pd che gridavano “onestà onestà” mentre dai banchi della Lega si levavano cori verso i dem “venduti, venduti”. Sulla questione è intervenuto anche l’ex segretario del Pd Matteo Renzi, inferocito per i tempi lunghi che sono stati decisi per il voto. “Si tratta di una decisione assurda – ha detto l’ex premier – Avremmo dovuto votare prima”. “Per questo – prosegue – da qui al 12 settembre, vogliamo mobilitare le donne e gli uomini di buona volontà che hanno a cuore le sorti della comunità italiana e che non si rassegnano e non demordono. Chiediamo tutti insieme le dimissioni di Matteo Salvini. Facciamolo ad alta voce e senza paura: mai come in questo momento è necessario far sentire la voce di chi si oppone a un modello culturale di odio e violenza verbale”.
Perquisita la casa del vicedirettore della banca agricola di San Marino
Il nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano ha effettuato perquisizioni e sequestri a Rimini nell’abitazione di Tiberio Serafini, vicedirettore della Banca Agricola di San Marino. L’Istituto di credito ha concesso al senatore leghista Armando Siri due mutui per un totale di 1,2 milioni di euro ritenuti sospetti dai pm milanesi Gaetano Rita e Sergio Spataro. Che risulta indagato per il reato di autoriciclaggio per l’acquisto di una palazzina a Bresso. Nei giorni scorsi i magistrati hanno inoltrato a Palazzo Madama una richiesta per procedere al sequestro del suo pc.
Rubligate: “Due incontri prima del Metropol”
La trattativa per far arrivare i presunti fondi russi nelle casse della Lega di Matteo Salvini sarebbe iniziata prima dell’incontro del 18 ottobre all’hotel Metropol di Mosca. Le ipotesi della Procura di Milano fissano due tavoli precedenti: il primo avvenuto a Roma. Oltre a questo la vera storia dell’audio che ha immortalato il dialogo del Metropol. Il tutto è contenuto negli atti che ieri i pm Sergio Spadaro e Gaetano Ruta hanno depositato in vista dell’udienza del 5 settembre davanti al tribunale del Riesame per discutere i ricorsi dei legali sui sequestri (cartacei e dei cellulari) effettuati a carico dei primi tre indagati: Gianluca Savoini, presidente dell’associazione Lombardia-Russia e uomo di riferimento di Salvini per la Russia, Gianluca Meranda, avvocato d’affari, Francesco Vannucci, consulente bancario. Tutti accusati di corruzione internazionale.
Un “triumvirato” come lo definisce Savoini, presente all’hotel Metropol di Mosca il 18 ottobre. Con loro tre russi, uno molto vicino all’avvocato Vladimir Pligin, consigliere del presidente della Duma Viaceslav Volodin e vice presidente della Commissione per gli affari internazionali nel Consiglio generale del partito di Vladimir Putin. Discutono di gasolio. Vende la Russia e acquista l’italiana Eni, che non è indagata. Affare: 1,5 miliardi di dollari, dai quali, sarebbe il piano, far uscire una percentuale di discount del 4%, circa 65 milioni di dollari, da triangolare su una banca d’affari e poi nelle casse del Carroccio in vista delle elezioni europee del maggio scorso. Il piano, spiega Meranda, è stato messo a punto dai “political guys” della Lega. Il resto dello sconto (percentuale tra il 2 e il 6%) dovrebbe andare ai russi. Il tutto viene immortalato da un audio, la cui storia, da ieri, appare più chiara.
Iniziamo dalla lettura che la Procura ha fatto dell’audio. E dalla quale emerge l’ipotesi di almeno due incontri precedenti a quello del 18 ottobre sempre per discutere delle vendite di gasolio. Il “triumvirato” di Savoini si sarebbe incontrato altre volte con i tre russi. L’ipotesi emerge dall’analisi di due passaggi dell’audio. Nel primo uno dei russi dice: “I discorsi di ieri affrontano entrambi i tipi di carburante”. Il riferimento è al 17 ottobre, giorno in cuiMatteo Salvini incontra il vicepremier russo Dimtry Kozak nello studio dell’avvocato Pligin. Incontro riservato e non annotato in agenda. La sera del 17 poi Salvini è a cena al ristorante Rusky all’ultimo piano del grattacielo Eye. Con lui ci sono Savoini, il presidente di Confindustria Russia Ernesto Ferlenghi, il direttore Luca Picasso, il consigliere strategico del ministro Claudio D’Amico e qualche russo. Di cosa discutono? In un passaggio successivo dell’audio Gianluca Meranda dice: “Potremmo trovare un prodotto diverso o forse possiamo mettere come stavamo dicendo a Roma”. Evidentemente prima del 18 ottobre. Nella Capitale, è l’ipotesi investigativa, sarebbe nata la trattativa. Veniamo, poi, all’audio. Tra gli atti depositati c’è un’informativa che ne ripercorre le modalità di acquisizione. Si tratta di un file Mp4 registrato da un cellulare presente al tavolo del Metropol. Secondo la Procura è un documento “chiarissimo”.
Il file, si legge negli atti, è stato consegnato ai pm da uno dei due cronisti dell’Espresso che a febbraio ha pubblicato la notizia del Metropol. La consegna non è stata volontaria. La Procura ha dovuto emettere un atto formale, passaggio che prelude a una perquisizione. Il documento è stato consegnato a febbraio e già a marzo i tecnici della Procura ne hanno confermato l’autenticità e la non manomissione. L’indagine, dunque, inizia a veleggiare sotto traccia quasi subito. Anche se resta un mistero la fonte che ha consegnato l’audio all’Espresso. I cronisti hanno legittimamente opposto il segreto professionale, senza spiegare il motivo per il quale non hanno pubblicato il file audio. Forse un normale accordo con la fonte per avere ulteriori documenti come dimostrerebbe l’articolo di due settimane fa in cui il settimanale ha pubblicato i documenti della banca d’affari di Londra dove si legge di un’offerta al colosso Rosneft identica a quella discussa al Metropol: 3 milioni di tonnellate di gasolio e un discount del 6,5%. Se la fonte resta ignota, vi è la certezza, come rivelato dal Fatto, che a registrare l’audio sia stato probabilmente uno dei tre italiani al tavolo della trattativa, iniziata prima del 18 ottobre e proseguita fino al primo febbraio.
La notte di Palazzo Chigi: Bongiorno vuole “qualcosa di forte”, Bonafede si “illumina”
Quando esce da palazzo Chigi, a mezzanotte passata, per il ministro Bonafede è giorno di onomastico. Così come il Guardasigilli anche sant’Alfonso era un avvocato. Solo che agli inizi del diciottesimo secolo decise di abbandonare la toga per farsi prete: la giustizia divina, si era detto, è meno amara di quella terrena.
Non è escluso che anche al titolare della Giustizia del governo Conte, mercoledì notte, sia balenata qualche improvvisa vocazione: dopo quasi otto ore di Consiglio dei ministri, la sua riforma del processo civile e penale è stata approvata a metà e solo “salvo intese”, una garanzia per i gialloverdi quando non riescono a mettersi d’accordo.
Eppure quando si sono chiusi a palazzo Chigi, ieri alle 16.18, non era certo la prima volta che Lega e Cinque Stelle affrontavano le questioni al centro del disegno di legge: Bonafede e Giulia Bongiorno – il ministro che la Lega ha messo alla Pubblica amministrazione, ma che con la testa sta in via Arenula – ne parlano almeno da aprile. Ma i tavoli non sono bastati. E la delegata di Matteo Salvini alla giustizia si ostina a ripetere: “Volevamo una riforma più coraggiosa”.
Lo ha fatto anche ieri sera, nell’interminabile seduta che è finita con il sostanziale nulla di fatto, in particolare sul fronte della riforma penale: quello più rilevante, su cui le posizioni sono rimaste inconciliabili.
E sì che di pomeriggio non tirava una brutta aria: appena aperto il Cdm, ieri, i vicepremier Di Maio e Salvini si sono seduti al tavolo con Bonafede e Bongiorno. Hanno discusso alcuni dei punti più controversi e persino inserito nel disegno di legge una norma che era rimasta fuori: un articolo che consente di non rinnovare il procedimento quando cambia il giudice. Un caso che ha una sua ricorrenza, e che contribuisce inevitabilmente all’allungamento della durata dei processi. Ma quando alle 18.30 i quattro sono tornati nella stanza principale, l’intesa si è rapidamente incrinata.
Bongiorno e Salvini sono di nuovo usciti dalla sala del Consiglio dei ministri e hanno fatto il punto con i sottosegretari leghisti Nicola Molteni e Jacopo Morrone. Al rientro hanno cominciato a tirare fuori tutta una serie di questioni che non erano sul tavolo: la riforma delle intercettazioni, la separazione delle carriere, i manager per l’amministrazione dei tribunali, lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che lo Spazzacorrotti farà entrare in vigore a gennaio 2020 e che la Lega sostiene vada fermato se non si fa prima la riforma del processo penale. Inutile il break all’ora di cena. Anche a pancia piena, Bonafede e Bongiorno hanno continuato a litigare.
Il premier Giuseppe Conte stavolta ha tentato invano di fare da mediatore. E di fronte alle rimostranze della Bongiorno che chiedeva qualcosa di “più forte” ha provato a capire in che forma volessero tradurre quel “coraggio” che mancava: “Avete emendamenti? Altre proposte?”, domandava il premier. Ma dall’altra parte, raccontano, non sarebbe arrivato nessun elemento utile alla discussione. Lo dice Bonafede, lasciando assai perplesso la riunione: “Io stasera ho ricevuto solo tanti no”.
Ieri, nel suo studio in via Arenula, il ministro ha chiamato i collaboratori per studiare come tornare alla carica: se davvero il tema per la Bongiorno è garantire tempi certi al processo penale, bisogna trovare numeri che smontino la propaganda leghista. A un certo punto, raccontano, ha letto dei numeri che l’avrebbero “illuminato”. Ha preso carte e faldoni ed è corso a palazzo Chigi (o dritto in Vaticano, chissà).