Solo un assaggino: l’ultima vendetta dei rider americani

Ebbene sì, anche i rider, nel loro piccolo, si incazzano. Turni massacranti, consegne a tutte le ore e con qualsiasi condizione meteo, tutele quasi nulle o comunque minime e faticosamente conquistate. Il quadro, insomma, è fosco e basta tenerlo in considerazione per dare a una delle notizie degli ultimi giorni una interpretazione ben specifica. Secondo un sondaggio diffuso dal più grande distributore alimentare americano, Us Foods, che ha un fatturato di 24 miliardi di dollari l’anno, negli Stati Uniti quasi un terzo dei fattorini addetti alle consegne assaggia il cibo che deve consegnare. La base statistica è formata da 1500 soggetti, di cui 500 sono rider, gli altri clienti. Il 28 per cento di chi consegna il cibo ha ammesso di aver almeno una volta fatto un assaggio del prodotto che stava trasportando. Il 54 per cento ha detto di non poter resistere all’“annusamento”. Curiosità? Fame? Può darsi. Vendetta? Pure.

“Ci dispiace dover riportare che certe volte l’impulso ha il sopravvento sui fattorini ed essi violano il loro sacro dovere mentre sono impegnati nelle consegne”, ha spiegato US Foods. L’85 per cento degli utenti ha suggerito che sarebbe il caso, per le attività che offrono il servizio di cibo a domicilio, utilizzare etichette di garanzia sulle confezioni dei prodotti, un allarme “anti-manomissione” per capire così se la pietanza sia stata toccata nel passaggio dalla cucina alla porta di casa. Intanto, resta il dubbio e il sondaggio nutre il peggior incubo dei consumatori che almeno una volta nella vita, al ristorante, si sono chiesti se qualcuno avesse sputato nel loro piatto o se il cibo al suo interno fosse per caso stato contaminato. Ma, come si dice: occhio non vede e cuore non duole (e gola non soffre).

Fa più male, invece, quando la rivendicazione ha conseguenze palesi e d’immagine. Qualche mese fa, in Italia, i rider dell’associazione Deliverance Milano hanno pubblicato sulla loro pagina Facebook l’elenco di tutti i vip che non hanno mai lasciato mance o che ne hanno lasciate di poco sostanziose se paragonate al loro status. Una provocazione per puntare, come poi hanno ammesso, i riflettori sulla loro condizione. Lo stesso sondaggio racconta anche che un terzo dei clienti non lascerebbe di mancia più di 5 dollari (circa 4.5 euro) mentre il 28 per cento pagherebbe fino a 15 dollari. Il 95 per cento ha affermato di dare la mancia al rider, il 63 per cento di farlo direttamente attraverso la app. Molto dipende dal senso di colpa: il 53% del campione ha ammesso che l’entità della mancia è influenzata dalle condizioni meteo. Se va bene.

Resta la domanda: hanno ragione ad arrabbiarsi? E, soprattutto, hanno ragione a prendersela con i clienti? Basta una breve ricerca sulla piattaforma Reddit per raccogliere storie divertenti e tragiche di fattorini e delle loro vendette: c’è il ragazzo che dopo aver bussato per 15 minuti alla porta senza risposta è risalito in macchina col cibo e non si è fermato quando ha visto il cliente rincorrerlo dallo specchietto retrovisore (“Ordina ogni sera e paga sempre solo con la carta: mai un penny di mancia – è stata la sua premessa – così impara”). C’è la storia del rider che ha dovuto attraversare tutta la città per consegnare del cibo ultracostoso per la festa di un dipendente di una importante azienda. All’arrivo, ha trovato decine di post-it con le istruzioni e, seguendoli uno dopo l’altro, si è ritorvato anche a dover depositare il cibo nei contenitori sul buffet e ad apparecchiare. “Finalmente incontro il responsabile – spiega il fattorino – e gli dico che è tutto sistemato secondo indicazioni. Mi dice ‘Ok’ e va via. Certo, non mi aspettavo la mancia ma almeno un ‘grazie’ sarebbe stato carino”.

Salò, il film profetico di PPP sul massacro tribale: il suo

È una storia tragica quella di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Non solo perché è annodata a uno degli eventi più drammatici vissuti dal nostro paese dal secondo dopoguerra. Non tanto perché la ricezione del film, proprio per questo motivo, ne è stata profondamente condizionata. Quanto perché è servita a rendere inefficace uno dei concetti-chiave della visione poetica del suo autore. Quel concetto che Pier Paolo Pasolini, alla ricerca di una consonanza tra Cinema e Vita, aveva espresso qualche anno prima equiparando l’azione del Montaggio a quella della Morte (Osservazioni sul piano-sequenza, 1967). Due termini fondamentali per capire la sua opera e che, accostati qui come una correspondance baudelaireiana, lo avevano portato a sostenere il celebre paradosso in cui “solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve a esprimerci”.

Se dunque si accetta che sia la Morte ad assegnare il senso definitivo alla Vita come suggerisce Pasolini, diventa decisiva l’interpretazione che si vuole dare ai fatti avvenuti all’Idroscalo di Ostia nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975. Interpretarli come una legittima difesa conseguente a un rapporto omosessuale mercenario, ovvero come la versione fissata dal processo d’appello che ancora oggi è quella “ufficiale”? Oppure come un infame agguato in cui concorrono criminalità, servizi deviati e massoneria, come sembrano invece dimostrare le innumerevoli prove e testimonianze raccolte nel corso degli anni (e ben organizzate da Simona Zecchi in Massacro di un poeta)? Il giudizio sulla vita del poeta-cineasta – così come sulla sua ultima opera – cambia a seconda del modo nel quale viene valutata la sua scomparsa. E proprio nella distanza tra le due interpretazioni è situata la maledizione di Salò. Un’opera premonitrice quanto ineffabile, la cui valutazione ha inevitabilmente risentito degli eventi che ne hanno preceduto l’uscita. Sopraffatta da ciò che intorno a essa si è coagulato, irrimediabilmente segnata dal “massacro tribale” di cui è stato oggetto il suo autore.

Fin dalla sua genesi d’altronde, Salò si delinea come un’opera atipica per Pasolini, a cominciare dal fatto che per la prima volta eredita un progetto non suo. Inizialmente il film era stato infatti proposto a Sergio Citti dalla PEA di Alberto Grimaldi, e il regista di Accattone vi aveva collaborato dando qualche suggerimento – tanto che la prima versione della sceneggiatura è firmata dallo stesso Citti insieme a Pupi Avati e Claudio Masenza. È solo quando il “pittoretto della Maranella” se ne “disamora” che Pasolini lo rileva, individuandolo come il progetto adatto per rimarcare la cesura con la Trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte), dalla quale aveva da poco preso le distanze attraverso la famosa “abiura”. Tuttavia a ben vedere Salò ha più di un elemento di continuità con la trilogia che lo precede, sebbene essi siano tutti sottoposti a netti cambiamento di segno: il corpo e i rapporti umani – che ne Il fiore erano “ancora reali, benché arcaici, benché preistorici” – vengono qui reificati e sclerotizzati; il sesso là vissuto liberamente e gioiosamente, qui muta in un atto cupo, coatto e regolamentato; la presenza della dimensione onirica passa dal sogno (dell’Eden pre-storico) all’incubo (della Storia e del suo andamento ciclico).

Proprio la (contro)narrazione organizzata intorno al tragico omicidio e l’incapacità di riconoscere gli elementi di continuità/discontinuità con l’opera pasoliniana, sono stati alla base del travisamento del senso di Salò. Che rimane una delle opere più complesse dell’autore come sintetizzò subito Mario Soldati (“l’opera di un poeta che ha ficcato intrepidamente lo sguardo nella tragica oscurità del cuore umano e che ha tentato di risalire dai sintomi alla causa”), nella quale la sua indiscutibile dimensione “corsara” e profetica tocca forse il proprio apice. Al punto che nella dimensione allegorica di matrice medievale che informa il film c’è chi vi ha addirittura individuato la prefigurazione dei reality show, laddove troviamo egualmente uno spazio delimitato e sottoposto a regole ben precise, una narrazione che guida e precede l’azione, prove da superare e le delazioni/nomination che portano alle “eliminazioni”.

D’altronde la maledizione di Salò riflette quella che segnò il testo di cui il film è la trasposizione. Le 120 giornate di Sodoma fu infatti scritto – senza peraltro essere completato – dal “divin marchese” De Sade durante la sua prigionia alla Bastiglia nel 1785, ma il manoscritto originale fu smarrito durante la sua “presa” del 14 luglio 1789 e bisognerà addirittura attendere l’inizio del secolo scorso perché venga pubblicato. Quella del film invece ha inizio nell’estate del 1975 quando, durante la chiusura ferragostana, vengono rubate alcune pizze di negativo dagli stabilimenti della Technicolor. Uno “strano furto” cui segue un tentativo di estorsione e che si delinea come la prima tappa del mortifero percorso terminato all’Idroscalo. La maledizione del film prosegue anche dopo, con denunce e sequestri “per oscenità” che hanno reso a lungo l’opera invisibile. Almeno fino al restauro del 2015 della Cineteca di Bologna che l’ha riportata al magnifico cromatismo originario e che è stata giustamente premiata con il “Leone” della sua categoria alla Mostra di Venezia. Permettendo così, a quarant’anni di distanza una nuova, finalmente regolare, distribuzione.

Oggi come allora comunque, Salò rimane un’opera perturbante, dalla quale è impossibile uscire indenni.

Inail, crescono i morti sul lavoro. E il governo si è scordato il decreto

Sembra non volersi arrestare la crescita dei morti sul lavoro in Italia: tra il primo gennaio e il 30 giugno sono stati in 482 a perdere la vita mentre erano in servizio o si recavano in ufficio, in fabbrica o al cantiere. Un aumento di 13 casi rispetto allo stesso periodo del 2018, durante il quale le segnalazioni arrivate all’Inail sono risultate inferiori del 2,77%. E il fatto sorprendente è che buona parte di questo peggioramento ha colpito il Sud e le Isole, zone che per giunta negli stessi mesi hanno pure registrato una perdita di occupazione. Insomma, i posti sono diminuiti e i decessi hanno mostrato un incremento.

In Sicilia, per esempio, siamo passati da 25 decessi del primo semestre 2018 ai 41 del 2019. In Puglia da 15 a 26, in Abruzzo da 7 a 14, in Campania da 33 a 39. L’intero Meridione ha già sacrificato sull’altare di uno stipendio 150 persone, contro le 121 coinvolte in incidenti mortali nel periodo tra gennaio e giugno dell’anno precedente. Tra Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia e Liguria la situazione è rimasta quasi stabile con 124 denunce nel 2018 e 123 nel 2019.

Nel ricco Nord-Est, invece, c’è stata una discesa del 21%: da 133 a 105. Ma come mai questa inaspettata disparità geografica? È difficile trovare una sola spiegazione, ma una piccola indicazione può arrivare guardando la divisione per settori. Nell’industria e nei servizi, infatti, i casi mortali sono diminuiti passando da 419 a 409. L’aumento delle tragedie, quindi, è totalmente dovuto all’agricoltura, nel quale le vittime del lavoro sono state 22 in più. Insomma, considerando che il Sud ha un’economia più legata ai campi, questo potrebbe aver contribuito al dramma che leggiamo nelle tabelle dell’Inail. Quanto invece alle modalità, sono aumentate sia le morti avvenute durante il lavoro – da 331 a 338 – sia quelle dovute a incidenti lungo il tragitto, da 138 a 144. Va come al solito ricordato che tutti questi numeri sono sottostimati, perché naturalmente all’istituto non arrivano le segnalazioni dei casi occorsi ai lavoratori in nero.

Tuttavia, l’Inail a fine anno adopererà come sempre una scrematura, verificherà i requisiti caso per caso e ammetterà ai risarcimenti solo una parte delle denunce. Quella delle morti sul lavoro, comunque, resta una tragedia dai numeri inaccettabili, benché continui inspiegabilmente a fare fatica a scavarsi un posto nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. A maggio, durante un’intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno, il sottosegretario Claudio Durigon (Lega) aveva promesso un decreto sulla sicurezza sul lavoro entro giugno, ma ancora non si è visto.

Per rendere utile il Tav serve tornare agli Anni 60

Al di fuori del paradiso terrestre nessun pasto è gratis, a parte l’eccezione della moltiplicazione dei pani e dei pesci. E se qualcuno consuma un pasto senza sostenerne l’onere è perché qualcun altro lo ha pagato al suo posto senza consumarlo. Le grandi opere sono pasti molto costosi e nessuna di esse è gratis, ma questo piccolo particolare viene tenuto abilmente nascosto a un’opinione pubblica ingenua dalla quasi totalità dei media e delle forze politiche.

Gli uni e le altre sottolineano l’utilità delle grandi opere e dalla descrizione dei loro vantaggi traggono erroneamente, violando quella che è nota come legge di Hume, la prescrizione della loro realizzazione. Che sarebbe come sostenere che quando entriamo come consumatori in un grande magazzino dovremmo portarci via una grande quantità di beni, essendo tutti potenzialmente utili per noi. Ma in realtà non lo facciamo, poiché troviamo un ostacolo nel nostro vincolo di bilancio il quale ci comunica che non ce li possiamo proprio permettere. Così dobbiamo limitarci a comperare solo quelli che riteniamo valgano più dei soldi che ci chiedono in cambio.

Perché questa semplice logica delle scelte private evapora come neve al sole quando passiamo alle scelte pubbliche? Perché semplicemente le scelte pubbliche si fanno coi soldi degli altri e in particolar modo le grandi opere si fanno a debito, usando i soldi degli italiani di domani i quali non hanno alcuna possibilità di manifestare oggi il loro dissenso al riguardo.

Il caso Tav è emblematico al riguardo. Nessuno sostiene che la Torino-Lione sia completamente inutile, ma il gruppo di esperti del professor Marco Ponti ci ha spiegato che i suoi costi eccederebbero di gran lunga i benefici.

Come è stata accolta questa analisi? Col lancio sincronico di uova e pomodori mediatici. Ma cosa fa caro prof. Ponti, somma algebricamente i benefici nostri e i costi che verrebbero pagati da altri, togliendoci l’illusione dei pasti almeno semi-gratis? Che cosa ci importa del costo che ricadrà attraverso il contributo europeo sulla casalinga di Tallin, sull’idraulico di Danzica e sul pescatore di Setubal? E, poiché restiamo ancora col segno meno, cosa ci importa degli oneri che ricadranno attraverso il debito pubblico sugli italiani di domani?

Essi non comprano i giornali di oggi né votano i partiti di oggi.

Il vincolo di bilancio, quello che si manifesta ogni volta che entriamo in un grande magazzino, non esiste nelle scelte pubbliche: è solo un’illusione ottica evocata da quei quattro gatti, ma forse solo tre, di liberali rigoristi. Forse qualcuno ha scritto che le grandi opere saranno pur tutte utili ma che non ce le possiamo permettere tutte, almeno non tutte assieme? Io non lo ho letto, non almeno sui giornali a più ampia diffusione, quelli con le maggiori chances di informare, e informando correttamente anche di educare, i cittadini.

La Torino-Lione è una sorta di Eurotunnel sotto le Alpi, paragonabile per i costi di realizzazione ma non per i livelli di traffico attesi al link sottomarino tra Inghilterra e Francia. È indubbio pertanto che sia in grado di generare benefici, tuttavia la domanda chiave è perché essi non siano del medesimo ordine di grandezza del più famoso cugino franco-britannico. La risposta è semplice: l’Eurotunnel sotto la Manica è unico mentre di eurotunnel sotto le Alpi ve ne sono molteplici.

A livello ferroviario esso sarebbe il quarto, dopo i due nuovi link svizzeri del Gottardo e del Loetschberg e il nuovo Brennero in fase di costruzione. Seconda considerazione: tutti questi link ferroviari hanno almeno un gemello stradale in concorrenza e la Torino-Lione ne ha ben tre, aggiungendosi al Fréjus stradale anche il Bianco e Ventimiglia; infine bisogna considerare i collegamenti, sia ferroviari che stradali, con Austria e Slovenia dal Friuli.

Le merci sono in grado di attraversare le Alpi grazie ad almeno una dozzina di collegamenti rilevanti, tra ferroviari e stradali. Invece tra Inghilterra e Francia vi è solo l’Eurotunnel che, essendo privo di alternative stradali, obbliga i camion a salire in treno, in quella che è chiamata autostrada viaggiante, oppure a imbarcarsi. Tutto il resto delle merci viaggia direttamente via mare, come ha sempre fatto nei secoli. Tra le merci che usano l’Eurotunnel, inoltre, più del 90% utilizza la modalità camion su treno rispetto al solo treno. Nel caso della Torino-Lione questa parte della domanda avrebbe tuttavia valide alternative autostradali e non è proprio detto che sia disponibile a salire in treno spontaneamente.

Che fare dunque? Realizzare il Tav e lasciarlo semivuoto, dando ragione ai suoi critici, oppure chiudere le diverse alternative stradali e ritornare alla situazione dei primi anni ’60, quando i due trafori non c’erano e la scelta per le merci dalla Francia era solo tra il Fréjus di Cavour e l’Aurelia dei romani? A queste condizioni la Torino-Lione potrebbe anche essere un’idea di successo.

Atlantia-Alitalia, il conflitto d’interessi riesumato in barba alle norme Ue

Fu un divorzio imposto dall’Europa e per buon senso. Venti anni fa Alitalia fu costretta a vendere di malavoglia la società Aeroporti di Roma (AdR) alla famiglia Romiti. Dopo un lungo giro si torna al punto di partenza e le due aziende vengono rimesse insieme con una manovra che lascia di sale gli esperti del trasporto aereo. I quali sanno bene che essa cozza in modo palese contro le regole comunitarie risalenti al 1996 e recepite dall’Italia nel 1999 che proibiscono intrecci tra aziende aeroportuali e compagnie aeree per evidenti motivi di conflitto di interessi. Basta riflettere su un solo interrogativo per capire quanto quelle disposizioni siano giuste: può una società che si trova a gestire uno scalo e una compagnia aerea trattare tutte le altre compagnie come quella di sua proprietà?

Il matrimonio ora è a parti invertite perché Alitalia che alla fine del secolo passato era una florida azienda pubblica (proprietà Iri) è ora invece con il cappello in mano a pietire l’elemosina di AdR che nel frattempo si è arricchita parecchio. Per due motivi. Primo: dai Romiti è passata al gruppo Atlantia dei Benetton, diventata una potenza grazie alle concessioni ottenute dallo Stato, i 3 mila e passa chilometri di autostrade più la stessa AdR (aeroporti di Ciampino e Fiumicino). Secondo motivo: a Natale 2012 il governo Monti permise a Fiumicino di aumentare di più del 10% le tariffe aeroportuali (pagate dai viaggiatori con i biglietti aerei). Da quel momento la società di gestione dello scalo romano macina utili e dà dividendi stellari ai soci, quasi per intero i Benetton: 835 milioni circa in 5 anni. È anche con questi soldi che ora Atlantia, strattonata dal governo nonostante il crollo del ponte Morandi di Genova di un anno fa, entra da protagonista nel capitale Alitalia insieme alla compagnia Usa Delta, alle Fs e al Tesoro. Gli ultimi due dovrebbero avere la maggioranza, ma è escluso che possano sobbarcarsi la gestione di Alitalia. Che spetterà alla parte privata, i Benetton. A fine corsa, quindi, è probabile che AdR comandi su Alitalia.

“Tutto ciò che riguarda Alitalia da un decennio è sconcertante”, spiega Domenico Cempella, l’amministratore di Alitalia che vent’anni fa fu costretto a cedere Aeroporti di Roma. Anche Alessio Quaranta, riconfermato da poco direttore dell’Enac (Ente dell’aviazione civile), non nasconde che il problema ci sia anche se ritiene possa essere superabile con un incremento di attenzione da parte delle istituzioni di controllo, la stessa Enac e l’Art (l’Autorità dei trasporti). Ugo Arrigo, l’economista consigliere del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, avverte: “Non credo che l’Europa non avrà nulla da ridire”. Poi spiega: “Quandò nel 1999 il governo D’Alema privatizzò Adr si premurò di vietare alle compagnie aeree di acquisire il controllo degli aeroporti e viceversa. Ora facciamo finta che quelle regole non esistano più?”.

Arrigo si riferisce al decreto del 25 febbraio 1999 che vieta intrecci tra vettori e società aeroportuali. Fu emanato dopo che il 15 ottobre di tre anni prima l’Europa era intervenuta con una Direttiva (numero 67) in cui vietava alle compagnie aeree di controllare le società di handling (attività aeroportuali a terra). La norma è stata applicata a tutto campo per impedire commistioni tra compagnie e aeroporti. La Direttiva Ue fu recepita dall’Italia con un decreto legislativo il 13 gennaio 1999. Tra i grandi aeroporti europei solo a Francoforte Lufthansa ha una piccola partecipazione dell’8,44%.

Enigate, così il grande accusatore ha ricostruito la mega tangente

Personaggi da romanzo, da grande intrigo internazionale, quelli che sfilano al processo milanese Eni-Nigeria. O da film con George Clooney, che sarebbe perfetto per interpretare Ednan Agaev, diplomatico russo, uomo dei servizi segreti, poi intermediario con il governo nigeriano per conto di Shell, alleata di Eni nell’affare in cui – secondo l’accusa – è stata pagata una super-tangente da 1,092 miliardi di dollari su complessivi 1,3 miliardi versati nel 2011 da Eni e Shell per ottenere la licenza per l’esplorazione dell’immenso campo petrolifero Opl 245.

Quale attore potrebbe invece rivestire i panni di Vincenzo Armanna? È il personaggio più enigmatico di questo plot internazionale che vede all’opera ministri, presidenti, spie, manager, affaristi, intermediari, portaborse, faccendieri. Dirigente infedele cacciato dall’Eni perché faceva la cresta sulle note spese. Uomo d’azienda (“Da Eni non si esce mai”) che si oppone alla violazione delle regole della compagnia nell’affare nigeriano. Imputato per aver intascato una parte della super-tangente. Uomo con buoni contatti con i servizi segreti italiani, israeliani e americani. Giustiziere che nel 2014 denuncia per corruzione i vertici Eni ai magistrati di Milano, e poi nel 2016 ritratta. Chi è davvero l’enigma Vincenzo Armanna? È comparso come testimone-imputato al processo di Milano il 17, 22, 23 e 24 luglio. Ne è uscito a pezzi, secondo Eni (e molti giornali al seguito), smentendosi e contraddicendosi. Ma è davvero andata così? Proviamo a raccontare Armanna secondo Armanna, come esce dalle quattro udienze in cui ha risposto alle domande di pm, giudici, avvocati.

Nel 2010, quando questo intrigo nasce, Vincenzo Armanna è un manager Eni che vive in Nigeria. Risponde direttamente al capo della compagnia petrolifera nel Paese africano, Roberto Casula. Ha, sopra di lui, l’allora capo Esplorazioni, Claudio Descalzi, e l’amministratore delegato, Paolo Scaroni. “In Nigeria ero un’antenna per Eni, siamo quattro o cinque al mondo a fare questo lavoro”. Vede con i suoi occhi le lunghe trattative per Opl 245, un campo d’esplorazione che vale almeno 2 miliardi di dollari. Vede anche che nelle trattative s’infila subito un intermediario nigeriano, Emeka Obi, che pretende 200 milioni di dollari di commissione. Rappresenta il governo della Nigeria? No. Rappresenta l’ex ministro del petrolio Dan Etete, il vero padrone di Opl 245, che aveva concesso il giacimento alla società Malabu, cioè a se stesso? Neppure. Prima sorpresa: Obi rappresenta gli italiani. Dan Etete fa addirittura una scenata, a una riunione, perché lui non ha dato alcun mandato a Obi. “Descalzi mi disse che Obi rappresentava Scaroni”, racconta Armanna. Ed era stato scelto da un grande amico di Scaroni, Luigi Bisignani, ex P2 ed ex tante altre cose. Forse Descalzi avrebbe fatto volentieri a meno di Obi, ma non poteva escluderlo dalla partita: perché Scaroni era il capo; perché “aveva paura delle campagne di stampa di Bisignani”; e perché “temeva che poi Bisignani lo ostacolasse nella nomina a numero uno di Eni” (Descalzi diventa in effetti amministratore delegato nel maggio 2014).

Armanna non infierisce su Bisignani: “amico da molti anni”. Ma ribadisce che Obi chiede 200 milioni “per gli italiani” e che rappresenta Scaroni e Descalzi. Poi non è chiaro su come dovessero essere divisi quei soldi. La mediazione di Obi poteva valere 5 o 10 milioni, eppure Armanna dice che i 200 dovevano essere “tutti per Obi, salvo una quota irrisoria sui 20 milioni per Bisignani e Di Nardo”, l’altro mediatore italiano. Racconta che Bisignani gli ha chiesto di mandare una nota su Obi a Scaroni. Finora aveva detto di non aver scritto anche la cifra dei 200 milioni. In aula si corregge: “Scrissi la cifra, ma a mano, in matita, così poi Scaroni poteva cancellarla”. Un modo per far arrivare un’informazione delicata solo al capo.

Dopo mesi, la mediazione Obi salta. Era davvero improponibile dare 200 milioni a un intermediario che non aveva alcun mandato dal venditore (né quello formale, Malabu, né quello reale, Obi). Cambia lo schema. Nuovo mediatore diventa Gianfranco Falcioni, imprenditore italiano in affari con Eni in Nigeria. E l’operazione, prima apertamente indecente, diventa “safe sex” fatto “con il condom”, scrive l’Economist già nel 2012: Eni nel 2011 paga 1,092 miliardi di dollari su un escrow account di JpMorgan a Londra su cui opera il governo della Nigeria, che poi provvede a distribuirli ai conti nigeriani di Malabu per farli arrivare – secondo il pm Fabio De Pasquale – a Dan Etete, al presidente della Repubblica Goodluck Jonathan, ad altri politici nigeriani. Una parte, conferma Armanna, torna agli italiani di Eni. Glielo racconta Victor, il potente capo della sicurezza della villa del presidente, il Quirinale nigeriano: 50 milioni in banconote da 100 dollari sono stipati in due trolley e portati a casa di Roberto Casula. Eni aveva cantato vittoria quando, sei mesi fa, fu interrogato in aula Victor Nwafor, che disse di non saperne niente e di non aver mai visto né trolley, né Armanna. Ma era il Victor sbagliato: era soltanto “un bodyguard”. Il Victor giusto e le sue rivelazioni, spiega Armanna, possono essere confermati da un testimone, “un colonnello del Mossad”, e da Salvatore Castilletti, un agente dell’Aise, il servizio segreto italiano dell’estero con cui Armanna aveva rapporti, per il suo lavoro in Nigeria che aveva a che fare anche con la sicurezza dei manager italiani e perché “mio padre aveva contatti con l’allora direttore dell’Aise Alberto Manenti”. Dai servizi italiani, dice, “ho anche ricevuto l’indicazione di quale dirigente di una banca estera sarebbe potuto essere sensibile alla ricezione di lettere anonime”. Sì, perché Armanna ne scrive una al capo della compliance della Bsi in Svizzera, a cui sta per arrivare il malloppo da Londra. Bsi blocca il maxibonifico per sospetto riciclaggio e rimanda indietro i soldi, poi respinti anche da una banca libanese e infine girati in gran parte (800 milioni) da JpMorgan su conti Malabu in Nigeria. Qualcosa arriva anche ad Armanna: 1,2 milioni di dollari. Da lui spiegati prima come “l’eredità del padre”, poi come proventi di altri affari. In aula ammette: “È vero, dichiarai una cosa parzialmente vera”.

L’aria al processo si surriscalda quando l’accusa deposita atti che vengono da un altro procedimento (quello sul cosiddetto complotto che l’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara avrebbe ordito insieme ad Armanna, giocando di sponda tra le Procure di Trani e Siracusa, per depotenziare le indagini dei magistrati milanesi su Eni in Nigeria e in Algeria). Amara, arrestato nel febbraio 2018 per corruzione, cambia fronte e parla. In una memoria sostiene che il numero due di Eni, Claudio Granata, avrebbe fatto pressioni su Armanna nel 2016 per fargli ritrattare le accuse di corruzione che aveva mosso a Descalzi quando nel 2014 era andato alla Procura di Milano a raccontare delle tangenti nigeriane. Le difese s’indignano. Ma Armanna conferma l’esistenza del “patto della Rinascente” stretto nel 2016 dopo un paio d’incontri con Granata nei pressi del grande magazzino milanese: “Granata, per conto di Descalzi, mi ha chiesto se potevo fare una memoria in cui eliminavo la corruzione in relazione a Descalzi stesso. Granata mi ha dato un foglio di carta con su scritti alcuni punti della memoria. E io li ho copiati. Quindi la memoria in parte l’ho scritta io e in parte, in particolare ai punti F1, F2 e F3, l’ho trascritta. Questa memoria l’ho depositata in Procura a Milano il 26 maggio 2016. In cambio, mi fu offerto il rientro in Eni”. Armanna accetta il patto. Cambia difensore, lasciando l’avvocato Luca Santa Maria. E scrive la sua nuova versione per la Procura, dopo aver ricevuto indicazioni sui tre punti da inserire attraverso la app Wickr, i cui messaggi si autodistruggono, da Gierre (Granata) e Zorro69b (Amara). Obiettivo: “Minare i verbali su Descalzi nei passi sulla corruzione”. “Ne ho parlato in due incontri anche con l’avvocato Michele Bianco”, il capo staff processi di Eni. Bianco è presente in aula: “Ma cosa dici?”, urla paonazzo, “Ma quando? Ma dove?”. Eni smentisce e querela: Armanna per diffamazione e Amara per calunnia. La compagnia ripete di aver versato i soldi per Opl 245 su un conto del governo nigeriano e di non essere responsabile dei successivi passaggi del denaro. Poi, alla terza udienza dell’interrogatorio di Armanna, il 23 luglio, Eni sfodera la sua “arma fine di mondo”: il difensore di Casula, Giuseppe Fornari, dice di aver rintracciato una annotazione della polizia giudiziaria di Torino che contiene stralci della registrazione di un colloquio del 26 luglio 2014 fra Armanna e altre tre persone che, secondo le difese, proverebbe che le dichiarazioni dell’ex manager non sono genuine.

L’avvocato di Eni, Nerio Diodà, si unisce alla richiesta di Fornari di mettere a disposizione quella intercettazione. Nel processo entra così una registrazione audio e video acquisita agli atti dell’altro procedimento, quello sul cosiddetto complotto: nel video, Armanna (registrato a sua insaputa, probabilmente proprio per usare quel video contro di lui), riferendosi ad alcuni manager Eni dice ad Amara che: “È meglio se li tolgono… perché sono stati pesantemente coinvolti nella (Opl) 245 e non escluderei che arrivi un avviso di garanzia… mi adopero perché gli arrivi”. E ancora: su Eni sta per arrivare “una valanga di merda”. In realtà Eni già conosceva quel video almeno dal febbraio 2018 (quando la Procura di Milano depositò la trascrizione per affrontare il riesame di Massimo Mantovani, ex capo del settore legale di Eni indagato nel procedimento sul “complotto”). Ma solo ora le difese – con mossa più mediatica che processuale – scoprono che è la prova di un altro complotto, ordito contro la compagnia e i suoi manager, che toglie ogni credibilità ad Armanna. Il giorno dopo, 24 luglio, l’udienza è dedicata al controinterrogatorio: è il momento in cui le difese potrebbero far entrare nel processo la non attendibilità di Armanna. Ma, a sorpresa, rinunciano a fargli domande (con stupore dei colleghi avvocati americani di Shell). La mossa potrebbe essere processualmente suicida, ma è mediaticamente efficace: i giornali si concentrano sul video e non sul fatto che l’altalenante Armanna infine conferma le sue accuse: è il solo pm Sergio Spadaro a “controinterrogare” Armanna, dopo la rinuncia indignata delle difese. E Armanna conferma e spiega. Ammette di aver sbagliato, in “un momento di emotività”, la data del suo primo incontro con Amara. Spiega che l’incontro intercettato faceva parte della trattativa che Amara stava conducendo con lui per fargli ritrattare le sue accuse a Eni. Spiega che la “valanga di merda” era riferita alle informazioni sull’affare nigeriano che in quel periodo stava passando ad alcuni giornalisti. Così Armanna conclude la sua deposizione. Attendibile? La sua credibilità è già stata accertata in una sentenza dalla giudice milanese Giusy Barbara: è la “attendibilità frazionata” dei pentiti di mafia, per esempio, che possono aver fatto le peggio cose ma sono credibili quando le loro dichiarazioni sono confermate da altri elementi di prova. Il processo continua.

L’utilità della speculazione: il caso Bio-on

Ai risparmiatori il mercato azionario piace soltanto quando ha il segno positivo. Ma c’è una ragione se quello investito in azioni si chiama “capitale di rischio”: i prezzi possono salire, se ci sono prospettive di crescita per l’azienda, ma devono scendere se il futuro è fosco.

Chi scommette sui rialzi rischia poco: compra e aspetta. Chi punta sui ribassi deve vendere allo scoperto – con uno dei tanti strumenti appositi – e ricomprare dopo il calo. Se il crollo non arriva, perde tutto.

Per questo la vita dello short seller è più eccitante: vince solo se ha colto l’attimo per andare controcorrente. Il film La grande scommessa (“The Big Short”) celebra il piccolo gruppo di trader che intuì l’esplosione del mercato dei mutui subprime.

Netflix ha dedicato un episodio della serie tv Dirty Money a Fahmi Quadir: nel 2015 l’analista 25enne del fondo Krensavage iniziò a scommettere contro il gigante della multinazionale farmaceutica Valeant. Aveva capito che il suo modello di business tanto celebrato non poteva reggere. Fahmi ha vinto, Valeant è crollata del 90 per cento, tra le indagini giudiziarie.

In Italia in questi giorni si guarda con sospetto al fondo Quintessential di Gabriele Grego: ha indagato sulla start-up di bioplastiche Bio-On che in Borsa valeva un miliardo, ha scommesso al ribasso e ha raccontato al mercato i suoi dubbi: stranezze nei bilanci, prospettive dubbie, opacità nei rapporti con le società controllate. Il titolo è crollato.

Quintessential è un avvoltoio che ha distrutto un gioiello italiano? O ha soltanto acceso un faro nell’ombra propiziata da un management abile nella comunicazione e da una stampa finanziaria che si limita riprendere comunicati stampa aziendali? La Borsa sembra aver già dato la sua sentenza: le azioni Bio-On hanno perso la metà del valore, nonostante i tentativi dei vertici di Bio-On di sostenere il titolo.

Salari fermi al palo da 25 anni: volano solo i superstipendi

In quella miniera di dati che è diventato il rapporto annuale dell’Inps spicca il dato sulla caduta dei salari negli ultimi 50 anni. Una diminuzione secca di circa 10 punti percentuali sul Pil con un trasferimento dalla quota salari a quella di profitti e rendite. Complici i processi di moderazione salariale (a partire dal famigerato accordo del 1992-1993), dei processi di finanziarizzazione e di privatizzazione di ampi settori. Un esempio evidente, quello dei servizi di rete e finanziari.

Nel settore privato, infatti, tra la prima metà degli anni Settanta e il Duemila la caduta della quota salari ha rappresentato circa 8 punti percentuali. Nel manifatturiero circa 7 punti percentuali; nei servizi commerciali il calo prosegue sino alla fine degli anni Novanta di circa 10 punti percentuali. Ma è nel periodo 1992-2004 che si osserva la caduta, scrive l’Inps, “molto marcata, dal 71% della seconda metà degli anni Ottanta al 56% dei primi anni Duemila, nei servizi di rete e finanziari”. Si tratta del settore che ha visto una costante trasformazione di ex aziende pubbliche in società per azioni, si pensi alle aziende energetiche o dell’acqua.

Caduta libera. Il fenomeno non è solo italiano. La media nell’eurozona passa dal 70% degli inizi degli Anni 80 a circa il 60% negli anni Duemila. La flessione diventa più marcata “quando si scorpora l’1% più elevato dei redditi da lavoro”. Il paradosso è che il peso delle retribuzioni dei grandi manager falsa l’andamento reale dei salari. Del resto, annota l’Inps, sia in Europa che in altri Paesi industrializzati, soprattutto a partire dagli Anni 80, “l’andamento della quota dei redditi da lavoro è speculare alla crescita del saggio di rendimento netto del capitale”.

L’andamento non è però uniforme o costante. Il periodo preso in esame, infatti, va diviso in due parti. Nella prima fase, fra il 1975 e il 1992-1993, i salari annuali passano da poco meno di 16.000 euro a circa 22.000 euro. Si registra l’effetto delle grandi lotte sindacali del periodo. Nella seconda fase, dal 1992-1993 fino al 2017, i redditi annuali sono sostanzialmente stabili intorno a 22.000 euro. In questo caso si misura il peso dell’accordo sindacale del 1992-1993 tra governo Ciampi e Cgil, Cisl e Uil. due stagioni sindacali.

La boa del 1992. La stagnazione dei salari risente poco dei periodi di crisi e dipende soprattutto da altri fattori tra cui il crescente numero di lavoratori part-time, la cui incidenza è ormai strutturale, e alla generale “moderazione salariale” che in Italia si afferma in forme più nette rispetto agli altri Paesi europei.

All’interno del lavoro dipendente i redditi annuali degli impiegati sono decisamente più elevati di quelli degli operai (circa 25.000 euro contro 15.000 euro nel 2017), anche a causa del minor numero di settimane lavorate in media all’anno da questi ultimi rispetto agli impiegati. Va inoltre segnalato che le retribuzioni annue degli impiegati sono aumentate dal 1975 fino al 1992 (da 22.500 a 28.400 euro) per poi ridiscendere lievemente e, analogamente, le retribuzioni annue degli operai sono aumentate da 12.000 euro nel 1975 a 16.850 euro nel 1991, per poi diminuire.

I super ricchi Del tutto diverso l’andamento dei cosiddetti Top earners, cioè coloro i cui salari si trovano oltre il novantesimo percentile della distribuzione dei redditi di lavoro. Le soglie per l’ingresso nel top 10% e top 5% dei salari sono cresciute relativamente poco nel tempo: “Per entrare nel top 10% occorreva avere un reddito di 31.000 euro nel 1978, salito a 39.000 nel 2017; l’accesso al top 5% richiedeva un reddito di 38.000 nel 1978 contro i 51.000 nel 2017”. Ma è salendo nella graduatoria, al top 1%, 0,5% e 0,1% che le cose si fanno più sofisticate. La soglia del top 0,1% passa da 122.000 a 217.000 euro. “La soglia per entrare nel top 0,01% è l’unica che cresce in maniera più sostenuta passando da 220.000 euro nel 1978 a 533.000 euro nel 2017 (+242%)”. Se c’è una dinamica di crescita dei redditi è dovuta in particolare a queste retribuzioni.

Viva i profitti. La disuguaglianza sociale ed economica descritta da questi dati si coglie ancora meglio se si considera che dal 1970 al 2000, “il valore aggiunto per addetto del settore privato è cresciuto dell’89%, mentre i redditi da lavoro sono aumentati del 71% in termini di potere d’acquisto e del 75% in termini del deflatore settoriale”. Il divario tra la ricchezza prodotta e quella percepita in termini di reddito è quindi di almeno il 15%. Tra il 2000 e il 2018, “nell’insieme del settore privato, i redditi da lavoro in termini di potere d’acquisto crescono solo del 4%, e nel 2018 tornano allo stesso livello del 2007; la produttività rimane sostanzialmente invariata”. Il forte trasferimento dal salario ai profitti e alle rendite continua.

Mail Box

 

Salvini strumentalizza il Vangelo e i valori cristiani

Il caso della nave Gregoretti è l’ultimo tassello di un mosaico che pone al centro il problema migratorio. Nessun politico responsabile ha la ricetta, considerando le migrazioni evento epocale. Non basta il “è finita la pacchia”. Tanto meno ondeggiare tra buonismo ingenuo e interessato o rigorismo becero. Non dimentichiamo che l’Occidente ha responsabilità nel caos migratorio, avendo spesso considerato la terra africana campo di saccheggio (aggiungo la sciagurata guerra in Libia) e oggi la storia presenta il conto. La bussola siano la felicità e la dignità nelle proprie terre, col diritto a non emigrare, cosa diversa dall’ipocrita “aiutiamoli a casa loro”. La scelta maggiormente sensata è un piano Marshall per l’Africa.

Veniamo all’Italia. Viviamo nella sindrome dell’uomo solo al comando. Quell’uomo è Matteo Salvini. È lui spiacevolmente a dettare l’agenda, persino nel campo di competenza di altri dicasteri come Difesa e Infrastrutture, nel silenzio (la Gregoretti è imbarcazione della Guardia Costiera alle dipendenze del ministero della Difesa , i porti dipendono dal ministro Toninelli). Perchè nessuno fiata? Probabilmente perchè prevale il quieto vivere, il rimanere al potere. Torniamo a Salvini. Il suo non è parlare o modo di agire cristiano, eppure in piazza ha mostrato rosario e Vangelo. Salvini strumentalizza la fede a fini di propaganda e questo è contro il Vangelo. Il suo “la pacchia è finita” è una posizione non solo contraria al buon senso e alla ragione, ma cozza con l’idea di “misericordia” del cristianesimo.

Il vice premier dovrebbe leggersi la pagina delle Beatitudini, o il Giudizio Universale. Il cristianesimo è la rivoluzione dell’amore.

Che conclusioni trarre? Abbiamo bisogno, in questo momento di confusione, di rimettere al centro i valori giudaico-cristiani. Unione Cristiana non vuole uno stato clericale o teocratico, ma il rispetto della laicità, che non è laicismo. Tuttavia, non possiamo arrenderci al mondo e alle sue mode, alla barbarie e a chi nega i valori della vita e della ragione, come fa Salvini. Ma lottare per la tutela dei principi non negoziabili, per un’alleanza estesa a tutte le persone di buona volontà.

Sen. Domenico Scilipoti Isgrò

 

Le grandi opere in tempi di stagnazione: un fallimento

Sono un vostro lettore convinto dagli argomenti che suggeriscono di andare molto cauti con il finanziamento di grandi opere. Non solo il Tav. L’Italia è in decrescita, diminuisce il numero degli abitanti, ristagna l’economia e se si manifesta qualche progresso è nel campo dei beni e servizi immateriali, che non hanno bisogno di camion e di treni; esiste un gravissimo problema climatico e di conservazione del territorio, temi che fanno a pugni con quasi tutte le grandi opere per definizione energivore. Tutte le spese andrebbero controllate e indirizzate verso investimenti che puntino alla ricerca, alla formazione e alla innovazione. Ma giornali e tv dimostrano soltanto quanto possano in Italia le lobby del cemento e delle costruzioni. Sono riusciti a far credere che le grandi opere siano un segno, di modernità. Il suggerimento dei 5 Stelle per un voto in parlamento che almeno individui i responsabili della imminente catastrofe, mi sembra un soluzione corretta anche se, almeno nel breve periodo, perdente.

Renato de Chaurand

 

Quando la Boschi rifiutò il confronto con Di Maio

Aggiungo poche righe a quelle già impiegate da Travaglio nella sua rubrica del Lunedì “Mi faccia il piacere”, dedicate a Maria Elena Boschi. Quando Luigi Di Maio la sfidò a presentarsi su un palco in una qualunque delle bellissime piazze di Arezzo – da lei liberamente scelta – per parlare della Banca Etruria, rifiutò una tale location: forse temeva gli insulti che le avrebbero scaricato addosso i suoi concittadini.

Francesco Bulzomi

 

Carabiniere ucciso, la tragedia si poteva evitare

Sembra che i due carabinieri si siano ampiamente presentati ai due balordi senza che nessuno dei due militari avesse la pistola in mano col colpo in canna. Non capisco se è stata una sottovalutazione del momento o il seguire alla lettera una procedura di legge. Con un minimo di precauzione si sarebbe evitata una tragedia, e se invece questo modo di avvicinare i delinquenti è una prassi allora, per favore, cambiamo le regole!

Alfredo

 

Spagna, Italia e non solo: la sinistra si è smarrita

Mal comune, mezzo gaudio: trasferendo il detto in politica, qualcosa non torna. Dopo le elezioni in Spagna vinte dal Partito socialista con numeri che non gli consentono di governare da solo, sembra che l’unico obiettivo di Sanchez sia quello di escludere il partito Podemos dalla formazione del governo perché gli industriali e i poteri forti spagnoli non gradiscono le politiche che Podemos vuole attuare. Si conferma quindi anche in Spagna la assoluta adesione di quella che una volta avremmo chiamato sinistra alle politiche neoliberiste che le fa assomigliare sempre più alle brutte copie della destra. Molti dei partiti che si richiamano a una tradizione di sinistra e progressista hanno perso il senso e la ragione della loro storia.

Leonardo Gentile

Breve apologo sulla sconfitta: il crollo asiatico di Jeremy Lin

C’è qualcosa nella sconfitta che parla a tutti, forse per la banale ragione che perdere tocca a chiunque, vincere solo a qualcuno. E allora, Jeremy Lin è un giocatore di basket americano di origini cinesi, ha quasi 31 anni, una laurea ad Harvard e calca i parquet Nba da un decennio. Non è mai stato una star, eppure il suo 2012 ai non eccelsi New York Knicks fu spettacolare precipitando la Grande Mela per un paio di mesi nella “Linsanity”, follia che ne ha fatto un giocatore ben pagato (65 milioni in 10 anni) e molto famoso. Da allora, anche per via degli infortuni, la sua carriera è precipitata: gli ultimi sei mesi li ha passati ai Toronto Raptors – dunque, tecnicamente, ha vinto il titolo Nba – ma giocando poco o nulla. Ora è in giro in Asia per un tour promozionale, ma il suo contratto è scaduto e nessuno lo vuole. Qualche giorno fa a Taiwan, davanti alle telecamere, Lin è scoppiato a piangere: “Dovevo essere pronto, ma questo viaggio in Asia era l’ultima cosa che volevo fare. Sapevo che avrei dovuto piazzarmi un sorriso in faccia per 6 settimane e parlare di una vittoria che non sento di aver guadagnato. E poi avrei dovuto parlare del mio futuro, ma non so se l’avrò. C’è un detto che dice ‘quando tocchi il fondo, puoi soltanto risalire’, ma per me il fondo sembra non finire mai”. Qual è la morale? Forse, à la Cioran, che la sconfitta ci fornisce una visione più precisa di noi stessi? Che i calci in culo fanno male anche ai ricchi e famosi? Più probabilmente non c’è alcuna morale: è solo che nella sconfitta di chiunque percepiamo la nostra che arriva.