Quale ozio? Gli affari non vanno in vacanza

Vacanze, istruzioni per l’uso a uso dei manager, fresche di stampa da parte di una “prestigiosa società di consulenza Hr”, qualunque cosa significhi. Riceviamo e pubblichiamo (con traduzione: i testi sono alternativamente in inglese e latino) i consigli degli esperti per “staccare la spina” (sic) in estate e concludere meglio gli affari. In autunno, dell’anno prossimo.

 

1. SCEGLIERE UN MOMENTO DELLA VACANZA IN CUI PENSARE AL LAVORO. Sembra un paradosso di Zenone, ma no. Tradotto: si può rispondere al telefono o leggere le mail e i messaggi aziendali solo per un’ora al giorno. Chi è circondato da collaboratori logorroici, li licenzi preventivamente, prima di ricevere chiamate fiume.

 

2. TOGLIERSI LA MASCHERA DI IMPEGNATI FULL TIME. Sembra un intruglio di bellezza, ma no, anzi, “godiamoci le bellezze dell’otium creativo”. È un invito ad assaggiare tutti i cocktail del bar della spiaggia fino a dimenticarsi del proprio lavoro. A dimenticare proprio tutto: anche di avercelo, un lavoro.

 

3. NON CIRCONDARSI SOLO DI PERSONE E LUOGHI CONOSCIUTI. La “diversity esperienziale”, come tutte le diversity, va tutelata: oltretutto, “stimola la nostra seduttività latu sensu”. Quindi, bando al pudore, e ai conoscenti: bisogna assolutamente iscriversi a un club per naturisti-scambisti; frequentare le dark room con sconosciuti; provare il sesso telefonico anonimo. Tutto ciò “è estremamente utile per la nostra vita lavorativa: è la forza che ci arriva dal fare esperienze nuove”. Innominabili.

 

4. RIMETTERSI IN FORMA. Il vero manager rimanda tutto l’anno la palestra perché – è chiaro – recupererà gli addominali in vacanza, tra una grigliata e l’altra. “Mens sana in corpore sano è sempre valido, nei secoli”. E soprattutto in alta stagione: in ferie, è noto, si rinsavisce, e rinvigorisce, e dimagrisce, eccetera.

 

5. RITROVARE IL NOSTRO LATO BIMBO. Il famoso Lato B, quello sul retro. Racconta un uomo d’affari: “In una vacanza estiva, con amici tutti molto impegnati, scoprimmo per caso un contenitore per fare le bolle di sapone, e ci mettemmo a farle, senza pensare alla nostra età e ai ruoli sociali”. A quelli della Silicon Valley le idee sono venute così.

 

6. LA VACANZA È IL MOMENTO DELLE RIFLESSIONI, NON DELLE SCELTE. “Possiamo finalmente lasciare fluire e arrivare le riflessioni”: quelle che non sono arrivate per tutto il resto dell’anno. E ancora: “Senza avere la fretta di dover decidere subito”. Già che arrivano le idee è una benedizione: non pretendere di più.

 

7. DARE IL BENVENUTO ALLA NOIA. “Alla noia va dato il benvenuto, come all’otium”: quindi, serrare il negotium e aprirsi al tedio. Fondamentale è la scelta dei compagni di viaggio: più noiosi sono, meglio è; più verbosi sono, meglio è; più ripetitivi sono, meglio è. Fino a rimpiangere di non essere andati in vacanza coi colleghi. Fino a rimpiangere di essere andati in vacanza, punto. L’anno prossimo si lavora e basta.

Tonya, l’ex regina del triplo axel caduta sulla vendetta

Tutto quello che abbiamo lo dobbiamo ai nervosi, a chi non dorme e si contorce la notte, a chi non smette mai di pensare a come trionfare e avere successo, come essere il numero uno e passare alla storia, a come vincere il rifiuto dell’altro o, semplicemente, del mondo. La storia di Tonya Harding inizia così, con un no: quando la madre LaVona la porta a quattro anni dalla sua prima allenatrice di pattinaggio, Diane Rawlinson allo Ice Chalet Lloyd Center di Portland, sulle prime non viene ammessa perché troppo piccola.

Accettata solo dopo le insistenze di LaVona, sei mesi più tardi la piccola Tonya vince la sua prima competizione: è il 1975, e a cinque anni dimostra già tutte le caratteristiche che ne faranno una delle pattinatrici più rivoluzionarie nella storia di questo sport.

Basteranno pochi anni perché diventi un’atleta formata: grande saltatrice, potente e agilissima, a sedici anni debutta ai campionati nazionali d’America e arriva sesta. Poi quinta nell’87 e nell’88. Ma ai giudici, Tonya non piace, è troppo diversa: è sbagliata, fuori dai canoni. Di nuovo, un rifiuto.

Così, pensando di preservare la vecchia scuola, le affibbiano voti più bassi per tenerla fuori dal podio. E non importa quanti salti tripli potrà inanellare, Tonya non ha l’immagine giusta, non viene da una famiglia giusta: la madre è un’alcolista, ha avuto quattro matrimoni (con relativi quattro divorzi), la picchia, da sempre le ripete che è una buona a nulla, che non combinerà mai niente e solitamente si posiziona a bordo pista abbigliata come una gipsy.

In più, Tonya non ha l’eleganza richiesta da questo sport: i costumi che indossa sono terribili: li cuce LaVona stessa e le stanno malissimo, pieni di paillettes e frange, di una taglia più grande che la fanno sembrare goffa.

I cappelli biondo paglia senza chignon, con la coda di cavallo e vistosi fermagli, il tutto corredato da una frangetta tenuta ferma da una lacca da quattro soldi che a metà esibizione smetteva di fare il proprio dovere. Infine, Tonya non pattina nel modo giusto, non fa che saltare.

Dopo gli anni del debutto, l’asma di cui soffre da piccola, le controversie con la madre e con l’allenatrice, le impongono tempi difficili in cui non ottiene risultati. Ma intanto Tonya si è innamorata.

Cresciuta nel marcio, non le piace certo il ragazzo di buona famiglia, né quello che si allena con lei, no, a Tonya piace Jeff Gillooy, che è uno spiantato e un violento. Dopo i sorrisi e le parole dolci dei primi mesi, prende a picchiarla, per poi dirle che la ama e gli dispiace. Tonya non ha scelta, è già scappata di casa, non può che fidarsi di Jeff.

Finalmente arriva il 1991, l’anno di Tonya. Al di là di tutto quello che succerà dopo, Tonya Harding resterà per sempre la prima americana ad aver eseguito il triplo axel (la prima in assoluto è la giapponese Midori Ito nel 1989). Naturalmente dotata di un’ottima propulsione, lavorerà alla preparazione di questo salto – la cui difficoltà consiste nel compiere tre rotazioni e mezzo in aria e atterrare in equilibrio – per otto lunghi anni.

Ai campionati nazionali del 1991, Tonya prende velocità percorrendo l’intera pista, è il momento. Difficile immaginare a cosa abbia potuto pensare. Prima di adesso, ha sopportato pessimi piazzamenti, valutazioni ingiuste, commenti villani da parte di esperti del settore (alla vigilia del Mondiale, quando si era sparsa la notizia del triplo axel, un giornalista aveva scritto “triplo salto o meno, Tonya non è bella da vedere sulla pista”). Adesso, mentre guarda il punto dove atterrerà se andrà tutto bene, pensa alla madre, alle botte ricevute, alla volta in cui la ferì con un coltello, al fatto che ora non si parlano più.

Tonya spicca il salto e… 1, 2, 3… Fatto! È medaglia d’oro alle nazionali, d’argento ai Mondiali di Monaco e di nuovo d’oro allo Skate America di quell’anno.

Come riuscirà questa ventenne, che ora è la miglior pattinatrice d’America, a rovinarsi con le proprie mani è presto detto: per colpa dell’amore. Ma non quello di Jeff, da cui ha ormai divorziato.

Dopo il triplo axel, Tonya si sentirà amata, ben voluta, accettata da tutti. Eppure, la felicità per il momento aureo passerà subito perché la paura di perderlo, quell’amore, le farà commettere il disastro.

Rimasta fuori dal podio alle Olimpiadi invernali di Albertville del ’92, non ci sono sponsor per chi arriva quarta. Riprende ad allenarsi privatamente: deve vincere ancora, deve essere amata! Chiede all’ex marito di assoldare qualcuno per rompere il ginocchio a Nancy Kerrigan, la sua compagna a stelle e strisce, il giorno prima del Concorso nazionale del ’94 per poterlo vincere e metterla fuori gioco per tutte le manifestazioni dell’anno.

Così, il 7 gennaio Nancy è in ospedale e Tonya sul gradino più alto del podio. L’FBI dimostrerà la non estraneità di Tonya all’affaire e, dopo un ottavo posto alle Olimpiadi di Lillehammer dove sarà fischiata a ogni esibizione, verrà bandita a vita dalla federazione sportiva. Nel mentre, Jeff diffonde un loro sextape.

Negli anni a venire, chiederà scusa in televisione a Nancy, andrà ospite in molti show, tenterà la carriera nella boxe, nel canto, reciterà in qualche film scarso e farà di tutto per ricordare al mondo di essere stata una grande pattinatrice. Ma per il severo e incontrollabile tribunale della memoria collettiva – che ha sempre bisogno di qualcuno da amare e qualcun altro da odiare –, Tonya è quella stronza che per vincere ha tentato di far fuori la sua amica/avversaria Nancy… il resto, non conta: un altro no a chiudere il cerchio!

Benalla, gli sms all’Eliseo dal telefono “perso”

“Signor presidente, ieri pomeriggio sono stato invitato dalla Prefettura a osservare dall’interno la manifestazione del 1° maggio, avevo un casco e facevo parte della squadra della polizia accompagnato da uno dei capi. Nel pomeriggio, ci siamo ritrovati in piazza della Contrescarpe, dove la situazione è più che degenerata, quindi non mi sono limitato al mio ruolo di osservatore (…). La scena piuttosto violenta è stata ripresa e anche se non mi si identifica chiaramente, sono riconoscibile. Il video sta girando sui social network. Alexandre”. Alexandre sta per Benalla e si rivolge al capo di Stato francese Emmanuel Macron, di cui è la guardia del corpo al momento dell’invio del messaggio su Telgram, nella notte tra il 1° e il 2 maggio 2018, a poche ore dal pestaggio di due manifestanti in Piazza della Contrescarpe che lo farà licenziare.

Il messaggio pubblicato ieri dal quotidiano francese Le Monde è l’ennesimo macigno sul caso dell’ex guardia del corpo. Benalla, infatti, aveva dichiarato di aver perso il telefono da cui è partito l’sms, ma gli inquirenti sono riusciti a rintracciarlo grazie al fatto che lo stesso era stato inoltrato da Benalla ad Alexis Kohler, segretario generale dell’Eliseo, che, il 17 e il 18 aprile 2019, sentito dell’Ispettore di Polizia ha mostrato il numero del mittente: non uno qualunque, ma quello che Benalla aveva dichiarato perduto nella sua prima detenzione il 21 luglio del 2018. Grazie a Kohler gli investigatori sono riusciti – spiega Le Monde – a risalire ai messaggi mandati e ricevuti dal cellulare, come quelli di supporto a Benalla inviati dall’Eliseo. Il secondo comandante militare della Presidenza della Repubblica, Jean-Luc Minet, il 2 maggio scrive: “Tutti contro, Alexander è zen e forte, è il capo che decide e a 30.000 chilometri (Emmanuel Macron è in viaggio in Australia) non decide nulla su di te”, scrive Minet. “Grazie per il vostro supporto”, risponde lui prima di cancellare lo scambio. Ma il 18 luglio dallo stesso telefono Benalla avverte il direttore generale della Gendarmeria Nazionale, Richard Lizurey: “Che verrà pubblicato un pezzo su Le Monde sul 1° maggio. Con amicizia. Alexandre”. La risposta del generale: “Alexandre. I giornalisti sono ben informati dai nostri amici … con amicizia. Richard”. Ma questi non sono gli unici nuovi guai che tornano a infastidire il Capo dell’Eliseo. Secondo Le Monde ci sarebbero anche “zone d’ombra sulla campagna presidenziale”: diverse spese per il servizio d’ordine dell’allora candidato di En Marche – all’epoca diretto dal fidatissimo Benalla – non sarebbero state segnalate alla commissione ad hoc. In particolare per il grande comizio elettorale del dicembre 2016 En Marche indica 16.500 euro di spese per la sicurezza ad una società. Ma, secondo Le Monde, quel giorno erano presenti anche una decina di bodyguard “fantasma”, al servizio di Benalla.

Ratcliffe, uno yes-man a capo dell’Intelligence in vista delle elezioni 2020

Il flop dell’audizione sul Russiagate in Congresso e lo sblocco dei fondi per il muro da parte della Corte Suprema mettono le ali ai piedi a Donald Trump: il magnate presidente procede come un bulldozer ed abbatte gli ostacoli sul suo cammino. Nel week-end, è saltato Dan Coats, direttore dell’intelligence nazionale, l’uomo che coordina il lavoro di tutte le 17 agenzie d’intelligence statunitensi, dalla Cia alla Nsa. Ora, sotto tiro c’è il direttore della Federal Reserve Jerome Powell, che in settimana deve decidere se abbassare o meno i tassi d’interesse. La cosa singolare è che gli strali di Trump s’abbattono quasi sempre su persone che lui stesso aveva scelto.

Coats, di cui Trump voleva liberarsi fin dall’inverno, lascerà l’incarico il 15 agosto. Il suo posto sarà preso da John Ratcliffe, un repubblicano del Texas al terzo mandato. Lo ha annunciato via twitter come suo costume lo stesso presidente, dopo che tra sabato e domenica il tam-tam dell’avvicendamento s’era fatto insistente sui media Usa.

L’addio di Dan Coats è una cattiva notizia per la sicurezza nazionale, dice la speaker della Camera Nancy Pelosi: Coats era un funzionario esperto, che aveva il coraggio di contraddire il presidente, che critica l’intelligence tutte le volte che non gli dice quello che lui vorrebbe sentirsi dire; Ratcliffe è un politico il cui merito maggiore è quello d’avere torchiato Mueller nell’audizione sul Russiagate della scorsa settimana, accusandolo di non aver seguito le linee guida del Dipartimento di Giustizia. Se il Senato ne avallerà la nomina, Ratcliffe diventerà il sesto direttore della National Intelligence, un posto creato dal presidente Bush jr dopo che gli attacchi dell’11 Settembre 2001 avevano fatto emergere carenze di coordinamento fra le diverse agenzie. Tra Coats e Trump, gli scontri sono stati frequenti. Coats, 76 anni ha sempre difeso i suoi uomini e s’è anche esposto in prima persona, contraddicendo il presidente in Congresso su Iran, Russia, Isis e clima. Il presidente non avrebbe neppure gradito la tempistica con cui Coats, poco prima dell’incontro con Putin, aveva reso pubblici i timori dell’intelligence sulla campagna di cyber-attacchi orchestrata da Mosca.

Usa, italo americano voleva la strage di ‘meticci’ ispanici

Può un ragazzo appena maggiorenne, di origini italiane, essere uno che odia le altre razze, tanto da avvicinarsi a una delle “bibbie” dei suprematisti bianchi? Negli Stati Uniti, Santino William Legan, 19 anni, era la prova di questo corto circuito di rabbia e odio razziale. Era. Perchè Santino domenica è andato armato di fucile semiautomatico al Garlic Festival, una manifestazione gastronomica che si tiene ogni anno in California, vicino alla città di San Jose, e ha sparato a casaccio: tre morti fra cui un bambino ispanico di 6 anni e un ragazzino di 13. Poi la polizia lo ha abbattuto.

I “bersagli” in carne e ossa non sono stati scelti a caso. Santino voleva ammazzare proprio loro, i latinos; ne sono convinti gli investigatori dopo aver esaminato un profilo del social network Instagram creato dall’assassino appena quattro giorni prima dell’assalto e sul quale ha pubblicato due post poco prima di iniziare a sparare. Il primo messaggio è accompagnato da una foto di persone che passeggiano lungo gli stand del festival ed è dispregiativo nei confronti dei frequentatori che si fanno abbindolare e perdono il loro tempo fra roba scadente venduta a caro prezzo. Il secondo è accompagnato da una immagine di Smokey the Bear con in mano un cartello con scritto “Fire Danger High Today” e un testo esplicito: “Leggete Right is Might di Ragnar Redbeard: perché sovraffollare le città per fare spazio a orde di meticci?”.

Right is Might, pubblicato nel 1890, è considerato uno dei primi libri di suprematismo bianco. Nel testo, molto critico con il cristianesimo, Gesù viene descritto come il “vero Principe del Male” e afferma che l’ordine naturale è rappresentato da un mondo in guerra in cui i forti devono sconfiggere i deboli, e gli uomini bianchi devono dominare quelli di colore. Dunque, se questi indizi fossero confermati, Santino Legan, incurante delle sue origini miste – non poteva certo considerarsi un anglosassone purosangue – ha deciso domenica di iniziare la sua personale guerra contro gli ispanici che invadono la California, persone latinoamericane che si buttano a corpo morto sul confine con il Messico sperando di avere una vita migliore al di là della recinzione che il presidente Trump vorrebbe come muro invalicabile. Lo stesso The Donald, poi, parla di invasione, di emergenza nazionale.

Che la sparatoria sia stata pianificata da Legan lo dimostrano alcuni particolari, secondo Josh Campbell, ex agente speciale di supervisione dell’Fbi sollecitato a dare il suo parere alla Cnn; Campbell ha notato che il tiratore ha tagliato il recinto per evitare la sicurezza e i metal detector e muoversi fra gli stand armato.

Negli Stati Uniti è stato un fine settimana di violenza; sabato notte c’è stata una sparatoria a New York, due uomini hanno aperto il fuoco durante una festa a Brooklyn: un morto e 11 feriti. Secondo il sito Gun Violence Archive, solo nel 2019, 32mila incidenti, con 8.438 morti per armi da fuoco.

Boko Haram, Califfato d’Africa

Ogni tanto, ritornano. Anche perché non sono mai andati via e nessuno in Occidente s’è mai dato davvero da fare per cacciarli, nonostante dal 2009 abbiano legato il loro nome a una teoria di stragi nel Nord della Nigeria e altrove nell’Africa sub-sahariana – soprattutto in Camerun, Ciad, Niger – con l’obiettivo di creare uno Stato islamico. Il Califfato d’Africa non ha mai avuto la solidità territoriale del Califfato dell’Isis, il sedicente Stato islamico creato da Abu Bakr al-Baghdadi tra Siria e Iraq, ma non ha neppure mai subito un’azione di contrasto radicale come quella attuata contro i jihadisti.

I francesi, con il concorso di tedeschi e italiani e altri europei, hanno organizzato un argine militare all’integralismo islamico soprattutto tra Niger e Mali. Gli Stati Uniti se ne sono relativamente disinteressati, nonostante loro unità siano presenti nell’area e abbiano pure subito perdite. Domenica, i terroristi islamici di Boko Haram sono tornati a colpire nel Nord della Nigeria, là dove la maggioranza della popolazione è islamica: a bordo di motociclette e con mitragliatrici pesanti montate su jeep e pickup, hanno fatto irruzione su un funerale, sparando sulla folla, uccidendo almeno 60 persone e ferendone decine. È l’azione più sanguinosa orchestrata da Boko Haram dall’inizio dell’anno. Muhammad Bulama, presidente del consiglio dell’area di Nganzai, ha detto che l’attacco è avvenuto a mezzogiorno: si sarebbe trattato di una rappresaglia nei confronti degli abitanti del villaggio, che avevano respinto un attacco di Boko Haram due settimane or sono. Bunu Bukar, capo dell’Associazione dei cacciatori del Borno, ha raccontato scene di sangue e di orrore: vigilantes locali hanno cercato di reagire, ma gli attaccanti erano in forze e meglio armati. Militarmente indebolitasi sul territorio nel 2016, anche per le divisioni interne, la sanguinaria setta ha ripreso vigore, grazie fra l’altro a innesti di miliziani jihadisti e di foreign fighters dopo la rotta dell’Isis in Medio Oriente, e ha avviato un’escalation d’azioni nei suoi “santuari” tradizionali, nel nord-est della Nigeria.

La scorsa settimana è stato ricordato il trentesimo anniversario della nascita di Boko Haram, milizia fondamentalista capace di causare una delle più gravi crisi umanitarie al mondo. In dieci anni d’attività terroristica, Boko Haram (il nome, a seconda delle traduzioni, significa “Ciò che è straniero è impuro”, o “l’educazione occidentale è sacrilega”), ha ucciso decine di migliaia di civili, ha provocato almeno due milioni di sfollati, ha rapito centinaia di ragazze convertendole all’islam e facendone spose di combattenti, ha attaccato chiese e moschee e luoghi di raduno per il Ramadan e altre feste religiose cristiane e islamiche. L’Institute for Economic and Peace la indica dal 2015 come l’organizzazione terroristica più sanguinaria al mondo: fra le fonti di finanziamento, il riscatto per la liberazione di dipendenti sequestrati di aziende energetiche occidentali attive in Nigeria; capitò anche a italiani e, in almeno un caso, l’epilogo fu tragico. Noto pure con il nome ufficiale di Gruppo sunnita per la propaganda religiosa e la Guerra Santa, Boko Haram è radicalmente ostile all’Occidente, visto come corruttore dell’Islam: nel 2015 strinse un’alleanza con l’Isis, saldata dall’odio per l’Occidente e dal rispetto della sharia. La struttura di Boko Haram è gerarchica e al suo vertice v’è un capo supremo. Ma talvolta il gruppo sembra agire come un insieme a rete di cellule indipendenti. È difficile stabilire quali siano i confini dell’organizzazione, quali attacchi siano ordinati dal vertice e quali siano condotti da formazioni indipendenti. Il nucleo centrale opera come una forza di guerriglia, con battaglioni che vanno dai 300 ai 500 uomini. Il numero totale di miliziani è stimato tra 5000 e 9000, in gran parte provenienti dal gruppo etnico Kanuri.

Dal 2002 al 2009, il gruppo è stato diretto dal suo fondatore Mohammed Yusuf. L’uccisione di Yusuf mentre era nelle mani della polizia, causò la sollevazione del gruppo e l’inizio della guerra civile. La leadership passò ad Abubakar Shekau, braccio destro di Yusuf, che la tiene tuttora. Shekau è nato a Yobe, in Nigeria tra il 1965 e il 1975 ed è di etnia Kanuri, è sposato a una delle quattro mogli di Yusuf e parla diverse lingue locali. Oltre a essere il leader politico e militare, ne è anche la guida spirituale e tiene sermoni ai seguaci. Sotto la sua egida, il gruppo s’è allargato e s’è fatto più aggressivo. Le reazioni occidentali alla strage del funerale nel Borno si sono limitate a dichiarazioni. “L’Ue – dice un portavoce – è unita al governo e alla gente della Nigeria nella lotta al terrorismo. Siamo decisi a promuovere e sostenere la cooperazione per sradicare il terrorismo in tutte le sue forme”.

Mail Box

 

Messina-Favignana in 10 ore: altro che la Torino-Lione!

Una coppia di amici bresciani viene a trovarmi a Messina con il desiderio di girare l’isola. Sulle ali dell’emozione suscitata dalla saga dei Florio, intendono visitare la tonnara di Favignana. Da Messina in treno sino a Trapani e poi in aliscafo. Il sito di Trenitalia offre una partenza alle 8.20 e, dopo tre comodi cambi e un panoramico tratto in bus tra Gioiosa Marea e Brolo (dovuto a lavori di risanamento strutturale), arrivo previsto alle ore 18.47: solo 10 ore e 27 minuti per percorrere 334 km alla folle velocità di 32 km/h. Mortificato mi offro, allora, per cercare una soluzione alternativa: Torino-Lione Km 305 tempo di percorrenza 4 ore e 17 minuti alla velocità di 71 km/h. Quando si dice che l’amicizia “lega” a dispetto delle distanze!

Carmelo Sant’Angelo

 

Le liberalizzazioni di Bersani hanno ucciso i centri storici

Sono un commerciante di abbigliamento in un centro storico. Prima dell’entrata in vigore legge Bersani nella mia città c’era il 10 per cento in più di popolazione, mediamente ogni negozio aveva 2/3 persone assunte a tempo indeterminato e i titolari potevano investire. Oggi puoi trovare merce, mangiare, bere, vestirti, assistito da ragazzi con contratti semestrali. Cosa ha portato al gioiello della nostra cultura cittadina? Niente. Noi non siamo l’America dei centri commerciali, siamo l’Italia dei centri storici.

Nicola

 

Attenzione al non voto o premieremo il Capitano

Analizzando i risultati delle politiche del 2018, si può dedurre che il vero vincitore sia stato non un partito ma il “sentimento di non voto e rifiuto della politica”. Ora, pur condividendo tale percezione, sono dell’idea che occorra comunque dare un voto. Alle prossime elezioni, con qualsiasi percentuale degli astenuti, vincerà la coalizione capitanata da Salvini. Sveglia italiani del non voto, se non è piaciuta la destra, il centro e/o la sinistra occorre tentare di scegliere e aiutare a formarsi una forza alternativa…

R.C.

 

Non ho internet: come faccio a comunicare con Vodafone?

È mai possibile che non avendo internet non si possa parlare con Vodafone? Voglio sapere che cosa è successo alla mia tariffa ma, se chiedo assistenza, il disco mi risponde che la scelta non è valida. C’è una procedura per poter comunicare? Vodafone può essere così cortese da farla conoscere ai clienti che non hanno internet?

Annafrancesca Carandente

 

Cari 5S, uscite dall’esecutivo per il bene di tutti

Dimettersi: mi sembra un invito da seguire nell’interesse non solo del MoVimento ma anche dell’Italia. Per il MoVimento mi sembra l’ultima possibilità per evitare il tracollo definitivo. Bisognerebbe abbandonare il governo per evitare la nuova sconfitta del No Tav, nel momento in cui è ancora possibile mettere all’incasso le positive conquiste realizzate grazie alla maggioranza in parlamento del M5S (specialmente il Reddito di Cittadinanza), evitando di rendervi complici di Salvini.

Paolo Chiarelli

 

Il carabiniere ammazzato: la foto che “distrae”

Una delle notizie che mi ha lasciato alquanto perplesso è quella relativa al killer americano ritratto bendato e ammanettato all’interno di una caserma dell’Arma dopo che, qualche ora prima, aveva assassinato con undici coltellate un carabiniere. È bastata l’immagine di una semplice benda che cingeva gli occhi di un delinquente a far chiudere quelli di buona parte dell’opinione pubblica italiana. Tale scatto è stato sufficiente a spostare l’attenzione da un dramma di immane portata allo pseudo dramma dei vertici dell’Arma, dei politici italiani, di giornali e giornalisti benpensanti circa il dilemma “e ora, che figura ci facciamo davanti all’America, al mondo e all’opinione pubblica tutta?”. Per carità, non è che io sia d’accordo con quanto successo in quella caserma e lo so che non è giusto fare paragoni, qui siamo in Italia, culla di civiltà e l’Arma dei carabinieri è pur sempre l’Arma dei carabinieri ma, permettetemi, sarei veramente curioso di sapere cosa sarebbe successo a Mr. Elder Lee in un ufficio della polizia americana, dopo l’omicidio di un loro poliziotto. Credo che sia giusto rispettare la dignità di tutti, anche quella di un ladro e assassino e credo che indignarsi davanti a certi fatti possa anche essere doveroso, però è altrettanto doveroso cercare di non confondere il valore e la portata di certe azioni.

Vincenzo Drosi, Maresciallo dei Carabinieri in congedo

 

I NOSTRI ERRORI

A proposito dell’articolo uscito domenica “L’Anac è già archiviata”, preciso che il presidente dell’Avcp, l’autorità antenata dell’Anac che è stato arrestato per corruzione è Giuseppe Brienza, poi rinviato a giudizio e deceduto prima della conclusione del processo. Prima della evoluzione in Anac e dell’arrivo di Raffaele Cantone, l’incarico di presidente dell’Avc viene ricoperto dal magistrato Sergio Santoro, oggi presidente aggiunto del Consiglio di Stato, che invece non è mai stato sfiorato da alcuna indagine relativa a quell’incarico.

Stefano Feltri

Le parole di Zinga. Un crollo non solo linguistico (ed elettorale), ma di valori

 

Se auspico un’alleanza democratica tra Cinque stelle e Pd, non posso dimenticare il pungente articolo di Daniela Ranieri del 20 luglio. In televisione Zingaretti è riuscito a dire sul Jobs Act: “Io credo che dobbiamo entrare in una stagione nella quale dobbiamo avere il coraggio di riaprire stagioni di innovazioni delle politiche, senza nessuna paura di aprire una discussione su dove questo Paese deve andare”.

Trent’anni fa Michele Serra scriveva il mitico Nattango sul linguaggio enfatico ma vuoto del Partito comunista, da sempre all’opposizione… da allora abbiamo tutti i capelli bianchi ma le cose non cambiano!

Muttley

 

Caro lettore, abbiamo riportato per esteso e testualmente quella frase perché volevamo averla graficamente sotto gli occhi, tanto ci era sembrato incredibile ascoltare, in diretta Tv, un tale crescendo di insensatezze da parte di una persona tutto sommato seria. Lei ci vede un’eredità del linguaggio gassoso dei vecchi dirigenti del Pci. Non siamo d’accordo: ci riesce difficile immaginare gente rigorosa come Ingrao proferire frasi come quella abissalmente vuota di Zingaretti senza vergognarsene fino alla tomba; o lo stesso Natta (che ballava nudo sul “Tango” di Staino) promettere di “aprire stagioni di innovazioni delle politiche” senza causare l’immediata protesta e dissociazione di tutti i partiti comunisti del mondo. L’altra differenza, che lei coglie, rispetto a oggi è che (forse per non fare un favore a Salvini) non esiste, nella stampa italiana, nessuno che osi denudare né tantomeno deridere “da sinistra” questa nefasta fumosità “qualcosista” dei dirigenti del Pd, i quali hanno peraltro e comprensibilmente svariati motivi di coprire il sostanziale nulla politico con un conseguente livello zero linguistico. Al contrario di quel che il giovane Attila scalatore del Pd e autore del Jobs Act ha sempre professato, la catastrofe del Pd non è tanto comunicativa, quanto puramente politica (rem tene, verba sequentur: possiedi i fatti, le parole seguiranno, diceva quello); e il suo crollo non è solo elettorale, ma anche e soprattutto valoriale. Zingaretti non ha mai fatto abiura o pronunciato parole nette rispetto ai gravi attentati al lavoro (e alla Scuola, aggiungiamo) perpetrati dai suoi predecessori; è secondo noi un Papa ad interim, una specie di segretario di transizione tra il disastro e la morte clinica.

Daniela Ranieri

Il partito dell’odio e l’alibi perfetto della sinistra

Mi dispiace, ma con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai. Dopo 17 anni le parole di Nanni Moretti rimbombano attuali come non mai: onore al merito dei dirigenti Pd. Se qualcuno avesse dei dubbi, ci pensa Walter Veltroni a fugarli. “La sinistra vincerà solo se saprà sconfiggere il partito dell’odio”, titola l’intervistona del tenero Uolter a Repubblica. È vero che in Italia una Destra degna di questo nome non c’è; ma non c’è nemmeno una Sinistra, quindi il problema è relativo. Piuttosto, leggere l’ascesa della Lega come l’odio che vince sull’amore è un’analisi che nemmeno Obi-Wan-Kenobi contro l’Impero del Male.

Per vent’anni la sinistra ha rappresentato Berlusconi come il diavolo, e ci siamo beccati vent’anni di B. Ora Salvini è l’erede di Hitler, così un altro ventennio è in cassaforte. Chiedersi dove abbiamo sbagliato, no? Come si siano gestite accoglienza e integrazione, scatenando un’inevitabile guerra tra poveri? E se gli italiani che accreditano la Lega di un surreale 37% non fossero filo-nazisti, ma solo esasperati? Soprattutto: i nostri si saranno chiesti se questa demonizzazione degli avversari non produca l’effetto contrario? Siamo alle solite: noi siamo i fighi, loro i bruti. Un inestirpabile senso di superiorità vagamente razzista. Veltroni è un amabile persona; ma tra un’intervista, un film, un libro e un programma tv chissà se si è mai domandato se la sua posizione di pluriprivilegiato è il punto di vista migliore per comprendere l’Italia del 2019.

Bibbiano, la nuova banalità del male

Sconvolti dall’orrore nazista, gli intellettuali del Dopoguerra non si davano pace: com’era possibile che una simile barbarie fosse stata compiuta in una nazione avanzata come la Germania, patria di grande cultura e proverbiale razionalità? Ad alcuni venne il sospetto che la distruzione degli ebrei non fosse una parentesi nella marcia del progresso, ma il frutto più amaro della logica razionalista dell’illuminismo.

Era la tesi di due filosofi tedeschi emigrati negli Stati Uniti, Theodor Adorno e Max Horkheimer. Qualcosa era sfuggito al controllo. Mezzo secolo più tardi Zygmunt Bauman scriverà: “L’Olocausto fu pensato e messo in atto nell’ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano: ecco perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di tale cultura”.

Le forme dell’orrore contemporaneo ci pongono di fronte a interrogativi simili. Pensiamo alle inchieste sul sistema degli affidi in Emilia Romagna, da Bibbiano ai casi denunciati dal giornalista Pablo Trincia nel suo libro Veleno. Com’è stato possibile — qui, oggi, nel cuore del cuore del nostro Paese — sancire l’allontanamento di decine di minori dalle loro famiglie sulla base di perizie approssimative e sentenze che si stanno rivelando inconsistenti? Quale sia stato il mix d’incompetenza, di cinismo, di corruzione o magari di folle idealismo (leggi: ideologia) dietro questi casi ce lo diranno le indagini. Ma le registrazioni degli interrogatori diffuse già aprono un scorcio su una realtà agghiacciante: ascoltiamo dei bambini raccontare sacrifici rituali sicuramente mai avvenuti (testimonianze che senza riscontri sono state usate in sede processuale) oppure farsi mettere in bocca denunce di abusi forse mai subiti. Scopriamo quanto possa pesare in un resoconto dell’assistente sociale una “casa in disordine” (criterio soggettivo) o un passato difficile (ad esempio la tossicodipendenza), per decidere l’allontanamento di un minore. E rabbrividiamo, perché come il protagonista del Processo di Kafka nessuno di noi si sente al riparo dall’arbitrio di una giustizia tanto solerte.

Via via che le indagini si estendono in tutta Italia — nuovi fascicoli sono stati aperti a Salerno e a Biella — si pone la questione della natura sistematica di questi abusi. Lasciamo da parte i teoremi di chi cerca di buttarla in politica e chiediamoci piuttosto che cosa questa catastrofe umanitaria ci dice delle istituzioni alle quali abbiamo consegnato il dominio sulle nostre vite e cosa succede quando sfuggono al controllo.

La Scienza, per cominciare. Regno delle procedure e delle competenze, del dubbio e del confronto; metodo rigoroso che procede per ipotesi, verifiche sperimentali, confutazioni: questo in teoria. Per quello che abbiamo visto in alcune delle perizie psichiatriche rese a Bibbiano, la pratica è talvolta diversa. Cosa succede quando degli specialisti accecati dai loro pregiudizi ricorrono a procedure imprecise e metodi già sconfessati dalla letteratura recente? È una storia che si è ripetuta in decine di casi in Italia e nel mondo: a Rignano Flaminio, a Outreau e negli Stati Uniti. Ha ragione chi sottolinea che i giudizi discrezionali emessi da psicologi incompetenti sono casi eccezionali di “cattiva scienza”: ma questa cattiva scienza è l’iceberg sommerso di un sistema che non è in grado, al suo interno, di scremare ed evacuare gli elementi inappropriati. Li laurea, li assume, talvolta li insignisce di decorazioni, poi conta su di loro per formare nuovi specialisti. A chi spetta l’onere di distinguere tra buona e cattiva scienza, se non alla scienza stessa?

Lo stesso vale per lo Stato: incarnazione terrena della pura razionalità e della logica dell’universale, in teoria. Nella pratica, riparo delle debolezze dell’umanità, e amplificatore delle sue tare. Anche ai tempi della caccia alle streghe, nel Seicento, a portare la morte non furono le folle inferocite ma giudici e teologi. Tante piccole decisioni formalmente ineccepibili possono portare a risultati diametralmente opposti a quelli per cui il sistema era stato concepito.

Ci siamo abituati all’idea che la Scienza sia in grado di stabilire cosa è vero e lo Stato di garantire ciò che è giusto, poi d’imporlo con la forza. Eppure talvolta qualcosa va storto: il Leviatano non è infallibile. E quando va storto, a mettersi in moto è una macchina potente contro la quale c’è poco da fare. I suoi margini d’errore diventano dei margini di orrore. Animata dalla pura ragione strumentale svincolata da ogni considerazione di ordine etico, la burocrazia prende vita propria e si rivolta contro l’umanità, come le intelligenze artificiali in Terminator. Secondo Bauman, era questa la tragedia sulla quale l’Olocausto, “esito di una combinazione unica di fattori di per sé assai ordinari e comuni”, ci ha aperto gli occhi. Emancipato da ogni contropotere, lo Stato moderno ha potuto esercitare senza limiti il monopolio della violenza assieme alle sue “esasperate ambizioni di ingegneria sociale”. Quelle stesse ambizioni che hanno convinto periti e giudici che allontanare dei bambini dalle loro famiglie sulla base di un vago sospetto. Quella stessa violenza che è stata impiegata dalle forze di polizia per penetrare in un’abitazione privata e sottrarre un bambino dalla sua culla davanti allo sguardo della madre.

La storia della Germania dopo l’ascesa di Hitler ci ha insegnato che il male sorge dalla combinazione tra tante piccole azioni. Non c’è forse mai stato bisogno di ordinare formalmente lo sterminio, perché un decennio di politiche nazionalsocialiste aveva già incastrato gli ebrei entro un meccanismo di morte presto inarrestabile. Raul Hillberg lo ha scomposto nei suoi studi storici, mostrando la cooperazione spontanea tra diversi centri di potere, dai legislatori che spogliarono gli ebrei da ogni diritto agli ingegneri che garantirono la logistica più efficace per il loro trasferimento, passando dalle forze di polizia, dall’amministrazione contabile e dall’apparato del Partito. Potrebbe ripetersi tutto questo? L’umanità ha imparato molto da quella catastrofe ma non ha potuto liberarsi dalla sua possibilità, sempre presente assieme alla tecnologia che ne è stata lo strumento. La catastrofe è quello che accade quando un sistema di procedure perfettamente regolato inizia a processare degli input contraddittori. Per esempio prendendo alla lettera gli incubi dei bambini.

Ieri come oggi, la meticolosa divisione del lavoro tra decine di esperti nei rispettivi campi, ognuno incapace di vedere l’assurdità del quadro generale, è stata capace di produrre un meccanismo totalmente disfunzionale. Sarà alquanto difficile dimostrare in tribunale l’ipotesi di un grande complotto che dall’epicentro di Bibbiano coinvolgerebbe centinaia di persone in combutta per commerciare bambini, come si è letto sui giornali. Ma se il vero complotto fosse invece la modernità?