La Banca centrale americana taglia i tassi di interesse per la prima volta dal 2008, ma si dice pronta a un ulteriore allentamento del sua politica monetaria nel caso fosse necessario. Al termine della due giorni di riunione la Fed annuncia una riduzione del costo del denaro da un quarto di punto, con i tassi che scendono in una forchetta fra il 2 e il 2,25%. Una decisione presa alla luce delle implicazioni degli sviluppi globali e dell’inflazione debole, sotto il 2%. “Il taglio dei tassi di interesse aiuterà la crescita. Monitoreremo la debole crescita mondiale”, spiega il presidente della Fed Jerome Powell. La decisione di tagliare i tassi non è stata presa all’unanimità: i presidenti della Fed di Kansas City e Boston, hanno votato contro la decisione. Avrebbero preferito lo status quo. La loro contrarietà non è isolata: analisti e osservatori si sono spaccati sull’attesa riduzione del costo del denaro. Molti la ritengono ingiustificata alla luce della forza dell’economia americana. E peggio ancora molti la ritengono un regalo della Fed a Donald Trump, che da mesi è in pressing per un taglio del denaro. Ma la riduzione di 25 punti base potrebbe non essere abbastanza per soddisfare il presidente Usa.
Carige, il commissario e la consulenza all’ex studio
I commissari di Carige scrivono ai dipendenti. Parlano di “giornate di fondamentale importanza nel percorso che consenta alla nostra banca di riprendersi il proprio futuro”. Ma negli ambienti dell’istituto genovese l’operazione varata dai commissari Fabio Innocenzi, Raffaele Lener e Pietro Modiano è tutt’altro che condivisa. Fioriscono polemiche. L’ultima riguarda proprio Lener, avvocato noto e specializzato in diritto bancario.
Il punto sono le consulenze che la banca ha assegnato allo studio Freshfields dove Lener ha lavorato per vent’anni diventandone partner. “È una questione di opportunità. Un commissario non può affidare consulenze allo studio in cui ha lavorato e con il quale collabora ancora. Non è tanto questione di soldi, bisogna chiedersi se possano esserci cortocircuiti tra chi guida la banca e chi dà pareri”, sostengono voci critiche. Il cronista ha chiesto un commento a Lener. Ambienti della banca vicini al commissario rispondono: “Lener da un anno ha lasciato Freshfields. L’incarico è stato dato per ragioni di stima e conoscenza professionale a uno studio con competenze uniche per la questione che dovevamo affrontare e che riguarda la compagnia di assicurazione Amissima (che ha incorporato l’ex Carige Assicurazioni). E comunque di poche decine di migliaia di euro a fronte di milioni di consulenze”. Al Fatto risulta che Freshfields stia studiando anche il dossier sull’aumento di capitale. “Non è vero”, assicurano da Carige.
Il sito Top Legal, specializzato sul mondo dell’avvocatura, otto mesi fa diede notizia che Lener lasciava Freshfields. Annotando: “Lener ha deciso di dare vita alla nuova insegna che continuerà a collaborare, su base indipendente, con Freshfields. Con Lener, si spostano da Freshfields anche i partner Grazia Bonante e Sonia Locantore… La sede rimane quella di Freshfields a Roma, Piazza del Popolo”.
Non è la prima polemica che tocca figure che in questi giorni convulsi si stanno occupando del futuro di Carige. Il Fatto ha scritto di Ennio Lamonica che oggi collabora con PriceWaterhouseCoopers e, per conto di Cassa Centrale Banca (interessata all’acquisto del 9,9% dell’istituto ligure), sta seguendo il dossier Carige. Lamonica ai tempi di Giovanni Berneschi era direttore generale della banca e con Berneschi è stato rinviato a giudizio per ostacolo alla vigilanza.
C’è poi il nodo dei costi delle consulenze milionarie che negli ultimi anni sono state affidate da Carige. Ne parlava un anno fa Stefano Lunardi, all’epoca membro del cda, nella sua lettera di dimissioni citando “richieste di ‘extra budget di quasi 13 milioni per spese legali 2017-2018 inerenti il programma di derisking di sofferenze, le richieste di extra budget di oltre 17 milioni per consulenze per operazioni straordinarie”. E proprio la banca, negando conflitti di interesse per Lener, chiosa: “Sono poche decine di migliaia di euro a fronte di consulenze complessive di milioni”.
La Cgil s’è desta: cause a raffica per tutelare i rider
La Cgil sta per sferrare un’offensiva alle multinazionali che consegnano cibo a domicilio. Mentre il ministro Luigi Di Maio è tornato anche ieri a promettere un decreto a favore dei rider, il sindacato sta preparando azioni legali a raffica che finiranno davanti ai magistrati, all’Ispettorato e al garante della Privacy. Con l’obiettivo di costringere le piattaforme a riconoscere i diritti dei fattorini: lo sciopero, la sicurezza, la contrattazione e la trasparenza sui meccanismi di valutazione, quelli che determinano punteggi e classifiche. Per il sindacato, proprio il cosiddetto ranking comprime le altre tutele, perciò si punta a svelare come funziona e a verificare se rispetta le norme sulla protezione dei dati personali.
È la prima grossa iniziativa lanciata dal principale sindacato italiano in favore dei lavoratori delle app del food delivery. Finora sull’argomento si era vista molta più reattività da parte dei comitati autonomi, i primi a sollevare il problema di una categoria inquadrata pretestuosamente nel lavoro autonomo, pagata pochi euro a consegna senza un salario fisso. La Cgil ha inseguito per anni, ma ora vuole intestarsi quella che è diventata un simbolo della battaglia per i diritti. E vuole prendere in mano le redini attraverso una decisa irruzione nei tribunali, negli organi ispettivi e nelle autorità. Si punta, per esempio, a un intervento del garante della Privacy. Il sindacato di Maurizio Landini partirà tentando un dialogo con le aziende come Glovo, Deliveroo, JustEat e UberEats. Saranno posti alcuni interrogativi: quali dati dei fattorini vengono elaborati ai fini della formazione del punteggio? E come? Se le piattaforme dovessero ignorare le richieste, il passaggio successivo sarebbe un ricorso al Garante. “Chiederemo che ordini di fornire quei dati – spiega Carlo De Marchis, avvocato che sta curando le azioni – per poi valutarne l’eventuale uso illegittimo”.
Come si decide che un rider è più bravo di un altro? Il punto è cruciale: è dalla posizione in quella classifica che dipendono i guadagni degli addetti in bici. Con Glovo chi fa più ordini ottiene un rating alto e questo gli permette di prenotare prima degli altri colleghi le fasce orarie. Sul sito Internet della piattaforma è scritto così: “Quello che guadagni per ogni ordine dipende dalla tua esperienza e dai tuoi voti”. Più corse si accettano, più si è avvantaggiati. Si tratta di un circuito che spinge al cottimo sfrenato ma che non tiene conto di quando la causa del rifiuto di una consegna è lo sciopero. In pratica, non c’è nessuna differenza tra il ragazzo che non sale in sella perché preferisce uscire con gli amici e quello che sta incrociando le braccia con il sindacato per rivendicare i suoi diritti o contestare l’azienda. In entrambi i casi, questo ridurrà il punteggio. “È una discriminazione – spiega l’avvocato De Marchis – perché colpisce chi esercita un diritto costituzionale che va riconosciuto a tutti, non solo ai dipendenti”. La Cgil si rivolgerà direttamente al tribunale del Lavoro affinché ordini alle piattaforme di porre fine a questo metodo e di non penalizzare più chi si ferma per protesta nell’ambito di una mobilitazione. Per dirla più chiaramente: che non neghino – di fatto – il diritto di scioperare.
Per intascare un gruzzoletto decente ogni rider deve pedalare in fretta, raggiungere il maggior numero possibile di consegne. “Un rischio per la sicurezza”, sostiene il sindacato. Ecco perché le app dovrebbero assicurarsi che le biciclette e le attrezzature siano idonee alla corsa e organizzare i turni in modo da assicurare riposi e ferie per non mettere alla guida chi non ha recuperato le energie. Su questo fronte le idee sono quelle di presentare un esposto all’Ispettorato nazionale del lavoro, che quindi attiverebbe le indagini, o fare da supporto ad azioni individuali mosse direttamente da uno o più fattorini. Con un altro ricorso ancora, la Cgil chiederà di accertare la condotta anti-sindacale delle piattaforme, derivante dal costante rifiuto di incontrare i rappresentanti dei rider. Le uniche riunioni, finora, si sono tenute al tavolo di trattativa convocato a livello ministeriale da Di Maio, culminato con un nulla di fatto. Finora le liti davanti ai giudici hanno portato ai fattorini una vittoria a metà. A gennaio, la Corte d’Appello di Torino ha detto che ai rider spettano gli stipendi previsti dal contratto nazionale della logistica, ma le app non sono obbligate ad assumerli come dipendenti.
Ora il sindacato proverà a ottenere di più inondando le aziende di nuove cause, sperando sia il primo passo verso la conquista della madre di ogni rivendicazione: un contratto da lavoratore subordinato per tutti i rider.
Scuola, da inclusione alle assunzioni:tutte le novità e i progetti
Molte novità all’orizzonte per il comparto scuola: le ultime due riguardano la pubblicazione del decreto che prevede, per il prossimo anno scolastico, l’assunzione di 53.627 docenti a tempo determinato chiamati dalle graduatorie già esistenti, e l’approvazione definitiva in Consiglio dei ministri del decreto inclusione che corregge e integra il decreto legislativo n. 66 del 2017, chiamato a “riformare” il sostegno, e che doveva entrare in vigore a gennaio scorso salvo poi rimetterci mano per adeguare il servizio ai bisogni degli studenti. Ma non solo: nei prossimi giorni dovrebbe anche prendere forma il “pacchetto scuola” che sarà presentato al prossimo Cdm.
Dovrebbe contenere le norme per la stabilizzazione dei precari della scuola, quelle per la creazione di nuovi Pas (Percorsi abilitanti speciali per accedere alle cattedre), i concorsi speciali, i bandi per i dirigenti scolastici e – secondo quanto trapelato – è anche in discussione la possibilità, voluta dal Movimento 5 Stelle, di abolire l’obbligatorietà delle prove Invalsi per l’esame di terza media.
“L’evasione blocca la crescita Sgravi su redditi e investimenti”
“L’evasione fiscale rallenta la crescita economica e l’innovazione”. Economista e statistico, Enrico Giovannini è presidente della Commissione sulla misura dell’evasione fiscale e contributiva del ministero dell’Economia.
Partiamo dai dati: quanti sono in Italia le persone a rischio di povertà ed esclusione sociale?
Secondo i dati Istat riferiti all’Italia, nel 2017 il 28,9% dei residenti in Italia era in questa condizione (il dato medio Ue è pari al 22,4%). Si tratta di quasi 17 milioni di persone, tra le quali circa 6 milioni sono in una situazione di grave deprivazione materiale, cioè segnala almeno quattro delle nove condizioni di deprivazione definite a livello europeo. Ci sono poi forti disuguaglianze territoriali: nel Nord-Est la percentuale è del 16,1%, nel Sud del 44,4%.
Per sconfiggere povertà e disuguaglianze servono più risorse pubbliche?
Non necessariamente. Le principali disuguaglianze si formano prima dell’intervento pubblico ed è lì dove bisogna intervenire prima di tutto. Pensi al gender pay gap, cioè alle differenze salariali tra donne e uomini a parità di mansione svolta. Oppure ai bassi salari pagati dalle piccole imprese inefficienti che sopravvivono ai margini del sistema economico. O ai lavoratori in nero. Quando pensiamo alle politiche pubbliche non dobbiamo solo concentrarci su quelle distributive, ma dobbiamo rafforzare quelle pre-distributive, che spesso non costano.
Eppure la politica dà per scontato che la priorità per far ripartire il Paese è abbassare le tasse.
Abbassare la pressione fiscale fa certamente bene alla crescita economica, ma questo da solo non è sufficiente. Abbiamo bisogno di fare un salto verso l’economia digi-circolare, cioè digitale e circolare insieme, in grado di aumentare l’efficienza, sviluppare nuovi prodotti e rispettare l’ambiente. E la politica fiscale potrebbe dare un contributo decisivo in questa direzione, come hanno dimostrato gli incentivi all’industria 4.0. Ogni anno lo Stato spende 16 miliardi di sussidi a imprese e famiglie che fanno male all’ambiente e 15 miliardi che invece fanno bene, mentre una legge del 2015 dice che i primi vanno trasformati in incentivi allo sviluppo sostenibile. Ma nulla è accaduto da allora. Ora si parla di flat tax, ma si resta all’interno del vecchio modo di pensare. Andrebbe tassata molto di più l’uso di energie non rinnovabili e della materia, detassando il reddito e gli investimenti. Va poi affrontato l’aspetto del trasferimento di ricchezza, sempre più concentrata nelle mani dei super ricchi, da una generazione all’altra.
Quanto pesa il sistema fiscale nella sostenibilità di un’economia?
Pesa tantissimo, ma una più equa distribuzione delle opportunità e dei risultati nasce ancora prima della formazione del reddito e della ricchezza. Pensiamo alle disuguaglianze nell’accesso all’istruzione di qualità, specialmente quella universitaria. L’Italia ha una quota elevata di abbandoni scolastici, forti disuguaglianze di risultato (basti pensare ai recenti test Invalsi) e una percentuale bassissima di laureati. Ma le risorse orientate ad assicurare il diritto allo studio sono risibili. L’attuale sistema fiscale è vecchio nell’impostazione concettuale ed è frutto di innumerevoli interventi che lo hanno trasformato in un “groviglio inestricabile da cui nessuno cava più i piedi”, come scriveva Einaudi già nel 1964. La politica su questo dovrebbe impegnarsi a fondo.
In Italia lavoratori e pensionati sopportano oltre il 90% del prelievo fiscale, mentre l’evasione resta diffusa.
E non sembra che questa sia una priorità nel dibattito pubblico e politico, il che è un grave errore. La Commissione che presiedo al Mef pubblica annualmente una relazione che quantifica il fenomeno dell’evasione fiscale e contributiva: si tratta di circa 110 miliardi di euro all’anno, ma le forze politiche di maggioranza e opposizione e i media appaiono disinteressati ai risultati del nostro lavoro, benché si tratti di una relazione che non ha uguali al mondo per dettaglio e tempestività. E l’evasione non è solo una questione di equità, perché c’è una forte correlazione tra alta propensione all’evasione e bassa crescita della produttività, sia a livello d’impresa che di settore di attività. Quindi, l’evasione rallenta la crescita economica e l’innovazione.
Con la robotica sarà ancora il lavoro il mezzo con cui ripartire il reddito?
Il disegno di un sistema fiscale in un mondo a forte presenza di robot richiederà molta creatività, ma non credo sia un problema insolubile, soprattutto se saremo nel frattempo passati a un sistema che, oltre che essere più giusto sul piano intergenerazionale, tassa di più l’impiego delle materie e dell’energia e meno i redditi prodotti.
Di Maio e Meloni: “Bisogna revocare la cittadinanza a Gozi”
La propostala rilanciano nel giro di poche ore Giorgia Meloni e poi Luigi Di Maio: Sandro Gozi, esponente Pd appena chiamato nello staff del governo francese, “dovrebbe perdere la cittadinanza italiana”. Ieri la leader di Fratelli d’Italia ha mandato al Giornale una lettera rivolta al premier Conte, chiedendo di prendere provvedimenti perché la cittadinanza potrebbe decadere “con il conseguimento di cariche pubbliche da parte di uno Stato estero”. Parole simili a quelle di Di Maio: “Tu lavori per il governo italiano, rappresenti e servi lo Stato italiano e poi a un certo punto lo tradisci e ti vai ad arruolare nelle fila di un altro governo. Bisogna valutare se togliergli la cittadinanza perché siamo di fronte a una questione inquietante”. Ma gli attacchi a Gozi arrivano anche dal suo partito. Ieri Carlo Calenda su Twitter ha scaricato il collega: “Non si entra in un governo straniero. Non si tratta di un gruppo di lavoro, ma di ricoprire per due mesi nel Governo Francese la carica che ha ricoperto nel nostro governo, conoscendo posizioni e interessi anche riservati non sempre coincidenti”.
Tav, le prime riduzioni di Co2 ci saranno solo dopo il 2045
Caro Augias, ho stima di lei come fine letterato, ma riguardo alla sua opinione sul Tav (“Ora discutiamo per amore di polemica”, Repubblica, 30.8) vorrei passare dalla retorica ai fatti scientifici. Trascurando il mito del corridoio mediterraneo dalla Spagna all’Ungheria (già Lisbona-Kiev), smontato dal compianto Luca Rastello in Binario morto (Chiarelettere), trascurando l’isolamento del Piemonte che non c’è, visto che merci e passeggeri passano già sulla sottoutilizzata linea esistente via tunnel del Frejus, vorrei concentrarmi sui supposti benefici ambientali della grande opera. Lei dice “che il trasporto su ferro è preferibile a quello su gomma più inquinante e dispendioso”. Il che non è sempre vero.
Come ho già scritto su questo giornale nel novembre 2018, Jonas Westin e Per Kageson del Royal Institute of Technology di Stoccolma sostengono che affinché il bilancio di carbonio sia favorevole al clima, le linee ferroviarie ad alta velocità “non possono contemplare l’estensivo uso di tunnel”. Il tunnel bisogna costruirlo, per oltre 10 anni sono attese circa 10 milioni di tonnellate di CO2, un dato tra l’altro fornito dai proponenti, e qui chiedo al ministro Costa di affidare una valutazione imparziale all’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale. Quando il primo treno passerà su quella linea non si vedrà alcun vantaggio ecologico, in quanto per parecchi anni, ammesso che venga usata a pieno carico come da previsioni per ora solo sulla carta, il risparmio delle emissioni dovrà ripagare il debito di quelle rilasciate in fase di cantiere e di esercizio. Una prima riduzione netta delle emissioni potrebbe avvenire non prima del 2045. Il clima però è già ora in estrema crisi e l’Ipcc richiede che le emissioni siano ridotte subito. La cura del ferro della Torino-Lione prima richiede un’intossicazione sicura del malato, poi promette di disintossicarlo quando sarà già moribondo. Non è meglio cambiare cura?
Pil in stagnazione: 2019, rischio crescita zero
Un’Italia a crescita zero nel secondo trimestre del 2019: in sostanza, spiega l’Istat tenendo conto della stima “preliminare” sulla variazio nel periodo aprile-giugno di quest’anno, il Pil non crescerà né rispetto al trimestre precedente né rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. La fase di stagnazione potrebbe quindi non fermarsi e arrivare al suo quinto trimestre consecutivo. Il Pil, nei primi tre mesi del 2019 era infatti cresciuto dello 0,1 per cento rispetto all’ultimo trimestre del 2018, mentre era calato sempre dello 0,1 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. “La variazione congiunturale del Pil – rileva l’Istat – è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto sia nel comparto dell’agricoltura sia in quello dell’industria e di un aumento in quello dei servizi”. Dal lato della domanda invece “vi è un contributo nullo sia della componente nazionale (al lordo delle scorte), sia della componente estera netta”. Un risultato distante da quanto succede nell’Eurozona – dove la crescita è comunque non brillante, a +0,2 per cento – e che però non ha spaventato il ministro dell’economia Giovanni Tria, che considera ancora “raggiungibile” a fine anno un Pil a +0,2 per cento come previsto dal Documento di economia e finanza di aprile. “Sebbene il quadro internazionale rimanga complesso, la crescita dell’economia italiana dovrebbe gradualmente riprendere nella seconda metà dell’anno – si leggeva ieri in una nota del Mef -. Le misure prese dal Governo sosterranno la domanda interna nel secondo semestre”.
Sempre ieri sono stati diffusi anche i dati sul lavoro, che raccontano un calo della disoccupazione generale (che tocca i minimi dal 2012) e giovanile (mai così bassa dal 2011) nel contesto di un generale miglioramento Europeo. Il tasso di disoccupazione è al 9,7 per cento (al 7,5 nella media Ue) e seppur lontano dai livelli pre-crisi, è sceso per la quarta volta consecutiva e dello 0,1% rispetto all’ultima rilevazione di maggio (29mila disoccupati in meno). Nella fascia 15-24 anni, la disoccupazione scende invece di 1,5 punti percentuali e si porta al 28,1%. Dettaglio: resta stabile rispetto alla rilevazione precedente il numero degli occupati (quindi si è creato poco lavoro) mentre sale il numero degli inattivi (ovvero di coloro che non cercano un impiego e non sono impiegati). Il tasso di occupazione ha comunque raggiunto quota 59,2%, il livello più alto da quando sono iniziate le serie statistiche (1977) e anche su base annua risulta in crescita dello 0,5 per cento tra dipendenti permanenti (+177 mila) e a termine (+14 mila) mentre sono in calo gli indipendenti (-76 mila).
Il Viminale ci riprova, Landini stavolta non va
I sindacati non riescono a dire un no netto alle convocazioni irrituali di Matteo Salvini, ma stavolta mettono un freno all’iniziativa personale del ministro dell’Interno. Il quale, a sua volta, sembra avere qualche difficoltà a riconvocare le parti sociali dopo che il premier, Giuseppe Conte ha ripreso in mano il boccino del confronto.
L’unica novità , in previsione di un eventuale meeting che si svolgerà al Viminale il prossimo 6 agosto, il giorno dopo l’incontro ufficiale del governo già fissato per il 5 agosto a palazzo Chigi, è che stavolta la Cgil non sarà presente con il suo segretario Maurizio Landini e anche la Cisl fa capire che invierà solo una delegazione.
Salvini aveva già svolto il primo round del confronto con le parti sociali, invitando ben 43 sigle al Viminale, in un incontro in cui erano presenti solo ministri della Lega e in cui fu esibito un inedito “responsabile flat tax” nella persona dell’ex sottosegretario Armando Siri, indagato già due volte per corruzione e poi per autoriciclaggio (la notizia è di ieri). Le parti sociali andarono, con qualche imbarazzo, ma subito dopo il presidente del Consiglio riprese in mano l’iniziativa aprendo a un ciclo di convocazioni di cui la più importante si terrà lunedì 5 agosto a palazzo Chigi.
Ora Salvini, di fronte alle novità, invia ai sindacati una lettera ancora più atipica di quanto sia stato l’incontro al Viminale: “Ci eravamo impegnati a rivederci prima della pausa estiva” si legge nella missiva datata 30 luglio e inviata a tutte le sigle presenti al primo incontro, “e quindi io e la mia squadra martedì 6 agosto saremo al Viminale”.
Subito dopo, però, aggiunge che “siamo anche consapevoli del periodo estivo e del fatto che molti di voi sono stati convocati già altre tre volte a palazzo Chigi”. In un governo normale, un ministro che prende atto degli incontri attivati dal proprio presidente del Consiglio saluterebbe cortesemente e la finirebbe lì.
Invece Salvini , che non vuole mollare il punto, ributta la palla sul tavolo delle parti sociali sperando di ottenere una via libera a un nuovo round di incontri: “Essendo solito mantenere gli impegni io il 6 agosto sarò in ufficio, ma Vi invito a scrivermi via e-mail senza problemi se preferite aggiornare la riunione ai primi di settembre oppure se ritenete utile mantenere la giornata di lavoro in agenda per il 6 agosto. In base alle vostre risposte entro giovedì 1 agosto vi saprò confermare o meno il tavolo di lavoro per il 6 agosto” (sic).
A parte la forma della lettera, quello che si capisce è che Salvini è costretto a prendere atto dell’iniziativa di Conte, ma non vuole mollare la presa sulla propria iniziativa, rispedendo la palla dall’altra parte in attesa di vedere “l’effetto che fa”.
E allora vediamo le risposte sindacali. La più solerte è la Uil che risponde “presente” assicurando la propria presenza senza alcuna sfumatura. Cgil e Cisl invece rilanciano la palla al Viminale scrivendo al ministro, nel caso della Cisl, oppure con un contatto informale, nel caso della Cgil, ma per dire in sostanza che entrambe preferiscono una convocazione unitaria del governo, a palazzo Chigi, e che, in ogni caso, non sono i sindacati a convocare o decidere le date, ma deve essere il ministro.
In Cgil, in particolare, si sostiene che la forma ideale del confronto sarebbe la presenza dello stesso Salvini al tavolo convocato il 5 agosto a palazzo Chigi da Conte. Però, pur senza formalizzare la decisione, entrambi i sindacati fanno capire che i segretari generali saranno al tavolo del presidente del Consiglio, ma non a quello del ministro dell’Interno.
Anche perché quest’ultimo insiste nel dire “io e la mia squadra”, lasciando intendere che la riunione del 6 agosto, così come quella del 15 luglio scorso, sarà di fatto un incontro con un partito della coalizione di governo. E allora, è il ragionamento che si fa in Cgil, “se Salvini ci convoca andremo, ma la delegazione sarà adeguata a un incontro di partito, il segretario generale si siede davanti al presidente del Consiglio”. In Cisl non si fanno affermazioni così nette, ma la presenza di Annamaria Furlan a un eventuale incontro il 6 agosto è definita improbabile.
Ora tocca a Salvini decidere cosa fare: mantenere l’incontro, ma senza la presenza di alcuni leader sindacali, oppure annullarlo. In entrambi i casi avrebbe perso un punto.
Tav, ogni partito avrà la sua mozione. Il Pd: “Resteremo in Aula”
Le mozioni sul Tav verranno discusse in Senato tra il 6 e il 7 agosto. Ieri la riunione dei capigruppo di Palazzo Madama ha stabilito che il giorno prima della pausa estiva arriveranno in Parlamento i testi sul futuro dell’opera: da una parte quello del Movimento 5 Stelle che chiede di bloccare il progetto, dall’altra testi diversi – ma identici nei contenuti – presentati dagli altri partiti. La Lega al momento non sembra intenzionata a depositarne una propria, ma di certo non appoggerà quella degli alleati. Ieri le opposizioni hanno annunciato le proprie mosse. Il Pd, attraverso Andrea Marcucci, ha escluso una possibile uscita dall’Aula: “Vedo che continuano a girare stravaganti ricostruzioni. I senatori Pd saranno in Aula a votare No alla mozione 5 Stelle e Sì alla propria. Noi siamo coerenti, il problema è tutto nel governo”. Anche Forza Italia fa da sé: “Il gruppo di FI al Senato – ha annunciato Anna Maria Bernini – presenterà una dettagliata mozione in cui spiegheremo le mille ragioni per cui è un’opera fondamentale”. Ma tra le mozioni Sì Tav ci sarà anche quella di Emma Bonino (+ Europa), firmataria insieme – tra gli altri – a Mario Monti e Pier Ferdinando Casini.