Amanda Knox, colletta per le nozze “Ma è già sposata”

Un crowdfunding per pagarsi le nozze col suo storico fidanzato, Christopher Robinson. Una storia quasi romantica, se non fosse per un piccolo dettaglio: Amanda Knox, la 32enne americana che è stata assolta per l’omicidio di Meredith Kercher dopo aver trascorso 4 anni di carcere in Italia e adesso è tornata alla sua vecchia vita negli Stati Uniti, sarebbe già sposata, con lo stesso uomo. Una specie di truffa, insomma. A rivelarlo è il settimanale Oggi, che avrebbe anche un documento a riprova del legame già in essere. L’atto – come si legge nell’anticipazione – “si trova online negli archivi della King County, la contea di cui Seattle è capoluogo. Attesta che le pubblicazioni sono state affisse il 21 novembre 2018; che le nozze si sono tenute dieci giorni dopo, il primo dicembre; e che il certificato di matrimonio è stato emesso il 7 dicembre del 2018.” Oggi afferma che “in sostanza Amanda e Chris chiedono soldi per la festa di un matrimonio che si è già tenuto. Resta da chiedersi – conclude il settimanale – perché la Knox, che è riuscita a rifarsi una vita, l’immagine e un patrimonio, si sia prestata a questa operazione.”

Sparare, ultima ratio. Ma la legge lo consente

Da come l’hanno raccontata, il carabiniere Andrea Varriale non ha estratto l’arma di ordinanza perché non si era reso conto, mentre lottava con uno dei due americani, che l’altro aveva accoltellato ripetutamente il suo collega Mario Cerciello Rega. Quindi sono sbagliati i titoli di Libero di qualche giorno fa, secondo i quali i due militari in via Pietro Cossa non hanno sparato perché la legge non consente di farlo. Peraltro il vicebrigadiere Cerciello Rega, si è appreso in seguito, era disarmato.

Ma Varriale, se avesse compreso cosa stava accadendo, avrebbe potuto sparare? Certamente sì. Lo dice l’articolo 53 del codice penale che disciplina l’uso legittimo delle armi e consente ai pubblici ufficiali di impiegarle per “respingere una violenza”, “vincere una resistenza all’Autorità” o “impedire la consumazione dei delitti di strage, naufragio, sommersione, disastro aviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”. E basterebbe l’articolo 52 sulla legittima difesa quando si tratta di “difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta e sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Naturalmente non era facile sparare senza rischiare di colpire il collega. Forse poteva bastare un colpo in aria, o anche solo estrarre la pistola, ma Varriale non ne ha avuto il tempo se non quando i due erano scappati (in quel caso sparare è reato) e la priorità era soccorrere il collega.

Il comandante provinciale dei carabinieri di Roma, generale Francesco Gargaro, martedì ha detto che “i colpi in aria a scopo intimidatorio non sono previsti dal nostro ordinamento”. È vero, non sono previsti e spesso sono trattati come reato perché pericolosi (articolo 703 del codice penale: accensioni ed esplosioni pericolose; art. 57 del Testo unico leggi di pubblica sicurezza: divieto di spari con arma da fuoco, razzi, esplosioni ecc; talvolta perfino dispersione di materiale militare prevista dal codice penale militare). Ma il principio che non piace a Libero è che l’uso delle armi debba essere la scelta estrema. Ed è invece ribadito nei regolamenti delle forze dell’ordine e anche in recenti circolari. La decisione finale spetta sempre al giudice ed questo non piace a settori delle destre e delle forze dell’ordine: in altri Paesi le regole consentono, per esempio, di sparare alle gambe. Da noi poliziotti e carabinieri sanno che se sparano possono essere indagati (e poi magari archiviati, ma chissà quando). È infatti l’unico modo per accertare i fatti e le condizioni in cui sono avvenuti, con tutte le garanzie. Ma ad alcuni, scarsamente addestrati e a volte preoccupati di perdere l’arma (infrazione gravissima), tanto basta per girare disarmati quando fanno servizi in borghese. È un illecito disciplinare ma non è detto che i superiori controllino e soprattutto in quel caso la sanzione è meno pesante. È la paura della pistola.

La fake news sui maghrebini: testimone smentisce l’Arma

Solo due giorni fa l’Arma dei Carabinieri aveva provato con una conferenza stampa ad allontanare ogni ombra su quanto avvenuto la notte del 25 luglio, quando il carabiniere Mario Cerciello Rega è stato ucciso dall’americano Finnegan Lee Elder. Ma a distanza di 24 ore, si apre un ulteriore capitolo di questa vicenda. Nuove ombre si addensano intorno alla notizia falsa – pubblicata a poche ore dall’omicidio e cavalcata subito da una certa politica – che additava come responsabili due persone di origine nordafricana. Secondo l’Arma chi ha parlato di alcuni magrebini come i possibili aggressori è stato Sergio Brugiatelli, l’uomo che quella notte denunciò il furto dello zaino e la richiesta di estorsione da parte dei due americani, facendo scattare l’operazione finita in tragedia.

Ma la versione dell’Arma ieri è stata smentita da Andrea Volpini, legale di Brugiatelli: “Il mio assistito non ricorda di aver detto che gli aggressori fossero maghrebini”. È così si è aperto un nuovo caso, con l’Arma che non arretra rispetto a quando sostenuto due giorni fa: ieri al Fatto arriva la conferma che l’indicazione era stata data da Brugiatelli quando le pattuglie erano intervenute sul luogo dell’omicidio e che l’uomo si è corretto solo dopo, quando è stato sentito in caserma.

“Non sono un pusher né un informatore”

Proprio sul ruolo di Brugiatelli in questa vicenda sono stati sollevati alcuni sospetti. In primis che fosse un informatore dei carabinieri. Circostanza smentita dall’Arma nei giorni scorsi e ieri dallo stesso Brugiatelli: “Non sono un intermediario di pusher né un informatore delle forze dell’ordine”, afferma in una nota. “Se dopo il furto ho chiamato il 112 – aggiunge – senza aspettare l’indomani per sporgere denuncia, come mi era stato in un primo momento consigliato dai carabinieri, è stato perché ho avuto paura. Quando ho chiamato il mio numero di cellulare, chi ha risposto non ha solo preteso denaro e droga per riconsegnare le mie cose. Mi ha minacciato, dicendo che sapevano dove abitavo e sarebbero venuti a cercarmi”.

La pistola dimenticata e il servizio 24-6

Ma in tutta questa vicenda c’è ancora qualche punto interrogativo in merito all’operazione di quella notte. Una su tutte: perché Cerciello esce dalla caserma senza pistola d’ordinanza? L’intervento è stato organizzato con cura e nei dettagli? Ora sarà la Procura di Roma a chiarire ogni aspetto di quanto accaduto. I pm hanno acquisito anche l’elenco dei turni di presenza in servizio della Stazione Farnese: un atto che ha l’obiettivo di certificare la presenza in turno di Cerciello dalla mezzanotte alle 6 di mattina del 26 luglio con il collega Andrea Varriale. Intanto ieri sono stati effettuati nuovi sopralluoghi nella stanza di albergo dove alloggiavano Finnegan Lee Elder e Christian Natale e dove è stata trovata l’arma del delitto.

Americano bendato, indagano i pm militari

Un fascicolo penale è stato aperto pure sulla vicenda della foto del bendaggio di Christian Natale, fatta girare nelle chat dei carabinieri. Il sottufficiale e capo-pattuglia (già trasferito ad un incarico non operativo) che ha messo la benda sugli occhi del 19enne è già indagato, secondo l’Ansa per abuso d’ufficio e non per abuso d’autorità come scritto ieri dal Fatto. Sono in corso accertamenti su chi ha immortalato la scena e che ora rischia l’accusa di rivelazione di segreto. Su questo anche la Procura militare ha aperto un fascicolo e non è escluso che in questo caso l’indagine si possa allargare ad altri aspetti della vicenda, come sul “tipo di servizio” svolto da Varriale e Cerciello.

Sozzani (Fi), in giunta M5S e Pd votano sì a richiesta d’arresto

Salvato dalle intercettazioni tramite Trojan, ma forse non dall’arresto. Ieri la giunta per le autorizzazioni alla Camera ha bocciato la proposta che chiedeva di respingere la richiesta di domiciliari nei confronti di Diego Sozzani, deputato forzista su cui pende un’accusa di presunti finanziamenti nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti in Lombardia. Contrariamente a quanto successo pochi giorni fa sull’utilizzo del Trojan, stavolta anche il Pd si è detto favorevole all’arresto, oltre al Movimento 5 stelle che ha confermato il voto già espresso in precedenza. “La nostra posizione quindi non cambia e resta in linea con le decisioni adottate su casi dello stesso tipo”, ha detto il capogruppo M5S, Eugenio Saitta. La partita, però, non è ancora finita: adesso la richiesta deve andare in Aula. Dopo il voto di ieri, il pentastellato Di Sarno ha ricevuto dalla giunta il mandato per fare una relazione favorevole alla concessione degli arresti domiciliari. L’ultima parola, però, spetterà comunque all’aula, che potrebbe ribaltare il parere del relatore e salvare il deputato di Forza Italia.

C’è un “buco” nella certificazione antimafia

Niente più interdittive antimafia e mano libera ai boss per riciclare i narcoeuro nei locali della movida. Succede a Milano. Alla base, uno di quei paradossi rari. Perché tutto nasce da un protocollo sottoscritto tra il Comune e la Prefettura. Firme in calce del Prefetto e dell’assessore alle Attività produttive della giunta del sindaco Beppe Sala.

Il protocollo, entrato in vigore da poche settimane, passa sotto il nome di “Patto per il rafforzamento delle prevenzione ai fini antimafia”. In realtà, a causa di una banalissima modifica nella modulistica, già da metà luglio è entrata in vigore una sorta di moratoria a favore dei fiduciari dei clan che nel capoluogo lombardo vogliono aprire attività commerciali. Il caso, clamoroso e unico in Italia, è stato denunciato con un post su Facebook da David Gentili, presidente della commissione antimafia del comune di Milano. Scrive Gentili: “La firma del Patto potrebbe avere il paradossale effetto di azzerare le richieste di informativa antimafia per gli esercizi pubblici a Milano”. Al centro ci sono le Scia, ovvero le segnalazioni certificate di inizio attività. La nuova modulistica prevede la compilazione di una griglia in cui il futuro ristoratore “può” (e non “deve”) indicare i conviventi. La questione non è per nulla scontata. È infatti solo grazie a questo modulino che il Comune potrà fare la segnalazione alla Direzione investigativa antimafia perché dia il via al percorso che porterà all’emissione di una interdittiva della Prefettura.

E ora viene il bello, o meglio il brutto, perché senza il fatidico modulino il Comune non può avviare la procedura di interdittiva. Un ostacolo semplice da superare se quel modulo fosse obbligatorio. In realtà l’elenco dei familiari è facoltativo, così come prevede la Camera di Commercio e la legge regionale, ma questo non viene esplicitato dal protocollo.

Quindi, niente familiari niente interdittiva. La questione viene spiegata da un funzionario del Comune che però chiede l’anonimato: “La presentazione del modulo è facoltativa. Nel caso in cui la dichiarazione non venga allegata alla Scia non è possibile richiedere l’informativa alla Prefettura, in quanto la richiesta dell’informativa consiste nell’inserimento dei dati dei familiari conviventi nell’apposita sezione del portale Siceant. Per le Scia precedenti all’integrazione della modulistica, non disponendo delle informazioni necessarie (dati dei familiari conviventi) non ci è possibile chiedere l’informativa alla Prefettura”.

Liberi tutti, insomma. Milano ai mafiosi. Scrive Gentili: “Nonostante noi si possa sapere chi siano i conviventi di chiunque, attraverso l’anagrafe, se il mafioso decide di non indicarli sul modulo, non solo evita il penale per falsa dichiarazione, ma la Scia prosegue uguale il suo iter”. E pensare che nell’ultimo anno sono state 14 le interdittive siglate dalla Prefettura. Molti locali controllati da cosche potentissime sono stati chiusi. E questo grazie alla revoca della Scia, strumento amministrativo sdoganato dalla riforma del Codice antimafia del 2014, da recenti sentenze del Consiglio di Stato e che permette di costruire informative attorno al cosiddetto “fumus”mafioso.

Non a caso, fino a pochi mesi fa sul tavolo della Dia giacevano 50 informative antimafia su altrettanti esercizi pubblici. Ora però il nuovo protocollo, firmato da Prefettura e Comune, rischia di favorire gli interessi delle mafie. Conclude Gentili: “Nessuna modulistica può bloccare la richiesta di informativa. La Regione dovrà modificare la legge, mentre per i conviventi li troviamo noi”.

Autoriciclaggio, Siri indagato. I pm: “Gli sequestriamo il pc”

Due mutui per oltre un milione di euro. Attorno una storia opaca, di amicizie e condivisioni politiche, di banchieri e strani fiduciari, di triangolazioni tra Milano e San Marino. Al centro la figura del senatore leghista Armando Siri, che proprio per questa storia da ieri risulta indagato dalla procura di Milano con l’accusa di autoriciclaggio per due mutui. Accusa che va a sommarsi a quella per corruzione contestata dalla procura di Roma e collegata all’inchiesta palermitana sul re dell’eolico Vito Nicastri, ritenuto vicino al superlatitante Matteo Messina Denaro. Siri, che per l’indagine capitolina si è dimesso da sottosegretario alle Infrastrutture, non è il solo indagato nel fascicolo milanese. Con lui, e per la stessa accusa, c’è anche il suo capo segreteria Marco Luca Perini.

L’iscrizione è avvenuta dopo che le perquisizioni di lunedì anche a carico di Tf holding, destinataria del secondo mutuo e gestita da due baristi di Milano, uno vicino per amicizia e fede politica a Siri. I militari hanno operato anche a Verona dove ci sono gli uffici di due intermediari. Martedì la Procura di Milano ha inviato una richiesta al Senato per poter sequestrare il computer di Siri. A dichiararne la proprietà è stato lo stesso politico che era presente durante la perquisizione nella sede dell’associazione diretta da Perini.

La vicenda nasce all’inizio di quest’anno, dopo che un notaio milanese segnala un’operazione sospetta. Si tratta del primo mutuo erogato a Siri dalla Banca agricola di San Marino. A darne notizia è Report. L’esponente leghista ottiene il denaro il 16 ottobre 2018. Sono 750 mila euro. Presi i soldi, Siri ne usa una parte, 585 mila euro, per acquistare una palazzina a Bresso, comune a nord di Milano. Si tratta di un immobile da ristrutturare, che il leghista intesta alla figlia. Chiuso l’affare, gli restano in tasca 110 mila euro. Dopo la segnalazione del notaio, le autorità di San Marino iniziano a indagare. Nel frattempo anche Milano apre un fascicolo. Si indaga per autoriciclaggio ma contro ignoti. L’autorità di vigilanza di San Marino, lavorando sul primo, scopre anche il secondo mutuo. Entrambe le operazioni vengono definite “in contrasto con i principi di sana e prudente gestione”. Un dato che secondo gli esperti espone la banca “a un elevato rischio reputazionale”.

La notizia del secondo mutuo viene data da L’Espresso nell’edizione di domenica. Ripartiamo però dal primo mutuo. Che viene concesso a Siri con durata decennale (doppia rispetto al limite consentito) e apparentemente senza garanzie. Gli esperti dell’antiriciclaggio annotano: “Il finanziamento non garantito è stato erogato a una persona diversa dall’intestataria dell’immobile, rendendo ancora più difficoltosa un’eventuale rivalsa della banca in caso di mancata restituzione del prestito”. Attorno a questo primo prestito si affacciano diverse figure. Tra queste una donna che abita a Verona e che, secondo il report degli ispettori, avrebbe presentato Siri alla banca. Chiuso il capitolo, ecco i 600 mila euro del secondo mutuo. Operazione fresca di aprile. A maggio, infatti, alla Banca centrale di San marino arriva una seconda segnalazione “correlata” a quella di Siri. Chi ottiene il mutuo è la Tf Holding che ha due soci. Uno si chiama Fiore Turchiarulo, in passato candidato nel movimento Italia Nuova fondato da Armando Siri. La Tf Holding ottiene il mutuo anche grazie alla presentazione di Luca Perini. Anche qui gli ispettori non rilevano chiare garanzie. Turchiarulo gestisce due bar a Milano: nel 2008 uno l’aveva rilevato da Metropolitan coffee and food srl, diretta in Italia da Armando Siri, prima che la società si trasferisse nel paradiso fiscale del Delaware.

“Il mutuo concesso al senatore Siri nell’ottobre 2018 per l’acquisto di un edificio a Bresso è del tutto regolare”, spiega l’avvocato del leghista. “Lo ha dichiarato in una nota la Banca Agricola Sammarinese. Dunque rispetto al fascicolo aperto, Armando Siri, forte della correttezza del proprio operato, si dichiara completamente estraneo”.

Puglia, stop alla legge anti-plastica: tornano le bottiglie in spiaggia

Bloccato il provvedimento della Regione Puglia che vietava la plastica monouso in spiaggia, già da quest’estate. Il Tar dà ragione ad alcune associazioni di produttori, come Mineracqua e Assodibe, e a un fornitore di prodotti per bar, che avevano fatto ricorso. Dunque di nuovo via libera a contenitori per alimenti, bottigliette, bicchieri, posate, e chi più ne ha più ne metta: l’ordinanza regionale, la prima del genere in Italia, è sospesa. Secondo il Tribunale amministrativo, infatti, il provvedimento è illegittimo in quanto non basato su alcuna fonte primaria di legge. La scelta della regione del governatore Michele Emiliano era arrivata a marzo: la Puglia aveva deciso di anticipare di due anni la direttiva europea, che bandirà la sostanza inquinante a partire dal 2021. Quella direttiva, però, non è ancora stata recepita dal nostro Paese, secondo i giudici amministrativi, e dunque non può essere applicata. Tra le motivazioni dello stop anche il limite di competenza legislativa: è materia di competenza statale e non regionale.

Viminale contro giudici: “Niente scorta a Ingroia”

Sul portone non c’è più la targhetta che indica lo “studio legale Ingroia”, per il Viminale il caso è chiuso: è “accertato che l’ex magistrato non dispone (a Milano) di alcuno studio legale o di altro interesse nella provincia” e per questo non ha più diritto alla protezione.

L’ultimo capitolo del balletto di decisioni del ministero dell’Interno per garantire una scorta all’ex pm antimafia, “padre” dell’inchiesta sulla Trattativa, per il diretto interessato ha un sapore “fantozziano”: “Prendo atto e non posso che essere contento che non sussiste alcun pericolo per la mia incolumità – dice l’ex pm – mi sorprende però leggere che tutto dipende dal fatto che ho cambiato l’indirizzo del mio studio legale a Milano. E ora mi chiedo: sono affidate a questo tipo di accertamenti ‘fantozziani’ e di valutazioni fondate su dati falsi le decisioni di un ‘autorevole’ organo come l’Ucis (Ufficio per la sicurezza personale, ndr), che avrebbe dovuto invece adeguarsi alla decisione del Consiglio di Stato che disponeva l’urgente ed immediato ripristino della scorta?”.

A maggio scorso il consiglio di Stato aveva sospeso la revoca della scorta, non escludendo rischi di “azioni criminose” nei confronti di Ingroia, rimandando la palla al Viminale per una nuova valutazione. Che è arrivata nei giorni scorsi, quando sono state rese note le decisioni dell’Ucis riunito il 28 maggio scorso. Se il Consiglio di Stato aveva tenuto in considerazione le valutazioni della Prefettura di Milano che aveva assicurato una protezione a Ingroia, adesso, informa l’Ucis, quella protezione è stata revocata perché si sarebbe accertato che a quell’indirizzo non c’è più alcuno studio legale. “La cosa, nel contempo divertente e tristemente preoccupante – dice Ingroia – è che nella nota della Prefettura di Milano si legge che una pattuglia sarebbe andata a controllare ‘sul citofono condominiale’ ed avrebbe accertato che non è più ‘presente alcuna targhetta presso lo stabile ove prima compariva’ (e ci mancherebbe!)”. “Ma – aggiunge – la verità è un’altra: e cioè che io, ormai da 5 mesi, ho trasferito il mio studio milanese presso un nuovo indirizzo, in corso Sempione 72, sempre a Milano. Bastava un clic per trovarlo”.

Secondo l’ex magistrato, l’Ucis avrebbe sostenuto anche che al di là dello studio legale non avrebbe avuto altri motivi per soggiornare a Milano, “ignorando – prosegue – che da anni sono presidente dell’organo di vigilanza della Ivri spa, uno dei più grossi gruppi del Paese che si occupa di vigilanza privata, anche di Expo e di numerosi aeroporti e porti navali su tutto il territorio nazionale”.

Retromarcia su Formigoni: “Deve tornare in carcere”

Gli arresti domiciliari ottenuti da Roberto Formigoni il 22 luglio scorso finiscono all’esame della Cassazione.

Ieri, l’avvocato generale di Milano Nunzia Gatto ha presentato ricorso contro l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza, che ha concesso i domiciliari all’ex potentissimo governatore lombardo dopo 5 mesi di carcere per una condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi per corruzione. Secondo Gatto, il provvedimento è “incongruente”, ma durante l’udienza del 18 luglio scorso il sostituto procuratore generale Nicola Balici aveva dato parere favorevole alla richiesta dei domiciliari per il superamento dei 70 anni ( Formigoni ne ha 72). L’avvocato generale Gatto, però, dopo aver letto il provvedimento del tribunale di Sorveglianza e – verosimilmente – letto il parere negativo della procura (pubblicato dal Fatto sabato scorso) ha impugnato la decisione.

In sostanza, come il procuratore aggiunto Laura Pedio, anche Gatto ritiene che nel caso di Formigoni non si possa proprio parlare di “collaborazione impossibile”, il motivo principale, anche se non l’unico, che ha indotto il tribunale di Sorveglianza a concedere i domiciliari, dato che secondo la spazzacorotti anche gli ultra settantenni, condannati per corruzione, restano in carcere, a meno che non collaborino con la giustizia. Secondo il tribunale di Sorveglianza, che non ha toccato il punto della presunta non retroattività della legge, nelle mani della Corte Costituzionale, tutti i fatti giudiziari in merito alle delibere regionali a favore del San Raffaele e della clinica Maugeri, per cui Formigoni è stato condannato, sono stati definiti. Inoltre, troppo incerti, a suo avviso, gli elementi forniti dalla procura sull’utilità di una collaborazione. Quindi, ha ragionato la Sorveglianza, anche se l’ex presidente volesse collaborare, ormai “è impossibile”. Ed ecco superata la spazzacorrotti. Ma su questo punto cruciale, Gatto nel ricorso parla di “incongruenza” perché Formigoni potrebbe dare, invece, indicazioni utili. E ricorda, come aveva fatto Pedio, che sono in corso confische di beni nell’ambito del procedimento Maugeri, ci sarebbero soldi nascosti in paesi come Panama, Seychelles, Bahamas, Malta; può rendere dichiarazioni nel processo in corso a Cremona, fotocopia di quello di Milano, in cui Formigoni è imputato per corruzione perché anche in questo caso da presidente della Regione avrebbe favorito una ditta sanitaria in cambio di soldi e delle solite vacanze di super lusso. Lui che ha fatto voto di povertà e castità.

Gatto ricorda pure, come aveva fatto la procura, che Formigoni è stato condannato al massimo della pena e non ha avuto le attenuanti generiche perché non si è mai fatto interrogare. Il “Celeste”, comunque, per ora resta ai domiciliari, a casa di un amico. Se la Cassazione dovesse dare ragione alla procura generale, sarà di nuovo il tribunale di Sorveglianza a doversi pronunciare.. La brutta notizia arriva a Formigoni proprio il giorno dopo che il Senato gli ha tolto pensione e vitalizio.

Tabaccaia uccisa: “Delitto premeditato da un ludopatico”

È stato un omicidio volontario e premeditato quello di Mariella Rota, la tabaccaia uccisa martedì a Reggio Calabria. L’uomo fermato, Billi Jay Sicat, 43 anni, di origini filippine, in Italia regolarmente da 5 anni, secondo quanto riferito dagli inquirenti, soffriva di ludopatia e accusava la donna di truffarlo per giustificare la mancanza di vincite. L’uomo ha praticamente decapitato la donna con una mannaia colpendola poi altre volte. L’omicidio è avvenuto all’interno della tabaccheria. L’uomo, secondo quanto accertato, è entrato nella tabaccheria poco prima delle 13 dalla porta principale, ha chiuso la serranda dietro di sè ed ha estratto una mannaia. La donna ha provato a difendersi, ma il primo colpo le ha praticamente staccato le dita di una mano, poi il colpo mortale al collo al quale ne sono seguiti altri. Sicat si è quindi cambiato la maglietta sporca di sangue indossandone una pulita e poi ha tolto l’hard disk da un computer pensando fosse collegato alla videosorveglianza. La videosorveglianza, però, non era collegata all’hard disk prelevato dall’uomo e gli investigatori hanno visto le riprese dell’omicidio. Sicat era senza lavoro e secondo quanto riferito spendeva al Lotto tutti i soldi guadagnati dalla moglie.