Gratteri:“Più bonifici e meno sparatorie: qui si compra tutto”

“La ‘ndrangheta non spara più, ma compra tutto” assicura Nicola Gratteri procuratore della Repubblica di Catanzaro.“Più bonifici e operazioni bancarie che conflitti a fuoco”. Dichiarazioni raccolte dal settimanale Famiglia Cristiana in una intervista in cui il magistrato spiega anche il motivo per cui in Italia si è abbassata la guardia. “Il modo d’agire della ‘ndrangheta non prevede sparatorie, auto bruciate o omicidi. Non crea allarme sociale. L’opinione pubblica, al Nord ma non solo, è convinta anche oggi che nel proprio quartiere non ci sia la mafia”. “La ‘ndrangheta – conclude – ha fatto un grande salto di qualità negli anni che ha consentito la doppia affiliazione con la massoneria deviata, un ulteriore grado gerarchico dell’organizzazione. Questo ha comportato contatti sempre più stretti tra i mafiosi e i quadri della classe dirigente e delle istituzioni. Al netto dei buoni risultati investigativi, la situazione è sfuggita di mano un po’ a tutti: alle Forze dell’ordine, alla Magistratura, agli educatori, anche alla Chiesa. È un segnale culturale inquietante”.

Cosa nostra e massoneria, blitz a Licata: “Ma chi minchia ci deve fermare più?”

Il boss di Licata era “vecchio stampo”, niente droga né violenze a donne e bambini (solo a chi sgarra), ma l’uso di tecnologie sofisticate (jammer) e con gli agganci “giusti’’: suo figlio era il maestro venerabile della loggia “Arnaldo da Brescia” e poteva contare sulle informazioni riservate di un burocrate regionale, anch’egli maestro venerabile della loggia “Pensiero e azione” e sui favori di un deputato regionale, già finito nel mirino delle indagini. “Ma chi minchia ci deve fermare più?” diceva al telefono Lucio Lutri, dirigente dell’assessorato regionale all’Energia, arrestato ieri dai Ros dei carabinieri nell’ambito dell’inchiesta Halycon condotta della Procura di Palermo sui rapporti tra mafia e massoneria insieme ad altre sei persone, massoni e mafiosi, accusati di avere messo in piedi una rete di mutua assistenza criminale finalizzata anche al controllo degli appalti. Sono Giovanni Lauria, 79 anni, detto “il professore”, suo figlio Vito, 49 anni, Angelo Lauria, 45 anni, Giacomo Casa, 64 anni, Giovanni Mugnos, 53 anni, Raimondo Semprevivo, 47 anni. Nell’inchiesta è citato, allo stato non come indagato, anche il deputato regionale autonomista Carmelo Pullara, indicato come iscritto nella loggia “Arnaldo da Brescia” il cui maestro venerabile è Vito Lauria. Ha negato l’affiliazione.

A quest’ultimo i carabinieri hanno sequestrato munizioni da guerra, e alcune pistole sono state sequestrate a Mugnos. Perquisite le sedi delle due logge e acquisiti gli elenchi degli iscritti, peraltro in parte venuti a galla dal ritrovamento, tre anni fa, in un cassonetto proprio di fronte l’assessorato all’Energia, di un verbale della loggia “Pensiero e azione”’ guidata da Lutri con alcune decine di nomi di iscritti, in prevalenza medici.

Pd e destre: sei mesi di scandali e mazzette. Dalla Lombardia all’Umbria e alla Sicilia

Al giro di boa dell’estate, sono decine le inchieste in tutta Italia per corruzione e per mafia.

Iniziamo dalla Lombardia che il 7 maggio scorso si è risvegliata in un clima da Tangentopoli, 43 arresti e oltre 100 indagati, un terremoto giudiziario che è arrivato fino ai piani alti della Regione con il governatore Attilio Fontana indagato per abuso d’ufficio. Il premiato mazzettificio andava dal comune di Milano fino alla provincia di Varese. Decine i personaggi in lista, vecchie volpi della politica socialista fino alle nuove leve di Forza Italia. Indagato Nino Caianiello, plenipotenziario azzurro a Varese e presunto regista delle tangenti, indagata l’ex europarlamentare Lara Comi. Indagato Daniele D’Alfonso, imprenditore, unico a essere accusato di aver favorito la mafia e il potente clan calabrese dei Molluso, storicamente radicato nel Comune milanese di Corsico.

Di nuovo Lombardia con gli interessi dei clan per i parcheggi dell’aeroporto di Malpensa. Affari di ‘ndrangheta e di politici al soldo dei boss. Per uno di loro, Enzo Misiano, coordinatore locale di Fratelli d’Italia l’accusa è diretta: associazione mafiosa. Corruzione e mafia, poi, è uno spartito condiviso tra Roma e Palermo nell’inchiesta che riguarda il “re dell’eolico” Vito Nicastri. L’imprenditore, oggi in carcere, è ritenuto vicino al superlatitante Matteo Messina Denaro. L’indagine riguarda un giro di mazzette e si allarga fino alla Capitale coinvolgendo il senatore Armando Siri. Al politico di fede leghista e di osservanza salviniana viene contestata un’intercettazione in cui si parla di una tangente di 30 mila euro. Soldi che l’allora viceministro alle Infrastrutture (poi dimesso dopo l’inchiesta) avrebbe preso in cambio di una modifica di una norma che riguarda appunto l’eolico. Siri viene così indagato per corruzione.

Un altro leghista indagato per turbativa e corruzione elettorale è l’ex sindaco di Legnano nonché coordinatore provinciale del Carroccio Gianbattista Fratus. L’indagine è della procura di Busto Arsizio. In tema è la condanna dell’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Per lui sei anni in primo grado. Accuse: corruzione e finanziamento illecito. Il tutto maturato da una costola della maxi-inchiesta Mafia Capitale.

A Roma poi le mazzette le prendono anche i magistrati. A febbraio, infatti, un filotto di arresti ha riguardato alcuni giudici del Consiglio di Stato, che, secondo l’accusa, si erano messi al servizio di privati in cambio di soldi. In Umbria è indagata il presidente della Regione Catiuscia Marini (Pd), accusata di concorso per abuso d’ufficio, rivelazione di segreti d’ufficio e falsità per le tracce della prova scritta e pratica che, secondo i pm, sarebbero state fornite in anticipo a una candidata. La Marini, rivendicando la “correttezza” del suo operato, si è dimessa dal suo incarico. Bufera giudiziaria anche in Calabria. Qui il governatore Mario Oliverio è accusato di associazione per delinquere.

Ma questo 2019 non è un’eccezione. Spiega il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri: “Fino a quando il potere politico non avrà la volontà di cambiare le regole del gioco, continueremo a parlare di mafia e di infiltrazioni”.

“Pareva un summit di mafia e non una riunione elettorale”

Un politico di Fratelli d’Italia potente e in ascesa eletto direttamente dai boss e diventato il loro burattino. Un altro, del Pd, terrorizzato dalle voci di inchieste che lo riguardavano che chiede informazioni a un finanziere offrendo in cambio un posto di lavoro. Un altro ancora, Pd, ex potente ma sempre col pallino di tornare sulla scena, accusato di trafficare con le cosche da anni.

È la Calabria fotografata dall’inchiesta “Libro nero”, della Squadra mobile di Reggio Calabria e della Direzione distrettuale antimafia diretta dal procuratore Giovanni Bombardieri. Una terra dove nei rapporti col malaffare e con la ’ndrangheta non esistono confini politici, né differenze ideali, solo voti, consenso e quote di potere da conquistare con l’aiuto dei boss. Anche di quelli sospettati di aver ammazzato e fatto sparire tuo padre. È il caso di Sandro Nicolò, ex uomo forte del berlusconismo in riva allo Stretto, poi folgorato da Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia. Di lui si parlava come prossimo candidato a sindaco di Reggio Calabria. Ma quando chiedeva voti alle cene elettorali, le riunioni “sembravano summit di ’ndrangheta”.

“A Saline, in un agriturismo, Alessandro fece una cena. Alessandro Nicolò, dove c’era anche Demetrio Berna (uno degli imprenditori arrestati, ndr), c’eravamo io e c’era Ferlito, e c’erano tutti i ragazzi della cosca. Sembrava un summit, non sembrava una riunione elettorale”.

Parla il pentito Enrico De Rosa, e il racconto di quella sera conferma il contenuto dell’inchiesta: il consigliere Nicolò era “diretta espressione della cosca Libri” e in ragione di questo, “divenne il punto di riferimento della criminalità organizzata”. Quella dei Libri è una delle famiglie “storiche” della ’ndrangheta calabrese, alleata dei Tegano, dei De Stefano e dei Condello, ha sempre avuto ottimi rapporti con la politica. Nell’inchiesta emerge la storia tragica del padre del consigliere Nicolò, vittima di “lupara bianca” nel 2004. Secondo gli inquirenti perché membro della cosca Libri ma inviso a don Mico, il capostipite, ipotesi sempre respinta dalla famiglia e dal figlio Nicolò. “Questo – dice uno degli arrestati intercettato dalla polizia – ha vinto con i voti di quelli che gli hanno sotterrato a suo padre”.

Ma quando “Sandro”, come lo chiamano gli affiliati, viene eletto, tutti sono raggianti. “Sandro è cosa nostra, con Sandro abbiamo vinto, abbiamo vinto”. Tutti felici anche in casa Fratelli d’Italia, quando, dopo le scorse elezioni politiche, Nicolò decise di passare dalla loro parte.

A vergare un comunicato entusiasta Giorgia Meloni e Wanda Ferro, senatrice e sicuro candidato governatore alle prossime regionali calabresi. “L’ingresso di Nicolò rappresenta per il nostro partito un valore aggiunto…”. Per i pm, invece, Nicolò era “patrimonio del clan Libri”, un uomo che andava sostenuto. “Sandro – si sente in una intercettazione tra appartenenti alla cosca alla vigilia delle ultime regionali – è un nostro candidato, altri non li dovete votare”. E il pentito De Rosa: “Io Sandro Nicolò lo conoscevo come espressione della famiglia Libri”.

Sebi Romeo, uomo vicinissimo al governatore Oliverio e capogruppo del Pd in Regione, era ossessionato dalle inchieste su di lui. Chiedeva lumi a giornalisti e amici in polizia.

Ne parla col segretario del suo partito di Melito Porto Salvo che ha un amico finanziere nella polizia giudiziaria della Corte d’Appello. Vuole sapere, per l’accusa promette favori “in cambio di informazioni coperte da segreto”. Finisce ai domiciliari per tentata corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio. Risalirebbero nel tempo, invece, le relazioni oscure dell’avvocato Demetrio Naccari Carlizzi, Pd di fede renziana, già assessore regionale e cognato di Giuseppe Falcomatà, il sindaco della città. I magistrati parlano di un suo “stabile, solido e proficuo accordo con i più importanti clan, in occasione di elezioni comunali e regionali”. Chiedeva voti per sé e per i suoi amici di cordata. È la politica in Calabria, bellezza.

Politici e ‘ndrine: 17 arresti. “Io sono peggio di Riina”

“Sai qual è la differenza tra me e Riina? Che Riina li squaglia, li squaglia nell’acido, io me li porto a Cannavò, ho una ‘livara’ (albero di ulivo, ndr), li appendo là con una corda e una scimitarra. Ogni tanto gli taglio un pezzo e gli metto al cane. Questa è la differenza tra me e coso”.

Parla da boss Giuseppe Tortorella, uno dei 17 arrestati ieri nell’operazione “Libro Nero” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che ha stroncato la cosca Libri. Tortorella, però, non ha la coppola e la lupara. Eppure il procuratore Giovanni Bombardieri non ha dubbi nel ritenere il medico odontoiatra faccia parte della potente cosca di Cannavò. Un “colletto bianco” che è stato assessore comunale ai tempi della giunta di Italo Falcomatà e che, oggi, sfruttando il suo patrimonio di relazioni è considerato dagli inquirenti l’uomo di collegamento tra la cosca Libri e la politica reggina, di destra e di sinistra. Da anni, infatti, è ritenuto il consigliere dei boss. Intercettando lui e il suo studio dentistico, la quinta sezione della squadra mobile e i pm Stefano Musolino e Walter Ignazitto hanno ricostruito la rete di rapporti che dalla roccaforte della cosca Libri porta ai palazzi della politica comunale e regionale.

Tra gli arrestati, con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, infatti, c’è il consigliere regionale Sandro Nicolò, ex Forza Italia e oggi passato a Fratelli d’Italia. Per gli inquirenti, anche lui è affiliato alla ’ndrangheta, è “l’espressione dei Libri in seno alle istituzioni”. Un politico che sarebbe stato costruito a “tavolino” dalla cosca con cui è sceso “a patti” per rastrellare voti in tutte le tornate elettorali: dalle Comunali alle Regionali passando per le Provinciali. In cambio elargiva favori concordati sempre nello studio dentistico di Tortorella, “trait d’union” tra i boss e i politici: dai berlusconiani fulminati sulla via della Meloni, ai renziani della prima ora come Demetrio Naccari Carlizzi, l’ex assessore regionale del Pd accusato di concorso esterno con la ‘ndrangheta. Con lui il dentista Tortorella “nel corso degli anni ha avuto un rapporto privilegiato”. Cognato dell’attuale sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà (sempre del Pd), Naccari è indagato a piede libero perché, seppure riscontrando gravi indizi di colpevolezza, il gip non ha ritenuto ci siano le esigenze cautelari per l’arresto.

Nella rete della polizia, con l’accusa di tentata corruzione è finito però l’attuale capogruppo del Pd al Consiglio regionale, Sebi Romeo, nei cui confronti il giudice per le indagini preliminari ha disposto i domiciliari così come per il maresciallo della Guardia di finanza Francesco Romeo al quale il politico si era rivolto per avere informazioni in merito a possibili indagini giudiziarie nei suoi confronti.

’Ndrangheta, politica e imprenditoria. La cosca di Cannavò ha fatto sempre affari con l’edilizia, sin dai tempi del mammasantissima don Mico Libri, morto alcuni anni fa a Prato mentre era ai domiciliari. Il suo posto è stato preso dal genero, il “capo società” Nino Caridi pure lui raggiunto ieri dall’ordinanza di custodia cautelare assieme al figlio patriarca, Giuseppe Libri. Nonostante fosse detenuto al 41 bis (il carcere duro riservato ai boss), infatti, Caridi riusciva a dare ordini alla cosca e a fare arrivare i messaggi agli affiliati liberi. Lo avrebbe fatto attraverso la moglie, Rosa Libri (arrestata) e all’avvocato Giuseppe Putortì, ora ai domiciliari.

“Scrivi Berna, leggi Libri” è la frase del pentito Enrico De Rosa, un tempo immobiliarista della cosca e uomo di fiducia di Nino Caridi. Un concetto che i magistrati e i poliziotti hanno ripetuto ieri in conferenza stampa quando hanno spiegato i motivi che hanno portato all’arresto del presidente dell’Ance Francesco Berna e del fratello Demetrio, l’ex assessore comunale al Bilancio della giunta Scopelliti. Le loro imprese, nel settore edilizio, immobiliare e della ristorazione, stando all’impianto accusatorio, servivano a investire e riciclare “capitali del sodalizio mafioso”. In questo modo, i due imprenditori avrebbero garantito “il versamento” alla cosca Libri “di una parte dei profitti”. In sostanza, scrive il gip, “il loro contributo al sodalizio mafioso non è occasionale, ma decorre dagli anni 90 ai giorni nostri, esso è stabile e permanente e di per ciò solo idoneo al mantenimento ed al consolidamento del vincolo associativo”. Milioni di euro in società e beni che ieri sono stati sequestrati dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria.

Vieni avanti, gretino

Sollevando per un attimo il capino dai dati elettorali, che segnalano cinque anni di spaventosa e ininterrotta emorragia di voti, gli strateghi del Pd devono essersi accorti che le pochissime sinistre vincenti in Europa sono quelle ambientaliste: di nome (tutti i Verdi tranne quelli italiani) o di fatto. Così, astuti come volpi, si sono domandati come intercettare l’onda green che percorre il mondo intero, soprattutto fra i giovani. L’alternativa era semplice: o diventare verdi, o travestirsi da verdi. Indovinate quale hanno scelto? La seconda. E si sono comprati il costume di carnevale da Greta Thunberg. La prossima festa dell’Unità di Milano sarà “la prima sostenibile e plastic free”. Mecojoni. E lo slogan della “Costituente delle idee” lanciata da Zingaretti nel Paese all’insaputa del Paese è “Riaccendiamo l’Italia. Verde, giusta, competitiva”. Da pelle d’oca. Veltroni ha capito benissimo che per il suo Pd non c’è speranza: infatti, invece di suggerirgli di diventare ambientalista, ha proposto di fondare un altro partito ad hoc con l’acronimo “Ali”. Che non c’entra con Alitalia, ma con “ambiente, istruzione, lavoro”. Non vi vengono i brividi? La stessa idea l’aveva avuta Sala, il cui amore per l’ambiente è tuttora visibile a Rho-Pero, nella landa desolata del fu Expo. GreenZinga, frattanto, per non farsi scavalcare, gira l’Italia con proposte tipo “destinare 50 miliardi della prossima legge di bilancio a un fondo verde per iniziare un green new deal italiano”: tanto la legge di Bilancio non la fa mica lui, il che gli risparmia il fastidio di trovare le coperture.

Ma, casomai qualcuno avesse creduto davvero alla svolta ambientalista dell’ala sinistra del Partito Trasversale del Cemento, il capogruppo Graziano Delrio ha subito provveduto a smascherare la carnevalata con una strabiliante intervista a Repubblica. Il tema è il Tav Torino-Lione (che non arriverà né a Torino né a Lione, visto che non prevede alcun collegamento ad alta velocità ai due capoluoghi, ma solo un buco tra Bussoleno e Saint Jean de Maurienne). E Delrio è lievemente imbarazzato di ritrovarsi il 7 agosto al Senato sulle stesse posizioni della Lega (per la verità anche di FI, ma con quella il Pd ci ha governato due volte e mezza e ormai è abituato). Così s’è affrettato a prendere le distanze: “La nostra posizione sulla Tav (anche per lui treno è un sostantivo femminile, ndr) è diversa da quella della Lega che ha fatto perdere un anno”. Cioè: quei cementificatori della Lega vogliono il Tav con un anno di ritardo, mentre gli ambientalisti del Pd sarebbero partiti con un anno di anticipo.

Poi via alle supercazzole: “l’alta velocità serve a connettere il paese” (anzi i paesi: quello di Bussoleno e quello di Saint Jean) e “a dare opportunità di lavoro” (450 operai per un cantiere della durata di 15 anni e del costo di 9,6 miliardi); “presenta grandi benefici” (per due o tre appaltatori); “tutti gli studi dimostrano che va fatta” (tranne l’analisi costi-benefici del governo italiano e l’ultimo report della Corte dei Conti francese, che stimano perdite miliardarie); “da ministro ho firmato gli accordi per la Tav” (quelli che accollano all’Italia il 57,9% e alla Francia il 42,1 del buco di 57,5 km nelle Alpi che insiste per l’80% sul territorio francese e per il 20 su quello italiano); “l’opera finanziata dai governi di centrosinistra ha visto una forte riduzione dei costi” (per Macron) e “dell’impatto ambientale” (il cantiere regalerà per 15 anni alla Val Susa appena 12 milioni di tonnellate di Co2, più le polveri sottili, altre emissioni venefiche, cemento, acciaio, rame, amianto e materiali radioattivi, detriti, polveri e camion). Il tutto per duplicare inutilmente una linea merci semideserta (i treni Torino-Modane viaggiano vuoti al 90%) e una linea passeggeri veloce ed efficiente ma tutt’altro che satura (il Tgv). Infatti al Senato il Green Pd voterà contro la mozione No Tav del M5S esattamente come la Lega.
Non che sia una novità. Quando i riflettori erano puntati altrove, Pd, Lega e FI hanno sempre votato insieme per gli inceneritori, le trivelle petrolifere per terra e per mare, il Tap, il Terzo Valico, le Pedemontane e altre opere tanto inutili e costose quanto inquinanti previste dal mitico Sblocca-Italia di Renzi&Delrio. Pazienza se l’Agenzia dell’Energia, contro il clima impazzito, chiede di lasciare sottoterra l’80% dei fossili: altro che petrolio e gasdotti. Tre anni fa questi trafelati neo-gretini bloccarono pure il decreto sulle energie rinnovabili e fecero fallire il referendum sulle trivelle in mare incitando all’astensione con FI e a Napolitano (allora Salvini indossava la felpa No Triv e 13 milioni di italiani, perlopiù di sinistra, bocciarono la politica energetica del Pd, cioè dell’Eni e delle sue consorelle). E approvarono gli ultimi decreti Salva-Ilva, in tutto 12 voluti da destra e sinistra per neutralizzare le indagini della magistratura e garantire l’impunità ai vertici e ai commissari dell’acciaieria avvelenatrice. Ancora a marzo, mentre GreenZinga dedicava a Greta la sua elezione a segretario e si recava in pellegrinaggio al finto cantiere del Tav, il sindaco Pd di Ravenna sfilava in piazza con l’Eni (fra le proteste di Legambiente) contro il blocco delle nuove estrazioni petrolifere imposto dal governo Conte su pressione di quei manigoldi dei 5Stelle. Idem in Europa, dove – secondo un recente studio del Wwf – il Pd si è opposto alla richiesta di spendere il 40% delle risorse finanziarie Ue per attuare gli Accordi di Parigi sul clima, alla proposta di finanziare la gestione delle aree naturali protette e alla norma che aboliva i sussidi ai combustibili fossili (favorevoli solo M5S e, nei primi due casi, Sinistra Italiana). É proprio un’attrazione fatale: tra fossili, ci si intende.

Cover, plagio o evoluzione: Darwin applicato alla musica

Pubblichiamo un estratto dell’inedito di Dente pubblicato sul numero di agosto di Linus.

 

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, Thomas Edison (o chi per lui) inventa il cilindro fonografico. Da quel momento la musica cambia radicalmente vita. Per la prima volta nella storia poteva essere ascoltata al di fuori delle sale da concerto e soprattutto, cosa prima di allora inimmaginabile, si poteva ascoltare lo stesso brano ogni qual volta lo si voleva, in qualunque momento della giornata, una, due, tre, dieci volte al giorno; a piacere. Il potere decisionale passa così dall’esecutore all’ascoltatore, una rivoluzione straordinaria, paragonabile all’invenzione del telegrafo, della TV o della tecnologia satellitare.

Con la conseguente nascita della discografia e quindi dello sfruttamento economico delle registrazioni; con la distribuzione di massa, la musica viene duplicata in centinaia di migliaia di copie tutte uguali. Passa così di salotto in salotto, viene trasmessa dalle radio, riprodotta nelle sale da ballo, sulle automobili, nei supermercati, sui telefoni, i tablet e così via…

Prima di quell’invenzione sbalorditiva c’erano solo due modi per sentire la musica: andare nei posti dove veniva eseguita, negli orari in cui veniva eseguita, oppure… suonarla. Quando non esistevano i dischi e quindi nemmeno i negozi di dischi, nelle botteghe si vendevano gli spartiti delle opere contemporanee e ognuno poteva, nella propria casa, suonare un’aria di Verdi o di Puccini. Poteva in un certo senso fare la sua personale “cover” come la chiameremo oggi. Ma oggi le cover non si fanno più per necessità ma per puro piacere e così una canzone può vivere centinaia di vite differenti, passando attraverso riscoperte, rielaborazioni e nuove interpretazioni. […] Ma una canzone declinata in un altro modo, “coverizzata”, è sempre la stessa canzone o diventa un’altra canzone? L’originale dov’è? Qual è? “È quella registrata sul disco!” direte voi. Ma, prima ancora di finire in un disco, una canzone magari è stata suonata dal vivo in qualche club o al pianoforte dall’autore stesso, nell’intimità della sua casa. Oppure in uno studio di registrazione, davanti a un computer che genera beat e loop, sui quali oggi si scrivono le canzoni, o ancora, in un prato all’aria aperta all’ombra di un albero, come facevo io tanti anni fa, sulle colline intorno a casa mia.. Qual è quella vera? La canzone originale dove si trova? È quella che l’autore aveva in testa ancora prima di mettere le mani su uno strumento? È quella che invecchiando è diventata più bella? Azzurro è più di Celentano o più di Paolo Conte? La “versione originale” esiste? A volte la registrazione più conosciuta non è nemmeno quella, tra virgolette, originale. Succede spesso, per esempio Mr. Tambourine Man di Bob Dylan è stata portata al successo dai Byrds.

E se una canzone viene citata in un’altra canzone? Cosa succede? È una canzone al quadrato? Cosa diventa? Plagio, ladrocinio, omaggio, tributo? Le canzoni spesso s’incontrano, s’intrecciano, si scontrano e, come succede nella natura di questo universo, danno vita a una cosa del tutto nuova e a una successiva e inarrestabile catena di eventi. La citazione “è sintomo d’amore al quale non sappiamo rinunciare”? In un certo senso credo che sia così, la citazione potrebbe, in una sorta di oralità moderna, mantenere in vita le opere del passato esattamente come fa la natura che tiene in vita una specie tramandandone i geni. Anche le canzoni si piegano alla legge di Darwin? Siamo l’esercito del SERT, siamo l’esercito del selfie, siamo l’esercito del surf, chi sopravvivrà, l’originale o la citazione? L’uomo, il gorilla o la formica?

Ci sono alcune canzoni che si potrebbero definire, in questo senso, consanguinee, perché senza la prima non sarebbe mai esistita la seconda così com’è. Si parlava di Mr. Tambourine Man; senza quella canzone non sarebbe esistita Bandiera Bianca di Battito, almeno non così come la conosciamo oggi, con quell’incipit che dice “Mister Tamburino non ho voglia di scherzare…” e senza la canzone di Battiato non sarebbe esistita la mia Chiuso dall’interno che, nel ritornello, riprende quel celebre simbolo di resa e lo carica di un’ulteriore sconfitta. […] Chissà se un giorno anch’io diventerò papà e questa canzone verrà citata in un’altra, entrando a far parte del suo Dna. Se dovesse succedere, in quel codice genetico ci sarebbe anche un piccolo ricciolo spettinato di Bob Dylan, al quale potrete eventualmente indirizzare tutte le lamentele del caso.

*Cantautore

Con la cultura non si mangia. E la Bacchelli? Figuriamoci

Prima la fama e poi la fame. Sono tante le celebrità di ieri e di oggi finite sul lastrico. Il copione si ripete più o meno uguale per tutti: il tenore di vita precipita fino a uno stato di indigenza pressoché assoluta con gas e luce tagliati per morosità, il frigo vuoto e nei casi più estremi un alloggio da mendicare dopo lo sfratto.

Fino alla metà degli anni Ottanta la solidarietà per i personaggi illustri caduti in disgrazia era subordinata al buon cuore di amici e conoscenti. Poi è arrivato il soccorso pubblico. L’occasione fu determinata dalle condizioni precarie di Riccardo Bacchelli, minato da una lunga e costosa degenza ospedaliera. L’autore del monumentale Il mulino del Po non riuscì a beneficiare della legge che porta il suo nome perché morì, per un tragico scherzo del destino, due mesi dopo l’approvazione del fondo che dall’agosto 1985 è destinato a sostenere gli italiani che hanno illustrato la patria.

In 34 anni si contano a decine i protagonisti del mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo e dello sport che hanno usufruito del vitalizio. La prima a riceverlo fu la scrittrice Anna Maria Ortese, grazie a una campagna in suo favore sollecitata dal poeta Dario Bellezza, anch’egli bisognoso qualche anno più tardi della Bacchelli, ma concessagli fatalmente in punto di morte. L’elenco è nutrito e annovera, tra gli altri, l’attrice icona del cinema anni Cinquanta Alida Valli, il cantante Umberto Bindi discriminato per la sua omosessualità, l’attore Franco Citti protagonista di Accattone di Pasolini, Fulvia Colombo prima annunciatrice Rai, Tina Lattanzi storica doppiatrice delle dive di Hollywood.

Destino sempre amaro per i poeti. Da ricordare Alda Merini, la “voce” dei Navigli sommersa dai debiti, Valentino Zeichen confinato in una baracca sulla Flaminia a Roma e Pierluigi Cappello, paralizzato su una sedia a rotelle. L’età avanzata apre voragini anche nelle vite degli sportivi, costretti in tarda età a “gareggiare” con pensioni minime. Tra gli atleti sovvenzionati il pugile Duilio Loi, il campione di sci Zeno Colò, il pilota automobilistico Gigi Villoresi.

Le procedure per ottenere fino a duemila euro esentasse al mese non sono facilissime e la decisione spetta al governo sentito il parere, formalmente consultivo ma di fatto decisivo, di una commissione preposta (oggi formata dall’ex ministro Luigi Berlinguer, l’amministratore delegato dell’Istituto Luce Roberto Cicutto e la scrittrice Dacia Maraini).

Al netto delle personalità frattanto decedute, sono venticinque i viventi che percepiscono il vitalizio. Il più noto è Daniele Del Giudice. Scoperto da Italo Calvino, vincitore di numerosi premi e non più presente a se stesso per colpa dell’Alzheimer, lo scrittore è ora ristampato nella più prestigiosa collana dei classici Einaudi. Un altro autore di primo piano è il sardo Gavino Ledda che con il suo Padre padrone scosse l’Italia negli anni Settanta (la versione cinematografica dei Taviani vinse la Palma d’oro a Cannes).

Il novero dei poeti contempla i nomi di Giovanni Cagnone, Carlo Villa, Anna Maria Cascella, Livia Livi. Ignoti al grande pubblico, sebbene la legge prescriva tra i requisiti “chiara fama”, ma certo con una storia personale di riconoscimenti. Più singolare il caso dell’ottantenne friulano Arduino Della Pietra. Per anni bagnino a Lignano Sabbiadoro con la passione dei versi, fu bersagliato nel 2006 da polemiche politiche e letterarie perché “non presente in nessuna antologia di rilievo”.

Se con la poesia non si campa, non se la passano altrettanto bene i professionisti che hanno animato i teatri d’opera. Vivono con il sussidio il regista lirico Giuseppe Giuliano e la soprano Maria Parazzini. Il mondo delle canzonette è ugualmente spietato nel trasformare il successo in rovina. Gianni Pettenati, che cantava Bandiera gialla negli anni Sessanta, gode del sostegno economico in virtù dei suoi numerosi testi sulla storia della musica leggera italiana.

Raccontano un’Italia vintage e troppo colpevolmente dimenticata altri due cittadini vinti dalle avversità: Tommaso Di Ciaula, classe 1941, poeta-operaio che alla fine degli anni Settanta pubblicò con prefazione di Paolo Volponi il volume Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del Sud e Francesco Trincale, cantastorie siciliano che per decenni ha intonato le sue ballate davanti alle fabbriche, nei filobus e nelle piazze di Milano.

Ma forse la parabola più edificante – che riserviamo come ultima illustrazione della legge Bacchelli – è quella del cardiochirurgo Lionello Ferrari. Dopo una vita spesa a operare bambini in Africa e contributi Inps non sempre regolari, si è ritrovato in gravi difficoltà. Qui forse c’è tutto il senso di gratitudine di una collettività che restituisce un premio a coloro che si sono dedicati al benessere fisico e spirituale del prossimo.

Una fine da polli. Arrosto: caldo e incendi fanno strage di uccelli a Londra e Mantova

Una vita da cani, una morte da polli. Arrosto: il caldo fa strage di uccelli nelle campagne inglesi e italiane. Il primo caso è di qualche giorno fa nel Lincolnshire, dove sono morti migliaia di polli a causa delle altissime e inusuali temperature, anche oltre i 38° C. Ancora poco chiare, invece, le condizioni di vita degli uccelli all’interno della fattoria Moy Park, una delle principali del Regno Unito, che rifornisce supermercati come Tesco e che è sostenuta da Red Tractor, un marchio a garanzia del cibo “coltivato con cura” e “prodotto responsabilmente”. Almeno sulla carta.

Mentre i dipendenti dell’azienda – che per giorni hanno trasportato e ammucchiato carcasse fuori dai capannoni – si difendono dalle accuse di maltrattamenti e crudeltà, gli animalisti insorgono, denunciando ancora una volta gli allevamenti intensivi: “Nessuna scusa. La tecnologia esiste per raffreddare edifici come questi… Anche nelle giornate normali quelle scatole di latta sono impossibili”.

L’altro caso, invece, è accaduto a Mantova, dove un incendio ha distrutto due capannoni di un allevamento di pollame vicino a Castiglione delle Stiviere: per spegnere il rogo, provocato da un cortocircuito, ci sono volute diverse ore e sei squadre dei Vigili del fuoco. I danni alle strutture sono ingenti, e quasi tutte le 72mila galline allevate sono morte carbonizzate. Nessun ferito tra gli umani.

Il monolite mai visto e la rincorsa del canguro

Come per tutte le principesse c’è un “uomo della vita”, così per me c’è sempre stato il “viaggio della vita”: l’Australia. Sarà per il cartone animato “Georgie” con cui sono cresciuta (“Candy Candy” mi faceva schifo), sarà per il mio spirito d’avventura (volevo fare l’archeologa, capirai), quel continente era nel mio immaginario come Marte per Luca Parmitano. 1999: ce la faccio, raggiungo il budget necessario per volare via per tre settimane. Pochissime, se si pensa all’estensione dell’Australia, ma già così un miracolo. Delego a un’agenzia il compito di prenotare voli e hotel (non c’era Internet), secondo una pianificazione che preparavo da dieci anni: Sidney, Adelaide, Kangaroo Island, Heron Island, il deserto. Chiedo di prenotare una macchina per arrivare ad Ayers Rocks, il mitico monolite di arenaria sacro agli aborigeni. Ad Alice Springs ritiriamo l’auto a noleggio: un’utilitaria.

Ora, con tutta la buona volontà, percorrere 450 km tra la highway a una corsia (con i Tir in direzione contraria) e poi la Route 4 sarebbe stata impresa titanica. Ci proviamo, ma siamo costretti a fermarci a metà strada e a rifugiarci in una vecchia stazione della posta. Camminiamo a piedi nel deserto, per cercare almeno di conservarne il ricordo. E corriamo a gambe levate verso la nostra piccola auto, quando un canguro alto due metri si mette a rincorrerci.