A Cambridge l’abuso sessuale non è reato

Università di Cambridge, estate 2018. Sono finiti gli esami e Faye, nome di fantasia, ha un rapporto sessuale con David, un altro studente. Consenziente finché lui, di nascosto da Faye, pratica lo stealthing, la pratica sessuale di sfilarsi il condom senza il consenso del partner, equiparata ad uno stupro. Faye ne resta traumatizzata: smette di frequentare le lezioni per paura di incontrare David, i voti ne risentono. Ma conosce precedenti e statistiche, sa che in questi casi raramente i giudici condannano un “ragazzo promettente”: decide quindi di non rivolgersi alla polizia e ripone le sue speranze di giustizia nelle istituzioni accademiche di una delle università più prestigiose del mondo. Aspetta invano per otto mesi, finché, qualche giorno fa, viene informata dal presidente del comitato disciplinare universitario che il suo caso non sarà indagato oltre, perché gli attuali regolamenti disciplinano gli abusi sessuali in maniera troppo vaga.

Una conclusione potenzialmente illegale, secondo avvocati e attivisti per i diritti delle donne che promettono di contestarlo. Il paradosso: il regolamento incriminato dovrebbe cambiare il prossimo 1 ottobre, quando entrerà in vigore una nuova procedura in cui l’abuso sessuale è definito esplicitamente come “violazione delle regole di comportamento degli studenti”: ma la norma non è retroattiva, e David la passerà liscia.

Come troppi prima di lui: proprio Cambridge è fra gli atenei con il numero più elevato di denunce di stupro o abusi sessuali. Fino al 2015 le molestie non erano nemmeno contemplate come violazione delle regole dell’ateneo. Fra il 2017 e il 2018, come parte della campagna Breaking the Silence, ‘Rompere il silenzio’, le segnalazioni anonime sono balzate a 173, ma solo 12 sono diventate denunce formali. “Come ricercatrice al Queen’s College ho assistito studentesse violentate o molestate nel campus” denuncia sul Telegraph la docente Charlotte Proudman. “Le risposte dell’università sono inadeguate. I casi vengono regolarmente insabbiati dalle istituzioni accademiche, che mettono giovani donne a rischio di violenza sessuale da parte di ben noti stupratori seriali”. La procedura favorisce l’omertà: è l’Università stessa a decidere su quali denunce indagare. E ha un inveterato problema di contesto culturale. “Cambridge è un microcosmo elitario in cui uomini bianchi e privilegiati vengono celebrati per la loro abilità negli sport, le loro conquiste sessuali e l’appartenenza a esclusivi club privati, noti per la loro feste a base di consumo sfrenato di alcol e molestie” continua Proudman. La storia ha fatto il giro del campus, dopo una approfondita ricostruzione del giornale universitario Varsity che ha rivelato come anche un secondo caso di violenza sia stato liquidato dal comitato disciplinare. E ha riattivato un dibattito latente anche sui social. Con tanto di aperta derisione da parte di Uk Men’s Rights Action, formazione dichiaratamente antifemminista con oltre 12 mila followers su Facebook che chiede uguali diritti per uomini e donne e si batte contro la “femminilizzazione dei luoghi di lavoro”.

Sanders e Warren uniti per la sanità pubblica

Bernie Sanders ed Elizabeth Warren hanno fatto fronte comune nella prima tornata del dibattito tra i candidati democratici alle primarie per la presidenza Usa. E sono usciti vittoriosi dalla serata. A unire i due candidati della sinistra democratica è stata soprattutto la bandiera del Medicare for All, la sanità gratuita, progetto mai veramente completato da Barack Obama e oggi proposta di punta della sinistra Dem.

E proprio su questo punto hanno suscitato gli attacchi maggiori da parte degli altri candidati – non presente però il favorito delle primarie, l’ex vice di Obama, Joe Biden e la senatrice Khamala Harris che si sono confrontati ieri notte, troppo tardi per renderne conto – difensori dello statu quo e di una linea politica più centrista e moderata. Tra questi il millenial e spumeggiante Pete Buttigieg e un grigio e poco incisivo Beto O’Rourke. A contrastare i due, però, anche grazie all’interesse dei moderatori della Cnn, che ha ospitato il dibattito, è stato John Delaney, convinto assertore di un discorso allarmista sulla riforma sanitaria (“colpirà le tasse degli americani e le prestazioni sanitarie garantite dal sindacato”).

Visibile anche la sessantasettenne Marianne Williamson che, pur parlando per pochi minuti, ha ottenuto diversi applausi quando si è spesa per i discendenti degli schiavi afroamericani: “Non si tratta di assistenza finanziaria ma del pagamento di un debito che abbiamo”. A sostenerla, curiosamente, è stato il figlio del presidente Usa, Donald Trump Jr. che su Twitter ha scritto: “Penso che Marianne Williamson abbia vinto. Qualsiasi cosa ha detto ha ricevuto i maggiori applausi della serata”.

Ma al di là del colore e delle battute, il punto resta quello del confronto tra le due anime del Partito democratico. Warren e Sanders vengono attaccati per le loro idee poco praticabili. Un realismo che però non ha la forza di qualche decennio fa. Per questo Sanders ha avuto gioco facile a dire che “non dobbiamo avere paura delle grandi idee, i Repubblicani non hanno paura delle grandi idee”. Il riferimento non è solo alla Sanità ma anche all’Ambiente: “Per favore non ditemi che noi non possiamo affrontare l’industria dei combustibili fossili”. Sul tavolo del confronto a sinistra, infatti, c’è anche il progetto di Green New Deal, che viene sostenuto dalla sinistra americana, spesso di ispirazione socialista, si pensi al ruolo di Alexandria Ocasio Cortez, la giovane deputata recentemente finita sotto il fuoco di Trump.

Il piano è ritenuto impraticabile dai moderati che criticano Warren anche per il suo piano di aumento delle tasse sui ricchi. John Delaney lo ha definito “incostituzionale”. Aggiungendo poi che “i Democratici vincono quando impostano la campagna su delle vere soluzioni e non su false promesse”. Replica della Warren: “Non capisco perché ci si dia tanto da fare a candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti per dire agli altri quello che non possono fare e non possono promettere”.

Come nota la rivista Jacobin, “da questo dibattito si nota che l’energia è oggi solo nella sinistra del Partito democratico” mentre i centristi vengono oscurati e quelli che rimangono a metà, come Pete Buttigieg o Beto O’Rourke, “sembravano presentarsi all’evento sbagliato”.

I sondaggi danno ancora in testa Joe Biden seguito da Sanders e da Warren. Dietro ancora c’è l’efficace senatrice Harris e poi Buttigieg. Se la campagna proseguisse con questa formazione Biden sembrerebbe essere il favorito.

Ma se Sanders e Warren trovassero il modo di unire le forze potrebbero creare una novità. Il punto è la strategia da seguire per battere Trump. Il dibattito delle scorse due notti si è svolto a Detroit, uno dei centri della rust belt, la cintura della ruggine, simbolo della deindustrializzazione e della crisi economica dove Trump ha sbaragliato Hillary Clinton. Un segnale da dove il partito democratico intende ripartire, ma su che linea e con quale strategia ancora è da vedersi.

La rivolta Maori per i figli rubati

Quando nel 2017 è diventata primo ministro laburista della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, suddita di Sua Maestà, è stata accolta con giubilo dalla popolazione indigena maori, specialmente dalle donne. Anche perché erano state proprio queste a contribuire maggiormente alla sua ascesa. A distanza di due anni dal suo insediamento, Ardern viene percepita sempre più distante dalla popolazione, in particolare dalla minoranza – un tempo maggioranza – autoctona.

Tanto che i maori stanno tenendo da giorni due grandi proteste che metteranno a dura prova i rapporti con il governo della coalizione di centro sinistra, un esecutivo con molti maori naturalizzati in veste di ministri e vice ministri. Secondo i portavoce maori, la Ardern è un “primo ministro part-time” che preferisce occuparsi delle questioni internazionali anziché domestiche.

Centinaia di attivisti, martedì scorso, hanno marciato verso la sede del parlamento a Wellington, così come in altre città della Nuova Zelanda, chiedendo una revisione e misure nei confronti dell’agenzia governativa per il benessere dei bambini: Oranga Tamariki, Ministero per i bambini in lingua maori.

Fra il 2017 e il 2018, 290 bambini Maori sono stati presi in custodia dallo Stato, ovvero portati via alle famiglie. Secondo i rappresentanti della comunità, questo comportamento da parte delle autorità è una conseguenza degli anni bui della colonizzazione. Oggi i bambini Maori rappresentano oltre il 50% di tutti i bambini presi in custodia dalle Istituzioni, ovvero finiti in orfanotrofi. Sul sito web, Oranga Tamariki afferma: “Siamo consapevoli che i Tamariki (bambini) Maori sono colpiti in modo sproporzionato e rappresentano il più grande gruppo di bambini che vengono messi sotto tutela dallo Stato”. A sentire i responsabili dell’agenzia, le ragioni più comuni per cui i bambini vengono separati dai genitori sono l’abuso e la dipendenza da sostanze stupefacenti, l’abbandono medico del bambino e la violenza domestica. In realtà verso i Maori c’è anche un certo pregiudizio da parte del resto dei neozelandesi, non solo degli esponenti delle istituzioni.

Nel frattempo a Ihumatao non sembra essere sul punto di finire la contrapposizione tra attivisti e incaricati di un vasto progetto di costruzione. Centinaia di manifestanti hanno occupato le terre nel sobborgo di Mangere, nel sud di Auckland, dove è prevista l’edificazione di una vasta area residenziale privata.

Peccato che l’insediamento Maori di Ihumatao risalga al XIV secolo e la maggior parte di loro consideri queste terre sacre. Nel mezzo della crescente crisi abitativa di Auckland, i terreni di Ihumatao sono stati venduti al Fletcher Building nel 2016, con l’intenzione di sviluppare 500 case residenziali. I manifestanti che occupano il sito dicono che Ihumatao è troppo prezioso. Ma le tribù Maori non sono davvero unite. Alcune ritengono piuttosto che lo sviluppo abitativo potrebbe essere positivo. L’amministratore delegato di Fletcher Building Residential, Steve Evans, ha affermato che la società si è impegnata a restituire il 25%, o otto ettari, del terreno ai Maori e il progetto di costruzione si sarebbe preso cura della sensibilità del luogo. Fatto è che a Ihumatao stanno arrivando attivisti da tutto il Paese. Invece di preoccuparsene la prima ministra Ardern ha trascorso gran parte della settimana nel remoto territorio della Nuova Zelanda di Tokelau, un viaggio marittimo di 22 ore da Samoa e 3.500 km dalla Nuova Zelanda. La visita di Ardern a Tokelau è la prima di un premier neozelandese in 14 anni e Ardern ha affermato che è importante mostrare il suo volto ai 1.500 cittadini neozelandesi e consultarli sulla loro volontà di raggiungere l’indipendenza. In patria intanto le veniva scritta una lettera aperta intitolata “Giù le mani dai nostri Tamariki”, firmata da oltre 17.000 persone: “I vari governi sono stati seriamente negligenti nell’adempiere ai propri obblighi nei confronti del nostro popolo. Dobbiamo sfidare l’abuso statale di Tamariki e Whanau, nel passato, presente e futuro. C’è stata troppa inattività per troppo tempo”.

Il mese scorso il commissario per i bambini, il giudice Andrew Becroft, ha avviato un’indagine su Oranga Tamariki, sulle quotidiane separazioni dei bimbi dai nuclei familiari. “La nostra eredità duratura di colonizzazione e razzismo sistemico ha influenzato a lungo le decisioni prese non solo dai servizi di assistenza all’infanzia, ma da tutte le agenzie della Nuova Zelanda per decenni. Non c’è stato finora modo di evitarlo. È un messaggio negativo per la Nuova Zelanda, ma è un messaggio che non possiamo evitare di divulgare e dobbiamo affrontarlo”, ha detto Becroft.

I martiri morti per l’ambiente

Molte persone singole e intere comunità vogliono proteggere l’ambiente da ogni tipo di sfruttamento senza limiti e dalla distruzione ingiustificata. Il loro impegno non è apprezzato da tutti. Spesso esse devono affrontare resistenze forti e violente.

In Africa, un esempio tragico è quello di Ken Saro-Wiwa(1941-95), scrittore nigeriano, produttore televisivo, attivista ambientale e membro del popolo ogoni nel delta del Niger. In quell’area, a partire dagli anni Cinquanta, l’estrazione del petrolio a opera della compagnia Shell causò gravissimi danni ambientali.

Portavoce e presidente del Movimento per la sopravvivenza del popolo ogoni (Mosop), Saro-Wiwa guidò una campagna non violenta contro il degrado ambientale della terra e delle acque. Critico del governo nigeriano, fu processato da un tribunale militare e impiccato nel 1995. L’indignazione internazionale per la sua esecuzione provocò la sospensione della Nigeria dal Commonwealth delle Nazioni per oltre tre anni.

In Brasile, un altro esempio è quello di Dorothy Stang (1931-2005), suora e attivista ambientalista statunitense, appartenente alla Congregazione delle Suore di Notre Dame de Namur. Ad Anapu, nello Stato di Pará, dove viveva e lavorava, contribuì a fondare il progetto per lo sviluppo sostenibile denominato Esperança (“Speranza”). A causa della sua dedizione nel servire i poveri e nel proteggere l’ambiente, dopo aver ricevuto numerose minacce di morte da parte di imprese che disboscavano e di proprietari terrieri, nel 2005 fu assassinata da sicari assoldati da coloro i cui interessi finanziari erano minacciati dal suo impegno ambientalista.

Nel 2011, nello stesso Stato brasiliano di Pará, José Cláudio Ribeiro da Silva e sua moglie, Maria do Espírito Santo da Silva, furono uccisi in un’imboscata nella città di Nova Ipixuna. Da Silva era uno dei leader della sua comunità e criticava con forza la deforestazione dell’Amazzonia, in progressivo aumento.

Nel 2015, nello Stato settentrionale brasiliano di Maranhão, l’ambientalista Raimundo Santos Rodrigues fu ucciso per la sua sollecitudine nella protezione della foresta amazzonica orientale da imprese che disboscavano, da latifondisti che si appropriavano dei terreni disboscati per promuovere coltivazioni agricole industriali e intensive, e da proprietari di miniere che estraevano risorse dal sottosuolo e inquinavano. L’associazione Global Witness riferisce che tra il 2002 e il 2013 in Brasile sono stati uccisi almeno 448 ambientalisti. In altre nazioni, la resistenza allo sfruttamento sfrenato del Pianeta è contrassegnata dal sangue versato dai martiri ambientali.

Nelle Filippine, nel 2012, il leader indigeno Jimmy Liguyon fu ucciso davanti alla sua famiglia perché si era rifiutato di vendere la sua terra ai minatori. Nello stesso anno, in Cambogia, la quattordicenne Heng Chantha fu uccisa dalla polizia perché si opponeva all’espulsione dei cittadini e alla distruzione del villaggio per avviare una piantagione di alberi della gomma.

In Cambogia, Chut Wutty (1972-2012) fondò e diresse il Natural Resource Protection Group, un’organizzazione il cui scopo era la protezione delle risorse naturali della nazione. Egli criticava apertamente il disboscamento illegale operato da compagnie che avevano ottenuto concessioni di terreni in foreste protette grazie alla corruzione militare e governativa. Il 26 aprile 2012 fu ucciso a colpi di arma da fuoco mentre stava accompagnando due giornaliste del quotidiano The Cambodia Daily vicino a una foresta protetta, di cui aveva ripetutamente tentato di rendere noto il disboscamento illegale permesso da funzionari militari.

Nell’ottobre 2014, la Collaborative Partnership on Forests, un consorzio internazionale di 14 organizzazioni, segretariati e istituzioni coinvolte nella protezione delle foreste a livello internazionale conferì un riconoscimento postumo a Chut Wutty per onorare la sua dedizione nel proteggere la foresta locale. Questo premio, inaugurato nel 2012, è un riconoscimento dato a coloro che forniscono contributi eccezionali per preservare, ripristinare e gestire in modo sostenibile le foreste. Nel documentario I Am Chut Wutty, realizzato pochi mesi prima della sua morte e disponibile dal 2015, Chut spiega le ragioni del suo attivismo a sostegno della popolazione locale. Dopo il suo assassinio, la sua attività è continuata. L’intera comunità è divenuta “Chut Wutty”. Chi pensava che fosse sufficiente eliminare una persona per far cessare l’opera si sbagliava: Chut continua a vivere in ciascun membro della sua comunità: “l’eliminazione di Chut ha moltiplicato Chut”.

Nel 2015, la honduregna Berta Cáceres (1973-2016), in una nazione piagata da crescenti disparità socioeconomiche e violazioni dei diritti umani, vinse il prestigioso premio Goldman per i difensori dell’ambiente a motivo della sua sollecitudine nel proteggere un’importante fonte di acqua dolce, il fiume Gualcarque, minacciato dal progetto di costruzione della diga di Agua Zarca. Berta radunò la popolazione indigena lenca ed esercitò pressioni per bloccare la costruzione della diga. Il progetto minacciava di far prosciugare il fiume, con gravi conseguenze per i terreni agricoli circostanti. Il fiume è una risorsa importante per la vita della popolazione – dall’agricoltura al nuoto, alla pesca – e per il suo valore culturale e spirituale. A causa dell’iniziativa di Berta, il progetto fu trasferito sul lato opposto del fiume. La diga non sarebbe stata costruita su terreni agricoli, ma ciò non avrebbe evitato i danni all’agricoltura. Nell’ottobre 2015 la costruzione della diga iniziò nonostante le proteste di Berta e della popolazione indigena. Il 2 marzo 2016, due giorni prima del suo 45° compleanno, Berta fu uccisa a colpi di arma da fuoco. Dopo il suo assassinio, la popolazione indigena ne continuò l’opera, in suo nome. All’inizio del 2016, a seguito di altri episodi di violenza ai danni della popolazione, il finanziamento del progetto fu sospeso, e cessò definitivamente nel 2017.

Purtroppo, per tanti essere discepoli non risparmia dal diventare martiri ambientalisti. Essi vivono un ruolo profetico che ci interpella e ci chiede di unirci a loro con azioni concrete e, a livello spirituale, con un’unione di cuori e di menti nella preghiera, per vivere una solidarietà profetica nella nostra casa comune, nel nostro Pianeta.

Fincantieri e Sandro Gozi, ovvero l’afflato della coscienza

Noi avevamo sempre sottovalutato Sandro Gozi. Ai tempi in cui era l’ombra di Prodi, Umberto Bossi lo liquidò in tre minuti: “Ma chi m’ha mandato Romano? El fioeu de l’oratori?”. E invece, oggi, l’uomo che fu sottosegretario agli Affari Ue con Renzi e Gentiloni occupa lo stesso incarico nel governo francese e s’impegna a dimostrarci una volta di più – insieme a quelli che vogliono togliergli la cittadinanza e a quelli che fischiettano “che male c’è?” – che il dibattito pubblico è una barzelletta. Un solo esempio. L’italiana Fincantieri nel 2017 vince la gara per acquisire i (falliti) cantieri francesi Stx, che in realtà erano coreani al 66%: il governo francese però mette agli italiani – che accettano – molti paletti che non valevano per i coreani; poi si rimangia l’accordo, nazionalizza l’azienda e riapre la trattativa; ne nasce, siamo al 2018, un’altra intesa in cui Fincantieri non può avere la maggioranza; a novembre Parigi ci ripensa di nuovo e denuncia la fusione all’Antitrust Ue, che ancora non parla. Per l’Italia, tra gli altri, di quella fusione s’è occupato fino a un anno fa l’ex sottosegretario Gozi, che oggi tornerà a farlo, ma con la maglietta dell’altra squadra. Lui, intanto, non è chiaro se non capisca il suo conflitto di interessi o ci prende per il culo: “Sono un sovranista d’Europa”. In realtà fraintendimenti del genere sono fatali se si sostituisce il ferro della politica, che media come e dove può l’urto degli interessi reali, con l’afflato della coscienza, la quale – si sa dai tempi di Gaber – è come l’organo sessuale: se non fa nascere la vita, fa pisciare.

Mail Box

 

Concorsi truccati: il “do ut des” che fa collassare il sistema

È importante descrivere i seguenti aspetti della pratica dei concorsi truccati, per chiarire su cosa si fondi e come eradicarla. Nel 2008, nel clima di forti proteste da parte di studenti, docenti e rettori contro la riforma dell’università, il governo di allora ha introdotto nella riforma un decreto secondo cui i membri delle commissioni vanno sorteggiati fra tutti i docenti competenti nella disciplina oggetto del concorso: ciò rende impossibile prevedere chi siederà in una data commissione. Rettori e ordinari hanno cessato di aderire alla protesta e il decreto è stato modificato riducendo il bacino di docenti sorteggiabili agli ordinari inclusi in una lista chiusa, redatta da un gruppo ristretto che stabilisce anche le norme del sorteggio, ripristinando di fatto la prevedibilità dei commissari. Se è impossibile prevedere chi sarà in commissione, viene meno il do ut des (io faccio passare il tuo candidato, tu fai passare il mio o mi fai quell’altro favore che mi occorre) e il sistema collassa: nessuna commissione otterrebbe un vantaggio collettivo dal promuovere un candidato diverso dal più meritevole. Denunciare uno o più concorsi truccati senza denunciare la legge che li rende possibili serve a poco: tutti i bandi sono ad personam, sospeso o arrestato un truccatore ne subentra un altro e il sistema si perpetua tal quale, perché per i commissari è vantaggioso. La volta che ti beccano è perfettamente assorbita da tutte le altre in cui l’hai fatta franca, visto che a denunciare è sempre solo qualche candidato kamikaze (tre o quattro negli ultimi dieci anni, se non conto male). I concorsi sono “truccati” anche quando a vincere è il candidato migliore: la commissione vota un candidato non per il di lui merito, ma perché quello è il turno del suo docente, è il “suo concorso”. È un meccanismo perverso, che può scomparire dall’oggi al domani in favore di concorsi virtuosi ampliando a dovere il bacino di sorteggio dei commissari.

Lära Ren, Ph.D.

 

Gli interessi politico-affaristici che si celano dietro il sì al Tav

Sarà sicuramente vero che la maggioranza degli italiani è favorevole al Tav, ma come potrebbe essere diversamente se quasi tutta l’informazione ci ha fatto il lavaggio del cervello sostenendo l’importanza strategica dell’opera? Le ragioni di tutta questa campagna mediatica a favore si spiegano chiaramente con i soliti interessi politico-affaristici. Non sono stata sempre contraria al Tav, vivendo a Torino fin dai primi anni Settanta conosco bene sin dall’inizio le battaglie dei valsusini, che trent’anni fa mi erano sembrate un po’ irragionevoli, perché avevo l’impressione non volessero tener conto dell’interesse nazionale. Poi ho voluto vederci più chiaro e ho compreso che la maggioranza degli italiani sa veramente molto poco. Vivo in una città che ho imparato ad amare ma dove madame e madamine si mobilitano per sostenere un’opera inutile, difendendo più interessi che diritti ma disertando manifestazioni di protesta contro la possibile perdita di posti letto in un ospedale infantile d’eccellenza. Tutto ciò mi dà molto da pensare.

Enza Ferro

 

Matteo e gli abusi di potere, altro che errore di un papà

La gita del figlio di Salvini sullo scooter d’acqua non è un “errore di un papà” (quanti papà possono permettersi errori simili?), ma un grave abuso di potere da parte di un ministro. In un paese minimamente più serio del nostro, i compagni di partito di quel ministro lo avrebbero gentilmente accompagnato alla porta. E l’ex ministro sarebbe tornato al lavoro che svolgeva prima di entrare in politica. Ma, in Italia, a quanti ministri e parlamentari capita? Pochi, molto pochi.

Massimo della Fornace

 

Il diritto a morire: Primo Levi e Dj Fabo, due storie simili

Che differenza c’è tra Primo Levi e Dj Fabo rispetto alla scelta di morire? Il grande scrittore aveva l’autosufficienza fisica per suicidarsi, il dj ha dovuto chiedere aiuto a causa della sua paralisi totale. Del tutto equivalenti invece le motivazioni: l’insopportabile sofferenza della permanenza in vita. Un tormento che solo chi lo prova può giudicare insostenibile. Ma il suicidio di Levi ha ricevuto comprensione, mentre quello di Dj Fabo – solo perché ha chiesto e ottenuto assistenza – ha provocato profonde critiche e il ricorso al parere del Comitato nazionale di bioetica, che ha operato una netta distinzione tra eutanasia e suicidio assistito, ma senza definire se la titolarità della vita appartenga unicamente a chi la possiede. Il rispetto del diritto a morire è l’ultima conquista laica e l’estremo atto d’umanità per chi vuole andar via. Anche dalla nostra pietà.

Massimo Marnetto

Religioni. Tutti i monoteismi si sono macchiati di fanatismo e razzismo

 

A dir poco stupito, ho fatto un salto sulla sedia quando ho letto su Il Fatto di martedì una notizia “storica”. Paolo Isotta, commentando una cronaca legata all’Aida all’Arena di Verona, mia bellissima città, mi ha ricordato che la mia stirpe ebraica ha inventato pure il razzismo. Ho 72 anni e ancora vado in giro a spiegare i guai che il razzismo ha fatto e continua a fare, in particolare quello italico nei confronti dei miei familiari al tempo del fascismo. Non ho idea di dove l’autore abbia pescato la notizia, ma penso che l’abbia ritrovata nel calderone dei pregiudizi nei confronti di quella che storicamente è sempre stata minoranza tra le minoranze e razzisticamente perseguitata e non persecutrice. A diffondere certe informazioni si alimenta solo l’ostilità verso gli ebrei e non ve ne è proprio bisogno.

Bruno Carmi

 

Con riferimento alla strampalata affermazione di Paolo Isotta (“il razzismo venne inventato dagli ebrei”), abbiamo scritto separate lettere al giornale io e Bruno Carmi, già presidente della Comunità ebraica di Verona.
Bartolomeo Costantini

 

 

Gli atrocissimi eventi del Novecento – lo sterminio degli Armeni, lo sterminio degli Ebrei – provocano reazioni ferite ogni qual volta certi temi vengano toccati. Il mio filosofo è Spinoza, ebreo e vittima di una fanatismo che non è certo di parte cattolica. Egli predica: “Non ridere, non lugere neque detestari sed intelligere”. Ciò che tento di fare io. La conoscenza della storia veterotestamentaria nonché del repertorio liturgico ebraico (dal Salterio in poi) mostra come il popolo ebraico, isolato e contrapposto a tutti gli altri perché il loro dio gl’imponeva di vincere a qualunque costo, considerassero uomini inferiori coloro che a) non appartenevano alla loro stirpe; b) non adoravano il loro dio. In genere, quando li vincevano in guerra li sterminavano, compreso il bestiame. Ma non si poteva passare alla seconda condizione senza provenire dalla prima; onde il proselitismo non era praticato. La storia ha poi mostrato come questo popolo fosse per due millenni fieramente e, ripeto, atrocemente perseguitato. La storia ha mostrato ben altro. Coloro che predicavano la carità evangelica hanno sterminato, nel continente americano, qualcosa come sedici milioni di nativi: per razzismo insieme etnico e religioso. Coloro che profetizzavano il paradiso di Allah, per lo stesso razzismo etnico e religioso, hanno sterminato quasi quaranta milioni di esseri umani che vollero restare nella avita religione induista. Oggi assistiamo in Africa a massacri di cristiani, che certo non possono identificarsi con coloro che assassinarono le popolazioni americane. Se la riflessione si elevasse, si potrebbe solo dire con Enea (I Libro): “Sunt lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt”; che il Rostagni traduce “La storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove la mente”. Questo per portare il pensiero in alte regioni. Quanto alla mia modesta persona, accusare qualcuno di essere “di destra” è dargli la patente di adepto di Satana. Gli acrimoniosi polemisti fingono di ignorare che da anni sono iscritto al Partito Radicale, a Radicali Italiani, e alla “Luca Coscioni”. Il che farebbe bene anche a loro per lottare contro ogni fanatismo.

Paolo Isotta

Villini storici, è ora che la Regione Lazio tuteli il paesaggio

Gentile direttore, Carteinregola, insieme ad altre associazioni, in questi giorni si è mobilitata affinché il centro storico – e la città storica – di Roma avesse le stesse tutele paesaggistiche che il Piano territoriale paesaggistico regionale (Ptpr), in approvazione al Consiglio del Lazio, prevede per gli altri Comuni, e anche perché non venisse cancellato il lavoro di copianificazione tra Regione e ministero dei Beni culturali. Per questo vorrei rispondere ad alcune affermazioni dell’assessore Massimiliano Valeriani, in risposta all’articolo di Tomaso Montanari di lunedì scorso.

In particolare vorremmo fare chiarezza sui “progetti di demolizione e ricostruzione che interessano alcuni ‘villini storici’ della Capitale”, che secondo Valeriani “sono stati presentati con il vecchio Piano casa approvato dall’amministrazione Polverini” e anche sulle conseguenze della legge della Rigenerazione urbana targata Zingaretti del 2017. Carteinregola, nel 2014, ha combattuto a lungo contro il Piano casa Polverini, ereditato poi dalla giunta Zingaretti: battaglia che si è conclusa con una sonora sconfitta, in quanto la “mutazione genetica” a cui il centrodestra aveva sottoposto il Piano è stata poi prorogata per altri 2 anni dalla nuova amministrazione di centrosinistra, con ben poche modifiche. Sono rimasti i cambi di destinazione d’uso (anche per trasformare edifici non residenziali in centri commerciali), i premi di cubatura (anche per edifici non ancora costruiti), le demolizioni/ricostruzioni… Il tutto “in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali vigenti o adottati”: espressione ripetuta in ben 6 articoli del Piano casa Zingaretti.

E le modifiche, rivendicate da Valeriani, che sarebbero state apportate al Piano casa Polverini rispetto alla “pianificazione regionale su aree naturali protette, i parchi e le zone sottoposte a vincoli paesistici”, in realtà riguardano solo una parte del Piano Polverini, quella impugnata davanti alla Corte costituzionale da ben due ministri ai Beni Culturali, Galan (governo Berlusconi) e Ornaghi (governo Monti). E va detto che il Consiglio regionale guidato da Zingaretti ha aspettato un anno e mezzo prima di approvare la nuova proposta di legge che doveva sanare il Piano dal rischio incostituzionalità. Invece il Piano casa “edilizio”, le cui ricadute hanno provocato il rischio demolizione dei villini storici, è stato addirittura prorogato, con modifiche, al 2017.

Anche la successiva Legge regionale della Rigenerazione urbana, pur ridimensionando la montagna di deroghe consentite dal Piano casa, alla prova dei fatti promuove una “rigenerazione” non già dei quartieri degradati delle periferie, ma dei tessuti più pregiati della città storica, come quelli dei cosiddetti “villini”. Piccoli edifici con pochi o unici proprietari, in zone di alto valore immobiliare, quindi assai convenienti per operazioni di demolizione e ricostruzione con premio di cubatura. Voglio citare un solo esempio emblematico, Villa Paolina di Mallinckrodt, oggetto di un doppio progetto di abbattimento: il primo presentato ai sensi del Piano Casa versione Zingaretti nel maggio 2017; il secondo presentato il 12 dicembre 2018 ai sensi della Legge regionale di Rigenerazione Urbana.

Sorprende quindi l’affermazione dell’assessore Valeriani: “Nessun progetto di abbattimento dei villini storici di Roma è stato presentato facendo ricorso alla legge regionale sulla Rigenerazione Urbana”. È ora che la Regione Lazio si prenda le sue responsabilità, metta da parte le inutili schermaglie con gli altri enti, e tutti insieme approvino finalmente provvedimenti che mettano al sicuro il nostro paesaggio, la nostra storia, la nostra identità.

 

 

Salvini e la cupidigia di servilismo (marino)

Non crediamo nemmeno per un secondo che Matteo Salvini abbia chiesto o imposto agli uomini della Polizia di Stato di scorrazzare sulla moto d’acqua il figlio sedicenne. Secondo noi è molto peggio di così. Guardando il video dei poliziotti che intimano “gentilmente” al cronista di Repubblica di non fare riprese video dell’augusto figlio intrattenuto da colleghi motomuniti, è chiaro come sia fuorviante tirare in ballo le democrature, la Russia, il Sudamerica e gli Emirati Arabi. Anche se il Salvini (auto)percepito è un mix tra Putin e Orban con mélange di “tenero padre di famiglia devoto al Sacro Cuore di Maria”, l’estetica dell’incidente di Milano Marittima lo rivela per quel che è: un arcitaliano appartenente al genere della commedia circondato da congrui comprimari. Questo stereotipo vivente, questo incrocio tra il Federale di Tognazzi e Jerry Calà con innesti di Tv anni ’80 e quiz di Canale5, consumati in tenera età e poi scalati con documentata partecipazione, è attualmente circondato da italiani che vogliono compiacerlo, e da cui egli stesso farebbe bene a guardarsi.

Paolo Sylos Labini coniò sotto i fasti della berluscomania italiana un’espressione strepitosa per descrivere questo moto interiore: “cupidigia di servilismo”, l’opposto speculare della cupido dominandi di Kant. Se quest’ultima appartiene ai potenti, la cupidigia di servire è propria di quella particolare specie di servi che non si limitano a svolgere la loro funzione, ma eccedono in questa pratica a scapito delle leggi, dei regolamenti, della propria e altrui dignità e spesso persino degli interessi del potente stesso (è una figura antropologica che rifulge nella commedia all’italiana, incarnata tra gli altri da Sordi, Tognazzi, Manfredi: siamo o non siamo il popolo di Arlecchino?).

Gli agenti della Digos che qualche mese fa vennero presi dalla incontenibile urgenza di salire sui balconi e introdursi nelle case della gente per rimuovere gli striscioni contro Salvini, forse non lo hanno fatto attenendosi a precise disposizioni dall’alto (c’era forse appeso nelle questure un tabellario con le parole concesse e quelle vietate? Una lista di battute permesse e delle sfumature ironiche da censurare? E perché nel Paese dove da questure e caserme escono le foto degli interrogati non è mai uscita fuori una circolare ministeriale che documentasse l’abuso?); con ogni probabilità l’hanno fatto spontaneamente, eccedendo di zelo, rispondendo all’esigenza interiore di non recare disturbo al ministro o al governo. Quando gli agenti rimossero un innocuo striscione dei sindacati Uil con una vignetta che ritraeva i due cosiddetti vicepremier, Di Maio si dissociò pubblicandolo sui suoi profili (“Viva la libertà!”, nientedimeno) e Salvini si vide costretto a disconoscere le bonifiche dei suoi volontari striscionofughi: “Non faccio guerre agli striscioni. Ho dato indicazioni già nelle scorse settimane di non intervenire”.

Guardate i servitori dello Stato che minacciano il cronista ribelle (“Se vieni con me ti faccio spiegare chi sono”), guardate se non vi sembrano felici di espletare la loro funzione, che consiste per l’appunto nel farsi zimbello, strumento del Capo, anche a costo del peculato, compresissimi del loro ruolo sotto la canicola.

Anche se forse è sprecato per la ridicola scenetta sull’arenile ravennate, a capire il meccanismo di questa cortigianeria di Stato ci aiuta un genio del 1500, Étienne de La Boétie, amico di Montaigne, in un libretto intitolato Discorso sulla servitù volontaria. Il segreto della dominazione, dice la Boitè, non è solo un misto di ignoranza e abitudine, ma questo: che il tiranno o l’aspirante tale fa sì che ciascuno dei suoi sudditi sia il tirannello di un altro. (Lo sapeva anche Kafka: la figura più sinistra nei suoi racconti è quella del servo, dell’usciere compiacente, capace di tutto pur di donare al superiore la voluttuosa riverenza che non necessariamente si tradurrà in un vantaggio per sé). Ciascuno è interessato a mantenere oliato il dominio perché solo sotto il giogo di un superiore ha diritto alla sua piccola quota di potere. È su questa piramide di abusi che si regge il potere peggiore: in questo, davvero, “la tirannia è democratica”. Tenete acceso l’audio dei poliziotti-bagnini a guardia della gita acquatica del Capitanino, quando dicono: “Da poliziotto le dico di non riprendere la moto della Polizia di Stato”, e leggete la Boité: “Non sono le armi che difendono il tiranno. Sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno; quattro o cinque che gli tengono in schiavitù tutto il paese; è sempre stato così: cinque o sei individui… o perché si sono fatti avanti da soli, o perché sono stati chiamati come complici delle sue crudeltà e soci delle sue ruberie”. Salvini non è un tiranno, ma intanto, per non sapere né leggere né scrivere, c’è chi si fa avanti da solo.

Sulla pelle di Dante, troppi sciacalli

“Quello ingrato popolo maligno/ che discese di Fiesole ab antico,/ e tiene ancor del monte e del macigno,/ti si farà, per tuo ben far, nemico”: la profezia dell’esilio che l’ombra di Brunetto Latini fa calare su Dante nel XV canto dell’Inferno torna oggi vera, parola per parola. L’idea di riportare a Firenze, per un “evento” del 2021 (settecentesimo anniversario della morte del massimo poeta italiano), le spoglie dantesche che riposano a Ravenna qualifica i fiorentini di oggi per quello che sono: duri di cuore e di comprendonio come i sassi fiesolani da cui scesero a valle i nostri padri etruschi. Ed è davvero insopportabile questa continua prostituzione della storia della mia città, ormai ridotta alla mediocrità di una pellicola di Zeffirelli, con i suoi falsi storici e la sua “fatuità da classe vip” (Morandini).

L’idea di “far finire l’esilio di Dante” (questa la pornografica formula giornalistica) è stata lanciata da Cristina Mazzavillani, che dirige il Festival di Ravenna grazie al suo principale merito: essere la moglie del venerato maestro Riccardo Muti. L’alto profilo dell’iniziativa è stato subito ben colto dalla stampa: “Un business turistico” (così Repubblica). E naturalmente Palazzo Vecchio ha subito abboccato: “Sulle ceneri di Dante non dico niente, qualsiasi cosa si faccia sarà possibile solo in totale accordo con la città di Ravenna”.

Ci sono almeno due ragioni per giudicare indegna questa baracconata. La prima è legata al rispetto per Dante e per la storia, la seconda al rispetto per (ciò che resta di) Firenze.

L’esilio fu per il poeta l’esperienza centrale della vita: un’esperienza durissima e terribile, sul piano morale e su quello materiale. Nel Convivio piange se stesso per aver dovuto soffrire “pena ingiustamente: pena, dico, d’esilio e di povertate. Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori dal suo dolce seno (…), per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi medicando, sono andato”. Riscrivere in farsa da telenovela il finale di quella vicenda, riaccogliendo in seno alla Firenze di oggi un Dante incapace di difendersi, sarebbe un atto di arbitrio e violenza morali insopportabili.

Cosimo I fece qualcosa di simile con Michelangelo. Questi non era mai voluto rientrare a Firenze da vivo, per non vederla sotto la tirannia di quella famiglia Medici alla quale egli stesso doveva così tanto: ma, dopo la morte, un nipote senza schiena diritta ne riportò le spoglie ai piedi del duca, e i solenni funerali di Stato e una tomba in Santa Croce siglarono il trionfo del cinismo del potere sulla libertà di un artista sommo. Ma almeno i registi di quel fastoso sopruso furono Cosimo, Vasari, Varchi, Cellini: Dante avrebbe oggi in sorte officianti come Nardella e la signora Muti…

E poi c’è Firenze, che ormai vive come la Roma paragonata da James Joyce a un tale che campava mostrando ai turisti il cadavere della nonna mummificata. Nell’era Renzi i feticci erano la Battaglia d’Anghiari di Leonardo da trovare sotto la pelle vasariana di Palazzo Vecchio, o le ossa della Gioconda che un ciarlatano voleva scoprire sotto un enorme palazzo del centro abbandonato, e che nessun sindaco riesce a redimere. Oggi tocca alle povere ceneri di Dante.

Una classe dirigente incolta e sciacalla, che non capisce che l’unico modo per onorare davvero il Poeta è leggerlo e studiarlo. Senza trasformarlo in una festa nazionale (l’imbarazzante “Dantedì” lanciato dal Corriere della sera, e subito raccolto dal nostro coltissimo Parlamento), o nell’ennesimo carrozzone effimero al servizio di nani che cercano di inerpicarsi sulle spalle di giganti troppo morti per poterli buttare di sotto.