Salvini come Berlusconi: la Lega è il partito del No per salvare i suoi indagati

Matteo Salvini alza la posta e minaccia di rovesciare il tavolo sulla giustizia. A cui è legata a doppio filo l’operatività delle nuove norme sulla prescrizione posticipate al 1 gennaio 2020 proprio in attesa del varo della riforma di sistema che sulla carta tutti vogliono. “La riforma della giustizia va fatta bene, non a pezzettini. I cittadini non possono essere ostaggi di processi infiniti” ha tuonato il capo della Lega reduce dalla maratona a Palazzo Chigi terminata con un nulla di fatto. Anzi peggio: un no a prescindere opposto al ministro Alfonso Bonafede. Che lo rintuzza: “Dico alla Lega che sono aperto a tutte le proposte, ma non stanno governando con Silvio Berlusconi. Se lo mettessero in testa”. Un paragone che ovviamente non piace a Salvini certo di poter fare molto di più dell’ex Cav che sparava a zero contro i giudici politicizzati soprattutto per fatto personale.

E Salvini? Non ha certo fatto nulla per nascondere la sua irritazione quando i magistrati si sono messi di traverso sulle politiche di sicurezza e antimigranti del Viminale. Ma sulle inchieste che riguardano la Lega e i suoi non ha compilato alcuna blacklist delle singole toghe nemiche. La sua strategia è stata un’altra fin dal caso del sequestro da 49 milioni di euro disposto a carico del suo partito dopo la condanna in primo grado di Umberto Bossi, dell’ex tesoriere Francesco Belsito e di tre ex revisori dei conti per rimborsi elettorali non dovuti dal 2008 al 2010. “Rispetto le sentenze” ha detto in quella occasione. Ostentando tranquillità. E infatti alla domanda se fosse preoccupato si era limitato a rispondere: “No, lo sono più per Milan-Juve”. Salvo poi salire al Quirinale poco dopo per parlare dell’agibilità politica della Lega che rischiava di essere compromessa. Salvifica la concessione dalla Procura di Genova di una rateizzazione del debito. Salvini insomma naviga sereno. E se ne frega – dice – pure delle altre inchieste, come quella sul finanziamento all’associazione “Più voci” presieduta dal tesoriere della Lega Giulio Centemero, indagato per finanziamento illecito. Sereno pure sull’esito del caso della nave Diciotti che rischiava di far terminare l’esperienza del governo gialloverde. Di fronte alla richiesta di autorizzazione a procedere per il reato di sequestro aggravato di persona Salvini aveva ripetuto per giorni: “Sono tranquillo, va bene in ogni caso”. Una serenità più che giustificata visto poi l’esito del voto del Senato.

Nel mezzo le vicende che hanno visto coinvolto il sottosegretario Armando Siri accusato di corruzione dalla Procura di Roma per una presunta tangente ricevuta da Paolo Arata, sospettato di essere socio occulto dell’imprenditore trapanese dell’eolico Vito Nicastri ritenuto vicino al boss Matteo Messina Denaro. Il sottosegretario che ha dovuto mollare l’incarico al Mit è stato riabilitato sul campo da Salvini che lo ha voluto al suo fianco al Viminale all’incontro con le parti sociali.

Ma è in Parlamento che la Lega ha provato a sminare le trappole giudiziarie. Ad esempio con l’emendamento al decreto Spazzacorrotti che avrebbe potuto spalancare le porte della prescrizione a Edoardo Rixi se fosse stato condannato non per peculato (come è poi avvenuto), ma per indebita percezione. Sempre nello stesso provvedimento un altro tentativo era andato invece a vuoto e letto alla luce dell’inchiesta su Gianluca Savoini, ritenuto emissario della Lega a Mosca, fa riflettere. Di che si trattava? Di cancellare il divieto ai partiti e ai movimenti politici di ricevere contributi provenienti da governi o enti pubblici di Stati esteri, da persone giuridiche aventi sede in Stato estero. Molto meglio che inveire contro le toghe sui social. Ma i 5 Stelle in quell’occasione non hanno mollato.

Neppure quando Salvini ha annunciato ai quattro venti di voler abolire l’abuso d’ufficio “perché non posso bloccare 8 mila sindaci per la paura che uno possa essere indagato”. Un auspicio giunto dopo le inchieste che hanno coinvolto anche politici locali del Carroccio, primo fra tutti il governatore della Lombardia Attilio Fontana, indagato dalla Procura di Milano proprio per quel reato. E ora rilancia con la riforma delle intercettazioni, la separazione delle carriere dei magistrati e naturalmente la prescrizione. Ha detto ancora, ieri: “I pettegolezzi da spiaggia devono restare chiusi in un armadio altrimenti diteci che siamo in uno Stato di polizia e chiunque è titolato ad ascoltare chiunque. Noi la buona volontà ce la mettiamo ma se Bonafede inizia a tirare in ballo Berlusconi, il passato e il futuro…”. Forse Berlusconi ha finalmente trovato un delfino con il quid giusto.

Il Codice Papeete

Chissà chi è il giureconsulto che, sul bagnasciuga del Papeete Beach, equivalente leghista delle Frattocchie comuniste, sta erudendo il pupo Matteo sui temi della giustizia. Probabilmente il bagnino, il gelataio, o il ragazzo del cocco. L’altroieri in una diretta Facebook e ieri nella conferenza stampa sull’arenile, l’abbiamo trovato non solo nervosetto, ma anche più ciuccio del solito. Blaterava di una “riforma epocale”, con “tanti avvocati e tanti magistrati” che fanno le indagini e i processi pret à porter, alla svelta. Concetti che parrebbero un po’ rozzi anche al barista del Papeete, il quale – ne siamo certi – domanderebbe a quello che non sembra ma resta comunque il vicepremier e il ministro dell’Interno: “Scusa, caro, ma tu come faresti?”. E lui difficilmente saprebbe rispondere, a meno che non pensi davvero che per ridurre i tempi dei processi basti scrivere in una legge che devono durare di meno. Su questa strada, quantomai impervia, s’era avventurato anche il Guardasigilli Bonafede, prevedendo una durata massima – in varie fasi scadenzate – di 9 anni. Ma Salvini era saltato su: “Sono troppi, facciamo 4”. Tanto valeva scrivere “un giorno”, o “un’ora”, o “un minuto”. Tanto è gratis. Il guaio è che non serve a niente, altrimenti per evitare i ritardi di treni e aerei basterebbe una bella legge che li obbligasse ad arrivare in orario.

Alla fine s’era trovato l’accordo su 6 anni. Bonafede, che diversamente da Salvini ci capisce, non pensa certo che la scadenza per legge risolva tutto. Infatti ha previsto interventi su alcuni colli di bottiglia che inceppano il processo: filtri alle impugnazioni; notifiche via e-mail agli avvocati al posto di quelle brevi manu agli imputati (che non si fanno trovare apposta); e 10 mila assunzioni in tre anni, fra magistrati e personale ausiliario, per riempire un po’ di vuoti in organico. La durata prefissata per i procedimenti serve a costringere i magistrati che ritardano sul termine a giustificarsi dinanzi al Csm: se poltriscono, è una “negligenza inescusabile” che comporta la sanzione disciplinare; se invece hanno troppo lavoro per smaltirlo tutto nei tempi previsti, sono scusati. In ogni caso, il procedimento disciplinare non fa piacere a nessuno, perché basta aprirlo per bloccare la carriera al togato. Dunque è un deterrente contro i lavativi: peraltro non molti, visto che nelle classifiche Ocse i magistrati italiani risultano molto meno numerosi e molto più produttivi dei loro colleghi. L’altra sera in Cdm la ministra Bongiorno – che dovrebbe occuparsi di PA e invece fa il Guardasigilli ombra – ha accusato Bonafede di eccessiva prudenza.

Al che il vero ministro le ha domandato: “Tu che vorresti, di preciso?”. E quella: “Non so, qualcosa di forte”. Un brandy? Un whiskino? In sei mesi la Lega non ha prodotto uno straccio di emendamento al testo Bonafede. La verità è che la decisione di mettersi di traverso sulla giustizia l’aveva presa Salvini mentre faceva scendere il suo Trota dall’acquascooter della Polizia: così, tanto per rompere un po’ i coglioni al governo e far sparire le gesta di Savoini, Siri, Arata, Fontana e dei suoi agenti ad personam e ad familiam dalle prime pagine dei giornali. Ma anche l’ennesimo no che diventa sì allo sbarco dei migranti dalla nave Gregoretti. Poi, già che c’era, ha tirato fuori uno slogan che doveva aver sentito da qualche parte in un’altra vita: una roba tipo “separazione della carriere”, o “delle barriere”, o “delle corriere”, o forse “del Corriere”, o magari “delle miniere”, non ricordava bene. E l’ha buttata lì, anche perchè pensava di fare un dispetto ai magistrati che danno noia a tanti amici e compari suoi. Non sa che le carriere di pm e giudici sono già di fatto separate dal famigerato Ordinamento giudiziario Mastella-Castelli. E che separarle anche de jure non cambierebbe la vita di nessun magistrato (mentre cambierebbe, e in peggio, quella di noi cittadini). Oltre a essere escluso dal Contratto di governo. Non sapendo più a cosa attaccarsi, Salvini&C. si sono ricordati che gli amici e compari imputati hanno il terrore delle intercettazioni: perché potrebbero subirle, o le hanno già subìte, e poi i giornali le pubblicano e la gente scopre quanto sono ladri o collusi. E allora han tirato fuori pure quelle. Poi qualcuno, pazientemente, ha aperto il Contratto di governo, firmato anche da loro: “In materia di intercettazioni è opportuno intervenire per potenziarne l’utilizzo, soprattutto per i reati di corruzione”. E una delle prime leggi di questo governo, votata anche da loro: quella che cancella la norma Orlando che imbavagliava la stampa vietando di pubblicarle.
Ci avevano provato in tanti: per esempio, nel 2011, B. e l’apposito Alfano, che trovarono sulla propria strada una battagliera deputata finiana: tale Giulia Bongiorno. Che si dimise financo dalla commissione Giustizia: “Non sarò la relatrice di questo obbrobrio”, tuonò come un’ossessa contro quello che B. aveva trasformato in un “black out per l’informazione”. Ora ha cambiato idea, anzi padrone (da Fini a Salvini): “Occorre evitare la pubblicazioni dei verbali nelle fasi precoci del procedimento”, dice come un B. qualunque, invocando sanzioni ai cronisti che pubblicano “intercettazioni gossip” (decide lei quali). Ciò che nessuno osa dire è che la Lega, ma pure FI e Pd, sono terrorizzati dalla Spazzacorrotti, che per i reati commessi dal 1° gennaio 2020 blocca la prescrizione alla sentenza di primo grado. Gli scandali finora noti non c’entrano: lì vale la vecchia prescrizione extralarge. Ma i partiti si portano avanti: stanno già programmando i piani quinquennali delle mazzette 2020-2025. Dal Tav in poi. I ladri presenti e passati sono in una botte di ferro. Ora bisogna mettere in sicurezza quelli futuri.

Victoria’s Secret, caduta angeli

Con l’autunno, insieme alle foglie, cadranno gli angeli di Victoria’s Secret: dopo 23 anni, fine dello spettacolo, come anticipato dalla modella Shanina Shaik. Ignoti i motivi dell’annullamento, che parrebbe una conseguenza del #MeToo: l’azienda infatti è stata criticata per l’uso del corpo femminile e la magrezza delle top

A scuola da Scola: “I migliori anni”di Muccino omaggiano il maestro

“Evviva la sposa!”, l’esordiente Emma Marrone; “L’amore è la cosa più bella del mondo!”, che è Gabriele Muccino in purezza; “È meglio la puzza de fame che essere disonesti e tradire gli amici di una vita”, sputato in faccia dal bohémien Claudio Santamaria all’avvocato Pierfrancesco Favino. Poi, la “confusa, smarrita, ma vitalissima” Micaela Ramazzotti, che si scioglie dinanzi al “suo grande amore” Kim Rossi Stuart in versione Bambi. Tocca a loro, “tre amici e la donna che ne è collante e magnete”, raccontare I migliori anni della nostra vita, della nostra storia, dal 1982 sin qui: “La fine degli Anni di piombo; la caduta del Muro di Berlino; Mani pulite, la nostra rivoluzione che però non aprì al cambiamento; l’11 settembre, la caduta delle Torri gemelle che ha infuso vulnerabilità e volatilità in ogni persona; il Vaffa Day, che sembra già preistoria, ma allora fece credere in un nuovo grande cambiamento”.

Gabriele Muccino è sul set, anzi, dovrebbe esserlo per gli ultimi quattro giorni di riprese: lo sciopero dei lavoratori delle troupe ha cambiato i piani, “non conosco le motivazioni, le condivido a prescindere, ma è uno tsunami”. Rinnovando la sinergia produttiva – Lotus Production per Leone Film Group e Rai Cinema – del fortunato A casa tutti bene (oltre nove milioni di euro al botteghino nel 2018), I migliori anni arriverà nelle nostre sale il 13 febbraio 2020, attingendo alla biografia dello stesso regista e sceneggiatore: “Inquadro tre ragazzi del centro di Roma negli anni Ottanta, quando nei palazzi di Prati convivevano l’avvocato e il fruttarolo, il commercialista e il gommista, cosa che oggi accade solo in periferia. All’epoca, invece, vedevamo le borgate come le Colonne d’Ercole: ci si guardava in cagnesco, le etichette politiche erano fortissime, gli scontri con P38 e molotov, eravamo figli delle ideologie, di partigiani o repubblichini”. Ma la politica non abita più qui: “L’ideologia è totalmente assente nella mia generazione, volenti o nolenti, siamo figli minori di chi aveva la verità politica in tasca. Ne è venuto il qualunquismo, e i miei personaggi lo riflettono: politica? Intanto giochiamo a pallone, innamoriamoci, facciamo festa, balliamo un lento o lo ska”. Se “oggi non siamo etichettabili: pensare progressista o conservatore fa parte del nostro background, anche essere passivi davanti agli eventi è un’attitudine politica”, Muccino non si schiera, “il film non sventola nessuna bandiera: individualisti e egocentrici, i miei stanno alla finestra”.

Non solo Storia, l’eredità è anche cinematografica. Quella mucciniana dell’Ultimo bacio e progenie, dei “compromessi, i tradimenti e le delusioni, della vita che nella sua drammatica voglia di ‘propellersi’ è terribilmente malinconica e dolce. Ma domani, confidano, sarà un giorno migliore, la vena è ottimistica”. A far da sintesi è la Storia del Cinema: “Rodolfo Sonego, quello di Una vita difficile. Mi ispiro al cinema che mi ha formato, quello che rifletteva come uno specchio la società civile: noi siamo i film che abbiamo visto”. La teoria è lunga e illustre, ci sono Age e Scarpelli, Vittorio De Sica, Zampa, Manfredi e Tognazzi, c’è Ettore Scola e C’eravamo tanto amati: “Abbiamo preso i diritti, ho pagato perché non volevo il plagio, ma non è il remake, sarebbe impossibile. I migliori anni vuole essere un omaggio”.

 

Addio a Pisu l’istrione: scoprì il talento comico nel lager

Sala Petrassi dell’Auditorium, 27 ottobre 2018, Festa del cinema di Roma. Viene presentata la versione restaurata dalla Cineteca nazionale del film Italiani brava gente (1964) di Giuseppe De Santis, uno dei padri del realismo italiano. All’epoca fu criticato dalla destra perché raccontava la tragica epopea di un reggimento italiano mandato allo sbaraglio sul fronte russo nel 1941. Antieroismo, divisione per classi e non per nazionalità dei soldati, solidarietà tra russi e italiani poveri. L’assurdità del macello. Alla proiezione assiste Raffaele Pisu, unico protagonista maschile allora ancora vivente: “È passato più di mezzo secolo, ma credo sia ancora un film importante. In cui si ricorda chi, pur con le scarpe rotte, ha sofferto per noi, ma ha fatto comunque in modo che venisse scritta la storia del nostro Paese. È un film non di guerra ma sulla guerra”.

Da ieri, anche Raffaele non c’è più. Stroncato da una malattia, è spirato nella notte tra martedì 30 e mercoledì 31 luglio all’hospice di Castel San Pietro Terme, in provincia di Bologna. Aveva 94 anni ed era stato uno dei personaggi più versatili e popolari delle nostre scene: attore, comico, conduttore radiofonico e televisivo. Inventò il pupazzo Provolino. Presentò Striscia la notizia con Ezio Greggio e… Provolino. Attore brillante, marpione, grande tifoso del Bologna. Imparò molto dal fratello Mario (morto nel 1976), misurato attore dalla dizione perfetta, apprezzato da Luchino Visconti e richiesto dai più grandi registi italiani.

Raffaele era più irrequieto, ma altrettanto bravo. Fu Zaccaria fidanzato di Adalgisa, macchietta che spopolò alla radio del dopoguerra. Girò 37 film, il primo fu Il padrone del vapore (1951) con Mario Riva, Walter Chari, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Gianrico Tedeschi, i fratelli Aldo e Carlo Giuffré. L’ultimo, Nobili bugie del 2017, diretto dal figlio Antonio, dark comedy con Claudia Cardinale, Giancarlo Giannini, Ivano Marescotti e Paolo Rossi, il figlio naturale avuto da una breve relazione quando si trovava sul set dell’Ombrellone di Dino Risi (1965). Scoprì d’essere padre a 91 anni da Barbara D’Urso, a Domenica Live di Barbara D’Urso.

Attraversò gli anni della ricostruzione e del boom calcando i palcoscenici del varietà, animò con la sua voce felpata e sorniona Radio Bologna subito dopo la guerra, e poi Radio Roma. Dove capì che la sua vera vocazione era quella di far ridere e soprattutto sorridere. Entrò nella Compagnia del teatro Comico Musicale della Rai: una banda scatenata di amici e colleghi, come Nino Manfredi, Paolo Panelli, Gianni Bonagura. Con l’avvento della tv, rafforza il successo. Eccolo con Gino Bramieri e Marisa Del Frate, nel mitico L’amico del Giaguaro (1961), gigioneggia nei varietà di Metz e Marchesi. È simpatico. Graffia senza eccedere. Deride, senza offendere.

Ed era stato pure lui un “italiano brava gente”. Invece di optare per la Repubblica di Salò, scelse di combattere i nazifascisti. Ancora in divisa, fu catturato e deportato in uno stalag tedesco ai confini con l’Olanda. Schedato come Imi (Internati militari italiani). Ne morirono 40mila. Patì la fame, la paura, il freddo, il lavoro coatto per quindici mesi prima di essere liberato dagli Alleati. Lì maturò la volontà di fare l’attore: nonostante le privazioni, sapeva strappare risate agli sventurati compagni di prigionìa.

Un’esperienza che non si poteva seppellire. E che riemerse prepotente quando De Santis gli propose la parte di Libero Gabrielli, uno stagnaro romano: “Un soldato disgraziato. Quello ero io. Decisi di farlo, anche se mi avessero pagato poco. Dovevo dar voce a questa persona normale, rovinata da una guerra mortale”. Qualcuno chiese a Pisu se gli italiani di oggi fossero ancora brava gente: “Penso di sì. Ci sono giovani davvero bravi, semmai siamo noi che non sappiamo aiutarli, che non gli diamo veri insegnamenti. Penso alla tv di adesso: gli unici programmi che si vedono sono quelli come il Grande Fratello o l’Isola degli Idioti, come lo chiamo io. Com’è possibile che non si riesca a portare la cultura nei programmi tv?”.

“Il Piccolo Principe” è precipitato 75 anni fa

Settantacinque anni fa, poco dopo le 14 del 31 luglio 1944, l’ufficiale di turno alla sala controllo dell’aeroporto militare di Borgo-Bastia, in Corsica, trasformata in base dell’aviazione Alleata, annota: “Pilot did no return and I presumed lost”. Il pilota non è tornato e credo sia perduto. Il pilota è Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo Principe, che aveva scritto appena un anno prima, quando si trovava a New York. Era decollato ai comandi del velivolo americano Lockeed P38 F-5 “lightning”. Direzione Annecy e Grenoble, nell’ambito dell’Operazione Anvil che diventerà poi Dragoon, lo sbarco da Cannes a Tolone del 15 agosto 1944. Sulla fusoliera del velivolo campeggiava la Croce di Lorena, emblema della Francia Libera. Bene in vista, le coccarde azzurre e rosse delle Forces aériennes françaises libres.

Prima di imbarcarsi sul Lockeed, Antoine de Saint-Exupéry lascia a terra una valigetta piena di appunti, carte, lettere da inviare. Un foglio è rimasto sopra lo scrittoio. Si legge: “Sotto la minaccia della guerra, sono più nudo e spoglio che mai. Se verrò abbattuto, non avrò nulla da rimpiangere. Ero nato per essere giardiniere”. Antoine aveva 44 anni, da ventiquattro pilotava aerei in giro per il mondo e poi lo raccontava. Era caduto più volte. E si era sempre salvato. Una lo marchiò più delle altre. Successe nella notte tra il 29 e il 30 dicembre del 1935. Saint-Exupéry e il suo meccanico André Prevot stavano sorvolando la Cirenaica per raggiungere Saigon, come segnalato dal Comando italiano dell’Aeronautica in Libia che registra il Caudron-Renault immatricolato F-anry dell’aviatore e scrittore. L’aereo precipita in territorio libico a meno di 150 chilometri dal Cairo. I due resteranno per tre giorni nel deserto, prima d’essere scoperti dai beduini: “Uscendo da un mare di nuvole, abbiamo urtato il suolo alla velocità di 250 chilometri l’ora. Morendo di sete, eravamo alla fine delle forze, quando all’orizzonte apparvero i beduini”, racconta Antoine al giornale l’Intransigeant. Lui la rievoca nel settimo capitolo del libro Terre des hommes, “al centro del deserto”. La passione e il fascino del volo, le tragedie che esso può nascondere e quella drammatica esperienza nel deserto l’hanno colpito. E rielabora tutto nel Piccolo Principe, il libro più tradotto nel mondo dopo la Bibbia (in 300 lingue e dialetti, compreso il romanesco): “Ho volato sopra tutto il mondo: e veramente la geografia mi è stata molto utile. A colpo d’occhio posso distinguere la Cina dall’Arizona, e se uno si perde nella notte, questa sapienza è di grande aiuto”. Confessa di avere incontrato molte persone importanti nella sua vita, senza che l’opinione su di loro migliorasse. Anzi, piuttosto che scambiare chiacchiere futili con costoro, preferiva la solitudine: “Così ho trascorso la mia vita solo, senza nessuno cui poter parlare, fino a sei anni fa quando ebbi un incidente col mio aeroplano, nel deserto del Sahara”. La prima notte, più isolato di un naufrago abbandonato in mezzo all’oceano, l’aviatore precipitato sente una strana vocina. Quella del Piccolo Principe dai capelli d’oro. Favola meravigliosa. Albert Camus la criticò, trovandola scipita. Piacque, invece, a centinaia di milioni di lettori, non solo ragazzi – ma anche adulti che ricordavano d’essere stati bambini una volta. Saint-Exupéry era già un mito della letteratura avventurosa. Anche per il pilota tedesco Horst Rippert che confessò, vinto dai rimorsi, solo 44 anni dopo, d’averlo abbattuto (era diventato un famoso giornalista e suo fratello un noto cantante, temeva che avrebbe potuto rovinarsi la carriera…). All’epoca il pilota della Luftwaffe aveva 24 anni. Alla fine della guerra poteva vantare 28 aerei nemici abbattuti. I tedeschi avevano individuato il ricognitore nemico. Rippert decollò da una base vicino a Marsiglia con un Messerschmitt Bf 109, un caccia micidiale: “Lo intercettai. Volava troppo basso. Un’imprudenza. Mirai alle ali, sparai alcune raffiche. Vidi lo zinco della fusoliera esplodere e l’aereo piombare giù, dritto nel mare. Nessuno si è gettato col paracadute. Seppi qualche giorno dopo che il pilota era Saint-Exupéry. Ho sperato, e spero ancora, che non fosse lui. A scuola avevamo adorato tutti i suoi libri, sognato con le sue avventure nell’emisfero del Sud. Come sapeva descrivere il cielo, la paura, le emozioni dei piloti! Era leggendolo che molti di noi avevano scoperto la passione di volare. Se avessi saputo che in quella carlinga c’era lui, non avrei sparato”. Il corpo di Antoine non fu più ritrovato. Sparito, come il Piccolo Principe, alla fine della favola. Ogni tanto, congetture, ipotesi, rivelazioni. Il mistero resta. Gli occhi degli uomini sono ciechi, diceva il Piccolo Principe, non sanno cercare. Bisogna farlo col cuore.

Ospedale chiuso per ferie (dell’Emiro): gli arabi a Cagliari per un check-up

Erano arrivati in gran riserbo, il 9 luglio, provenienti da un vicino resort nella costa sud-occidentale della Sardegna. A tradire la loro presenza all’Ospedale Brotzu di Cagliari era stato il codazzo di auto di lusso coi vetri oscurati, giunte fino all’ingresso dell’ospedale, proprio davanti agli ambulatori di ortopedia e anestesia. Una visita speciale, per la famiglia reale di Abu Dhabi, che aveva scelto la struttura pubblica di eccellenza per un check-up multiplo: ortopedico, cardiologico e dermatologico. E che per l’occasione aveva goduto di un protocollo speciale di accoglienza, con misure di sicurezza straordinarie e ambulatori chiusi al pubblico durante le visite.

Non erano mancate le polemiche sullo sfoggio di efficienza, con esami eseguiti a tempo di record, ben diverso dai normali tempi d’attesa del Cup. Ora sulla vicenda torna il consigliere regionale del M5S, Michele Ciusa, che in un’interrogazione chiede lumi sull’operato del Commissario straordinario dell’Azienda ospedaliera cagliaritana, “che proprio l’8 luglio ha disposto nuove misure organizzative per la sicurezza e la riservatezza dell’utente. Misure da adottarsi in caso di visite urgenti e eccezionali, per le quali è stato previsto un incremento del 50 per cento della tariffa. Solo una coincidenza?”, chiede il pentastellato che invoca trasparenza anche a fronte delle lunghe liste d’attesa per i pazienti “normali”. Inoltre domanda se la speciale visita abbia inciso sulla routine sanitaria. Pronta la replica: “Siamo un ospedale di riferimento per le visite dei capi di Stato nell’isola, ed eravamo tenuti a offrire supporto sanitario come da protocolli di sicurezza. Le programmazioni non hanno subìto modifiche”.

Così nonna mi salvò da Scotland Yard

C’era una volta una vita senza telefoni. E pure senza sale. Londra 1998, l’estate sta per finire, Alberto e io alloggiamo in uno scantinato a un prezzo esoso. Sono gli ultimi giorni, i soldi scarseggiano e i pasti consistono in paste in bianco cucinate su una orrenda piastra elettrica condite con bustine di sale “rubate” al Burger King di Piccadilly Circus. Una vita senza sale, appunto. Ma chissenefrega, siamo a Londra. E senza cellulari. Il primo, una mattonella con l’antenna, lo avrei posseduto in autunno. A casa telefoniamo poco. Non abbiamo recapito e nessuno ci può trovare. Tanto lo sanno, a casa, che siamo a Londra. Ho un rito, da buon torinese in vacanza. Ogni giorno a Leicester Square compro La Stampa fresca di giornata (mica del giorno prima). E così anche il giorno della partenza. A Heatrow sono solo. Ho un’ora, forse due prima dell’imbarco. Passo al duty free, le sigarette erano ancora tax free. Alla cassa ricordo di avere la carta di credito di mia madre “per l’emergenza”. Pago con quella, ma al momento di firmare lo scontrino mi scatta l’impulso legalitario: “Ehm sorry…”, sorrido alla cassiera e nel mio lucido inglese le spiego che accidenti, proprio non posso pagare con quella perché non è mia… Lei mi guarda senza espressione e dopo un minuto due persone quasi di peso mi portano in una stanzetta spoglia. Segue interrogatorio in cui non sono in grado di dimostrare che quella persona che non ha il mio cognome è davvero mia madre. Mi ha salvato nonna. Nella pagina dei necrologi, qualche ora prima, avevo scoperto che se ne era andata il giorno prima. Non avrei potuto saperlo, l’ultima volta che avevo chiamato casa era prima che accadesse. Grazie al necrologio ricostruii la mia discendenza diretta da quella signora il cui nome era stampato sulla carta di credito. Era proprio mamma. E nonna mi salvò da Scotland Yard.

Stupidario anticaldo: ventagli a Napoli, niente lana a Messina

Non bastava il clima torrido. Ci voleva pure la polemica rovente, e pretestuosa, del capogruppo della Lega Nord in Liguria Franco Senarega, che ha avuto da ridire sul “Piano Caldo” del Comune di Genova. Piano nel quale è previsto che alcuni rifugiati e richiedenti asilo aiutino gli anziani rimasti in città, per fare la spesa e spostarsi. “Non possiamo lasciarli in balìa di presunti profughi”, ha detto in un’interrogazione regionale, spalleggiato dalla vicepresidente Sonia Viale. E dire che la Regione Liguria è una delle poche che ha individuato sul territorio un elenco di 180.000 cittadini a rischio per un eventuale ricovero o un’assistenza domiciliare gratuita.

Quella dell’identificazione dei soggetti fragili durante le ondate di calore è infatti una delle indicazioni più importanti del nuovo “Piano nazionale di prevenzione degli effetti del caldo sulla salute”, redatto dal ministero della Salute (che ha istituito anche un numero anticaldo, il 1500). Il Piano aggiorna quello diramato nella tragica estate del 2003 e insiste su varie linee: l’attivazione dei sistemi di previsione e di allarme relativi alle varie città (Heat Health Watch Warning), con i bollettini sulle ondate di calore pubblicati sia sul sito www.salute.gov.it/caldo, che sulla app “Caldo salute”; un sistema di sorveglianza sugli effetti della salute (e sulla mortalità giornaliera); infine una collaborazione stretta tra servizi sociali e sanitari. Restano valide – negli anni hanno funzionato – campagne informative, numeri verdi specifici, sorveglianza domiciliare degli anziani, supporto sociale e volontariato.

Ma le città italiane come si sono mosse per rispondere alle ondate di calore? In maniera disomogenea e con una differenza netta tra Nord e Sud: il numero anticaldo dedicato c’è in numerose città, anche se spesso funziona solo nei giorni feriali, il monitoraggio delle persone fragili e l’assistenza diretta solo in poche; spesso, specie al Sud, ci si limita a pubblicare i soliti consigli, dal bere molto alle spugnature al non indossare lana (sul sito del Comune di Messina). Più servizi per gli anziani, meno – anzi quasi nulla – per gli altri soggetti deboli, ad esempio donne in gravidanza e bambini. Fa bene Modena, che mappa i casi a rischio, monitora gli accessi al pronto soccorso, forma collaboratrici familiari e cittadini. A Milano sono previsti consegne pasti, assistenza domiciliare e aiuto per spesa e visite mediche. A Trieste, se si supera una certa soglia di allarme partono le telefonate a 1.200 utenti fragili. Ad Ancona esiste il servizio “Helios”, che consegna condizionatori portatili ad anziani e disagiati. La campagna veneta del comune di Venezia si chiama “Ocio al caldo 2019” e punta soprattutto sull’informazione, segnalando le aree climatizzate pubbliche del centro.

Perugia è uno dei pochi Comuni che sulla app “Piano Caldo” – su cui sono presenti solo alcune città – fornisce un massiccio elenco di servizi e strutture per i cittadini con tanto di cellulari dei responsabili. E Roma? Attività ricreative per anziani, aumento dei posti per persone senza dimora e divieto per le botticelle di circolare sopra i trenta gradi. Non molto, come fa sorridere l’iniziativa della Protezione civile, che ha distribuito in città 9.000 bottigliette d’acqua, pure di plastica. Meglio allora il Comune di Napoli, che almeno ha fornito una mappa delle fontanelle pubbliche. Oltre a distribuire ventagli, forse la misura anticaldo più rétro d’Italia.

Orlando è cornuto e Angelica “bottana”. Rinaldo confessa

Orlando, di essere cornuto, viene a saperlo proprio da Rinaldo che manco lo immaginava che quello – il suo capo paladino, cugino e compagno di tante scampagnate – avesse nel cuore e nelle carni la bella Angelica.

Rinaldo se l’era portata a letto Angelica a tempo perso. E glielo rivela a Orlando – adesso – per una vanteria tra maschi: “Me la sono fatta”.

Orlando, di ritrovarsi cornuto, neppure lo immaginava. E preso come da una botta di sangue, sprofonda nel dolore e però se ne sta zitto, anzi, sorride. Se ne ritorna al suo castello all’imbrunire e non ci dorme per sette giorni interi e sette notti fino a quando – sopraggiunge l’ottava alba – afferra il proprio smartphone e vi digita la sentenza di addio a lei. Le scrive un messaggio su whatsapp di una sola parola una: “Bottana!”.

Lei non se ne accorge di quell’insulto, anzi, manco ci pensa più a Orlando. E quella parola che è solo una si perde chissà dove.

Lui se ne muore perché da subito non ha risposta, neppure nel corso della giornata la riceve, e così nei giorni appresso, e ancora dopo e scrutando per mesi, e tanti giorni ancora il display sempre muto, Orlando l’immagina – la spietata Angelica – attonita, sbugiardata e però, ahilui, la sente indifferente, sprezzante e vieppiù sdegnosa.

Lei, comunque, sapendolo lontano, tra le sabbie d’Africa o chissà dove, se lo scorda proprio il prode Orlando.

Presa per come è presa, Angelica, si profonde di smanie con Rinaldo Chiaramonte di Monte Albano il quale a lei si dedica solo un’anticchia. Se la porta in macchina per quel tanto che basta per insozzarla poi nei conciliaboli con gli altri paladini, appagare così il raglio del suo io – “La prendo con la mia Fusberta di sopra, di sotto, e in ogni modo e in ogni maniera” – e illuderla, infine, di farla onesta agli occhi di tutto il Reame di Re Carlo.

Orlando da lontano dove si trova non dorme, non mangia e butta col sudore della sua disperazione, anche il fiele, come fosse bava.

Orlando Chiaramonte, però – ancora prima – l’aveva capita quel qualcosa tra i due, l’aveva perfino interrogata, anche a lungo, cavandone giuramenti e proclami di mai e poi mai, e cosa vai a pensare mai: “Lui mi fa una corte spietata, questo sì”, a un certo punto confessa Angelica dal balcone, “ma io niente”.

Se ne muore, Orlando, quando dopo la rivelazione avuta da Rinaldo, suo cugino da lontano dove ormai si trova, e chissà dove, interroga un mago che gli mostra nella sfera la trafila degli amanti di Angelica: ecco Ferraù, ecco Sacripante ed ecco Ruggero. E poi ancora, Medoro che, ferito, lei se lo cura e poi se lo smanazza.

Se ne muore, Orlando, perde il senno ma intanto c’è Rinaldo che non può sapere dell’afflizione di suo cugino e lo raggiunge ad Agramonte. Non lo immagina di averlo fatto cornuto, se solo lo sapesse se ne farebbe vanto. E Orlando, addolorato, ripassa a mente tutti i cavalieri cui Rinaldo ha consumato le donne e tutta questa giostra di vergogna, mettersi nella sequela di tutti quei becchi – pur senza più senno – lo convince della decisione più sensata: restarsene zitto.

Se ne muore, Orlando, e non parla. Sorride anzi, si congeda da Rinaldo e si gode la villeggiatura quando nel vuoto di un pomeriggio, sbucciando carote, gli arriva un messaggio della bella Angelica – “Come stai?” – e alla pazzia aggiunge finalmente una rabbiosa felicità.

Immediatamente le scrive “mi ha raccontato tutto lui, se n’è fatto vanto, buon per te” e lei, giusto contrappasso, se ne crolla.

Angelica lo chiama immediatamente al telefono, Orlando non risponde, anzi, stacca il cellulare e tutti i messaggi di whatsapp di lei restano senza doppia graffetta.

Il prode paladino intanto lascia Agramonte e corre – dopo sosta ad Acquisgrana – a Lutetia, nella capitale dove Re Carlo raduna tutti i più valorosi guerrieri, Orlando sa di trovare tra loro il cugino Rinaldo. Ancora per un poco l’addolorato paladino nasconde il suo proposito, vendicare tutto il dolore del proprio cuore. Ancora per poco ostenta un complice sorriso allorquando Rinaldo indugia nel di sopra e di sotto, e nel modo e nelle maniere ma dopo poco, scorgendo il suo sogghigno – temendo di essere già proclamato tra i becchi, Angelica di certo ha già informato Rinaldo – non ce la fa più.

Solleva in alto, Orlando, la sua temuta Durlindana e chiama il cugino ai margini del bosco di Neuilly, lungo la Senna, sfidandolo a singolar tenzone.

Carlo Magno, a bocca aperta, assiste alla piazzata e così mormora: “Pensa quanto può una femmina; due paladini, due amici veri – le due colonne del mio Regno – per causanza della bella Angelica, sono diventati due nemici fieri!”.

Questo racconto è vera storia, scritta sopra dei fatti naturali da un cappuccino che campava all’epoca e vide uno di tutto, tali e quali.

Ecco Fusberta e Durlindana in guardia, eccoli in campo – uno contro l’altro – che cercano di sbranarsi, peggio che lupi.

Ognuno si parte in atto di minaccia: s’inquartano alla svelta, fanno girare le armi come un vortice e lesti fanno calare i loro fendenti.

Orlando alza vieppiù la propria spada in aria e inferte un colpo così tremendo che se Rinaldo non avesse fatto un salto, sarebbe stato perduto irremissibilmente: “Eccomi quane”, gli urla appunto Orlando, “ti voglio far provare il mio terribeli brando e la forza di codeste mane”.

Rinaldo però si prende la rivincita: “Osservati allo specchio, gran ridicolo, guarda il tuo nasone storto; ha ragione, la leggiadra Angelica, di non sentire per te alcun trasporto …aspetta, aspetta che con un colpo della mia Fusberta ti accorcio questa tua probosciti”.

P.s.

Succede l’urto, le due spade s’incrociano/saltano i loro elmi ben presto rotti/e cadono storditi ambo all’unisono/per sette giorni interi e sette notti!