“Portare il pasto da casa a scuola non è un diritto”

Per chi non vuole e non può avvalersi della mensa a scuola non c’è un diritto al pasto da casa. Lo sostiene la Corte di Cassazione ponendo termine a una controversia tra alcune famiglie di allievi delle scuole di Torino contro l’amministrazione comunale e contro il Miur.

Nel novembre 2014, 58 genitori, assistiti dall’avvocato Giorgio Vecchione, avevano dato il via a una causa civile affinché fosse riconosciuto ai loro bambini il diritto a portare a scuola pasti preparati a casa o comprati. Era una lotta contro il “caro mense” che nel capoluogo piemontese aveva raggiunto livelli altissimi. La Corte d’appello aveva riconosciuto questa libertà affidando alle singole scuole il compito di trovare le soluzioni pratiche considerando gli aspetti di sicurezza e sanitari, soluzioni non sempre facili da realizzare.

La Cassazione ha ribaltato la sentenza della Corte d’appello sostenendo che “l’istituzione scolastica non è un luogo dove si esercitano liberamente i diritti individuali degli alunni” e neanche quello in cui “il rapporto con l’utenza è connotato in termini meramente negoziali” anche perché “lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la valorizzazione delle diversità individuali devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della comunità”. Dando ragione ai genitori si creerebbe “una impropria ingerenza dei privati nella gestione di un servizio”. “La Cassazione a Sezioni Unite ha deciso: la scuola dell’obbligo gratuita da Costituzione è da buttare nel cesso, d’ora in avanti o paghi la minestra o salti la finestra”, è il commento duro del gruppo CaroMensa. L’amministrazione di Chiara Appendino, tramite l’assessora all’Istruzione Antonietta Di Martino, promette che “procederà a supportare le famiglie e le scuole nelle prossime delicate fasi organizzative”.

Caracalla è area vincolata. Il Mibac blocca il McDrive

Alle Terme di Caracalla i romani giocavano… a scaricabarile. La vicenda del Mc Drive che si stava bellamente installando all’ombra delle Mura Aureliane è tragicomica, e apre uno spaccato impietoso sul tasso di ignavia e incompetenza (sperando che il climax ascendente si fermi qua) di cui sono affette le nostre amministrazioni: per tacer della politica.

La storia è questa: il proprietario del vivaio Eurogarden presenta le pratiche per ospitare in ben 10.000 mq della sua proprietà una complessa e articolata struttura di ristorazione targata McDonald’s. Siamo in una delle poche zone del centro storico di Roma ancora integre, e l’impatto sociale, culturale e visivo di un simile non-luogo sarebbe stato devastante. Ma la presidente del I Municipio Sabrina Alfonsi, fedele al credo ultra-liberista del suo partito (il Pd) alza le mani: “Siamo nel libero mercato, un Mc Donald’s vale come un qualsiasi altro ristorante”. Compresa l’entità della gaffe, il mitico deputato Pd Michele Anzaldi prova a correggere il tiro attaccando “la politica di tutti colori: al Comune la sindaca M5S, al Municipio la presidente di centrosinistra, al Governo i ministri di Lega e M5S. Tutti hanno detto sì, senza problemi”. Beninteso, l’Anzaldi neoambientalista non ce l’ha certo con McDonald’s: “La catena che anzi ha dimostrato in parecchi centri storici italiani di rappresentare un’ottima soluzione per avere pasti economici a tutte le ore”. Quando si dice la coscienza ambientale e di classe.

Chiamata in causa Virginia Raggi “chiede agli uffici competenti di predisporre una comunicazione ufficiale per il Municipio I in cui si richiede la sospensione del progetto esecutivo” (così la Repubblica).

Ma in questa sorta di fiera dell’est dello scaricabarile, ecco che ieri il soprintendente Prosperetti “ha sbugiardato il Comune: non soltanto sapeva della richiesta di realizzare un McDrive a Caracalla, ma con lettera del 28 febbraio 2018 il Dipartimento Urbanistica del Campidoglio avrebbe addirittura dato un sostanziale nulla osta al cambio di destinazione d’uso che apre la strada al fast food nel pieno dell’area archeologica” (parole di Ansaldi). La cosa più notevole di questo edificante palleggio è che tutti si accusano, ma nessuno prova a risolvere il problema.

Fino a ieri, quando finalmente la palla è arrivata a qualcuno che ha la scienza e la coscienza necessaria: Gino Famiglietti, direttore generale dei Beni Culturali. Che ha clamorosamente annullato il via libera che proprio Prosperetti aveva concesso il 24 luglio 2018, e ha avocato a sé la tutela dell’intera area delle Terme di Caracalla.

Famiglietti ha visto ciò che nessuno aveva voluto vedere: e cioè che l’area rientra in un vincolo paesaggistico – apposto dalla Regione Lazio nel 2010 – che prescrive la delocalizzazione dei vivai esistenti e la sistemazione della zona “a prato” (non a McDonald’s!). Un vincolo che fa scattare l’articolo 146 del Codice dei Beni Culturali, che proibisce modificazioni come quella prospettata e impone a Comune e a Soprintendenza di vagliare in questo senso le eventuali domande: cosa che entrambi gli enti si sono ben guardati dal fare.

Insomma, una dimostrazione plateale di incompetenza (se va bene) che l’annullamento Mibac fotografa con obiettività impietosa. Siamo di fronte all’ennesima pubblica umiliazione per il soprintendente di Roma Prosperetti, peraltro appena rinviato a giudizio nell’ambito della vicenda dello Stadio della Roma: e ci si chiede cosa aspetti il ministro Bonisoli a sospenderlo, e a trovare una soluzione adeguata per la tutela della Capitale.

Lieto fine? Sì, perché quel McDonald’s non si farà: oggi stesso sarà bloccato il cantiere. Ma proprio oggi Gino Famiglietti va in pensione: e con questo funzionario esemplare, al quale i cittadini italiani non saranno mai abbastanza grati, rischia di uscire di scena la tutela stessa. Di Roma, e non solo.

Formigoni, da agosto stop a pensione e vitalizi da senatore

Stop a partire da agosto al vitalizio e ai trattamenti pensionistici per Roberto Formigoni. Il consiglio di presidenza di palazzo Madama ieri ha infatti preso atto della sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna per corruzione nei confronti dell’ex governatore della Regione Lombardia e ha dato atto alla delibera del 2015 che prevede la sospensione delle erogazione di pensioni e vitalizi per i parlamentari condannati in via definitiva. Lo comunica ai cronisti la senatrice M5s Laura Bottici, questore del Senato.

L’ex governatore lombardo, uscito dal carcere di Bollate dopo 5 mesi di detenzione, ha ottenuto il sì del Tribunale di Sorveglianza di Milano per scontare la pena di 5 anni e 10 mesi ai domiciliari, nell’abitazione di un suo amico. Formigoni è stato condannato per corruzione nell’ambito del processo Maugeri-San Raffaele. I magistrati ritengono che la collaborazione con Formigoni non possa dare ulteriori riscontri e che l’ex “Celeste” abbia ammesso “il disvalore” del suo comportamento. Insomma, nessuna certezza “sull’utilità” della sua permanenza in carcere.

Marocco, missione Salvini-Savoini. I 150mila euro salvati dalla “turca”

Gli interessi in valuta estera di Savoini non sono iniziati coi rubli. Prima dell’incontro al Metropol di Mosca, c’è stato quello a Le Méridien di Parigi. Prima di quella russa, una pista marocchina passata per la Francia e finita in una turca. Una storia dal copione molto simile che il Fatto rivela per la prima volta. Siamo nella primavera 2016, due anni prima del famoso incontro dell’hotel moscovita. Al centro c’è sempre l’ex portavoce e uomo di fiducia di Matteo Salvini oggi indagato per corruzione internazionale nell’inchiesta su rubli e petrolio. La scena, riferita da due fonti convergenti, è da film. Gianluca Savoini è seduto in un bistrot di boulevard Pereire, non lontano dall’Arc de Triomphe, con un’altra persona. A un certo punto i due si passano fugacemente un plico alto come un pacchetto di Marlboro, fasciato in fogli di giornale. Al suo interno ci sono 150mila euro in contanti. Savoini va in bagno a contare la sua parte, un altro cliente irrompe e le banconote nuove di zecca finiscono dritte nello scarico. Lui le ripesca dal fondo della turca e le pulisce una a una.

Di nuovo al tavolo, i due italiani se la ridono di gusto. Incidente a parte, hanno fatto un ottimo affare. Mezz’ora prima – raccontano le fonti – nella sala de Le Méridien Etoile, a due passi dall’Ambasciata del Marocco, hanno ricevuto il prezioso plico dalle mani di Mohamed Khabbachi, ex direttore generale dell’agenzia di stampa nazionale Map, emissario di re Mohammed VI per le attività di lobby su scala europea, Italia compresa. Il suo profilo WhatsApp riporta tutt’ora una veduta della stazione centrale dal Pirellone, dove Savoini è stato capo ufficio stampa e oggi è vicepresidente Corecom. Qual era la contropartita di quel denaro? Savoini era a Parigi per un affare privato o per conto della Lega? Raggiunto sul cellulare della moglie, l’ex portavoce di Salvini riattacca al primo accenno alla vicenda. Monsieur Khabbachi, che in Marocco ha fama di essere ufficiale di collegamento tra il mondo dei Servizi e la manipolazione dei media a fin di propaganda, nega: “Sono un giornalista, seguo cosa succede nel mondo, ma non dò soldi”. Chiede poi di essere richiamato dopo un’ora, e invece non risponderà più al telefono e neppure alle domande inviate via WhatsApp che sicuramente ha letto, come dimostra la spunta blu sui messaggi. Cosa c’è dietro? “L’incontro all’hotel Le Méridien – spiega una fonte – era stato organizzato per definire una lista di aziende italiane da segnalare per futuri appalti in Marocco e per garantire una copertura di stampa favorevole al governo di Rabat”. A spianare la strada è stata una missione leghista in Marocco di ottobre 2015, quando Salvini e Savoini vanno alla corte di Re Mohammed dove, tra gli altri, incontrano un magnate della tv e i ministri dell’immigrazione e dei lavori pubblici. La delegazione ricorda l’armata Brancaleone: “Abbiamo incontrato ministri con due lauree prese negli Usa, Salvini non sapeva neanche parlare francese. I marocchini sembravamo noi”, racconta Claudio Giordanengo, organizzatore del tour nonché dentista di Paesana (Cuneo) che si presentava come “responsabile esteri della Lega” e a marzo si è candidato a Saluzzo. Giordanengo conosce Savoini dal 1997 e ha un’antica amicizia con Mario Borghezio, che si è personalmente speso sul fronte marocchino per arginare l’attrazione dei leghisti della prima ora verso il fronte indipendentista e islamista del Polisario. Borghezio ricorda quella delegazione come “qualcosa di non esattamente ufficiale, di quelle che fanno i politici e qualche imprenditore a carattere non voglio dire turistico, ma quasi”.

Nella delegazione ci sono anche due figure esterne al partito. Sono Massimo Gerbi, figlio dell’ex patron del Torino calcio Mario Gerbi, e Kamal Raihane, ex agente di leve calcistiche del Maghreb che in quel periodo faceva sfoggio di foto con Salvini e rivendicava: “Gli ho organizzato l’incontro con alcuni esponenti del mondo politico marocchino. S’è parlato di politica e non solo. Un incontro costruttivo”. Da fine 2017 Raihane è titolare di Eurafrica srl, una società di Torino da 10mila euro di capitale sociale, che si occupa di procacciamento di affari. Al Fatto non ha risposto sul suo ruolo nella comitiva leghista. Più loquace è Giordanengo: “L’iniziativa era nata con un intento provocatorio: la Lega che va a parlare di immigrati in Marocco”. C’erano altri interessi? “C’era un interesse parallelo, credo legittimo, di unire alla missione politica anche la presentazione di aziende interessate a operare in Marocco. Se poi ci sono stati altri personaggi che hanno stabilito rapporti economici non lo so”.

Salvini rimane soddisfatto delle missione, come folgorato dal Marocco. L’1 novembre 2015 twitta “È una terra stupenda”, e in un’intervista al Corriere afferma: “Qui in Marocco si deve investire”. Qualcuno lo ha preso in parola. Nelle settimane successive i rapporti con gli emissari del governo di Rabat andranno avanti, suggellati da più visite di Khabbachi a Milano, fino all’appuntamento clou di Parigi, all’hotel Le Méridien Etoile. Ma qui, proprio come a Mosca, non fila tutto per il verso giusto. Khabbachi dà conto a Savoini e al compagno di un incidente che ostacola le operazioni di intermediazione per cui si erano spesi: i dossier delle imprese italiane erano da tempo sulla scrivanie delle autorità marocchine, già verificati. I due italiani restano di sasso: non avevano ancora fornito alcun elenco. Qualcuno li ha battuti sul tempo. I sospetti ricadono subito sugli intermediari marocchini, ma poco importa. A ore torneranno via aereo in Italia con il premio di consolazione nascosto nella giacca, nei pantaloni e nelle scarpe. Dal fondo della turca, la parte di Savoini finirà nella cassetta di sicurezza di una banca.

Elder fu arrestato per un pugno ad un compagno

Il 19enne californiano Finnegan Lee Elder, che ha confessato di aver ucciso il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, era già stato segnalato in America per un episodio di violenza. Nel 2016, quando aveva 16 anni e frequentava la Tamalpais High School di Mill Valley, durante una partita di football americano, aveva colpito un compagno di squadra sferrandogli con un pugno alla testa. La vittima era stata ricoverata in ospedale per “ferite potenzialmente letali” e aveva “affrontato una lunga convalescenza”. L’episodio è ricostruito nell’articolo del quotidiano San Francisco Chronicle, in cui si spiega che Elder era stato “arrestato con l’accusa di aggressione con gravi lesioni fisiche” e giudicato da “in tribunale per i minorenni”. Il giovane, sempre secondo la ricostruzione del quotidiano, sarebbe stato “anche condannato per l’incidente, ma non è chiaro quale pena abbia dovuto affrontare”.

Sean Elder, lo zio di Finnegan, ha precisato che “l’incidente faceva parte di una reciproca rissa premeditata, di cui molti membri della squadra di football erano al corrente”, e che la “scuola non ha preso provvedimenti nei confronti di suo nipote”.

Via all’analisi sui cellulari dei militari

È già partita l’analisi dei cellulari di alcuni dei carabinieri presenti in un ufficio del Nucleo Investigativo di via In Selci dove Christian Gabriel Natale – il cittadino Usa coinvolto nella vicenda dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega – è stato portato dopo il fermo e qui è stato bendato. Alcuni dei telefonini dei quattro militari presenti quel giorno sono stati acquisiti per avere certezza su chi ha immortalato il 19enne. La foto è stata anche inviata in alcune chat dei carabinieri, per poi finire sulla stampa.

Su questa vicenda, l’Arma ha subito avviato un’indagine interna. Come pure la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta. “Non ci sarà alcuna indulgenza” verso i responsabili di questa fotografia, ha assicurato, durante la conferenza stampa di ieri, il procuratore aggiunto Nunzia D’Elia. Il procuratore reggente di Roma Michele Prestipino ha poi spiegato come sull’episodio sia stata “tempestiva la segnalazione da parte della stessa Arma”. Ai magistrati la polizia giudiziaria ha già consegnato una prima informativa in cui veniva identificato il militare che ha bendato il 19enne americano. Una circostanza che sarebbe durata, secondo quanto hanno spiegato nei giorni scorsi dall’Arma, “4 o 5 minuti per non fargli vedere quanto c’era in quell’ufficio soprattutto sui monitor” dei computer. Immediate le conseguenze per il carabiniere: è stato infatti già trasferito ad un incarico non operativo. E intanto il suo nome sarebbe già stato iscritto nel registro degli indagati.

Il reato contestato dai magistrati capitolini sarebbe il 608 del codice penale, che punisce l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti.

Ma gli accertamenti sono ancora all’inizio e alcuni militari sono stati già sentiti. Ora si dovrà accertare con certezza chi ha scattato la foto di Christian Natale e chi l’ha poi diffusa nelle chat dei colleghi. E su questo, l’analisi dei cellulare acquisiti di alcuni dei carabinieri presenti in via In Selci quel giorno potrà essere fondamentale.

Intanto i magistrati assicurano che gli interrogatori che ci sono stati subito dopo il fermo degli americani sono stati svolti nel pieno rispetto dei diritti degli indagati. Agli arrestati sono state assicurate tutte le “garanzie difensive, la presenza dei difensori e degli interpreti. Gli interrogatori sono stati registrati”, ha detto Prestipino, mentre il procuratore aggiunto D’Elia ha spiegato: “Abbiamo fornito un interprete anche per uno dei due ragazzi che diceva di conoscere l’italiano. Ancora di più. Proprio l’avvocato di Christian Natale ci ha chiesto di fare un colloquio preliminare prima dell’interrogatorio e noi glielo abbiamo consentito: c’erano solo l’avvocato e il ragazzo, senza magistrati”.

Intanto, nell’Arma è partita una caccia all’uomo. “Trova il coraggio e ammetti la tua responsabilità”, scrive un militare in uno screenshot di una chat visionato dall’Adnkronos, riferendosi al collega che ha scattato la foto di Natale. E ancora, un altro messaggio: “Colleghi, chi ha ricevuto la foto lo dica ai superiori che stanno conducendo le indagini, a molti hanno sequestrato i cellulari, altri sono stati ascoltati a sit (sommarie informazioni testimoniali, ndr) fate girare, sto bordello deve finire”.

Tragedia, l’ultimo capitolo: “Cerciello era disarmato”

L’Arma dei carabinieri vuole fugare ogni sospetto sollevato intorno al caso dell’omicidio di Mario Cerciello Rega, il vicebrigadiere ucciso a Roma la notte del 25 luglio dall’americano Finnegan Lee Elder. E prova a chiarire tutto durante una conferenza stampa indetta ieri alla presenza di oltre duecento giornalisti, di cui una ventina statunitensi. La faccia dell’Arma è Francesco Gargaro, comandante provinciale dei carabinieri di Roma. Il generale, esprimendo “disappunto e dispiacere per ombre e misteri sollevati sulla vicenda”, ha ricostruito quanto accaduto, rivelando nuovi dettagli. Ma alcune domande restano.

 

“Neanche il collega poteva intervenire”

Si scopre per esempio solo adesso che Cerciello la sera del 25 luglio non aveva con sé la pistola. L’arma di servizio è stata infatti trovata nel suo armadietto. “Nessuno sa il perché non l’ha portata con sé – ha detto ieri Gargaro –. Aveva solo le manette. Tuttavia non avrebbe comunque avuto la possibilità di reagire”. Infatti nessuno si aspettava che Finnegan Elder gli avrebbe sferrato undici colpi, con un coltello acquistato negli Usa. Tanto meno il collega Andrea Varriale, presente con lui durante l’operazione finita in tragedia, è riuscito ad intervenire: “Non c’è stato tempo di reagire”. Varriale che invece la pistola di ordinanza l’aveva, “non poteva comunque sparare ad un soggetto in fuga altrimenti sarebbe stato indagato per un reato grave”, aggiunge Gargaro.

La morte di Cerciello è il terribile epilogo di una notte che inizia con il vicebrigadiere che prima di prendere servizio va in caserma e porta il gelato ai colleghi. Quella sera lui e Varriale, in borghese, intorno all’una raggiungono quattro colleghi, liberi dal servizio, che stavano assistendo alle fasi in cui alcuni ragazzi cercavano di acquistare la droga. Viene così avvicinata una persona mentre raccoglieva da terra qualcosa, a suo dire Bentelan, che poi sfugge. Si è scoperto dopo che si trattava proprio di Gabriel Christian Natale, uno dei due americani arrestato, che ha anche alcuni parenti a Fiumicino.

È in questa circostanza che viene identificato Sergio Brugiatelli, l’uomo che ha riferito di esser stato derubato del proprio borsello con dentro il cellulare e i documenti. I militari gli consigliano di sporgere denuncia e vanno via. Passa un’ora e – come invece ricostruito dal gip nell’ordinanza di arresto degli americani – alle 2.10 Cerciello viene contatto sul proprio cellulare dalla Centrale Operativa del Comando Gruppo Roma, che gli comunica come Brugiatelli dopo il furto avesse subito anche un tentativo di estorsione. A sua detta gli americani gli avevano proposto una scambio: il borsello in cambio di cento euro e una dose di cocaina. L’uomo così fissa un appuntamento con i due 19enni in via Cesi (dove non ci sono telecamere), al quale però si presentano Varriale e Cerciello. E da lì la colluttazione e poco dopo la terribile morte del vicebrigadiere.

 

Hotel troppo vicino per bloccarli subito

L’intervento di Cerciello e Varriale, per il generale Gargaro, è stato corretto, “analogo e ricorrente nella città di Roma”. A seguire l’operazione quella sera c’erano pure quattro pattuglie, ognuna con due militari a bordo. E qui un altro dubbio: le auto erano posizionate vicino a via Cesi, in modo tale da evitare di esser viste dagli americani. Ma dopo l’aggressione, i due giovani sono riusciti a scappare, raggiungendo l’hotel che si trovava a pochissima distanza, meno di un minuto a piedi. Un tempo troppo breve per l’intervento delle pattuglie.

 

La falsa pista dei maghrebini

Ieri è stato chiarito anche il retroscena della fake news in cui venivano additati due nordafricani come i responsabili dell’aggressione. “L’indicazione sui due maghrebini è stata data da Brugiatelli. Lo ha detto perché aveva il timore di dire che conosceva gli autori dell’omicidio. Non voleva essere associato al fatto”, ha spiegato Gargaro.

 

Il telefono di Brugiatelli sequestrato quella sera

Intanto continuano le indagini della Procura di Roma. “Ci sono ancora diversi aspetti su cui dobbiamo lavorare e fare degli approfondimenti. Ma dire a distanza di tre giorni che non ci siano ancora aspetti oscuri sarebbe quantomeno precipitoso”, ha detto il procuratore reggente Michele Prestipino.

Intanto i pm attendono i risultati dell’autopsia e l’analisi dei tabulati dei cellulari dei due americani e di Brugiatelli. Dalle chat e dei contatti di quest’ultimo si potrà chiarire il suo ruolo. Ma dall’Arma assicurano: mai stato un loro informatore.

Tir a fuoco sull’A14, Bologna rivive il 6 agosto 2018

Un incidente sul raccordo di Casalecchio di Reno ha causato l’incendio di due tir e bloccato il traffico nella tangenziale intorno a Bologna. È stato temporaneamente chiuso il tratto verso il bivio con la A14 in entrambe le direzioni. Lo scontro ha coinvolto due mezzi pesanti e una bisarca ed è avvenuto all’altezza del chilometro 4,2 della carreggiata sud verso la A14, proprio nella zona di Borgo Panigale, vicino al luogo dove un anno fa esplose un camion, facendo crollare un ponte causando un morto e alcuni feriti. C’è voluta un’ora circa per domare l’incendio, che è stato spento definitivamente dopo le 16. L’incendio è stato provocato dal tamponamento fra due camion a causa dei rallentamenti per un altro incidente. Il conducente del mezzo che ha tamponato è morto carbonizzato a causa dell’incendio della cabina. Aveva 68 anni, viveva con la moglie e i cinque figli in provincia di Treviso. Stava rientrando da Firenze dopo aver scaricato. Le fiamme hanno provocato un incendio anche sul rimorchio del mezzo tamponato, il cui conducente è stato ricoverato in condizioni non gravi. Un terzo mezzo, una bisarca, è rimasta coinvolta nello scontro mentre tentava di evitare i primi due mezzi.

Steve è morto, la polizia sotto accusa

Il caso giudiziario che tiene da 40 giorni col fiato sospeso la Francia è esploso. Il giovane animatore Steve Maia Caniço, scomparso la notte tra il 21 e il 22 giugno a Nantes, è morto. Il cadavere in decomposizione è stato ritrovato lunedì pomeriggio, nei pressi della gru “Titan” gialla, uno dei principali simboli della città. Ieri i risultati dell’autopsia hanno confermato l’identità. Aveva partecipato a una rave party sulla banchina del fiume Loira. Alle quattro del mattino 20 agenti della polizia hanno fatto irruzione, rispondendo al lancio di bottiglie e oggetti di vario genere con lacrimogeni, pallottole di gomma e manganelli. Durante i tafferugli in 15 sono finiti nel fiume. Tutti sono stati prontamente salvati dai soccorsi. Tranne lui. “Steve non sapeva nuotare”, hanno confermato i suoi genitori.

“C’erano persone che correvano per sfuggire ai lacrimogeni e alcune cadevano nell’acqua urlando”, ha raccontato Aliyah, un amico. Lo sconcerto per la violenza degli agenti ha diviso il paese e il governo. In migliaia si sono mobilitati sul web, chiedendo che fosse fatta luce sulla sua scomparsa con l’hashtag #oueststeve?. In sua memoria è stato realizzato un murales con al centro la sua immagine circondata dalla scritta: “Che fa la polizia?”. Sullo sfondo, gli agenti con i manganelli che si scagliano contro il muro di casse. Non mancano i gilet gialli. Il 20 luglio in tanti lo hanno ricordato lungo la banchina dove si è tenuta la contestata Festa della Musica. Anche ieri sera si sono radunati sul posto, mentre la fontana di Place Royale si è tinta di rosso. Il procuratore di Nantes, Pierre Sennès, ha aperto un’indagine penale contro ignoti per omicidio colposo. “Sembra che la caduta sia avvenuta in concomitanza con l’intervento della polizia”, ha dichiarato a Le Monde Cécile de Oliveira, legale di famiglia. Ma l’inchiesta amministrativa interna all’Ispettorato esclude ci sia una connessione. Il sindacato Sgp, però, ha accusato pubblicamente il responsabile dell’operazione. Dopo le ripetute richieste di intervento della sindaca socialista di Nantes, Johanna Rolland, nei confronti del governo, il caso rischia di diventare un boomerang. Ieri, il premier Edouard Philippe ha annunciato una nuova inchiesta sulle responsabilità del comune o della prefettura, “perché il concerto è stato organizzato senza alcun tipo di barriera”. È in corso anche un’indagine a seguito della denuncia di 89 ragazzi, presenti quella notte, che contestano la violenza degli agenti.

“Serena uccisa in caserma”. Chiesti cinque rinvii a giudizio

Sarebbe stata spinta contro una porta all’interno della caserma dei carabinieri di Arce. Morì così 18 anni fa Serena Mollicone, la studentessa uccisa il primo giugno del 2001. Dopo anni di indagini e perizie, la Procura di Cassino ha chiesto il rinvio a giudizio per cinque indagati: l’ex maresciallo dei carabinieri Franco Mottola (ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce) la moglie Anna, il figlio Marco e il maresciallo Vincenzo Quatrale per concorso in omicidio (per lui si ipotizza pure l’istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi), l’appuntato Francesco Suprano solo per favoreggiamento.

Secondo un’informativa dei carabinieri del comando provinciale di Frosinone Serena fu uccisa, presumibilmente dopo un litigio (forse Serena andò dai carabinieri per denunciare alcuni traffici di droga). A colpirla sarebbe stato il figlio di Mottola, Marco. La ricostruzione del delitto tratteggiata dalla perizia medico-legale indicò una compatibilità tra lo sfondamento della porta dell’alloggio della caserma e la frattura cranica riportata dalla studentessa diciottenne.

Secondo la perizia del Ris dopo essere stata uccisa il corpo di Serena fu spostato nel vicino boschetto dell’Anitrella dove poi fu trovato con mani e piedi legati dal nastro adesivo e una busta di plastica in testa.

La vicenda giudiziaria dell’omicidio della diciottenne Serena è stata lunga, tortuosa e segnata da episodi anche inquietanti. Due anni dopo il delitto fu arrestato con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere Carmine Belli, un carrozziere poi prosciolto nel 2006 da ogni accusa. Ad aggiungere mistero anche il suicidio del carabiniere Santino Tuzi che nel 2008, prima di essere ascoltato dai magistrati, si uccise sparandosi nella sua auto forse per il timore di raccontare l’inquietante verità e la presunta catena di pressioni e depistaggi che gravitavano attorno alla morte della studentessa scomparsa il primo giugno del 2001.