Seggio in più ai 5S, Casellati chiede lumi

La maggioranza gialloverde guadagna un voto in più al Senato: è stato assegnato a Emma Pavanelli, prima dei non eletti del Movimento 5 stelle in Umbria, il seggio fino ad oggi rimasto vacante in Sicilia. E rivendicato dai pentastellati che alle ultime politiche nell’isola avevano eletto tutti i candidati disponibili sia nell’uninominale sia nei collegi plurinominali.

Una vicenda che si trascina da oltre un anno e che è terminata con un braccio di ferro durato ore a Palazzo Madama e che ha investito le più alte cariche dello Stato. Il Pd già venerdì scorso ha scritto una lettera al Capo dello Stato Sergio Mattarella perché in qualche modo si facesse sentire. E la decisione venisse alla fine bloccata perché ritenuta contraria al dettato costituzionale che prevede che il Senato venga eletto su base regionale.

Questo per evitare la proclamazione di un senatore “abusivo”, come lo ha definito Dario Stefàno del Pd. Con una decisione “palesemente incostituzionale” ha detto Maurizio Gasparri di Forza Italia che è presidente della Giunta per le elezioni dove la questione è stata esaminata in prima battuta già da settimane. Ma in aula sono volate parole più impegnative: “Una forzatura di regime”, ha detto qualcuno. “Una deriva autoritaria” ha aggiunto un altro. Ma c’è pure chi ha sottolineato “la torsione del diritto per mero calcolo opportunistico”. Fatto sta che nonostante le sollecitazioni scritte e orali, il Colle non ha battuto un colpo.

Così ieri il gruppo dem al Senato prima del voto ha occupato l’emiciclo per impedire la ratifica della decisione. Un assedio durante il quale è stato recitato come un mantra l’articolo 57 della Costituzione che prescrive appunto che il Senato della Repubblica è eletto a base regionale. E che la ripartizione dei seggi si effettua in proporzione alla popolazione delle regioni.

Per la verità l’articolo 57 dice pure un’altra cosa: ossia che il numero dei senatori elettivi è di trecentoquindici. Anche se per qualcuno il plenum non è un totem . “Se arrestano un senatore si va sotto quota 315.O no?” ragiona Gaetano Quagliariello di Forza Italia, mentre gli passa accanto Luigi Cesaro che si concede un caffè alla buvette: sono mesi che l’aula ha congelato la richiesta dei magistrati di Napoli che vorrebbero usare le intercettazioni che lo riguardano in un processo in cui rischia l’osso del collo. Sorride, lui. Mentre in aula si grida all’attentato contro la Costituzione per il seggio siciliano e il Pd minaccia le barricate. Fino a quando qualcuno di buon cuore suggerisce a Maria Elisabetta Alberti Casellati la mossa del cavallo per uscire dall’assedio: la presidente del Senato scriverà al presidente della Corte Costituzionale per segnalare gli aspetti problematici della vicenda del seggio siciliano. “Si tratta di una trasmissione di atti pubblici: la Corte Costituzionale si pronuncia solo se investita nei modi prescritti” commenta il capogruppo di FdI, Luca Ciriani. Una rasoiata per il Pd. Quasi peggio del voto con cui, poco dopo, l’aula ratifica la decadenza del senatore dem Edoardo Patriarca.

Salta il freno anti-Huawei: strigliata Usa ai gialloverdi

Gli americani sono pratici. Così Lewis Eisenberg, ambasciatore a Roma di Donald Trump, una settimana fa, è piombato nell’ufficio di Giancarlo Giorgetti, il leghista dialogante, il sottosegretario a Palazzo Chigi, e s’è seduto con la flemma di chi non ha fretta e, soprattutto, di chi pretende spiegazioni. Washington assiste stupefatta all’avanzata italiana di Huawei, la multinazionale della telefonia sospettata di spionaggio per i legami col governo di Pechino e messa al bando da Trump. Giorgetti ha accolto un furibondo Eisenberg, stremato dalle continue piroette diplomatiche degli italiani.

L’11 luglio il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge per intensificare la vigilanza sui contratti di Huawei per la banda larga e lo sviluppo delle connessioni con l’internet veloce 5G, ma il Movimento l’ha condannato a un’eutanasia normativa nonostante le pressioni del Carroccio e di Salvini: non sarà convertito entro i due mesi canonici con la scusa del Parlamento intasato e vacanziero, dunque il testo è morente e dannoso. Eisenberg ha scelto Giorgetti perché Giorgetti, a differenza del capo Matteo Salvini, ha sempre scelto gli Stati Uniti e li ha rassicurati su Huawei sin dal viaggio di marzo a Washington che ha anticipato la visita romana di Xi Jinping e la firma del memorandum per la cosiddetta “Via della Seta”, un progetto egemonico più che commerciale per permettere a Pechino di penetrare nei presidi Nato in Europa e contendere il primato mondiale a Washington. Giorgetti è il fautore dell’articolo 1 del decreto legge numero 21/2019 del 20 marzo, una sorta di benvenuto a Xi Jinping: con poche righe il Cdm ha esteso i “poteri speciali” – detenuti dal comitato “Golden Power” di Palazzo Chigi – agli affari attorno alla tecnologia 5G. Da sette anni il governo può bloccare l’ingresso di una società straniera in un settore di interesse nazionale e non soltanto per ragioni di sicurezza, da marzo chi stringe accordi in Italia con aziende non europee – per esempio, un colosso inglese che s’affida a Huawei per la banda larga – deve notificare i documenti al comitato “Golden Power”, che agisce di concerto con il Consiglio dei ministri, e sottoporsi a un severo controllo. Il comitato può fermare, rallentare o autorizzare la pratica e imporre un monitoraggio. Il decreto di luglio pubblicato in Gazzetta Ufficiale aumenta i tempi d’intervento del comitato, da circa un mese a oltre tre, un modo per arginare Huawei che promette 3 miliardi di euro di investimento in Italia e anche per consentire ai partiti di concentrarsi sul disegno di legge sulla sicurezza cibernetica di recente vidimato dal Cdm poiché l’Italia è debole sulla protezione delle reti di comunicazione. Roma ha una politica estera basculante e viene tollerata, stavolta per Washington, però, il tema è serio, si tratta di custodire le informazioni di un Paese Nato che ospita delicate infrastrutture militari e si staglia al centro del Mediterraneo.

Pochi giorni fa, Eisenberg ha convocato Di Maio nella residenza di Villa Taverna per un chiarimento sul decreto morente. Il vicepremier dei Cinque Stelle ha degradato a evento minore e simbolico il patto con i cinesi e ha promesso all’ambasciatore la collaborazione su Huawei. Discorsi di circostanza che hanno suggerito a Eisenberg di consultare Giorgetti. Washington ha percepito l’influenza cinese sui Cinque Stelle, che al ministero per lo Sviluppo Economico di Di Maio schierano il sottosegretario Michele Geraci, plenipotenziario dei rapporti con Pechino, entrato nel governo per la vicinanza al Carroccio, ormai considerato in perfetta sintonia col Movimento. Reduce dalla sbornia russa, l’autunno scorso, Salvini s’è scoperto devoto di Washington e ha assunto la linea Usa: gasdotto Tap, Venezuela, Libia, Iran, Cina. Conoscendo i trascorsi di Salvini, gli Usa hanno preferito Giorgetti. Più che irritati dai Cinque Stelle, gli americani sono delusi da Salvini. Il ragazzo s’impegna, ma non incide.

Berlusconi pensiona FI: “Serve un nuovo soggetto politico”

Una federazione dei moderati per dare rappresentanza “all’altra Italia”. Silvio Berlusconi torna su un vecchio pallino, quell’idea di un soggetto politico di centrodestra per arginare l’avanzata sovranista: “Chiamo a raccolta tutti i singoli cittadini che fanno parte dell’altra Italia. Non si tratta di fondare un nuovo partito, ma di creare una federazione fra i soggetti che pensano a un nuovo centro moderato, alternativo alla sinistra, in prospettiva alleato ma non subordinato alle altre forze del centrodestra”. Il tutto partendo da quel che resta di Forza Italia: “È parte costituente essenziale, ma non intende assumere alcun ruolo egemonico”. Nei pensieri di Berlusconi, il programma dovrebbe stuzzicare “l’Italia responsabile, seria, costruttiva” che oggi è “pressocché priva” di una rappresentanza politica: “Sono tanti i liberali, i cattolici, i riformatori, gli italiani di buon senso che sentono con me questo disagio”. L’idea però è subito stroncata da Giovanni Toti, che secondo l’AdnKronos avrebbe bollato il progetto come “un’alleanza con qualche cespuglietto”: “È già stata provata alle ultime elezioni politiche ed europee, il risultato francamente non è stato confortante. Mi interessa questa Italia, non l’altra”.

Sull’eutanasia le Camere non decidono

Non c’è stata nessuna sintesi e nessuna intesa ieri alla Camera per la legge sull’eutanasia.

Ironia della sorte, all’indomani del pronunciamento del Comitato nazionale per la bioetica sul suicidio medicalmente assistito, nelle commissioni Giustizia e Affari non si è trovata nessuna quadra per un testo base da portare in Aula a settembre; tempo limite definito dall’ordinanza della Corte costituzione che si era espressa il 24 ottobre 2018, chiamata a decidere sulla questione di legittimità sollevata dalla Corte d’assise di Milano nell’ambito del processo contro Marco Cappato per la morte di dj Fabo.

I giudici costituzionali avevano scritto: “L’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”.

Porta la data di ieri la lettera di parlamentari di vari partiti da inviare ai presidenti di Senato e Camera, Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati. Un appello affinché sia il Parlamento a discutere del fine vita in tempo utile prima dell’udienza della Corte Costituzionale. Una mossa “metodologica”, spiega il senatore Gaetano Quagliariello, promotore dell’iniziativa: “Se le opinioni di merito ci dividono – si legge nella lettera dei parlamentari – ci accomuna la consapevolezza del nostro ruolo di legislatori e della responsabilità che la Costituzione assegna ai rappresentanti del popolo, il quale per nostro tramite esercita la sovranità di cui è titolare”.

Ieri quindi il comitato ristretto, che avrebbe dovuto trovare una sintesi su un testo base, ha dovuto prendere atto dell’impossibilità di conciliare posizioni molto distanti sia nella maggioranza che con le opposizioni. Dunque l’unico orizzonte certo al momento è quello del 24 settembre data in cui è stata fissata una nuova udienza della Consulta. Al centro della questione l’accusa a Cappato, tesoriere dell’associazione Coscioni di aver accompagnato Fabiano Antoniani (Dj Fabo) in Svizzera per suicidarsi, dirimente l’articolo 580 del codice penale che punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio. “Nonostante la mancata intesa, il Parlamento dovrà comunque intervenire: a questo punto lo farà dopo l’udienza della Consulta” il commento di Cappato che ha aggiunto: “Se la Consulta dovesse confermare il principio dell’incostituzionalità dell’articolo 580, il Parlamento sarà comunque chiamato a scrivere una legge per definire le condizioni di accesso all’aiuto al suicidio”.

e.reguitti@ilfattoquotidiano.it

Aspettando l’autonomia, il Nord incassa dalla sanità

C’è un’arietta revanscista dentro il dibattito sull’autonomia basata sull’assunto – non confermato dai dati, specie negli ultimi anni – di un Sud generosamente arricchito dalle tasse del Nord. Epocale la malafigura della ministra degli Affari regionali, la leghista veneta Erika Stefani, che aveva diffuso numeri parziali e fuorvianti sulla scuola dal sito del suo dicastero ed è finita sbugiardata dall’economista Gianfranco Viesti.

In realtà l’oggettivo divario Nord-Sud – una piaga italiana di cui ovviamente rispondono in primo luogo le classi dirigenti meridionali – finisce per favorire la parte più ricca in molti modi: citeremo en passant il fatto che il Mezzogiorno è da decenni un importante mercato di sbocco per le merci del Settentrione e, più diffusamente, uno studio uscito ieri sulla cosiddetta “mobilità sanitaria interregionale” (dati 2017) e realizzato dalla Fondazione Gimbe, ente bolognese che si occupa di formazione in campo sanitario. Risultato: ogni anno le Regioni del Sud e il Lazio pagano alle tre del “secessionismo dei ricchi” (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna) fior di soldi per questo; nel 2017, secondo i saldi stabiliti a giugno, oltre 1,2 miliardi.

Intanto va spiegato cos’è la “mobilità sanitaria”: molto semplicemente è la possibilità per i cittadini italiani di curarsi anche fuori dalla Regione in cui risiedono, il che avviene per i motivi più disparati, tra i quali c’è ovviamente la qualità e la tempestività del servizio, mediamente più scadente man mano che si scende lo Stivale, specie dopo i tagli selvaggi dell’ultimo decennio.

Ovviamente da tutte le Regioni può capitare che una persona si sposti per ricevere cure e la legge prevede che quella di provenienza “paghi” la prestazione alla Regione di cura: quando i dati sono disponibili, si tirano le somme di chi deve dare quanto a chi, i cosiddetti “saldi”. Da poche settimane un’intesa Stato-Regioni ha approvato definitivamente quelli del 2017, anno in cui la mobilità sanitaria ha movimentato oltre 4,5 miliardi di euro di rimborsi tra una zona e l’altra, il 4% della spesa pubblica sanitaria totale in quell’anno (113,1 miliardi).

Ovviamente, nel gioco del dare e dell’avere ci sono Regioni che finiscono in attivo e regioni che vanno in passivo: cosa non sorprendente è che le prime sono al Nord e le seconde nel Centro e nel Sud. I numeri completi li trovate nella tabella qui sopra, ma è curioso che le tre Regioni col saldo attivo più rilevante siano proprio quelle del “regionalismo differenziato” che vorrebbero, in buona sostanza, avere più fondi di quanti ne usano ora (Luca Zaia a fine 2017 propose di “tenere” per sé i nove decimi del gettito fiscale, un’enormità): in soldi, la Lombardia nel 2017 ha guadagnato solo con lo spostamento dei pazienti 784 milioni, l’Emilia Romagna 307 milioni e il Veneto 143 milioni (seguono Toscana con 139 e Molise con 20).

Insomma oltre 1,2 miliardi sono arrivati con la mobilità ad Attilio Fontana, Stefano Bonaccini e lo stesso Zaia. E da dove arrivano? Semplice: dal Lazio e poi da tutte le Regioni del Mezzogiorno (vincono questa classifica Campania e Calabria, che ha di gran lunga il peggior saldo di mobilità sanitaria per abitante con -144 euro). Tradotto: un fiume di soldi dal Sud verso il Nord. E un fiume che finisce anche nel posto sbagliato. Oltre a sottrarre risorse a territori già malmessi, infatti, la spesa per mobilità interregionale è profondamente iniqua: in media solo pazienti e famiglie a reddito medio-alto possono sostenere il costo delle trasferte. Come ha detto ieri Luca Zaia, “l’autonomia non crea Regioni di serie A e di serie B: ci sono già”. E ora si lavora attivamente a creare la serie C e D.

Business sui permessi di soggiorno: arrestati 3 dipendenti comunali

Certificati di residenza e carte d’identità false per ottenere il permesso di soggiorno o per chiedere il ricongiungimento familiare. Una vera e propria agenzia di disbrigo pratiche, formata da nove cittadini bengalesi (tra i 31 e 53 anni) che corrompendo tre dipendenti degli uffici anagrafici del V Municipio di Roma aiutavano i loro connazionali ad ottenere più velocemente i documenti. Un sistema “strutturato e collaudato”, smascherato dall’inchiesta della Procura di Roma e della Guardia di Finanzia, che ha arrestato dieci persone, quattro in carcere e sei ai domiciliari, più altre tre sottoposte all’obbligo di firma. Quattordici indagati con l’accusa di associazione a delinquere dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, alla corruzione e al falso. Il tariffario delle pratiche, a seconda dei casi, variava da un minimo di 80 fino ad 800 euro, che venivano spartiti tra i componenti dell’agenzia bengalese e i dipendenti corrotti. Si poteva persino aprire e chiudere la partita Iva e ottenere il rilascio di dichiarazioni fiscali fittizie, grazie all’aiuto di uno degli indagati, titolare di un’attività di assistenza fiscale.

Gregoretti, crisi finita: migranti in 5 Paesi Ue

Dopo sette giorni di stallo, la “Germania, il Portogallo, la Francia, il Lussemburgo e l’Irlanda” e la Conferenza Episcopale Italiana si faranno carico dei 116 migranti a bordo dalla Bruno Gregoretti, il pattugliatore della Guardia Costiera ormeggiato nel pontile Nato del Porto di Augusta.

La nave aveva salvato 135 migranti durante un soccorso a largo del Mediterraneo, intervenendo dopo la segnalazione del peschereccio italiano Accursio Giarratano e di uno tunisino, che avevano lanciato l’allarme. Il pattugliatore poi si era diretto a Catania, dove aveva atteso alla fonda per alcuni giorni. Il Viminale aveva consentito lo sbarco di sedici minori non accompagnati e la Gregoretti si era poi spostata ad Augusta.

Eppure la situazione si sarebbe dovuta risolvere già molto prima. Perché, come aveva anticipato Il Fatto, la scelta di intervento della Gregoretti non era stata presa in autonomia, com’era successo per i colleghi della Diciotti lo scorso 16 agosto 2018, ma di comune accordo con il Viminale, era al corrente di tutto.

Infatti, mentre il governo italiano faceva la voce grossa con l’Unione Europea, inviando a Bruxelles una lettera per chiedere di coordinare le operazioni per ricollocare i naufraghi, sulla Gregoretti erano stati rassicurati che il via libera allo sbarco sarebbe avvenuto entro 24 o 48 ore.

Promessa però non mantenuta. Ad aggravare la situazione c’era la segnalazione di un “focolaio di scabbia a bordo”, riscontrato dal personale medico del corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, e anticipato sempre da Il Fatto. Informazione anche questa già in possesso del comando centrale delle Capitanerie di porto, che ricade sotto la competenza del ministero delle Infrastrutture di Danilo Toninelli. Per questo motivo il magistrato Fabio Scavone, facente funzioni della Procura di Siracusa, ha aperto un fascicolo contro ignoti per verificare lo stato delle condizioni igienico sanitarie a bordo della nave. Martedì erano saliti sul pattugliatore 3 infettivologi dell’ospedale Umberto I del capoluogo siciliano e dei carabinieri del Nucleo antisofisticazioni e sanità.

La loro relazione, presentata ieri al magistrato, registrava “29 persone affette da patologie diverse, tra cui 25 casi di scabbia, uno di tubercolosi, più altri casi di cellulite infettiva”. Una situazione che avrebbe potuto mettere a rischio la salute dei nostri militari a bordo della nave.

Nel frattempo ieri la Alan Kurdi, la nave della ong tedesca SeaEye chiamata così in ricordo del piccolo Aylan – il bambino siriano morto nel 2015 durante la traversata nell’Egeo –, è intervenuta in una nuova operazione di salvataggio. Ha recuperato 40 migranti a bordo di un gommone, che rischiavano il naufragio. “Ci sono un neonato, due bimbi piccoli, due donne di cui una incinta – spiega la ong tedesca –, i migranti provengono da Nigeria, Costa d’Avorio, Ghana, Mali, Congo e Camerun”.

“Chiederemo alle autorità competenti di assegnarci un porto sicuro. Geograficamente, Lampedusa è il più vicino”, ha spiegato Gorden Isler, portavoce della ong tedesca. Ma il vice premier Salvini è pronto all’ennesimo braccio di ferro con la SeeEye, avendo subito firmato il divieto di transito nelle acque italiane per la nave tedesca: “Se la Ong ha davvero a cuore la salute degli immigrati può far rotta verso la Tunisia: se invece pensa di venire in Italia come se niente fosse ha sbagliato ministro”.

Salvini fa la guerra per far saltare la prescrizione

In un mercoledì di afa a Palazzo Chigi mancano solo i sacchi di sabbia alle finestre. Tra gli affreschi e gli stucchi dal primo pomeriggio fino a notte tarda è battaglia tra gialloverdi, una delle peggiori. Perché Matteo Salvini, il vicepremier che ormai vuole tutto, muove guerra alla riforma della giustizia del Guardasigilli a 5Stelle Alfonso Bonafede per uccidere quella della prescrizione. Per questo, guidato da Giulia Bongiorno, la mente della Lega sulla giustizia, semina dubbi e distinguo contro il nuovo processo penale pensato dal ministro. Invoca le intercettazioni e la separazione delle carriere, assenti nel disegno di legge. Scuote la testa davanti alla riforma del Consiglio superiore della magistratura.

Ma in testa Salvini e Bongiorno hanno innanzitutto la scadenza di fine anno: perché, secondo il Carroccio, senza la riduzione dei tempi dei processi entro dicembre, dal gennaio 2020 non può entrare in vigore la nuova prescrizione, quella che congela il decorrere dei tempi dopo la sentenza di primo grado. Una novità prevista dalla legge Spazzacorrotti. Ma la norma che c’è già, nero su bianco, è eresia per la Lega e per la penalista Bongiorno. E poi il Carroccio deve ingaggiare lo scontro su ogni cosa con i grillini, insistere sulla loro fragilità. Figurarsi se si può lasciare campo libero a un disegno di legge di Bonafede, numero due del M5S. Così è corpo a corpo, con Salvini che dà fuoco alle polveri con una diretta su Facebook: “Io ci metto la buona volontà, ma la sua cosiddetta riforma è acqua, non c’è uno scatto in avanti”.

Serve altro, assicura, “una riforma vera e incisiva”, mentre quella di Bonafede sarebbe piena di omissioni: “Non si parla di separazione delle carriere, delle assunzioni dei magistrati, dei criteri dei concorsi, delle promozioni”. E poi, continua, “non si tocca il tema delle intercettazioni”. Ma soprattutto, accusa il ministro, “non si interviene sulle attenuanti generiche e sulla sospensione condizionale della pena. Ci sono spacciatori o stupratori che vengono condannati sulla carta, ma poi con la sospensione condizionale della pena fanno 24 ore di galera e poi tornano a spacciare e a stuprare”. Ed è il linguaggio preferito del leghista, sono i suoi slogan di sceriffo. Ottimi per azzannare, come e più del previsto. Perché il capo del Carroccio definisce i dettagli dell’assalto di prima mattina dopo una riunione con la ministra alla Pubblica amministrazione, il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone e Nicola Molteni, suo sottosegretario al Viminale. Con loro decide di rilanciare, anche con una sua contro-riforma: “Separa le carriere, dimezza i tempi dei processi, premia chi merita e punisce chi sbaglia”. Bonafede non gradisce e lo invita a farsi sotto: “Ci vediamo in Cdm, non su Facebook e, forse potrò finalmente sentire le argomentazioni, visto che in pre-consiglio nessuno ha detto nulla”. Tira aria da stracci, e allora Conte convoca un pre-vertice con Di Maio e Salvini, a cui poi si aggiunge Bonafede.

Così il Consiglio, previsto per le 15, slitta di un’ora abbondante. Ma la riunione non porta a nulla. Tanto che il Cdm parte attorno alle 16.30 ma viene subito sospeso, secondo fonti di Chigi per “motivi tecnici” (provvedimenti urgenti tra cui scioglimenti di Comuni, pare). La pausa serve anche per cercare un accordo sul ddl, con Conte e i ministri che discutono fitto assieme ai rispettivi tecnici. Oltre due ore dopo si riparte, con i 5Stelle che spargono ottimismo: “C’è l’intesa, a breve ci sarà una conferenza stampa con Conte e Bonafede”. Ma gli addetti di Palazzo Chigi lavorano a vuoto, perché nel Cdm la tensione sale e i nodi si ingarbugliano. Conte si rivolge ai leghisti, più volte: “Fatemi le vostre proposte”. Ma di proposte concrete, dicono fonti di governo, non ne arrivano. Solo tanti appunti. Fino a un duro scontro tra Bonafede e Bongiorno, in punta di diritto. “Alla Lega non piacciono le norme sul processo penale” raccontano dal M5S. Così si va avanti, fino a tarda notte. Nella trincea tra presunti alleati.

Fonte Nbc: “È morto Hamza, figlio ed erede di Osama bin Laden”

Secondo l’emittente americana Nbc gli Stati Uniti avrebbero ottenuto informazioni di intelligence secondo cui Hamza bin Laden, il figlio di Osama bin Laden ed erede del padre nella gestione di al Qaeda, sarebbe morto. La Nbc cita tre funzionari americani, che però non hanno fornito dettagli su dove o quando sarebbe morto né hanno chiarito se gli Stati Uniti abbiano giocato un ruolo nella vicenda. Lo scorso marzo Washington aveva messo una taglia da un milione di dollari per la cattura di Hamza, considerato il leader emergente di al Qaida. Hamza aveva minacciato gli Stati Uniti di attentati terroristici per vendicare la morte del padre, ucciso nel 2011 in Pakistan da un commando del corpo speciale dei Navy Seals. Nel 2015 diffuse un messaggio invocando l’unità dei jihadisti in Siria ed esortando a combattere per “la liberazione della Palestina”. L’ultima dichiarazione pubblica del figlio di bin Laden – scrive Nbc – risale al 2018, quando minacciò l’Arabia Saudita e chiamò alla rivolta gli abitanti della penisola arabica. Uno dei suoi fratellastri aveva detto al Guardian che Hamza poteva trovarsi in Afghanistan e che aveva sposato la figlia di Mohammed Atta, il capo dei dirottatori nella strage delle Torri Gemelle.

L’uomo dei soldi a Savoini a pranzo con Salvini a Milano

Salvini e Savoini in un ristorante di Milano, fianco a fianco a monsieur Khabbachi, l’uomo che sei mesi dopo consentirà al fedelissimo del segretario leghista di tornare da Parigi gonfio dei soldi ripescati dalla turca e trafugati nei vestiti per il rientro in volo verso l’Italia. Una vicenda rivelata ieri dal Fatto per la quale i pm milanesi che indagano su rubli e petrolio mostrano “attenzione”, ma sulla quale lo staff del ministro degli Interni è lapidario: “Non commentiamo, attendiamo eventuali sviluppi dalla magistratura”. Eppure Salvini dovrà dir qualcosa sul caso ribattezzato il “water-gate della Lega”, nel senso dei soldi salvati dallo scarico.

Il 27 novembre 2015 c’era anche lui al ristorante milanese “Gli Orti di Leonardo”, a due passi dal Cenacolo, insieme a Mohammed Khabbachi e a tutta la combriccola di leghisti che un mese prima si era trasferita alla corte di Re Mohammed VI: Salvini, Savoni, l’intermediario e interprete Kamal Raihane, il figlio dell’ex patron del Torino Massimo Gerbi e il dentista Claudio Giordanengo.

Non solo. L’indomani tutti ad esclusione di Salvini vanno alla partita Milan-Sampdoria. Giordanengo, all’epoca consulente della segreteria del Carroccio per il Nord Africa, ancora oggi si stupisce: “Khabbachi è un tifoso del Milan e voleva a tutti i costi vedere una partita. Io non lo sono, e mi era sembrato strano che arrivasse dal Marocco per vedere una partita secondaria. La sera prima siamo andati a cena sui Navigli, mancava solo Salvini. Torno a dire che io in Marocco c’ero ed era una delegazione prettamente politica, a questo punto però non posso escludere che ci sia una storia parallela che è proseguita altrove”. La storia è quella di un pagamento avvenuto sottobanco da parte del plenipotenziario marocchino Khabbachi a Savoini e a un altro italiano che resta avvolto nel mistero. Ma l’intera storia delle delegazione leghista, a ben vedere, lo è. Ieri è saltata fuori Souad Sbai, ex parlamentare del Pdl di origini marocchine in passato vicina alla Lega: “L’idea del viaggio in Marocco nel 2015 fu mia, e mi attivai per chiedere alle autorità marocchine di ricevere Salvini. Ma una settimana prima del viaggio ricevetti una chiamata da Savoini, il quale mi disse che era tutto a posto, tutto sistemato, e che ci avrebbe pensato lui. Per me è stato meglio non andarci, pensa se avessi fatto parte della delegazione…”.

Più si scava e più pesano i dettagli. Alla domanda se quei 150mila euro fossero per un affare privato di Savoini o per la Lega nessuno risponde, e già altre se ne aggiungono: chi pagava le trasferte dei leghisti alla corte del Re che sembrano gite turistiche e d’affari? Giordanengo si rivela ancora prodigo di dettagli: “Pagavano i marocchini, almeno così mi è stata venduta. Io non ho visto nessun conto, non ho dovuto prendere il biglietto d’aereo né niente. E dunque, conseguentemente, sono stato completamente e totalmente spesato: avevo una macchina con autista. Idem per la partita, i pranzi e per le trasferte”.

Dall’altra parte le cortesie non sono mancate: “Siamo andati agli uffici di Savoini al Pirellone perché Khabbachi e gli altri volevano vedere un panorama della città. Abbiamo avuto accesso agli ultimi piani dove c’è una bella vista su Milano. Hanno scattato delle foto ricordo”.

E qui si pone il tema, che tanto spiccio non è, dei rapporti che la Lega affidata a Savoini intesseva coi governi a trazione sovranista, come la Russia di Putin, come il regno del Marocco. Un terreno scivoloso per la diplomazia e gli interessi nazionali.

Non a caso ieri il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha dovuto rassicurare i parlamentari che per le missioni a Mosca Savoini non ha goduto di alcuna assistenza. L’ambasciata, ha detto, si è limitata ad ospitare un incontro del vicepremier al quale ha partecipato l’intera delegazione che lo accompagnava a Mosca.

E tuttavia in Marocco la delegazione leghista viene ricevuta con protocollo diplomatico, quasi che ministri, reggenti e funzionari locali avessero davanti una rappresentanza italiana ufficiale, non un partito in gita con un bagaglio di interessi economici e aziende da raccomandare per futuri appalti nel Maghreb. Salvini, va detto, non mostra particolare gratitudine verso tante premure. Dopo Savoini, non spende una parola per Khabbachi, il dominus di quelle relazioni che di mestiere esporta gli interessi del Re in altri Paesi. E che diverse volte è stato al loro fianco nelle vesti di pagatore.