Il partito della vendetta non deve vincere facile

Quando Matteo Salvini propone i lavori forzati per gli assassini del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, probabilmente non fa altro che anticipare i contenuti del prossimo spot giustiziere, ispiratogli direttamente dall’ormai maggioritario popolo della vendetta. Che ha trovato nel ministro il più fedele interprete del risentimento che ribolliva nelle vene profonde della nazione e che egli ha saputo abilmente raccogliere e incanalare. Forse Michele Serra confonde causa ed effetto quando su Repubblica, giustamente inorridisce davanti all’ “onda di menzogne” diffuse sulla base della “‘notizia’ inesistente” che gli accoltellatori fossero due nordafricani, e parla di una vasta opinione pubblica “che si abbevera a quei pozzi avvelenati”. Al contrario, non sarà stato forse il prode Capitano ad abbeverarsi avidamente a quei pozzi che erano rimasti lì da troppo tempo trascurati? Riuscendo a trasformare quel veleno in voti sonanti? Per esempio, sulla giustizia quelle fonti, altamente inquinate, vengono alimentate dall’idea sovrana (anzi sovranista) che in generale le pene siano troppo miti, che i criminali beneficino di troppi sconti, e che tutto sommato dietro le sbarre sopravviva benone un popolo di parassiti mantenuti dallo Stato, cioè da noi contribuenti, vitto e alloggio compresi. Accanto al cliché feroce (caro a Salvini) che chi va in prigione deve “marcire”, possibilmente dopo “aver buttato via la chiave”, il popolo della vendetta non ha dubbi sulla necessità di rendere molto più afflittiva la pena. Lavori forzati che nell’immaginario salvinista non hanno niente a che vedere con l’avvitare bulloni o intrecciare vimini. Troppo comodo.

Il modello più popolare (e populista) sembra piuttosto simile al bagno penale della Guyana francese del film Papillon, con Steve McQueen e Dustin Hoffman che spaccano pietre, sotto un sole mortale, guardati a vista da spietati secondini armati. Che Salvini agisca in modo spesso politicamente losco per marciare verso il 40% (ieri, l’ultimo sondaggio Swg lo dava al 38%) è sotto gli occhi di tutti. Però quel 38, prossimo a diventare 40 esiste, e non possiamo cavarcela semplicemente dicendo che quei 10 o 12 milioni di italiani sbagliano o sono diventati così perché bevono acqua torbida. Chi non si arrende, chi non intende portare il cervello all’ammasso del centrodestra, chi non rinuncia “a giocare la partita” (Massimo Giannini), non può non vedere, piaccia o meno, che l’unico argine di governo all’avanzata del partito della vendetta oggi sono i 5S, insieme al premier Giuseppe Conte. A cui va certamente addebitata l’eccessiva remissività in alcune occasioni verso l’altro vicepremier (il mancato processo per la nave Diciotti): maestro nel gettare fumo negli occhi degli italiani, straparlando di porti chiusi e di legittima difesa. Cinque Stelle che vengono lasciati soli dal partito unificato del pop corn ogniqualvolta cercano di smarcarsi dai diktat leghisti, compresi Tav e autonomia differenziata.

Qualche giorno fa la sindaca di Roma Virginia Raggi si è recata, praticamente da sola, in via Napoleone III, davanti al palazzo di Casapound illegalmente occupato da quei fascisti del terzo millennio con parecchi santi al Viminale. Era andata lì con la richiesta di rimuovere la scritta, anch’essa illegale, che campeggia sulla facciata. La sua era soprattutto una sfida diretta a Salvini e alle sue insistenti indulgenze verso i camerati. Sfida di segno analogo a quella che nel maggio scorso la vide a Casal Bruciato garantire con la sua sola presenza, tra insulti e minacce, l’assegnazione di una casa popolare a una famiglia rom. Con tutte le critiche che le piovono addosso per i problemi non risolti della Capitale, lei sì che non ha rinunciato “a giocare la partita”. Infatti, i partiti e i giornali che oggi gridano e si sbracciano a favore dello stato di diritto – dopo la vergogna del giovane americano bendato in caserma – in quel caso sono rimasti prudentemente zitti. Non si sa mai.

Colpiti i democratici sardi: a fuoco una sede e l’auto di un sindaco

“Inspiegabile”. Parla così il segretario regionale del Pd Sardegna, Emanuele Cani, dopo il sopralluogo nella sede del circolo Pd a Dorgali, sventrato da un ordigno la notte scorsa. “Una bombola”, conferma Cani, che si è trattenuto a lungo con gli inquirenti e con la segretaria del circolo, Valentina Schirra, ora alle prese con la conta dei danni. La bombola è stata introdotta negli uffici – che ospitano anche altre associazioni – con la valvola allentata e a poca distanza da una miccia accesa. È mistero sui motivi del gesto: in comune governano i Cinquestelle, il Pd è all’opposizione: le beghe amministrative apparentemente non c’entrano. Potrebbero invece essere quelle il movente dell’attentato avvenuto nelle stesse ore a Cardedu ai danni del sindaco Matteo Piras. “Abbiamo vincoli nelle assunzioni, in cinque gestiamo un comune che nel periodo estivo arriva a 6000 abitanti, l’attività amministrativa va a rilento e magari qualche testa matta ha pensato di reagire incendiando la mia auto”.

E Zingaretti gira l’Italia da finto ambientalista

Non è certo se il verde vesta bene, ma di certo impegna poco e sembra andare su tutto, almeno in politica. Tanto che in questi giorni diverse anime del Partito democratico hanno rispolverato l’abito buono dell’ambientalismo, forse per cavalcare – con almeno un’elezione europea di ritardo – l’effetto Greta che i Verdi italiani non riescono a sfruttare a pieno nelle urne. E allora ecco che padri nobili, amministratori e figure di spicco insistono sul green, d’improvviso diventata la priorità di questo Paese almeno quando non si parla di Tav, su cui invece i vertici del Pd sono irremovibili. Con tanti saluti all’impatto ambientale dell’opera.

Per farsi un’idea della nuova anima dem basta dare un’occhiata all’annuncio della prossima Festa dell’Unità di Milano, che si terrà dal 30 agosto al 15 settembre, “la prima Festa sostenibile e plastic free”, come dichiarano festanti dal Pd.

Al bando piatti, bicchieri, cannucce e posate di plastica: “Per toccare con mano la sostenibilità, i visitatori potranno partecipare a laboratori esperienziali, come quello del riuso creativo di oggetti casalinghi”. “Qui c’è clima di futuro”, insomma, come campeggia nella locandina.

Sullo stesso solco sono poi le ultime dichiarazioni di Nicola Zingaretti: “Nella manovra chiederemo investimenti per cantieri green e creare lavoro”. Ovvero? “Vogliamo destinare 50 miliardi a un fondo verde per iniziare un green new deal italiano per investimenti pubblici verdi nei territori e in particolare nelle aree interne del Paese”.

Un fiume di retorica a cui si prova a dare sostanza aprendo il sito del Pd, che proprio in questi giorni sta lanciando la “Costituente delle idee”, ovvero una piattaforma che dovrebbe servire per confrontarsi con la base e scrivere insieme un programma comune. Si legge: “Riaccendiamo l’Italia. Verde, giusta, competitiva”. Più priorità di così non si può. Segue lunga e articolata dissertazione su come “la sostenibilità ambientale” non sia “un vincolo, ma un’opportunità”. Tra gli obiettivi, “dimezzare le emissioni di gas entro il 2030”, “portare al 40% la produzione da fonti rinnovabili”, “ridurre i consumi di energia del 45%” e così via.

D’altra parte la linea l’aveva dettata Walter Veltroni in un’intervista a Repubblica la scorsa settimana: “L’acronimo giusto è Ali. Ambiente, lavoro, istruzione. Gli effetti sociali, umani e produttivi che ha l’incipiente catastrofe ambientale sono molto maggiori di quelli registrati oggi dal Pil. I nostri figli e nipoti non vedranno più alcuni posti del mondo perché saranno sott’acqua, anche in Italia. L’ambiente potrebbe essere il principale rigeneratore dell’economia occidentale. La sinistra sarà ambientalista o non sarà”. Largo dunque, secondo Veltroni, a una nuovo partito verde nel centrosinistra, “dato che l’Italia è l’unico Paese dove non c’è”.

Ma l’anima ambientalista non si contiene neanche nei territori. Da Milano Beppe Sala, non iscritto al Pd ma cor teggiatissimo nel centrosinistra, si allinea prendendosi le deleghe all’Ambiente: “I giovani di tutto il mondo chiedono alle istituzioni e ai governi di affrontare il tema ambientale con serietà e urgenza. Ecologia e sostenibilità continueranno a guidare le nostre scelte”.

Perfino da Base riformista, la corrente dei lottiani, nelle scorse settimane è uscito un manifesto politico che rilancia “un ecologismo riformista”: “La salvaguardia dell’ambiente è un terreno cruciale perché si collega a questioni di uguaglianza e di solidarietà tra le generazioni”. Tutti sul carro green, allora. Almeno finché sono solo parole.

Tav, la Lega non sa che fare. Il Pd “verde” dice ancora sì

Che farà la Lega? Per ora il Carroccio tiene le carte coperte anche se è escluso che voti la mozione con cui il Pd ribadirà il suo sì all’opera. E così non è un mistero per nessuno, neppure tra i maggiorenti della segreteria zingarettiana, che con ogni probabilità il documento raccoglierà i voti solo del gruppo dem del Senato. E nemmeno tutti dato che Tommaso Cerno ha deciso di apporre la propria firma alla mozione per il no al Tav depositata dal Movimento 5 Stelle. Una mossa che non è piaciuta. E che ha messo in difficoltà quanti la ritengono comunque un’opera nata fuori dal percorso partecipativo del dibattito pubblico su cui molto spinge il segretario Nicola Zingaretti. Di tutto questo però nella mozione c’è solo il riferimento al necessario “confronto territoriale” per sbloccare le altre opere che sono ancora in attesa di realizzazione. Mentre la mozione dem impegna chiaramente il governo “alla rapida realizzazione della nuova linea ferroviaria”.

La questione “ora è un’altra ed è tutta politica” si smarca il responsabile infrastrutture del Pd Roberto Morassut. Il dibattito al Senato “non può essere derubricato con espedienti formali. Un voto differenziato tra Lega e Cinque Stelle sancirebbe la fine della maggioranza”. Sì, ma cosa accadrà davvero? La capigruppo di Palazzo Madama che dovrà integrare l’ordine del giorno per rendere possibile la discussione sul Tav, al termine dell’esame del decreto sicurezza bis, è convocata per oggi alle 10. Ed è certo che comunque la prima mozione che verrà votata è quella del Movimento 5 Stelle che nelle premesse sottolinea come “il progetto per la realizzazione della nuova linea ferroviaria presenta gravi criticità dal punto di vista della sostenibilità economica, sociale ed ambientale, evidenziate nel corso degli anni da numerosi studi e ricerche; che sull’attuale linea si registra da tempo una continua diminuzione del traffico merci e del traffico passeggeri tra l’Italia e la Francia e le molte previsioni alla base del progetto dell’opera sono state smentite dai fatti; che si tratta di un progetto obsoleto, legato a modelli di sviluppo superati e non sostenibili. E che sotto il profilo ambientale, il progetto genera danni ambientali diretti ed indiretti ai territori attraversati dall’opera”.

Per questo i 36 senatori pentastellati che l’hanno sottoscritta (più Cerno del Pd) chiedono “una pronuncia del Parlamento volta ad escludere la prosecuzione delle attività connesse alla realizzazione dell’opera” e di “avviare, in sede parlamentare, un percorso immediato volto a promuovere, per quanto di competenza, l’adozione di atti che determinino la cessazione delle attività relative al progetto per la realizzazione e la gestione della sezione transfrontaliera; una diversa allocazione delle risorse stanziate per il finanziamento della linea”.

Ora facendo da conto, a favore di questa mozione c’è il gruppo pentastellato e probabilmente una manciata di senatori di Leu. Forza Italia presenterà una sua mozione a favore del sì all’opera che probabilmente non sarà votabile dal Pd. E lo stesso farà Fratelli d’Italia. E la Lega? La linea che viene fatta trapelare è che non presenterà una mozione per ribadire il sì all’opera. E che si limiterà a non votare le altre. O forse a votare solo contro quella del Movimento 5 Stelle. Ma in Forza Italia qualcuno fa notare che “questa pretesa di autonomia non ha riscontro nei numeri parlamentari. E se Forza Italia che è il secondo partito al Senato decidesse di sottrarsi al voto sulla mozione 5 Stelle?” Insomma – è il ragionamento – inevitabilmente nei prossimi giorni la Lega sarà costretta a trattare. Se non con il Pd almeno con FI e con FdI. Che fa le bizze e peraltro minaccia di non votare il Dl sicurezza bis su cui alcuni del M5S hanno perplessità. Il Carroccio deve scegliere a meno di non voler correre il rischio che passi la mozione 5 Stelle sul tav. E allora sarebbero dolori.

“Sul Tav voto coi 5S”. E il partito di Milano chiede a Cerno i soldi

Dopo l’intervista rilasciata al Fatto dall’ex direttore dell’Espresso, Tommaso Cerno, nel Partito democratico è scoppiato il caos. Il senatore, eletto il 4 marzo nel collegio uninominale di Milano centro, aveva anticipato che avrebbe firmato la mozione “No Tav“ dei 5S. Ma il partito non ha gradito. “Oggi apprendiamo – ha scritto il Pd Milano Metropolitana in una nota a cura della Tesoreria – che il Senatore Tommaso Cerno, che si è messo ai margini della nostra comunità non rispettando le norme del nostro statuto in riferimento ai versamenti economici, ora lo fa anche su uno dei temi su cui ci siamo battuti con più forza, il Tav”. Il conflitto oramai è aperto, tant’è che il Pd ha dato mandato ai legali per recuperare i mancati versamenti. “Dopo l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, il Pd si autosostiene grazie ai contributi mensili che tutti gli eletti in Parlamento e in Consiglio Regionale sono tenuti a versare”, ha spiegato la Tesoreria che lo considera “un dovere di correttezza nei confronti dei tanti eletti che supportano le attività del partito e delle centinaia di militanti che prestano volontariamente il loro tempo alla comunità”.

Ancora riunioni sull’autonomia: intesa lontana

Ormai l’ultimo vero sostenitore, se ci si passa l’espressione, della cosiddetta “autonomia” è Giuseppe Conte. Ieri nel tardo pomeriggio, dopo l’ennesima giornata di insulti reciproci e la cancellazione delle audizioni sul tema dei ministri Tria e Bussetti in Parlamento, s’è dedicato a una riunione con la leghista Erika Stefani (Affari Regionali) e il grillino Alberto Bonisoli (Cultura): Veneto e Lombardia (e un po’ pure l’Emilia Romagna) largheggiano in richieste di competenze e diritti di proprietà anche sui beni culturali, avversate però da ministero, sindacati e grillini in genere.

In serata poi, mentre questo giornale va in stampa, Conte si avviava a sobbarcarsi pure un secondo meeting col ministro dell’Economia Giovanni Tria e altri sulla questione dei soldi. Il centro di tutto, come ha ribadito ieri il doge Luca Zaia: “Il tema fondamentale sono le questioni finanziarie”.

Secondo Conte sul “tema fondamentale” un accordo di massima con la Lega “romana” c’è già, ma non è chiaro quanto piacerà ai governatori. La richiesta del Veneto, a fine 2017, era di tenersi i 9/10 del gettito; poi tutte e tre le Regioni s’inventarono un bizzarro meccanismo – con Gentiloni a inizio 2018 – per spendere di più nelle zone a reddito più alto; infine, e siamo a febbraio, una trappola a base di costi standard ed extra-gettito che resta in mano ai governatori.

Insomma, quando parla di “questioni finanziarie”, Zaia indica il fatto che lui e i due colleghi delle Regioni più ricche d’Italia vogliono gestirsi in completa autonomia più soldi rispetto ad oggi. E qui si torna all’accordo di Conte: niente extragettito alle Regioni e non ci sarà nemmeno il fondo di perequazione chiesto dai 5 Stelle. I soldi “in più” li gestirebbe direttamente il Tesoro e qui, di nuovo, grillini e leghisti litigano: i primi li vorrebbero vincolati ai territori coi servizi più scadenti (cioè al Sud), il viceministro leghista Garavaglia aveva invece proposto la distribuzione a pioggia a tutte le Regioni, comprese quelle ricche, ipotesi però bocciata dallo stesso Conte.

Si vedrà come andrà a finire, ma se si unisce questa decisione al niet avallato dal premier sulla “regionalizzazione” della scuola – il piatto finanziariamente più ricco – si capisce come i governatori non possano essere contenti. Zaia aveva già dichiarato che se si tocca “l’autonomia finanziaria, l’unico punto su cui eravamo d’accordo, è inutile che venga a Roma”. Il collega lombardo Attilio Fontana ieri la metteva così: “Il testo del governo non lo conosco, ho letto alcuni stralci: se quelli fossero i veri contenuti della mediazione, credo proprio che sia finita ogni trattativa”.

Non è chiaro se questo è solo un modo per alzare la posta o i due leghisti (il dem emiliano Stefano Bonaccini è al traino e non ha capacità di manovra) hanno capito che questo governo è al capolinea e, dunque, meglio giocarsi tutte le carte col prossimo, a guida Salvini a stare ai sondaggi.

Qualche motivo per l’azzardo sul prossimo giro, Zaia e Fontana possono trovarlo agevolmente nelle posizioni di Luigi Di Maio, che negli ultimi giorni ha detto no assai decisi a: qualunque regionalizzazione della scuola, totale, cessione di infrastrutture e politiche infrastrutturali, politiche industriali e per l’innovazione, più altre cosette. L’intesa, insomma, sarà assai insoddisfacente per i leghisti del Nord rispetto al “secessionismo dolce” dei documenti iniziali. A spingere per l’accordo è rimasto solo Conte: simul stabunt, simul cadent.

Giustizia, Salvini in trincea: “Il testo non è condiviso”

I gialloverdi sono pronti a darsele sulla giustizia, già oggi, già nel Consiglio dei ministri. E sanno che sul dl sicurezza bis il burrone è un rischio. Mentre la figuraccia, cioè la foto delle loro spaccature, sarà inevitabile. Perché da Lega e soprattutto M5S ammettono già che la quota di galleggiamento a Palazzo Madama, quella dei 160 sì, non verrà raggiunta dalla maggioranza nella votazione sul decreto sicurezza bis.

Il voto di fiducia, ancora non ufficiale ma di fatto certo, via obbligata per blindare le fila e soprattutto schivare i voti segreti, non basterà a tacitare la dissidenza 5Stelle sul testo che va approvato entro la pausa estiva del 7 agosto. Un provvedimento bandiera per Matteo Salvini, quindi un’amarissima pillola per diversi senatori del Movimento: infuriati per la resa possibile sul Tav e per mille altre spine, dalla gestione del capo Luigi Di Maio al cortocircuito interno sulla presenza del premier Giuseppe Conte in Aula, martedì scorso.

Ed è un’incognita da allarme, per quel castello dei veleni incrociati chiamato governo, su cui il decreto incombe come la prima delle nubi. Ma questo pomeriggio potrebbe piovere altro rancore, perché la Lega guarda in cagnesco alla riforma della giustizia che il Guardasigilli del M5S, Alfonso Bonafede, porterà oggi in Consiglio dei ministri. “Il testo attuale non è condiviso” ricordano al Fatto in serata dal Carroccio, con bellica sintesi. Oggi, prima del Cdm delle 15, Salvini farà il punto con la ministra alla Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, mente e voce della Lega sulla giustizia. E deciderà la strategia, ieri coperta con un “per non ora non ci sbilanciamo” che pare la solita mossa per innervosire i 5Stelle. Ma tanto di esasperazione ce n’è già in abbondanza. Basta tornare al dl sicurezza bis, su cui alcuni grillini hanno presentato emendamenti in commissione, in accordo con il capogruppo. Mentre si è mossa in autonomia la dissidente più rumorosa, Elena Fattori, che ieri ha presentato emendamenti abrogativi del decreto, firmando anche quelli di due espulsi dal Movimento, Gregorio De Falco e Paola Nugnes. Ergo, Fattori sta ormai andando allo scontro che le potrebbe valere la cacciata. Ma anche altri potrebbero far mancare il loro voto al provvedimento. E tenuto conto che nel M5S è prevista l’espulsione automatica per chi non vota sì alla fiducia per il governo, in diversi potrebbero inviare certificati medici per coprire l’assenza. Consapevole del quadro, ieri sera il capogruppo Stefano Patanuelli ha cercato di ricucire le ferite in assemblea. Mentre in Senato già si fanno i conti.

Perché mettere la fiducia vorrà dire rinunciare ai 18 voti a favore di Fratelli d’Italia, che a quel punto voterebbe contro. Quindi bisognerà appellarsi alla voglia di non andare a casa di Forza Italia e di qualche dem. E al sostegno di molti degli 8 del Gruppo delle Autonomie. Mentre tra i 18 del Misto, gli unici sì certi sono quelli dei due del Maie e di un ex grillino, Carlo Martelli. Intanto il fronte del disagio dentro il Movimento si dilata, anche se Di Maio a Zapping ostenta ottimismo: “Sul decreto in Senato sono assolutamente tranquillo”.

Non può essere così sereno Bonafede, che oggi potrebbe assistere all’assalto della sua riforma da parte di Salvini e Bongiorno. Ieri nel pre-consiglio i tecnici non hanno scoperto le carte. Ma al Carroccio molti passaggi della riforma non piacciono. Ed è possibile che per rilanciare oggi torni a invocare la riforma delle intercettazioni. Un nodo che il Guardasigilli vuole rimandare all’autunno, e che ritiene comunque incompatibile con il suo testo sulla giustizia penale e civile, incentrato sulla riduzione dei tempi dei processi e sulla riforma del Csm. Nell’attesa a In Onda Bonafede ha ribadito l’urgenza del via libera: “Conto che in Cdm che si arrivi all’approvazione definitiva, e che entro dicembre la riforma sia in vigore”.

Spot sulle scommesse, Di Maio attacca Agcom: pronte le nomine

Luigi Di Maio chiede le dimissioni dell’Autorità per le Comunicazione perché colpevole di frenare l’applicazione della legge che blocca la pubblicità sul gioco d’azzardo e annuncia che il governo è pronto a una riforma. Oltre le responsabilità dell’Agcom, come raccontato ieri dal Fatto, ci sono quelle del governo che nel 2018 approvò un testo troppo vago. Quest’occasione, con la dura risposta del presidente dell’Autorità, Cardani, fa accelerare Lega e 5Stelle sull’intesa per rinnovare i vertici già scaduti dell’Agcom e dell’Autorità per la Privacy.

Dall’aereo di Silvio a Mastella e Rutelli al Gran Premio

L’uso impropriodelle risorse pubbliche, che sia finito o no in una condanna per peculato, ha storicamente dato grande spinta alle cronache politiche. Per stare agli ultimi, basti citare i vari processi ai consiglieri regionali in tutta Italia per le cosiddette “spese pazze”: dalle mutande verdi al libro erotico, da quantità di benzina buone per un giro del mondo al biglietto del “Gratta e vinci”. Tornando più indietro, però, ci sono casi che hanno segnato un’intera epoca politica. Non si può, in casi come questi, non partire da Silvio Berlusconi. L’ex Cavaliere finì indagato e poi archiviato per peculato per il suo uso per così dire disinvolto dei voli di Stato: l’allora premier fu immortalato tra maggio e giugno 2008 mentre si portava in Sardegna con l’aereo blu il suo cantante favorito Mariano Apicella e decine di avvenenti fanciulle. Un caso simile, sempre con archiviazione, era capitato a Clemente Mastella e Francesco Rutelli: in pratica nel 2007 l’allora Guardasigilli s’era fatto dare un passaggio, col figlio, dall’aereo blu che portava il vicepremier al Gran Premio di Monza. “Mio figlio non lo vedo mai, che male c’è se l’ho portato al Gran Premio? Tanto, 10 o 15 non cambiava niente”, si difese l’uomo di Ceppaloni. Una certa polemica scatenò anche l’abitudine del predecessore di Mastella a via Arenula, l’ingegnere leghista Roberto Castelli, di trascorrere le vacanze nel carcere di Is Arenas, proprio davanti ad alcune magnifiche spiagge sarde: “Ho pagato di tasca mia, se fossi andato in Costa Azzurra tra scorta e albergo avrei speso molto di più”. Finì con una condanna, invece, il peculato un po’ boccaccesco contestato a Salvatore Sottile, ex portavoce di Gianfranco Fini, per l’uso improprio delle auto della Farnesina: i pm gli contestarono di aver fatto prelevare con l’auto blu la soubrette Elisabetta Gregoraci da casa per farla portare al ministero dove, disse lei, ci furono dei “bacini”.

Scabbia a bordo, il governo lo sa da giorni

Tra i 20 e 30 casi di scabbia e un sospetto caso di tubercolosi. È questo il quadro a bordo del pattugliatore Gregoretti, che ieri su disposizione della procura di Siracusa, è stato sottoposto alla visita di 3 infettivologi e dei carabinieri del Nucleo antisofisticazioni e sanità. Le condizioni igienico-sanitarie sono precarie: i 116 naufraghi – due giorni fa sono stati fatti sbarcare 15 minori – sono nell’area di coperta, quindi all’aperto, con dei teloni che li riparano dal sole e un solo bagno a disposizione. Oggi, con la consegna dei referti alla procura di Siracusa, i circa 30 naufraghi che necessitano di cure mediche saranno autorizzati a scendere. Il fatto più grave, però, è che della presenza di un focolaio di scabbia a bordo, per quanto risulta al Fatto, il comando centrale delle capitanerie di porto, che ricade sotto la competenza del ministero delle Infrastrutture retto da Danilo Toninelli, era già al corrente da qualche giorno. C’è voluta l’iniziativa del procuratore capo di Siracusa, Fabio Scavone, che ha aperto un fascicolo contro ignoti proprio per la verifica delle condizioni igienico sanitarie a bordo, per certificare i casi di scabbia e di presunta tubercolosi. Un medico a bordo aveva già comunicato al comando delle capitanerie, e quindi al governo, la presenza del focolaio: nessuno ha però fatto evacuare gli ammalati, accettando quindi il rischio che il focolaio si espandesse tra i naufraghi e tra l’equipaggio. La procura valuterà se si tratti di omissione di atti di ufficio e gli eventuali responsabili. Quel che appare certo, per ora, è che sotto il profilo giudiziario non si profila un nuovo caso Diciotti: l’ipotesi di sequestro di persona non è al momento sul tavolo degli inquirenti.

Piuttosto, sale il malumore tra i militari, poiché, a differenza della Diciotti, il soccorso dei naufraghi stavolta era stato concordato col Viminale e il ministro Matteo Salvini aveva assicurato un sbarco in tempi rapidi. E quindi, seppure non sequestrati nell’accezione penale del termine, militari e naufraghi restano comunque bloccati da 6 giorni in attesa che l’Ue si accordi sul ricollocamento dei migranti. La situazione, oltre che drammatica, è paradossale: il pattugliatore Gregoretti, che è a tutti gli effetti suolo italiano, resta bloccato al pari delle navi delle Ong che battono bandiera straniera, nonostante lo stesso Salvini abbia autorizzato il soccorso. E l’accordo non è stato ancora raggiunto. Ma d’altronde, seppure l’accordo tardasse ad arrivare, fino al punto di spingere la procura di Siracusa a indagare Salvini per sequestro di persona, l’esito è scontato: la giunta parlamentare per le autorizzazioni ha già salvato una volta il ministro con il voto del M5s. A meno di contraddire se stesso, il M5S gli ridarebbe lo scudo. E se non lo facesse, aprire uno scontro che rafforzerebbe Salvini nei sondaggi. Il tutto sulla pelle – tra scabbia e presunta tubercolosi – dei naufraghi e dei militari italiani a bordo.