Tra cozze, libri e selfie il Papeete diventa la Capitale balneare

Abituati al dualismo tra Capitale e Capitale morale, questa estate ci offre l’agognata terza via. È la fine di un bipolarismo anche questo, in fondo, se a fianco a Roma e a Milano avanza la versione romagnola degli stanchi quartieri generali della politica, vera Capitale balneare di questo Paese: Milano Marittima.

A renderle gli onori delle cronache politiche, in queste settimane, è il ministro tuttofare Matteo Salvini, ormai ospite fisso di quella frazione di Cervia, in provincia di Ravenna. Dai lettini del Papeete Beach – stabilimento frequentato dal vicepremier e gestito dall’amico ed ora europarlamentare Massimo Casanova – parte di tutto: moniti ai 5 Stelle, dirette Facebook, ricette per la flat tax, nostalgie per i lavori forzati e ovviamente tanti, tantissimi bacioni.

Salvini ha passato qui gli ultimi week end e adesso ha deciso di tirar lungo con le vacanze ancora per qualche giorno, anche perché sabato parlerà dal palco della Festa della Lega proprio a Cervia.

Occasione per passare un po’ di tempo col figlio – la fidanzata, Francesca Verdini, questa volta non l’ha raggiunto – e per alternare il lavoro al ristoro. Domenica il Pepeete era imbandito a festa, causa compleanno di un amico del Capitano: pranzone con antipasto di vongole, pasta con le cozze, frutta, torta e bollicine.

In spiaggia, però, il ministro preferisce esser lasciato solo, in compagnia delle tante telefonate e di Antoine de Saint-Exupery, il cui Terra degli uomini è finito anche sul profilo Instagram del vicepremier. Chi lo ha visto racconta la solita processione per selfie e autografi. Giornalisti? Meno degli altri anni, anche tra le testate locali: “Ormai qui è un habitué, non abbiamo mandato nessuno nel week end”, ci spiegano.

La notizia, in effetti, sarebbe se Salvini non arrivasse più in Romagna. E invece anche quest’anno c’è. Sabato sera lo ha accolto il ristorante Le Ghiaine di Cervia, posto “di classe – ammoniscono i nottambuli romagnoli – ma alla buona, perfetto per un populista”.

Assaggi di piada romagnola e tipici cappelletti, prima di buttarsi nella movida. La sera niente Papeete, meglio i locali del centro. Sabato Salvini è finito a far serata allo Hierbas, “dinner club” (cena e dopo cena con dj set) a due passi dal mare dove è diventato inconsapevole protagonista di alcuni video sui social. Le altre sere – così pare – sono state molto più light: “qualche bevuta e poi si ritirava verso mezzanotte”, forse per preservarsi per il giorno dopo.

La compagnia è quasi tutta leghista: in riviera c’è Casanova, certo, ma tra gli altri ci sono anche Stefano Bolognini, assessore lombardo alle Politiche Sociali, e l’assistente di Salvini al ministero dell’Interno Andrea Paganella. Senza dimenticare Jacopo Morrone, deputato, sottosegretario alla Giustizia e responsabile della Lega in Emilia Romagna, che a Cervia viene bene per il divertimento ma anche per preparare il terreno alla sfida per le Regionali in programma tra fine 2019 e inizio 2020, bersaglio grosso insieme alla Toscana per completare il cappotto nelle ex roccaforti rosse.

E così al Papeete Salvini telefona, legge, ri-telefona e scatta, imprevisti a parte. La processione per il vicepremier è notevole, in coerenza con i sondaggi. In rete finiscono i selfie con un gruppo dei Giovani della Lega Lombardia, ma a subire il fascino del potere sono anche due esponenti di Forza Italia, Luca Veggian e Adriano Corigliano, rispettivamente sindaco di Carate Brianza (Monza) e soprattutto vicesindaco a Giussano, città che fu già del leggendario Alberto, quello della battaglia di Legnano e del simbolo della Lega (Nord).

È qui nella nuova Capitale che Padania, berlusconismo e sovranismo si incontrano. Nel nome della riviera e della piadina.

La Polizia ha un problema: sembrare un corpo privato

Il procedimento disciplinare che sarà aperto alla Questura di Ravenna riguarderà innanzitutto l’agente che ha portato il figlio di Matteo Salvini a fare il giretto sulla moto d’acqua a Milano Marittima. Ma potrebbe estendersi ai colleghi che con toni arroganti, a volte minacciosi, si rivolgevano al giornalista Valerio Lo Muzio, dicendogli di allontanarsi da quel tratto di spiaggia e di non riprendere la scena che poi è finita su Repubblica.it. Potrebbe andarci di mezzo qualche agente della scorta di Salvini, particolarmente attivo nel promuovere l’omaggio al figliolo sedicenne del ministro degli Interni.

Come annunciato da “fonti della Questura” faranno tutti gli accertamenti e si vedrà. Astrattamente l’uso privato di un mezzo di servizio in favore di terzi potrebbe anche portare a una denuncia per peculato d’uso, ma qui invece la moto d’acqua ha fatto lo stesso percorso che avrebbe fatto per garantire la sicurezza del ministro dell’Interno in spiaggia, quindi nessuno se n’è appropriato ad altri fini. Il trasporto di un passeggero non autorizzato è privo di copertura assicurativa, ma per fortuna non si è fatto male nessuno. Naturalmente il questore di Ravenna, Rosario Eugenio Russo, si è consultato sul da farsi con i vertici del Dipartimento di pubblica sicurezza.

Nella polizia c’è irritazione e imbarazzo. Non tanto per il fatto in sé, che in altri Paesi porterebbe dritto dritto alle dimissioni del ministro mentre da noi “è stato un errore da papà” mette d’accordo quasi tutti. Il problema è che la scenetta di Milano Marittima offre l’immagine, peraltro ritenuta falsa e fuorviante, di una Polizia di Stato sostanzialmente “privatizzata”, cioè ridotta al personale servizio di un leader politico e dalla macchina della sua propaganda etnico-politica che ha parzialmente sostituito gli uffici stampa istituzionali: si dà notizia degli arresti di stranieri, un po’ meno degli arresti di italiani; si confonde la comunicazione istituzionale con invettive, minacce e insulti del ministro capo della Lega. Non era mai successo in questi termini. È la stessa irritazione che aveva accompagnato le uscite pubbliche del vicepremier con la felpa della polizia, che a un certo punto non a caso si sono interrotte. O le polemiche sulla rimozione degli striscioni sgraditi nelle città che avevano la fortuna di ospitare le visite del titolare pro tempore del Viminale.

Nei suoi quattordici mesi da ministro dell’Interno non si può dire che Salvini si sia impossessato della polizia. Il capo, Franco Gabrielli, è rimasto al suo posto e non solo perché sarebbe difficile sostituirlo senza prendersi una grave responsabilità. Il punto vero è che dietro la propaganda c’è poco: molte chiacchiere, benzina gettata sul fuoco delle tensioni che attraversano il Paese e nessun investimento significativo sulla sicurezza. Così proprio ieri Gabrielli, intervenendo a Catania dove gli operatori di polizia lavorano in condizioni particolarmente disagiate in attesa della costruzione di una “cittadella” che ha tempi molto lunghi, è tornato sulla nota dolente delle risorse umane che mancano: “Abbiamo un buco di organico che non è stato colmato in questi anni – ha detto il capo della polizia –. La mia amministrazione in questo momento ha poco meno di 99 mila uomini rispetto ai 117 mila che avrebbe dovuto avere ed ai 106 mila che poi la legge Madia ha ripristinato”. Gabrielli ha ricordato i risultati del prolungato blocco del turn-over: ora che andranno in pensione gli arruolati degli anni 80, “il saldo nei prossimi anni lungi dall’aumentare, diminuirà. Si abbasserà l’età media. Avremo una significativa presenza sul territorio di ragazzi e ragazze più giovani – ha spiegato –, ma avremo un deficit di professionalità”. Applaudono i sindacati di polizia. Esprime preoccupazione il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Non pervenuti il ministro dell’Interno e gli alleati M5s.

Salvini jr sullo scooter blu. Lui: “Errore mio, da papà”

“Io son qua all’ombrellone, eh”. Come se lo stesse lasciando nelle mani degli animatori, papà Matteo si premura di far sapere che al loro ritorno lo troveranno lì, sul lettino vista mare. Ma Matteo è un papà speciale, fa il ministro dell’Interno. E l’animazione, sulla spiaggia di Milano Marittima, oggi a suo figlio la fa la Polizia di Stato: un giro sulla moto d’acqua blu, alla guida un agente in divisa da mare. Sarebbe rimasto un innocente pomeriggio tra colleghi del Viminale , se non fosse per la telecamera del giornalista Valerio Lo Muzio, videomaker per Repubblica, che ha immortalato la scena e resistito per tre minuti buoni alle pressioni degli agenti che volevano interrompesse la registrazione. Non gli hanno mostrato un tesserino, erano in bermuda, a petto nudo: “Non lo riprendere adesso che sta in acqua”, attaccano bottone mentre Federico sale a bordo della moto d’acqua. Ma la cortesia passa in fretta: “Mi stai prendendo per il culo? O l’abbassi o te la leviamo”, dicono a Lo Muzio che pure sta riprendendo in un luogo pubblico. “Sono moto della polizia”, insiste la scorta del ministro. Il bolide intanto è oltre le boe. “Non riprenda la moto della polizia, viola la privacy”, intima l’agente in costume. “Glielo dico da poliziotto”. Perché? “Perchè mette in difficoltà tutti quanti noi”. Il divieto vale solo per il mezzo che sta navigando, non per quello parcheggiato sulla battigia: “Chi c’è a bordo?”, domanda il giornalista. “Un collega”, risponde il poliziotto. Che arriva a negare l’evidenza: “È da solo”. E perfino ad aggiungere: “Io non mi sono identificato come un poliziotto”. Infine, di fronte alle rimostranze di Lo Muzio, minaccia: “Se vuoi vieni con me, mi qualifico e ti dico chi sono”. Più tardi, Matteo Salvini dirà che si è trattato di un “errore mio, da papà” e si preoccupa del fatto che “nessuna responsabilità venga data ai poliziotti”, visto che la Questura di Ravenna ha già avviato “accertamenti”. “Spero che non paghino loro”, fa trapelare anche Luigi Di Maio, che si guarda bene dal commentare in chiaro la vicenda. L’unico 5 Stelle a sbilanciarsi è Carlo Sibilia, che al Viminale è sottosegretario: “Anche a me piacerebbe passare una giornata al mare con i nipotini: peccato che uomini dello Stato debbano usare il tempo per queste cose”.

Preferisco di No

Soltanto in un Paese smemorato come il nostro poteva avere successo lo slogan di Salvini, che l’ha copiato da Renzi, che l’ha copiato da Berlusconi, sull’ “Italia dei Sì” (bella) contro l’ “Italia dei No” (brutta). Chi scrive si è sempre identificato nel motto di Longanesi “Sono un conservatore in un Paese in cui non c’è nulla da conservare”. E da almeno trent’anni constata che – salvo rare eccezioni, da contare sulla dita delle mani di un monco – le cosiddette “riforme” di una classe politica perlopiù indecente hanno regolarmente peggiorato le cose. Eppure tutti quelli che, a ogni “riforma” strillavano come ossessi il loro “sì”, dovrebbero chiedere scusa e possibilmente pagare i danni a chi, inascoltato, diceva “no”. Anche nella forma più educata e un po’ surreale di Bartleby lo scrivano del famoso racconto di Herman Melville: “Preferirei di no”. L’ultima volta che un bel No ci salvò da guai incalcolabili fu al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, quando respingemmo la schiforma Renzi-Boschi-Verdini e preservammo la nostra Carta fondamentale. Ma lo stesso era accaduto nel 2006, con la vittoria del No referendario alla deforma di B. E tutte le volte in cui, non potendo farlo noi cittadini, presidenti della Repubblica degni di questo nome (Scalfaro e Ciampi) e la Consulta respinsero a suon di No un bel po’ di leggi incostituzionali del centrosinistra (il decreto salvaladri Amato-Conso) e di B. (la Gasparri, l’ordinamento giudiziario Castelli, la Pecorella che aboliva l’appello solo per i pm, la Cirami, il lodo Schifani, il lodo Alfano ecc.). Se Napolitano avesse proseguito quella meravigliosa tendenza al No, ci avrebbe risparmiato le ultime vergogne del berlusconismo e tutte quelle del renzismo.

Anche perché ogni No (al peggio) sottintende sempre un Sì (al meglio). Pensiamo al valore morale del No al Tav, cioè alla devastazione di una valle, quella di Susa, già martoriata da scempi di ogni genere, e delle casse dello Stato, già grassate e spolpate da decenni di bande e scorribande del partito trasversale degli affari. Dire No al Tav significa dire Sì all’ambiente e alla ricerca tecnologica su nuovi modelli di mobilità che tutto il mondo studia e realizza, tranne noi. Quando i 5Stelle, in questa strana stagione giallo-verde, hanno detto No alla Lega sul mega-condono fiscale, sulle trivelle, sugli inceneritori, sull’emendamento per l’eolico pro Arata&Nicastri, sulla nomina di Arata a capo dell’Autorità per l’Energia, sulla secessione della scuola spacciata per autonomia, sulla legge Pillon contro il diritto di famiglia, i loro elettori e non solo gliene sono stati grati.

Così come per i No alle depenalizzazioni del peculato per salvare quelli di Rimborsopoli e dell’abuso d’ufficio per salvare Fontana&C.. Il guaio è che ne avrebbero dovuti dire di più, di No. Per esempio: sul salvataggio di Salvini dal processo per sequestro di persona sulla nave Diciotti, hanno pronunciato un Sì che tradiva dieci anni di battaglie per la legge uguale per tutti. E i tradimenti si pagano, mentre le sconfitte politiche anche cocenti – come quella, ormai probabile, sul Tav Torino-Lione e quelle certe sul Tap e sull’Ilva – si possono alla lunga perdonare. Intendiamoci: non tutti i No sono popolari solo perchè sacrosanti, anzi molti No sacrosanti fanno perdere un sacco di voti. Soprattutto in un Paese senza memoria che non pensa mai a come starebbe meglio se qualcuno, a suo tempo, avesse detto No alla privatizzazione delle autostrade, al Mose, ai mondiali di calcio di Italia 90, alle Olimpiadi invernali di Torino 2006, ai Mondiali di Nuoto di Roma 2009, all’Expo di Milano 2015 e a decine di grandi opere e grandi eventi inutili e costosi che hanno svuotato l’erario e indebitato le metropoli senza produrre un euro di valore aggiunto. Infatti, se si facesse un sondaggio sugli illuminati No di Monti e della Raggi alle Olimpiadi di Roma 2020 e 2024, la maggioranza sarebbe contraria: la maggioranza, non da oggi, vuole panem et circenses, salvo poi strillare quando arriva il conto delle tasse per ripagarli.

Ora Salvini, forte dei voti incassati il 26 maggio, continua a menarla col Partito dei Sì (la Lega) contro il Partito dei No (il M5S). E molti si bevono questa favoletta per gonzi secondo cui dire Sì beatamente e beotamente a tutto sarebbe un vantaggio per i cittadini. Senza mai domandarsi a che cosa si debba dire Sì. Sì all’autonomia differenziata in versione secessione? Per carità. Sì a una flat tax che taglia le tasse ai ricchi, da sempre mantenuti dai lavoratori dipendenti e pensionati del fu ceto medio? Dio ce ne scampi. A ben vedere, qualche Sì conveniente per la collettività ci sarebbe: il Sì definitivo alla legge costituzionale che riduce di un terzo i parlamentari (si spera accompagnata da un ritocco dei collegi del Rosatellum, per evitare gli effetti ipermaggioritari del combinato disposto), il Sì alla norma che taglia gli stipendi degli eletti più pagati d’Europa, il Sì alla legge contro la privatizzazione dei servizi idrici e degli altri beni comuni, il Sì al salario minimo (su cui ci scavalca persino da frau Von der Leyen), il Sì a una riforma della Rai che elimini non il canone ma i partiti, il Sì a una riforma che cacci la politica dalle Asl e dagli ospedali. E – aggiungiamo noi – il Sì al carcere per gli evasori con l’aumento delle pene e la sparizione delle vergognose soglie di non punibilità per chi deruba il fisco. Sono tutte norme previste dal Contratto di governo, a cui il sedicente Partito del Sì ha finore detto No o Ni. Ma sono anche norme di puro buonsenso ed equità che dovrebbero campeggiare nei programmi di un centrosinistra degno di questo nome. Che, se nei suoi 11 anni di governo sugli ultimi 20, avesse pronunciato i Sì e i No giusti, non sarebbe scomparso dai radar.

Serie A: alla seconda giornata è già Lazio-Roma e Juve-Napoli

L’Italia “pallonara” può ripartire tra un mese: il prossimo campionato di Serie A segnerà il fischio d’inizio il 24 agosto e andrà avanti fino al 24 maggio (in anticipo, visto gli Europei 2020). Tre i turni – di mercoledì – infrasettimanali: 25 settembre, 30 ottobre e 22 aprile. Quattro le soste per le nazionali: 8 settembre, 13 ottobre, 17 novembre e 29 marzo. Unica domenica di pausa natalizia, il 29 dicembre. Si comincia con Parma-Juve, Roma-Genoa, Inter-Lecce, Fiorentina-Napoli e Udinese-Milan. Da tenere d’occhio già la seconda giornata, con l’andata del derby Lazio-Roma e il big match Juventus-Napoli. Alla quarta, invece, andrà in scena il derby della Madonnina, Milan-Inter; alla quinta Inter-Lazio. La sfida tra le due grandi, il derby d’Italia Inter-Juve, si consumerà invece alla settima giornata. Andata in casa della Roma contro il Milan alla nona. Altro turno importante l’undicesimo, quando si consumeranno le sfide tra Milan e Lazio, Roma e Napoli e il derby Torino-Juve. Il match-clou della settimana successiva sarà invece Juve-Milan. Inter-Roma e Lazio-Juve alla quindicesima giornata.

La “prevalenza del cretino” non risparmia nemmeno Verdi

Ogni pagina di Flaubert è immortale, né ad alcuna sarebbe possibile aggiungere una virgola. Tranne una sua opera, il Dictionnaire des idées réçues, ossia il Dizionario dei luoghi comuni. Il Sommo era, più che fasciné, come dice, ossessionato par la bêtise, dalla cretinaggine. Anche il suo ultimo romanzo incompiuto, Bouvard et Pecuchet, è una sorta di catalogo della cretinaggine. Ma il Dizionario è superato perché i luoghi comuni e la cretinaggine hanno fatto tali passi avanti dai tempi del genio di Croisset che occorrerebbe una nuova loro enciclopedia. Purtroppo di Flaubert non ce ne sarà più un altro.

Il caso che commento non mi è chiaro. Nel senso che non capisco se il soggetto che l’ha scatenato sia una furbastra che vuol far parlare di sé grazie all’altrui e generalizzata bêtise, che nel caso di specie si chiama politically correct, ovvero una cretina in buona fede della serie golden. Il risultato non cambia.

Uno dei capolavori del teatro musicale di tutti i tempi è l’Aida di Verdi. La protagonista è una principessa etiope, dunque non di razza caucasica ma scura, a non dir negra, di pelle. Ciononostante, incarnando ella il fascino, la bellezza, la bontà, la dedizione, il condottiero Radamès, della nazione egizia che tiene a corte Aida, s’innamora di lei, e per lei perde l’amore della principessa figlia del Re, Amneris, trono e vita. Aida, schiava in quanto prigioniera di guerra, è a corte umanissimamente trattata; né – mi correggano gli egittologi – nell’Oriente antico esisteva alcuna forma di razzismo. Esso venne inventato dagli ebrei verso tutti gli altri popoli, e dai greci verso coloro che consideravano barbari.

Or un soprano americano, che in questi giorni interpreta Aida all’Arena di Verona, essendo di razza caucasica si rifiuta di dipingersi il volto di nero, come è costume da quasi centocinquant’anni. Per non praticare il razzismo, ella afferma. Se facessimo un elenco di Opere liriche sulle quali vi sono in scena negri andremmo lontano. Mozart, Meyerbeer, Bizet, Gomez, Reyer, Casavola, Phénelon, fino al bellissimo Mulatto di Jan Meyerowitz, un geniale ebreo che conobbi negli anni Settanta. E Porgy and Bess; e West side Story… Come metterla nel caso più delicato de La Juive di Halévy? Occorrerebbe togliere ai protagonisti i simboli della loro religione e della loro stirpe?

Non vorrei essere nei panni di Cecilia Gasdia, un grande soprano che ora è sovraintendente dell’Arena di Verona. La legge e il buon senso le consentirebbero di “protestare” l’americana e sostituirla. Ma ne farebbe una martire del politically correct a favore della quale si schiererebbero i cretini di tutto il mondo. Fargliela passare liscia costituirebbe un precedente pericolosissimo. Ricordo, in via incidentale, che Elaine Ross, Shirley Verrett, Grace Bumbry, Martina Arroyo e Jessye Norman, negre, sono state fra le più grandi cantanti degli ultimi decennî. Pittarle di bianco quando interpretano Isolde, Valentine, Dalila, la principessa Eboli, Amneris stessa, etc?

Un titolo può esser aggiunto a quelli di Flaubert. Opera di due grandi amici il rapporto con i quali mi manca sempre più. Sono Fruttero e Lucentini. Il libro è, ovviamente, La prevalenza del cretino.

Ps: Alle tre e mezzo del pomeriggio Il Fatto Quotidiano mi rende edotto che il soprano statunitense ha presentato certificato medico onde non partecipare alla recita di domenica. Da quale malattia sarà l’eletta artista affetta? Penso da una di quelle che rendono gialla la faccia, colore col quale ben potrebbe apparire in scena. È quello del manto indossato da Giuda negli affreschi padovani della Cappella degli Scrovegni.

Dai monti al circo: l’altezza per sfuggire alla miseria

“Non conosciamo mai la nostra altezza/ finché non siamo chiamati ad alzarci./ E se siamo fedeli al nostro compito/arriva al cielo la nostra statura”. Con ogni probabilità i fratelli piemontesi Battista e Paolo Ugo, da Vinadio (Cuneo), in Valle Stura, non vennero mai a conoscenza dei versi della poetessa americana Emily Dickinson, ma le loro altezze furono comunque molto più vicine al cielo di quelle dei comuni mortali. Battista toccava i due metri e trenta centimetri; Paolo era leggermente più basso, essendo alto due metri e venti. In un suo libro di oltre trent’anni fa, Figura gigante, dedicato ai due fratelli, Nico Orengo scrive che forse i Giganti Ugo, come sarebbero stati chiamati tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento nei circhi come il celeberrimo Barnum, nelle fiere, nei teatri di Parigi e di New York, diventarono famosi forse a forza di coltivare la malinconia per la loro terra, sperando in un loro ritorno. Lasciarono Vinadio per esibirsi assieme ad altre “meraviglie” umane e fenomeni da luna park: nani, uomini cane e uomini elefante, donne mulo e donne scimmia, indiani d’America. Non avrebbero più rivisto le loro montagne. Battista, nato nel 1876, morì a New York il 23 aprile 1916. Paolo, venuto alla luce nel 1886, si era spento a Maison Alfort, nei pressi di Parigi, il 16 febbraio 1914.

I Giganti Ugo, “Les plus grands géants” come recitava una pubblicità, hanno ispirato diversi libri, a cominciare da quello di Orengo, uscito nel 1984. È fresco di stampa, per l’editrice cuneese Araba Fenice, il volume I giganti di Vinadio. I fratelli Ugo di Adriano Restifo, un ricercatore di storia locale originario dello stesso paese dei fratelli Ugo, che presenta una buona documentazione, anche fotografica, proveniente da archivi di Parigi e di New York. Cresciuti in un famiglia di contadini della montagna della Valle Stura, dove al lavoro dei campi si univa, d’inverno, l’emigrazione nella vicina Francia, Battista e Paolo dovettero alla loro anomalia fisica il successo, così come quella malinconia, quello spaesamento, raccontati da Orengo. Il primo a partire fu Battista. Dopo avere frequentato qualche anno di scuola elementare, e avere lavorato per i campi, i prati e gli alpeggi del vallone di Riofreddo, a diciotto anni, quando era già alto più di due metri, con altri ragazzi andò a fare il boscaiolo in Francia. Notato da un impresario, accettò la sua proposta di esibirsi come fenomeno umano nel Nizzardo e nel Marsigliese, tra caffè, baracconi, fiere e piazze. Il nazionalismo transalpino costrinse Battista a francesizzare il suo cognome in Hugo, oltre che a dirsi nativo di Saint Martin Vesubie, un paese situato al di là della frontiera. Funzionò tutto. All’Esposizione internazionale di Parigi, nel 1900, il pubblico decretò il successo del gigante. Nel frattempo pure uno dei suoi fratelli minori, Paolo, era cresciuto tanto da raggiungere i due metri. Perciò si unì a Battista. Gli altri fratelli e sorelle Ugo, cinque, invece, dovettero accontentarsi di altezze normali; uno di loro, Giuseppe, venne addirittura riformato al militare in quanto alto poco più di un metro e mezzo.

Paolo morì a 26 anni, dopo una breve malattia. Battista, dopo la scomparsa del fratello, si trasferì negli Stati Uniti accettando un ingaggio nel circo Barnum, che garantiva “il più grande spettacolo del mondo”. Aveva pensato all’America, narra Orengo, “come alla terra della Libertà, molto prima di entrare in porto, dove sapeva che una signora bianca, madre di tutti i giganti, di qua e di là dell’oceano, gli avrebbe sorriso e illuminato le strade tra i grattacieli”. Non fu così. Malattia e nostalgia lo avvinghiarono. Battista se ne andò pure lui assai presto, ad appena 40 anni, senza rivedere la sua piccola patria. Racconta Adriano Restifo che, all’epoca, si disse che il suo cadavere era scomparso, e che erano stati i suoi amici indiani Sioux a seppellirlo. In realtà si spense di difterite in ospedale e fu sepolto in un cimitero di Brooklyn.

I sovversivi del Bauhaus diventati icona di lusso

Tutto successe qui, cento anni fa a Weimar, piccola città della Turingia bagnata dallo spirito di Goethe e di Schiller, di Liszt e di Nietzsche. Nell’aprile 1919, mentre l’assemblea costituente, riunita nel Teatro Nazionale tra imponenti schieramenti di sicurezza, elaborava l’avanzatissima Costituzione di una Repubblica effimera e travagliata, l’Accademia di Belle Arti e la Scuola di Arti applicate si fondevano in una “Casa statale della costruzione”, sotto la direzione di Walter Gropius: era la nascita di quello che sarebbe diventato nel tempo un vero marchio globale, il Bauhaus.

Articolato in dieci laboratori (ceramica, legatoria, teatro, metalli, colori…), diretti ciascuno da un “maestro della forma” e da un “maestro artigiano”, questo istituto altamente sperimentale si proponeva di concorrere alla creazione di un “uomo nuovo”, non già insegnando l’arte (e tanto meno l’architettura, che fino al ’27 non figurò affatto tra le discipline) bensì inducendo negli allievi una creatività mobile, stimolando la loro intuizione e la creazione collettiva, immaginando un futuro utopistico senza barriere di classe né di genere – anche se le donne, pur numerose, erano ammesse sostanzialmente solo al laboratorio di tessitura.

Il nuovissimo Museo del Bauhaus appena inaugurato nel cuore di Weimar è insediato in un orribile cubo di cemento di Heike Hanada, che non redime certo l’antistante colonnato dell’antico Gauforum nazionalsocialista (destinato a diventare nel 2020 un Museo dei lavori forzati: Buchenwald dista solo 10 chilometri). Il Museo racconta con onestà una storia complessa, e non sottace le profonde contraddizioni di un movimento sospeso tra la pedagogia olistica e teosofica di Johannes Itten (il docente dei corsi introduttivi obbligatori, che si occupava anche degli esercizi di respirazione e dei cibi da bandire a mensa) e i prosaici cedimenti di Gropius alle esigenze della produzione industriale in serie (più redditizia per un istituto finanziariamente precario), tra gli ideali socialisti di Oskar Schlemmer (i cui affreschi furono distrutti dai nazisti già nel 1930), le simpatie nicciane di altri e le convinzioni reazionarie di chi inneggiava a un’arte “su fondamenti tedeschi”: già il 18 dicembre del ‘19 Gropius dovette emanare il divieto ufficiale di parlare di politica.

Al di là dell’ampia documentazione proposta sulle realizzazioni più caduche (il teatro “lunare” di Schreyer o il “balletto triadico” di Schlemmer) o più durature (le tele di Klee, Kandinskij, Feininger; la “Haus am Horn”, prototipo di casa razionalissima e senza corridoi; il design delle maniglie, delle sedie, delle oliere, che cambiò il gusto del Novecento), il nuovo Museo di Weimar si segnala perché àncora il Bauhaus al suo contesto storico e istituzionale. Quella scuola, infatti, non nacque dal nulla, ma portò a compimento il lavoro avviato dallo straordinario architetto-pittore-designer belga Henry van de Velde, cacciato come “nemico” all’inizio della I guerra mondiale ma capace di imprimere alle Accademie un crisma di novità e di eleganza (suo tra l’altro l’arredamento della casa in cui morì Nietzsche, sua la stessa sede del Bauhaus, sua la designazione di Gropius come proprio successore).

Il nuovo, incantevole allestimento del Neues Museum (sito proprio davanti al Bauhaus- Museum) mostra come van de Velde, insieme al mecenate Harry Graf von Kessler e a Elizabeth Förster-Nietzsche, spietata e fraudolenta vestale dei testi del fratello, fosse al centro di quella transizione che portò la Weimar tardoromantica di Franz Liszt verso lo sviluppo di un linguaggio modernista (nei mobili, nelle tele, nei pensieri) più scaltrito e avanzato rispetto alla stessa Berlino.

Ma proprio in quanto scuola statale, il Bauhaus andò sempre soggetto alle pressioni e alle critiche dei governanti, che non di rado vi videro una pericolosa riserva di nullafacenti o di sovversivi: fu l’avvento delle destre in Turingia (prologo di una svolta reazionaria ben più vasta nel Paese) a determinarne il trasferimento a Dessau nel 1925 (dove, ovviamente, non sopravviverà al ’33). È forse anche per questo che il centenario di un’istituzione così irregolare e visionaria, oggi, non interessa solo gli storici dell’arte: mentre in tutta l’ex Germania Est si teme una decisa avanzata dell’estrema destra nelle elezioni di settembre, ancora a Weimar sta aprendo i battenti la “Casa della Repubblica di Weimar” (centro di un neonato “Forum della democrazia”), mentre nella vicina Gotha una mostra di ottimi artisti locali (“Anlass Bauhaus”, nel Kunstforum) si misura con l’eredità estetica e politica del Bauhaus nel contesto di una società sempre più frustrata, immemore, divisa.

Camera con vista (parcheggio): tipica tirolese

Quell’anno avevo deciso: nonostante il mio scarso spirito pratico, mi sarei occupata io di prenotare le vacanze, tenendo a bada la mia tendenza inarrestabile verso la speculazione e cimentandomi con la concretezza. D’altronde era facile: dovevo solo ritrovare l’albergo nel paesino austriaco arrampicato su una collina dove eravamo andati due anni prima, stile tirolese e cucina prelibata. Prenotare è un attimo e non ci penso più, fino a quando arriviamo, pronti al relax.

La signorina della reception, vestito tipico e sorriso, mi spiega che non c’è nessuna prenotazione. Si saranno sbagliati, che problema c’è, ci danno un’altra stanza e decidiamo di salire. Faccio per seguire la mia famiglia quando all’improvviso realizzo. Apro la mail di corsa e controllo: sì, avevo pagato una settimana in un albergo in montagna, peccato che non fosse quello, ma un altro dal nome simile in un altro paese. Salgo in stanza nel terrore, il litigio col consorte è inevitabile – “Dovevi solo prenotare un albergo, solo questoooo”! – mentre il quattrenne piangeva disperato per le urla seduto sul water del bagno che non avremmo dovuto usare. Il resto è intuibile: corsa verso l’albergo prenotato – in mezzo a una città a fondovalle – supplica di poter cambiare, signora teutonica che risponde “Nein”, mesta stanza con vista parcheggio. Facciamo le pulci ai servizi e scopriamo che c’era un’area chiusa per lavori e mancava il servizio di ludoteca. Otteniamo un piccolo sconto col quale decidiamo di prenotare un paio di notti nell’albergo dove saremmo dovuti andare per chiudere la vacanza col ricordo della vista. E scopriamo così che in quello sbagliato si mangiava molto meglio. Insomma alla fine tutto è (abbastanza) relativo. E comunque lo spirito pratico non è tutto.

“Rizzoli è filo-juventino” è un tweet, un’accusa, un processo. Un’assoluzione

Il 4 luglio 2017 l’arbitro Nicola Rizzoli veniva nominato designatore arbitrale della serie A e in un mio commento su Twitter avevo definito questa nomina discutibile essendo stato Rizzoli un arbitro “filo-juventino”. Un convincimento mio, che per 40 anni ho fatto il giornalista-critico giudicando l’operato di calciatori, allenatori, arbitri e dirigenti (in tv lo feci a lungo a Controcampo con “Le pagelle di Paolo Ziliani”), ma anche la presa d’atto di qualcosa che era ormai entrato a far parte dell’immaginario collettivo; basti pensare che pochi mesi fa, due anni dopo il ritiro di Rizzoli, il sito inglese Troll Football (1 milione di followers), commentando il ko della Juventus contro l’Ajax, postava il seguente tweet: “What Juventus think they need to win the UCL vs what they really need” (Ciò che la Juventus pensa occorra per vincere la Champions contro ciò che realmente serve): a sinistra la foto di CR7, dall’altra la foto di Rizzoli arbitro.

Rizzoli mi ha fatto causa e nei giorni scorsi, a Bologna, il giudice Domenico Truppa ha archiviato il procedimento poichè, scrive, nel mio tweet “è possibile riscontrare il pieno rispetto dei due limiti scriminanti, quello della rilevanza sociale dei fatti e quello della correttezza del linguaggio utilizzato”, definito “misurato, composto ed equilibrato”. Ora mi attende una nuova causa intentatami da Rizzoli a Cremona dove due azioni dell’ex arbitro Dondarini sono appena state archiviate. Nel frattempo, avendo scritto sul Fatto che Luca Pairetto è un arbitro scarso, il figlio del designatore radiato ai tempi di Calciopoli, che la stessa Aia ha classificato penultimo nella sua classifica di merito, ha chiesto 100 mila euro di risarcimento. Il Palazzo del Calcio nel 2019.