Pensionati. Anche il bancomat del governo non è più autosufficiente

 

L’attuale governo, che non è affatto diverso da quelli precedenti, continua ad adottare sempre l’assistenzialismo (80 euro di Renzi, bonus libri, bebè, ecc.). Sul fronte reddito di cittadinanza non sono in parte favorevole: ha creato disparità e disuguaglianza nel trattamento economico nei confronti dei pensionati, come me. Io dal 2006 percepisco 950 euro di pensione e ho in corso un mutuo di 420 euro che finirò di pagare nel 2022. Nel corso degli anni ho subito gli aumenti del caro vita: rifiuti, acqua, luce e gas, benzina, manodopera per lavori imprevisti, ecc. Eppure non ho diritto a nessun bonus, alla quattordicesima e alla pensione di cittadinanza, perché supero i 1.000 euro lordi. Sono stata più volte in difficoltà economica, costretta a chiedere un piccolo prestito alle finanziarie, per far fronte alle spese, ma la mia pensione è sempre la stessa da 1O anni. Dovrebbero adeguare gli stipendi di operai e pensionati a basso reddito al costo della vita. Tempo fa ho scritto a Luigi Di Maio e all’ex presidente dell’Inps, Boeri, per chiedere informazioni su agenzie che concedono prestiti a tasso agevolato (che non siano finanziarie) con la restituzione delle rate da 50 euro al mese, ma non mi hanno mai risposto. E, purtroppo, sono stata costretta a prendere un prestito dalle finanziarie. Non mi meraviglio che M5s abbia meno consenso degli elettori. Non ho più fiducia nelle istituzioni, la persona che apprezzo di più è il premier Conte. Non è cambiato nulla: la sinistra ha deluso, il Pd è un partito di centro, uguale alla Dc. E l’avanzata della destra è colpa del Pd, perché la maggioranza dei parlamentari hanno interessi da difendere. Intanto a noi pensionati chi ci pensa? Siamo stati esclusi dalla manovra e ora siamo indebitati fino al collo con le finanziarie per tirare a campare. Ci sono troppe famiglie che pagano l’affitto e che, come me, non hanno avuto nessun supporto dallo Stato mentre hanno difficoltà a far quadrare i conti, soprattutto per il costo troppo alto delle bollette.

Bonaria Appeddu

 

Gentile signora Appeddu, in attesa che venga redatta la nuova legge di Bilancio, le promesse della politica sono le stesse: aumentare le pensioni. Ma, in attesa del sol dell’avvenire, di concreto c’è che i pensionati restano un bancomat da spremere, tra blocco della rivalutazione, aumento delle tasse e i tanti balzelli locali. Un meccanismo che sta mettendo sempre più in crisi gli over 65 che, a causa della crisi, sono diventati il vero welfare di figli e nipoti. Per non ricorrere alle finanziarie, si può richiedere la cessione del quinto direttamente all’Inps.

Patrizia De Rubertis

Le vacanze deficienti, dal “Salvini watching” alla coda sull’Everest

In coda sull’Everest. La montagna, il contatto con la natura, l’azzurro del cielo e le cime innevate. Che bello, eh! Così migliaia di terrestri annoiati dal resto della Terra corrono verso il Nepal per qualche giorno di contatto totale con la natura. Una vacanza rispettosa dell’ambiente: un aereo per arrivarci, poi macchine, jeep, fuoristrada, elicotteri. Poi campo base. Poi mettersi in coda a settemila metri con l’obiettivo di arrivare a ottomila. Una fila lunga, un serpentone che arriva quasi a valle, e stupisce che dal tetto del mondo non rimbombino tonitruanti le parole care: “Serviamo il numero 47!”. Andare sull’Everest costa un bel po’, è ancora uno status symbol che consente di tornare dalla vacanze con tante foto bellissime del culo di quello che stava in fila davanti a te. Urge democratizzazione: se alle Poste si trovasse il modo di togliere un po’ di ossigeno all’aria tutti potrebbero godere del brivido di fare la coda in altura (e la morìa di pensionati aiuterebbe i conti pubblici).

 

Al concerto in spiaggia. È il must dell’estate e l’ha inventato Jovanotti. Quale modo migliore di difendere la natura e di sensibilizzare il mondo sull’ecologia che stipare quarantamila persone su una spiaggia dalla mattina a notte fonda? Pensateci, è come pulire il mare col detersivo per piatti, magari funziona. I teatri, i palasport, gli stadi, le piazze non bastano più, per i concerti ora serve qualcosa di più deciso, di più simbolico, che so, ballare in centomila su un prato di montagna per difendere i pascoli lasciando le mucche nelle stalle, oppure sparare ai cuccioli di tigre per sensibilizzare il mondo sulla loro estinzione. Naturalmente dal palco rimbomberà il verbo ambientalista: “Dopo puliamo per bene!”. In più, educazione al futuro per tanti giovani volontari: lavoro gratuito in cambio di un panino e una maglietta, così si abituano a quello che li aspetta nella vita.

 

La movida a Roma. Chi è in cerca di emozioni forti e di brividi non dovrà più passeggiare per la periferia di Lagos con tre Rolex al polso, basterà una serata a Campo de’ Fiori per una vacanza a contatto con la natura. Tra americani ubriachi, tedeschi in overdose di birra, spacciatori che ti tirano il pacco, carabinieri in divisa e in borghese, borseggiatori, attaccabrighe vari, turisti che trovano tutto molto suggestivo e pagano due aperitivi come un pranzo di nozze, l’avventura è assicurata.

I vacanzieri potranno finalmente tornare a Medellín, a Scampia o in un liceo americano sospirando: “Finalmente al sicuro”.

 

Crociera a Venezia. Chi resisterebbe al fascino di navigare a bordo di un condominio di nove piani lungo come una fila al casello dell’autostrada, con la coda al buffet, le risse per gli ascensori, le liti tra quelli delle cabine secondo ponte versus la ressa festante e rumorosa che corre al pianobar? Notti vivaci e albe suggestive, finché si arriva a Venezia e tutti sul ponte grande a guardare se finalmente ci si riesce. Poi, un mormorio deluso: anche questa volta non siamo riusciti a centrare il campanile di San Marco con la prua. Dannazione.

 

Milano marittima. Tutti gli esperti concordano: è la località migliore per il Salvini watching. Aggirandosi in infradito per la spiaggia privatizzata dagli stabilimenti balneari, le possibilità di intravvedere il ministro dell’Interno in bermuda e mojito è piuttosto alta, superiore a quella di vedere una iena al parco Kruger in Sudafrica o uno sciacallo a Yellowstone, stesso brivido, ma più probabilità di farsi un selfie con l’animale. Pochi giorni di relax, prima di tornare a casa e mostrare agli amici, in quelle noiosissime serate post-ferie, le foto delle vacanze, ma quelle di Salvini. Meno facili gli avvistamenti sulla spiaggia libera, che potrà comunque essere privatizzata e chiusa ai bagnanti meno abbienti per un bel concerto ecologico. Buone vacanze.

Alleati di governo tra Totò e Campanile

Tra qualche mese, fidatevi, scopriremo che è stata tutta una lunga candid camera. Parliamo della tempestosa relazione tra i due vicepremier, litigarelli come solo gli innamorati durante la stagione più calda (si sa, l’estate è un momento complicato per le coppie; la crisi è sempre in agguato, e non solo per le corna: non è detto che funzioni né la vacanza insieme né quella separati). Come gli stremati e-lettori sanno, non c’è giorno che i due non si becchino come due comari o che non si facciano lo sgambetto come due bambini dispettosi di fronte alla maestra (il pazientissimo premier).

L’ultima arriva da Cosenza. Dove l’altro giorno, durante un incontro con i militanti del Movimento, Luigi Di Maio non si è lasciato scappare l’occasione per lanciare la quotidiana frecciatina al suo collega di governo: “A volte siamo costretti a subire l’atteggiamento della Lega che è insopportabile. Ma dopo le elezioni non avevamo alternativa: o andavamo all’opposizione o cercavamo di portare a casa il più possibile nelle peggiori condizioni. Ogni volta che si deve approvare una legge, in Parlamento o in Consiglio dei ministri, ci dobbiamo sedere a un tavolo io, Conte e quell’altro là e dobbiamo fare un accordo”. E qui è scattato l’applauso dei militanti che, ne siamo praticamente certi, si sono ricordati di “Chella là”, canzone napoletana che racconta tutta la felicità di un uomo finalmente liberato da un amore che lo teneva incatenato e deciso a trovarsene una più bella. Indimenticabile, l’interpretazione di Teddy Reno davanti a Dorian Gray, la malafemmina dell’omonimo film con Totò e Peppino. A cui assomiglia un po’ anche il seguito del discorso (tipo la scena del dialogo con il vigile: “Noi vorremmo sapere… per andare dove dobbiamo andare… per dove dobbiamo andare?”): “Quando ti siedi a quel tavolo non puoi pretendere, perché se lo fai anche l’altro pretende e non si porta a casa niente. Se non esistesse questo contratto con la Lega, in Parlamento ci sarebbe ancora un partito unico, quello a favore di Radio radicale e della Tav”. E dunque, dove vogliamo andare con questo governo? “Il partito unico non vede l’ora di far cadere il governo, perché a settembre si vota sul taglio dei parlamentari. Io però nel frattempo mi prendo i vaffanculo di chi dice che faccio gli accordi con Salvini. A me farebbe pure comodo far cadere il governo, perché nonostante la regola dei due mandati resterei comunque il capo politico, ma penso ai risultati da ottenere da qui a dicembre: taglio del cuneo fiscale, riduzione canone Rai, acqua pubblica, taglio dei parlamentari”. Se avete capito siete bravi.

Il ministro Salvini, secondo i maggiori siti di informazione, avrebbe risposto piccato. E qui la pochade vira più verso l’Achille Campanile di Ma che cosa è questo amore?, romanzo che inizia nello scompartimento di un treno (diretto a Napoli) dove ben quattro passeggeri scoprono di chiamarsi tutti Carlo Alberto. A quel punto un quinto viaggiatore, prende ombrello e valigia, dichiarando con tristezza: “Signori, m’accorgo che la mia presenza in questo scompartimento è di troppo. Io mi chiamo Filippo”. E così l’altro vicepremier ha risposto al biasimo dell’alleato, spiegando che lui magari può non stare simpatico. Ma un nome ce l’ha. “Io mi chiamo Matteo”.

Ps: mentre scriviamo, arriva la e-news del fu Renzi, che ancora non si capacita di essere diventato lui “l’altro Matteo”, non avendo evidentemente ancora scoperto di chiamarsi Filippo.

Formigoni doveva rimanere in carcere

Il direttore del Fatto Quotidiano, nel suo editoriale del 24 luglio, ha scritto che l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano – che scarcera Roberto Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi di detenzione per una corruzione di oltre 6 milioni di euro, dopo appena 5 mesi di galera e lo spedisce ai domiciliari a casa di un amico ove trascorrerà comodamente i restanti 5 anni e 5 mesi – “inaugura un nuovo filone della letteratura umoristica: la satira giudiziaria”.

E ha pienamente ragione il direttore, solo che si consideri che buona parte della motivazione del provvedimento si basa su dichiarazioni del seguente tenore rese dal detenuto: “Mi conformo alla condanna e comprendo il disvalore dei miei comportamenti”, come “l’amicizia con Daccò e le vacanze sugli yacht ai Caraibi” (se ne accorge solo dopo 20 anni di bella vita che doveva essere improntata al professato “voto di povertà”!!), e che solo oggi aveva compreso che “sarebbe stato meglio rispondere alle domande dei magistrati” e che “aveva deciso di costituirsi spontaneamente dopo la condanna per le sue convinzioni personali e culturali e per rispetto dello Stato”. Tali dichiarazioni, all’evidenza tardive e strumentali – provenienti da un soggetto che, nel corso del processo, non ha mai collaborato con l’autorità giudiziaria, si è rifiutato di rispondere alle domande dei magistrati, ha sempre denunziato di essere vittima di un accanimento giudiziario – non hanno alcuna incidenza ai fini di superare il divieto di accedere a misure alternative al carcere per coloro condannati per reati contro la Pubblica amministrazione (peculato, concussione, corruzione), introdotto dalla legge n° 3/2019 (cosiddetta “spazzacorrotti”) che ha, con l’art. 1 comma 6, modificato l’art. 4 bis ord. pen.

Tale preclusione è rimovibile soltanto attraverso quella che la Corte Costituzionale ha definito una “condotta qualificata” e, cioè, la collaborazione prevista dall’art. 58 ter ord. pen. e anche, con la nuova legge, dal 2° comma, art. n° 323 bis c.p. Ora, poiché Formigoni non ha mai collaborato, il Tribunale di sorveglianza, per la emanazione del provvedimento, ha fatto ricorso a quella interpretazione giurisprudenziale che ritiene equivalente alla collaborazione anche l’ipotesi di “collaborazione impossibile” quando, cioè, vi sia già stata completa ricostruzione dei fatti, individuazione di tutti i responsabili, integrale sequestro delle somme e di altre utilità. In proposito, il Tribunale ha dovuto “sentire” il pm competente, secondo l’art. 58 ter ord. pen., a riferire sulla collaborazione (nella specie, Procura di Milano). Ora, grazie ad Antonella Mascali – che ha pubblicato su questo quotidiano quasi integralmente il parere del pm – è stato possibile venire a conoscenza che, alla richiesta del Tribunale: “Se un’eventuale collaborazione fornita ora possa essere considerata utile”, il pm risponde: “Quest’ufficio ritiene di non poter affatto escludere l’utilità”. In particolare, “Formigoni certamente potrebbe e può oggi collaborare proficuamente per consentire l’esecuzione delle cospicue confische per equivalente attraverso il recupero di denaro e beni”. Prosegue il pm specificando che l’ex governatore, “se volesse, potrebbe contribuire ad accertare eventuali altri fatti di corruzione, ovvero di riciclaggio o auto riciclaggio. Questo del resto è nelle possibilità”; e ancora: “Roberto Formigoni ben potrebbe collaborare anche nel processo che lo vede imputato a Cremona, insieme ad altri, per corruzione, trattandosi di fatti strettamente connessi a quelli oggetto del presente parere” (molto altro è nel parere).

Allora, l’accettazione delle risibili e poco credibili affermazioni di Formigoni e l’aver disatteso il parere del pm inficiano il provvedimento del Tribunale che avrebbe ben potuto seguire la strada della verifica di costituzionalità percorsa da numerosi giudici (Gip Como, Tribunali Napoli, Brindisi e Venezia e Corti di Appello Lecce e Reggio Calabria), ed avallata dalla Corte di Cassazione che, con decisione del 18/6/2019, “ha sollevato di ufficio questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione dell’art. 1, comma 6, lett. b) L. n° 3/2019 nella parte in cui inserisce all’art. 4 bis, comma 11 n° 354/75 i reati di peculato” (e corruzione e concussione). Conseguentemente, il Tribunale di Sorveglianza di Milano avrebbe ben potuto rimettere gli atti alla Consulta, sospendere il procedimento, in attesa della decisione ma, in questo caso, “il Celeste” avrebbe dovuto soggiornare ancora nelle patrie galere.

Guarda come dondolo, Mr. Trump

Un equilibrio difficile, un’azione al di qua destinata a pesare al di là del muro: una sfida ma anche un gioco, unico svago in chilometri di nulla attraversati solo dal ferro che divide il territorio degli Stati Uniti da quello del Messico. È questo concetto che due architetti e professori universitari statunitensi hanno concretizzato in decine di dondoli fucsia, incastrati tra le sbarre della frontiera inaugurati da decine di bambini da una parte e dall’altra del muro.

Non un’installazione improvvisata, un flash mob, ma la messa in opera di una ricerca che l’architetto Ronald Rael porta avanti da dieci anni all’università della California e che è all’origine del suo libro: Il muro di confine come architettura. Un testo che parte dal provocatorio concetto che le 650 miglia di barriera potrebbero significare altro oltre a esclusione e divisione che Rael, insieme alla collega Virginia San Fratello cercano di trasformare in una proiezione sul futuro. Le sbarre come opportunità per lo sviluppo sociale ed economico lungo il confine, in quel non luogo definito “una terza nazione”. E, appoggiando alle sbarre i dondoli divisi in due – una parte costruita e montata negli Usa da Rael e i suoi colleghi, l’altra dal Colectivo Chopeque impegnato nella zona di Park Anapra, accanto al Rio Grande in Messico a costruire case in legno per migranti – hanno dato vita a un parco giochi. “Una delle esperienze più incredibili della mia carriera e di quella di Virginia – ha commentato Rael su Instagram dove ha postato foto e video del gioco sui dondoli – è aver dato vita ai disegni concettuali di Teetertotter Wall del 2009 in un evento pieno di gioia, eccitazione e solidarietà al confine”. Immagini riprese da siti web e tv di tutto il mondo, a cui il presidente degli Usa, Donald Trump, – che ha appena ottenuto il via libera per la costruzione di altri 16 chilometri di muro al confine – non ha dato importanza. Rael – che vive a Oakland con moglie e figlio – di frontiere ne sa molto essendo cresciuto nel deserto alpino della San Luis Valley del Colorado, antico confine tra Usa e Messico prima del 1848, dove vivono ancora i suoi antenati, discendenti proprio di quella “terza nazione”. Da lì è partito per diventare “voce emergente” secondo l’Architectural League di New York. I dondoli rappresentano solo uno dei progetti per il confine ed è parte del “manifesto” contro la barriera divisoria. Alcuni modelli e disegni del libro di Rael sono esposti al Moma di New York e al Museo d’arte moderna di San Francisco. I dondoli invece stanno unendo persone.

Il riformatore Najafi ora è un omicida a cui tagliare la testa

Per alcuni, la sorte dell’ex vicepresidente della Repubblica islamica, ed ex sindaco di Teheran, Mohammad Ali Najafi era già segnata sin dal 2018, quando le sue idee progressiste avevano suscitato la reazione dei fondamentalisti. Ieri, alla lettura della sentenza di primo grado, molti non si sono stupiti; Najafi è stato condannato a morte per l’omicidio – è reo confesso – avvenuto nel maggio scorso, della moglie, l’attrice Mitra Ostad. La difesa, entro 20 giorni, potrà presentare appello ma il carattere mediatico del processo sembra non lasciare scampo all’uomo politico, ora assassino. Il tradizionale riserbo iraniano nel non rendere di pubblico dominio le vicende di cronaca stavolta è stato abolito; l’ex ministro del presidente Rohani aveva già confessato davanti alle telecamere del commissariato di polizia dove si era costituito poche ore dopo. Il movente? La scoperta di una relazione extraconiugale della moglie. La famiglia della vittima aveva chiesto l’applicazione del qisas, la legge del taglione. La coppia aveva fatto storcere il naso in Iran; lui, 67 anni, professore universitario, lei di 30 più giovane. Le nozze, senza che Najafi avesse divorziato dalla prima moglie. Pur essendo legale, in Iran la poligamia è molto criticata. I fondamentalisti islamici nell’aprile 2018 avevano costretto Najafi a dimettersi da sindaco, dopo pochi mesi di mandato, perchè aveva partecipato a una cerimonia in cui alcune studentesse avevano ballato; peccato mortale per gli ayatollah, e così il riformatore aveva dovuto fare le valigie. Poi, il delitto: la sua confessione non ha lasciato dubbi; così, un politico che poteva cambiare Teheran, è diventata un galeotto senza speranza.

Processo Romano, su tre accusati uno è già libero

È cominciata la sfilata di testimoni (una trentina) al processo per il rapimento di Silvia Romano. In realtà i processi sono due. Alla sbarra in quello di ieri Moses Luari Chende, un keniota giriama, e Abdulla Gababa Wari, anche lui keniota, ma della tribù orma (quella accusata di aver organizzato il sequestro) di origine somala. Un terzo inquisito, Ibrahim Adan Omar, sarà giudicato a parte in un altro caso il cui processo inizierà il 19 agosto. Secondo gli inquirenti è stato catturato in un’altra operazione e trovato in possesso di armi da fuoco.

L’udienza di ieri si è svolta in swahili difficile (anzi impossibile) quindi da seguire, nonostante alcuni interpreti messi all’opera dal Fatto Quotidiano. I due indiziati erano presenti: Abdulla Gababa Wari, veniva dal carcere dove è rinchiuso, Moses Luari Chende invece è arrivato con le sue gambe. Secondo gli atti a disposizione era stato arrestato ma è stato rilasciato dopo aver pagato un’ingente cauzione: tre milioni di scellini, l’equivalente di 25 mila euro. Una cifra enorme da queste parti, dove il salario medio sfiora i mille euro all’anno. Alcuni giornalisti kenioti al processo si domandavano come Moses avesse potuto raccogliere quella montagna di denaro. Un interrogativo che fa supporre che ci sia qualcuno di ricco e forse importante dietro la manovalanza che ha compiuto il sequestro. Qualcuno che ha ordinato il rapimento e ora paga la cauzione. Ma ora potrebbe farlo tacere per sempre. Ieri nell’aula giudiziaria sono state portate due motociclette mostrate ai testimoni, tra i cui McDonald, il capo villaggio di Chakama, dove Silvia lavorava ed è stata rapita. Sono quelle con cui i banditi sono arrivati e con le quali dovrebbero essere andati via con la ragazza. Dovrebbero, condizionale d’obbligo, perché qualcuno ha raccontato invece che l’ostaggio è stato portato via a spalla. La pubblica accusa è affidata a una donna, Alice Mathangani, che ha incalzato i testimoni con domande precise e pertinenti. Anche la giudice, signora Dr. Julie Oseko, sembrava soddisfatta, mentre l’avvocato di Moses, una signora elegantissima con scarpe tacco 15, sembrava piuttosto contrariata. Il particolare delle scarpe non vuol essere un pettegolezzo ma un dettaglio che indica come la parcella della legale debba essere piuttosto consistente. Alla mia richiesta di parlare con il suo assistito ha acconsentito, ma alla prima domanda: “A chi avete consegnato Silvia?”, gli ha intimato di non rispondere e di troncare la brevissima conversazione.

L’aula del tribunale dove si è svolta l’udienza era piena di gente. Ma c’erano solo due bianchi: oltre a me, il corrispondente della Rai. Ci saremmo aspettati di vedere qualche diplomatico italiano o qualcuno dei carabinieri del Ros o magari uno degli uomini dei servizi segreti. Sarebbe stato interessante per loro riuscire a capire se dietro questo caso di sequestro anomalo si celano interessi diversi da quelli della giustizia. Infine sembra che gli inquirenti kenioti si siano impegnati seriamente sulla questione. Questo perché hanno bisogno della collaborazione degli italiani per svelare il caso di corruzione che sta inquietando la politica dell’ex colonia britannica, quello delle tre dighe che la Cmc di Ravenna avrebbe dovuto costruire. Un segnale che in cambio sono pronti a consegnare alla giustizia italiana i rapitori di Silvia?

Cacciati da Adolf Hitler. I figli degli ebrei tedeschi vogliono tornare a casa

Brexit fa paura. Tanta da far rinascere il desiderio di chiedere un passaporto tedesco ai discendenti britannici degli ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania nazista. Anche questo, pur di restare nella Ue. I numeri sono abbastanza eloquenti: nel 2015 erano appena 43 i britannici che aspiravano alla cittadinanza tedesca mentre nel 2017 erano diventati 1667, quasi 40 volte di più. Del resto la Costituzione della Repubblica federale all’articolo 116/2 prevede che le vittime della Shoah fuggite dalla Germania nazista tra il 1933 e il 1945 possano chiedere e riottenere l’antica cittadinanza tedesca. O almeno così dovrebbe essere. Daniel Alberman con sua sorella Deborah e suo fratello David hanno deciso insieme di chiedere la cittadinanza tedesca pochi mesi prima di Brexit. La loro mamma – ebrea tedesca fuggita negli anni 30 in Inghilterra insieme ai genitori – aveva dato il suo consenso. Il primo moto di orgoglio delle radici tedesche lo avevano provato nel 2015 di fronte alla scelta della Germania di aprire le porte ai siriani in fuga dalla guerra. “Eravamo felici di essere parte di tutto questo” ha detto Daniel alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. “Eravamo europei” prosegue Daniel, che per lavoro si occupa di progetti Ue.

Purtroppo l’entusiasmo di tanti come lui si è sbriciolato di fronte al rifiuto della domanda. E il numero di richieste respinte è stato così significativo e l’esperienza del respingimento così dolorosa che a fine 2018, a Londra, è nato il gruppo “Article 116 exclusion group”. Un’iniziativa per chiedere al governo tedesco di “rispettare fino in fondo lo spirito dell’articolo 116”.

Sylvia Finzi è figlia di una donna tedesca di famiglia ebraica arrivata a Londra a 21 anni come domestica e poi sposata a un ebreo italiano. Finzi ha raccontato al Guardian che “era una cosa emotivamente difficile decidere di prendere la cittadinanza di un paese che era pronto a uccidere mia madre insieme ad altri 6 milioni di ebrei. Poi quando ho visto che sono stata esclusa perché mia madre aveva sposato un non tedesco, non l’ho mai presentata” ha detto. “Perché espormi a un rifiuto così umiliante?”. Le ragioni della non accoglienza delle domande da parte delle autorità tedesche sono banali e freddamente ancorate a leggi ormai lontane dalla nostra comprensione. Uno dei casi più frequenti di respingimento è che il richiedente fosse tedesco per parte di madre. Fino all’aprile 1953 infatti la cittadinanza tedesca si trasmetteva solo per via paterna. In altre parole chi è nato da madre ebrea tedesca prima del 1953 non è a tutt’oggi considerato abile a diventare cittadino tedesco per via di sangue. Un’altra ragione è l’essere nati fuori dal matrimonio da padre ebreo tedesco. Anche in quel caso il legislatore della fine degli anni ‘40 aveva idee molto chiare sui figli illegittimi. Ma il caso più ricorrente e più controverso è l’esclusione nel caso genitori o nonni avessero scelto di prendere un’altra nazionalità. È il caso della famiglia dei nonni di Daniel Alberman che hanno deciso di prendere la nazionalità inglese nel 1939, dopo essere fuggiti in fretta e furia dalla loro casa nel quartiere borghese di Charlottenburg, a Berlino nell’aprile 1933. A quel punto lavorare era diventato difficile anche per un dottore come il nonno Manfred Altmann, padre della mamma di Daniel. In un caso come quello degli Altmann non si rientra nella fattispecie prevista dall’attuale applicazione. L’articolo 116/2 si applica infatti solo a condizione che alle vittime, e quindi ai loro discendenti, sia stata tolta la cittadinanza contro la loro volontà. Questo significa, chiarisce un’avvocatessa che si occupa del tema, che il paragrafo della Costituzione non include coloro che durante il nazismo sono scappati e hanno rinunciato volontariamente alla cittadinanza. Anche se perseguitati. La mamma di Daniel, all’epoca della fuga da Berlino una bimba di appena 3 anni, rimprovera questo alle autorità tedesche: “Si comportano come se i miei genitori avessero lasciato la Germania volontariamente” ma “è una grottesca distorsione della realtà”.

Questa interpretazione restrittiva dell’articolo è la parte più contestata anche in Germania, soprattutto dopo la campagna di stampa delle ultime settimane. Tanto che i Verdi tedeschi hanno depositato una proposta di modifica della legge, da discutere alla ripresa dei lavori del Parlamento, in cui si chiede di rivedere l’applicazione dell’articolo 116. È “irritante” che il governo federale non abbia ancora raggiunto una soluzione sul tema, ha detto il vice-capogruppo in Parlamento dei verdi Konstantin von Notz. “Il fatto che i discendenti dei perseguitati durante la dittatura nazista, costretti a emigrare, oggi vogliano tornare ad essere cittadini tedeschi dovrebbe riempirci di gratitudine”, ha detto. È responsabilità dello Stato “non mettere ostacoli sulla loro strada, ma rimuovere gli intralci giuridici”. Che il dibattito sia diventato scottante anche a Berlino lo dimostra l’annuncio del portavoce del ministero degli Interni: il governo vuole rendere più facile la cittadinanza per i discendenti delle vittime del nazionalsocialismo con un’applicazione “più generosa” e più estensiva delle norme vigenti. Che la storia sia davvero arrivata al lieto fine?

Riviera Romagnola, divieto di balneazione a causa delle fogne

Divieto di balneazione temporanea in 13 punti del litorale di Rimini, due a Riccione, due a Cattolica per lo sforamento dei parametri di legge di escherichia coli e enterococchi. I marinai di salvataggio questo pomeriggio hanno issato le bandiere bianche e rosse per indicare il divieto di balneazione temporanea. Ieri l’Arpae ha fatto i prelievi nelle acque di balneazione lungo la costa emiliano-romagnola, come previsto dal calendario programmato e stabilito dalla Regione Emilia-Romagna. Oltre ai 13 punti del litorale riminese, il divieto riguarda anche due zone a Lido di Volano (Ferrara), uno a Savignano, uno a Cesenatico e uno San Mauro, nella provincia di Forlì-Cesena. “Una prima lettura delle analisi a 24 ore dall’allestimento – spiegano gli esperti Arpae – ha permesso di evidenziare in data odierna il superamento dei limiti normativi in 18 acque di balneazione”. Lunedì era già presente il divieto di balneazione in gran parte del litorale riminese a causa dell’apertura degli scarichi a mare delle acque fognarie dovuta alle piogge persistenti di domenica. I prelievi sono stati ripetuti oggi e se i parametri domani rientreranno nella norma, la balneazione non sarà più vietata.

“Il suicidio assistito non è eutanasia”

Ora manca la politica, perché anche il Comitato Nazionale per la bioetica (Cnb) si è espresso con una serie di “Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”. Il primo chiarimento è che il suicidio assistito è diverso dall’eutanasia. Il secondo è come non si tratti di un’apertura da parte del Cnb alla legalizzazione del suicidio assistito stesso.

La necessità di un parere era emersa dopo l’ordinanza della Corte Costituzionale (207/2018) intervenuta sulla questione sollevata dalla Corte di Assise di Milano sul caso Marco Cappato e Dj Fabo (e la sospetta illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale); il Parlamento adesso può quindi contare anche sulle sei raccomandazioni condivise all’interno del Cnb, organo consultivo della Presidenza del Consiglio. Un risultato raggiunto sulla base di tre diverse posizioni, espresse in sede di discussione. Nella sintesi sono: per 13 componenti del Cnb il suicidio medicalmente assistito è moralmente lecito e giuridicamente consentito in determinate circostanze, per 11 è moralmente e giuridicamente sbagliato mentre per 2 componenti la pratica medica in questione è moralmente approvabile, in determinate circostanze, ma giuridicamente sempre vietata.

Una sorta di maggioranza spuria raggiunta quindi sommando i 13 pareri più due che ha permesso di stendere il documento che secondo Lorenzo D’Avack – presidente del Cnb –, “nasce con l’idea di dare informazioni chiare sui pro e i contro per un’eventuale legislazione. Non dunque un’apertura alla legalizzazione del suicidio assistito, ma piuttosto un valido strumento per indicare nodi, elementi positivi e criticità per il legislatore, che potrebbe avere un approccio favorevole ma anche contrario”.

Posizioni difformi all’interno del Cnb e nella società rispetto a uno dei temi etici più divisivi. D’Avack rincara le finalità del parere: “Non indicare una maggioranza o minoranza a favore del suicidio medicalizzato assistito, ma spiegare che cosa sia esattamente, in quanto molto spesso viene confuso con l’eutanasia”.

“Onore alla maggioranza del Comitato – dichiara Marco Cappato – per una decisione rispettosa della libertà del malato, ma anche alla minoranza che si è opposta, perché almeno loro, al contrario del Parlamento italiano, hanno avuto il coraggio di dibattere e di scegliere”.

A margine del documento, le tre postille: le ragioni del voto negativo di Francesco D’Agostino – già presidente del Cnb –, il dissenso dalla posizione che “la pratica dell’obiezione di coscienza sia un diritto umano costituzionalmente garantito” espresso da Maurizio Mori presidente della Consulta Bioetica onlus e infine la terza postilla di Assunta Morresi che pur avendo approvato il documento ha precisato il suo disaccordo su alcuni aspetti, richiamando i contenuti della legge 219/2017 il cui “spirito si adatterebbe ad aprire forme eutanasiche più dirette”. Donata Lenzi, l’allora relatrice della 219, rivendica la forza di quella stessa norma come “attuale unico, solido punto di equilibrio raggiunto faticosamente”. Lenzi poi si sofferma su un particolare passaggio della relazione del Cnb, in cui vengono sottolineati i pericoli dell’attuazione del suicidio assistito, sulla falsariga di Svizzera e Olanda, nella realtà sanitaria italiana.