Dialogo Pd-M5s serve una mossa del cavallo

Dopo il Sì alla Tav e il “mandato zero” cosa altro deve accadere per scuotere i 5 Stelle? Dimenticati l’acqua pubblica, i beni comuni, la partecipazione, la legalità, il No alle opere di dubbia utilità, cosa resta del movimento che aveva scosso il sistema politico italiano e che ha dimezzato il consenso in un solo anno? Restano le poltrone, le porcate alla Bibbiano, resta una leadership e una linea politica che sta consegnando il Paese alla estrema destra di Salvini. Una destra cosiddetta sovranista, a tratti eversiva, che baratta l’interesse nazionale con rapporti opachi con la Russia di Putin.

Si può invertire la tendenza, assumendosi la responsabilità di staccare la spina a un governo fatto di molte chiacchiere e poca attenzione alle fatiche degli italiani. Si può far cadere il governo, con una svolta di linea politica, portare la crisi in parlamento e aprire una discussione a tutto campo. Serve uno shock, una mossa del cavallo, non serve l’arrocco. E questa necessità accomuna tanto i 5 Stelle quanto il campo progressista. L’unità del proprio campo è un valore, ma non può essere un valore a danno del Paese. I democratici devono sconfiggere i fantasmi che li tengono bloccati in un incastro senza possibilità di riuscita. Ho grande rispetto per lo sforzo intrapreso dal nuovo Pd. Bisogna muoversi e giocare la partita. Bisogna indurre le scelte degli altri, esercitare egemonia. Riprendere la strada delle primarie, la spinta di una “Piazza grande”, innovativa, civica, ecologista, femminista, capace di immaginare nuove possibilità per il Paese. L’ossessione velleitaria per l’autosufficienza farebbe inorridire i padri costituenti, gli stessi che non esitarono ad allearsi con Badoglio di fronte alla necessità storica. L’Italia è una repubblica parlamentare, la crisi va portata in parlamento, lì si verificheranno le posizioni di ogni forza politica.

A quel punto potrà mettersi in moto una sorta di disgelo tra 5Stelle e campo progressista. Sarebbe una buona semina. La penso come il sindaco Sala, non si tratta di far nascere governi rabberciati nel palazzo, ma di preparare al meglio le prossime elezioni. Verificando ipotesi di dialogo post-elettorale tra la coalizione civico progressista e Movimento 5Stelle su punti di tenuta repubblicana capaci di mandare sotto Salvini. A Bruxelles i 5Stelle hanno votato Sassoli e, soprattutto, votando la presidenza Von der Leyen, hanno deciso da che parte stare. Un fatto nuovo, politicamente rilevante, che può alludere a un patto contro le forze autoritarie. La sfida è un mutamento radicale del continente, superando le politiche di austerità che hanno gonfiato le vele dei sovranisti e dei razzisti. Urge un accordo sul comune destino europeo e politiche di cambiamento su giustizia sociale, clima, salario minimo e accoglienza capaci di sottrare i popoli dalle grinfie sovraniste.

La destra possiede una ideologia forte fondata sul capro espiatorio, il capo che ha sempre ragione e una pulsione post-democratica evidente. Un governo Salvini-Meloni sarebbe una tragedia per il Paese, lavorerebbe a creare fratture, alimentando una guerra civile figurata con il controllo di tv generalista e social. Vanno fermati prima che ogni singolo pozzo del Paese venga avvelenato. Esistono persone, esperienze, intellettualità pronte a battersi. Ma se, nelle urne, nascerà il governo Salvini, i presidi democratici verranno umiliati. Bisogna saperlo. Può darsi che i sovranisti saranno fermati dal mercato, dalla dimensione globale degli scambi e delle interconnessioni. Può darsi. In ogni caso i democratici devono assumersi responsabilità adeguate al tornante storico che stiamo attraversando. E lo devono fare aprendo porte e finestre, senza paura. Ma il primo passo verso una Italia diversa spetta al Movimento 5 Stelle. Prima che sia troppo tardi.

*Deputato europeo eletto come indipendente nella lista del Pd

Giggino, lo spietato rottamatore (sì, ma di se stesso)

Giorni fa un parlamentare ha detto: “Sogno un partito che si ponga come obiettivo rimandare miserabili pagliacci come Luigi Di Maio a fare il bibitaro al San Paolo”. È stato il deputato Luigi Marattin, che vive da mesi il dramma di celare al mondo – e ancor più a se stesso – l’indicibile mitraglia di un’alopecia sbarazzina mal sopportata, che lo porta a presentarsi ogni volta in tivù con tagli assurdi. Sorta di Franco Strippoli contemporaneo, Luigino conta meno di un brigidino apolide. Incarna però la faccia più politicamente volgare e respingente di un centrosinistra che, finché non si libererà di tale masserizia, incarnerà il peggio del peggio della politica italiana. Si pensi ora al dramma dell’elettore normotipo esigente, magari con un passato di sinistra, che lungi dal poter votare a destra oggi non ha spiragli, non potendo certo appoggiare i Romano & le De Micheli, ma pure quell’idea caricaturale di sinistra finto-alternativa promulgata dalle Murgia & Casarini. Chi resta? Niente. Qualcuno, qui, potrebbe dire: “Be’, ci sono i 5 Stelle!”. Ma – appunto – a oggi M5S e “niente” rischiano di coincidere. E l’unica grande fortuna dei pentastellati è che gli altri sono così improponibili da farli ancora sembrare per contrasto i meno peggio. Ma davvero era tutta qui la portata innovatrice? Un menopeggismo 2.0?

Di Maio si è sobbarcato un compito troppo gravoso (ma non gliel’ha ordinato il dottore) e qualcosa di buono sta facendo. Lui come il suo Movimento. Dal Decreto Dignità al Reddito di Cittadinanza. Dalle battaglie a fianco dei lavoratori (caso Whirlpool, per dirne uno) alla Spazzacorrotti. E le tante intercettazioni dicono che, a fronte di un sistema trasversalmente colluso, i 5 Stelle passano agli occhi dei disonesti per “rompicoglioni”. Bene. In fondo, le poche cose buone che ha fatto questa schifezza di governo sono quasi tutte a firma 5 Stelle (anche se non lo sa nessuno). Ma non basta, perché ultimamente Di Maio sembra dentro quella geniale vignetta di Altan in cui il protagonista si chiedeva: “Mi piacerebbe sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio”. La cosa meno grave, paradossalmente, è il Tav: l’errore, come per Ilva e Tap, è stato non tanto perdere una battaglia politica quanto promettere fino a ieri la Luna. L’entità parossistica delle cazzate a getto continuo di Di Maio è altrove: nel litigare sempre con Salvini, sciorinando questi penultimatum che fanno pena; nell’andar via tre minuti prima che al Senato Conte parlasse sul caso Rubli; nel continuare ad avallare (benché talora con approccio finto-imbarazzato) le porcate insite nel Dl Sicurezza 1 e Bis; nell’aver creato questa situazione “lose lose”, in cui i 5 Stelle come si muovono sbagliano, che facciano cadere il governo (dando la stura a un altro ben peggiore) o che continuino con questo stolido nichilismo poltronista. E poi in questo capolavoro di deficienza politica che è il “mandato zero”. È lecito voler allungare la vita politica ai consiglieri locali, ma giustificarlo – invece di ammetterlo serenamente – con questa boiata aritmetica del “mandato zero” significa farsi prendere per il culo in eterno. Di Maio è persona onesta, scaltra e in buona fede, ma come minimo si sopravvaluta. E negli ultimi mesi sta al M5S come Renzi al Pd: uno spietato rottamatore di se stesso e di tutti coloro che lo circondano. Sta disintegrando il M5S con un’efferatezza al cui confronto Ted Bundy era Minnie. Qualcuno lo aiuti. Lo sedi. Lo fermi. A meno che l’obiettivo grillino, per le prossime elezioni, sia quello di fare arrivare l’astensione al 70%.

Lo sdegno degli Usa dalla memoria corta

C’è grande sdegno negli Stati Uniti per il ragazzo americano, sospettato dell’uccisione di un carabiniere, fotografato bendato in una nostra questura non si sa se durante un interrogatorio o prima. “Scioccante” (Cnn), “Intollerabile” (Washington Post), “Esposto come un trofeo” (Bloomberg), “Intollerabile, intollerabile, intollerabile” (Los Angeles Times).

A noi par chiaro che lo sdegno per la fotografia ne sottintenda, sin quasi a diventarne un pretesto, un altro, il vero nocciolo della questione: che un giovane americano sia stato in qualche modo torturato. Beh, se di tortura si tratta, come sottolinea Sallusti su il Giornale (29/7), è di natura psicologica e non fisica. Gli americani, quando gli fa comodo, sembrano avere una memoria molto corta. Dimenticano Guantanamo dove per anni hanno sottoposto, e ancora oggi sottopongono, per estorcere loro confessioni, i prigionieri talebani al waterboarding, alla privazione del sonno, alle scosse elettriche sui genitali e altre torture rispetto alle quali una sciarpa calata sugli occhi è una bagatella. Con la non trascurabile differenza che i talebani erano dei guerriglieri che difendevano la libertà del loro Paese arbitrariamente invaso e occupato, mentre i giovani americani, se le accuse nei loro confronti verranno provate, sono dei delinquenti comuni, dei ragazzi viziati pieni di droga e alcol. Dimenticano che quando invasero l’Afghanistan esposero sotto l’occhio scatenato delle televisioni di tutto il mondo, a cominciare dalle loro, i prigionieri talebani in manette che imploravano: “Uccideteci piuttosto, ma non umiliateci”. Dimenticano Abu Ghraib dove i prigionieri iracheni furono messi nudi a piramide e debitamente fotografati mentre una soldatessa yankee ne teneva al guinzaglio uno, onta massima per chiunque, ma in particolare per un musulmano. Dimenticano il caso Abu Omar, presunto terrorista, catturato illegalmente in Italia dai servizi segreti americani e trasferito via Aviano, con la nostra tacita complicità, nelle galere egiziane perché potesse essere torturato con tutto comodo. Qualche quotidiano, in particolare il Washington Post, è arrivato a mettere in dubbio la serietà della giustizia italiana ricordando il caso di Amanda Knox, accusata, incarcerata e condannata per l’omicidio di Meredith Kercker ma infine, grazie al nostro sistema di garanzie, assolta. Certo gli americani si sdegnano molto di meno, anzi non si sdegnano affatto, quando di mezzo ci sono loro cittadini. Il pilota americano che per fare il Rambo, volando troppo basso, recise i cavi della funivia del Cermis provocando 14 morti è stato estradato in America e di lui non si è saputo più nulla. Stessa riparazione giudiziaria hanno avuto le ragazze partenopee stuprate dai militari americani di stanza a Napoli, anch’essi estradati negli Stati Uniti e di cui, come per il Rambo del Chermis, non si è saputo più nulla. Gli americani godono del principio di extraterritorialità, sia quando ne hanno diritto in base ad accordi stipulati con i Paesi in cui operano i loro militari, come l’Italia, sia quando non ne hanno alcun diritto. Al giudizio del Tribunale Internazionale dell’Aia per i “crimini di guerra” sono sottoposti militari e civili di tutti i Paesi del mondo, e infatti vi sono stati condannati serbi, croati, militari guerriglieri di vari paesi africani, ma gli americani negano che questo Tribunale possa valere per loro. Nella loro testa, forse ingenuamente nel popolo yankee, ma certo non nelle classi dirigenti, è impensabile che i loro soldati possano commettere crimini di questo genere. È “intollerabile” solo il pensarlo. Sono o non sono la “cultura superiore”, i grandi giustizieri garanti della pace del mondo?

Ma in quanto a sdegno per quella fotografia nemmeno i giornali italiani e le nostre Istituzioni si sono risparmiati. Il carabiniere sospettato di essere autore del misfatto è stato immediatamente trasferito, mentre la Procura di Roma ha aperto un’indagine. Non si pecca di malizia se si pensa che se lo stesso trattamento fosse stato riservato a un giovane nero, poniamo un maliano o un somalo o un nigeriano, e non a un bianco americano, non si sarebbe sollevato tutto questo can-can o avrebbe suonato a decibel di gran lunga inferiori. Solo Matteo Salvini avrebbe tuonato contro questi migranti “brutti, sporchi, cattivi” e, naturalmente, in re ipsa, delinquenti.

Trovo anche eccessiva l’enfasi e lo spazio che tutti i media stanno dando da giorni all’uccisione del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Merita rispetto perché è morto nell’esercizio del suo dovere, che però è un mestiere particolare, dove simili tragedie vanno messe purtroppo in conto quando si indossa la divisa. Non è un eroe, è una vittima del lavoro come ce ne sono purtroppo tante ogni giorno e nessun presidente del Consiglio si sogna di andare a onorarne le salme.

La startup Bio-on schiera due esperti e recupera in Borsa

La startup bolognese delle bioplastiche, Bio-on, dopo giorni di rivelazioni e dubbi, ieri ha schierato il parere di due professori a difesa della validità delle sue bioplastiche continuando così a recuperare in Borsa (+25%) dopo che i suoi bilanci e il modello di business sono stati passati al setaccio dal fondo speculativo Quintessential che però non molla la presa ribadendo che il suo non è un attacco all’Aim. “Come scienziato ho sempre sognato un prodotto del genere adesso vedo delle possibilità e trovo questo futuro molto stimolante, penso che aprirà delle porte nuovissime all’impiego delle materie plastiche”, ha detto il professor Paolo Galli. Nel secondo parere, fornito da Paola Fabbri, PHD in Ingegneria dei Materiali e professoressa associata a Bologna, si specifica che quello che è cambiato “con l’arrivo delle tecnologie di Bio-On è stata la possibilità di implementare su larghissima scala e su scala industriale le produzioni della polvere di Pha da processo biotecnologico”. Per Quintessential entrambi i pareri dimostrano la validità delle proprie tesi ossia che il “PHA non è un materiale nuovo” e che Bio-on “non possa affermare di aver rivoluzionato il mercato della bio-plastica”.

Mps, no all’archiviazione di Profumo e Viola

L’inchiesta milanese sui crediti deteriorati che coinvolge ex vertici della banca Monte dei Paschi di Siena non va archiviata, ma anzi deve proseguire per altri 9 mesi. La decisione è stata presa il 25 luglio scorso dal giudice per le indagini preliminari Guido Salvini. Salgono così a cinque le richieste di archiviazione che riguardano Mps e che sono state respinte dai giudici di Milano in questi ultimi anni.

L’indagine, nata da alcuni esposti di azionisti, vede indagati per falso in bilancio l’ex presidente Alessandro Profumo, l’ex amministratore delegato Fabrizio Viola e l’ex presidente del collegio sindacale Massimo Salvadori, nominati nel 2012 dopo la crisi dell’istituto bancario. Al centro di questa inchiesta, trasmessa da Siena a Milano, c’è anche l’errata contabilizzazione di due derivati: Alexandria e Santorini, la cui gestione risale a quella di Giuseppe Mussari, precedente a quella Profumo. Anche per questa i pm si sono visti respingere in passato la richiesta d’archiviazione.

E veniamo ai crediti. Stando al decreto del gip, la richiesta di archiviazione dei magistrati si basa “ampiamente” sulla consulenza disposta il 15 giugno 2018 dalla Procura Generale, per la quale “il nuovo management nominato nel 2012 avrebbe fatto fronte a una revisione profonda della Direzione crediti e delle relative procedure interne”. Secondo Salvini, però, quella consulenza “non è determinante” e “la richiesta di archiviazione (…) non offre una risposta soddisfacente in quanto si limita a riportare nella motivazione le dichiarazioni soprattutto di alcuni funzionari della Banca d’Italia senza ricostruire in modo organico la complessa vicenda dell’esposizione dei crediti deteriorati”.

Il giudice ha allegato altri documenti, come la consulenza che il fondo Alken ha affidato al professore Eugenio D’Amico e che è stata depositata nel processo civile di Firenze, dove Alken ha chiesto di vedersi rimborsati i 497 milioni persi nella banca. In questa consulenza, scrive Salvini, “i profili trattati sono i medesimi della Consulenza disposta dalla Procura Generale”. Secondo D’Amico, tra il 2012 e il 2017 Mps ha rettificato crediti per quasi 25 miliardi, ma solo dopo e non prima degli aumenti di capitale. “Se tutte le rettifiche dal 2015 fossero state correttamente apportate – scrive il consulente – il patrimonio civilistico di Mps si sarebbe ridotto quasi a zero e avrebbe avuto serie difficoltà ad operare”, rendendo difficile chiedere soldi al mercato.

Il documento si occupa anche della famosa contabilizzazione dei derivati: “Le operazioni Nomura e Deutsche Bank sottoscritte nel 2008 e 2009 da Mps per 5 miliardi non riguardavano investimenti in titoli di Stato, come si era voluto far credere, bensì derivati creditizi ad alta rischiosità”. Di più: “Le operazioni avrebbero dovuto coprire le perdite seguite alle operazioni Alexandria e Santorini ma avrebbero invece prodotto un’ulteriore perdita di oltre 2 miliardi”. Scrive ancora il gip: “Le argomentazioni in proposito del Consulente non appaiono peregrine e altrettanto deve dirsi di successivi passaggi in cui questi analizza la correttezza dell’iscrizione dei crediti deteriorati ed i bilanci a partire dal 2012”. Da qui la richiesta di “un approfondimento tecnico e una verifica di insieme che tengano conto degli opposti elementi forniti dalle parti”. Serviranno dunque nuove indagini per capire “quale impatto economico e finanziario avrebbe avuto l’eventuale corretta rettifica individuata dalle consulenze mediante l’iscrizione corretta a bilancio di rilevanti porzioni di crediti deteriorati”. Il giudice ha invece accolto l’archiviazione della banca.

Carige, l’uomo di Berneschi consulente del nuovo salvatore

Il salvataggio Carige arriva alla stretta finale. Con polemiche, trattative, analisi e colloqui frenetici. Tra i personaggi che si sono occupati del dossier a Genova qualcuno ha segnalato la presenza di Ennio Lamonica. Si tratta di un manager bancario di spessore, un uomo che conosceva bene Carige. Ma nei corridoi dell’istituto genovese c’è chi ricorda altri passaggi del suo curriculum: l’essere stato uomo di fiducia di Giovanni Berneschi e il rinvio a giudizio (2018) da parte del Tribunale di Roma per ostacolo alla vigilanza, proprio con l’ex patron di Carige.

Ma andiamo con ordine. Ormai l’operazione di salvataggio della banca si sta chiudendo. Le ultime cifre circolate parlano di 700 milioni di aumento di capitale e 200 milioni di bond. Il doppio rispetto alle ipotesi prospettate dai vertici alla fine del 2018, subito prima del commissariamento, e che avevano portato gli attuali azionisti di maggioranza – la famiglia Malacalza – ad astenersi in assemblea. Sarà il quarto aumento di capitale in cinque anni, dopo quello da 800 milioni del 2014, seguito da un secondo di 850 milioni (2015) e dall’ultimo da 545 milioni un anno e mezzo fa. Nella squadra che dovrebbe sostenere l’operazione, oltre al Fondo Interbancario, ecco soggetti pubblici come il Credito Sportivo e il Mediocredito Centrale. Ma c’è anche Cassa Centrale Banca, holding degli istituti di credito cooperativi, con sede a Trento. E con tanta liquidità. Di qui il desiderio di investire nel salvataggio che da mesi tiene in apprensione il mondo politico e finanziario: Carige, appunto.

Cassa Centrale Banca prevede di acquisire il 9,9 per cento di Carige, una quota importante, ma comunque sotto il tetto che richiede l’autorizzazione delle autorità competenti. In tutto si parla di un investimento da 65 milioni circa. Per l’operazione la Cassa si è avvalsa della consulenza di PricewaterhouseCoopers alla quale ha collaborato proprio Lamonica che, raccontano nella sede Carige di Genova, si è interessato in prima persona al dossier (il cronista ha cercato di avere commenti da Lamonica, Cassa Centrale e PricewaterhouseCoopers senza ottenere risposta). Ovviamente il suo impegno non è passato inosservato perché da queste parti il manager è molto noto da quando, nel 2009, Berneschi lo volle come direttore generale. Erano gli anni in cui Berneschi la faceva da padrone e molti a Genova ignoravano i segnali del disastro finanziario e giudiziario che si preparava. Eppure qualcuno, come il piccolo azionista Luigi Barile, a ogni assemblea non mancava di denunciare le nubi nerissime all’orizzonte; la classe dirigente ligure, che riuniva impresa, politica e perfino ambienti vicini alla Curia, scrollava le spalle.

Era anche il tempo dei maxi finanziamenti che poi hanno portato la banca sull’orlo del disastro.

E proprio i crediti a rischio sono oggetto in queste ore di ulteriori dubbi, come ha riferito Raoul De Forcade sul Sole 24 Ore. Sga, società pubblica in mano al Tesoro, è pronta ad allargare il perimetro della sua acquisizione passando da 1,8 miliardi a 3,36. Rientrerebbero così anche crediti con i maggiorenti dell’economia ligure, e non solo. Si parla di 138,9 milioni per il portafoglio di esposizioni di Genova High Tech (valore lordo 219 milioni), cioè il colossale progetto di cittadella della tecnologia degli Erzelli tanto caro al centrosinistra. Poi ecco 105,3 milioni per l’acquisto delle posizioni di Abitcoop (lordo 282 milioni). Ancora: Sga, riferisce il quotidiano economico, offre 305 milioni per le posizioni del gruppo armatoriale Messina (lordo appena rinegoziato di 515 milioni). Certo, l’acquisto di crediti deteriorati comporta sempre la rinuncia a una bella fetta della somma, ma tra i dissidenti di Carige in molti storcono il naso di fronte a questi tagli che porterebbero la perdita con Sga, sostiene qualcuno, “da 210 a 400 milioni”.

La Perla, sospesi fino a settembre i licenziamenti

C’è un mese in più di tempo per risolvere la vertenza La Perla. L’azienda storica dell’abbigliamento intimo femminile, fondata nel 1954, ha annunciato la sospensione per agosto della procedura di mobilità già avviata per 126 dipendenti della sede di Bologna, nel corso del tavolo al ministero dello Sviluppo economico. La procedura era partita a fine giugno dopo che la holding olandese Sapinda, proprietaria dell’azienda, aveva annunciato un piano di ristrutturazione. Nel corso della riunione al Mise l’ad di La Perla, Pascal Perrier, ha spiegato che il rilancio deve passare per un nuovo modello di business che riposizioni il gruppo nel settore della lingerie di lusso. Il prossimo tavolo al Mise è stato già convocato per la prima settimana di settembre. Lo storico brand è alle prese con un bilancio in negativo da due decenni. Prima era stato Silvio Scaglia, il fondatore di Fastweb, nel 2013 a provare a risollevare La Perla con 500 milioni di euro di investimenti. A inizio 2018 ha venduto l’azienda al finanziere Lars Windhorst che ha portato un’ulteriore iniezione di risorse per 128 milioni, senza risultati. Infine l’annuncio della decisione di ristrutturare La Perla, con il taglio dei 126 lavoratori di Bologna

Just Eat vuole essere il più forte: fusione da 9 miliardi

La prospettiva è che nasca la più grande piattaforma di consegna di cibo a domicilio del mondo, tanto che la notizia della fusione tra la britannica Just Eat e la olandese Takeaway.com è bastata a far salire del 30% le azioni. Il nuovo soggetto varrebbe circa 9 miliardi di sterline. Agli azionisti di Just Eat, si leggeva ieri in una nota congiunta, andrebbero 0,09744 azioni per ogni azione posseduta così da avere, alla fine dell’operazione, il 52,2% del capitale. Gli azionisti di Takeaway.com, che ha offerto 5 miliardi di sterline, avrebbero invece il 47,8%. A ricoprire il ruolo di presidente del consiglio di sorveglianza del nuovo gruppo sarebbe Mike Evans, l’attuale presidente di Just Eat. Jitse Groen, ad e fondatore di Takeaway.com sarebbe invece l’amministrazione delegato.

Si avviano le concentrazioni, dunque, nel food delivery, tra interessi e un giro d’affari che si stima possa raggiungere i 365 miliardi di dollari nel 2030. La mossa dei due player arriva dopo altri due importanti movimenti: Just Eat aveva acquistato la società britannica Hungry House a gennaio 2018 mentre a dicembre Takeaway.com aveva fatto lo stesso con Delivery Hero in Germania. La concorrenza è in aumento, con Uber Eats che conquista sempre più quote di mercato (nel primo trimestre ha segnato un +89% di ricavi) e il gigante dell’ecommerce Amazon che non solo investe in Deliveroo (con una partecipazione nel capitale di 575 milioni di dollari attualmente al vaglio dell’Antitrust americano) ma in India sembra puntare a collaborare con la piattaforma di consegne di Uber. Unirsi, quindi, rassicura. La società britannica, oggi, opera in 12 mercati e nel 2018 ha processato ordinazioni per 4,2 miliardi di sterline. Quella olandese, lo scorso anno ha gestito 93,9 milioni di ordini per conto di 14,1 milioni di consumatori in 10 paesi, con ricavi per 240 milioni di euro.

Il battesimo (all’americana) dei primi 121 navigator sardi

“Voi siete una squadra di vincenti che avrà la forza di cambiare le cose nei prossimi due anni”. Comincia così, sulle note di Freddie Mercury che canta We are the champions, la giornata di battesimo dei 121 navigator sardi, la prima in Italia. A guidarla è Mimmo Parisi, presidente dell’Anpal, il professore della Missisippi State University chiamato da Luigi Di Maio a rivoluzionare le politiche attive per il lavoro. E una piccola rivoluzione in effetti c’è: nel tono dell’evento che precede l’inizio della fase di formazione vera e propria da 200 ore che coinvolgerà i neo-contrattualizzati da Nord a Sud dell’Italia. Parisi si avvicina alla platea, si presenta: “Ciao sono Mimmo, presidente Anpal”, stringe le loro mani, si complimenta con tutti. Sullo sfondo alcune slide: “Vogliamo diventare un modello innovativo, attraverso l’utilizzo del data science e delle nuove tecnologie”, dice Parisi. Ed ancora: “Il lavoro viene creato dalle imprese, noi abbiamo la responsabilità di creare le condizioni per far crescere il lavoro”.

Per questo, spiega, serve un cambio di paradigma: non c’è più il lavoro fisso ma c’è una carriera professionale da costruire. “Il mercato del lavoro esiste, dobbiamo solo sapere dove andarlo a cercare e quali strumenti dare alle persone per rimettersi in moto”. I navigator sono il “motore” di questo progetto, quelli che d’ora in poi dovranno trasmettere un’immagine diversa dai centri per l’impiego: “Diventeranno contenitori di capitale umano non solo per dare servizio alle fasce deboli, ma per tutti”. Nel messaggio lanciato dal presidente Anpal ai nuovi assunti sardi non c’è spazio per le polemiche sollevate dal governatore della Campania De Luca. A Cagliari le tensioni appaiono più smorzate; anche fra gli storici precari Anpal Servizi – 18 su 650 a livello nazionale – prevale un senso di attesa e di cauto ottimismo. Michele è uno di loro. “Il mio contratto – racconta – va in scadenza a settembre 2020, insieme a quello dei miei colleghi. Ho fatto 4 vacancy, in una ero idoneo e le altre 3 le ho passate, tutte con esame scritto e orale. In molti non ce l’hanno fatta. Certo, passare da 18 a 140 persone a livello regionale è quasi uno choc organizzativo, ci vorrà qualche mese per conoscersi tutti. Ma la verità è che se fossimo 300 sarebbe ancora meglio. In Germania – continua – ci sono 100 mila operatori per 80 milioni di abitanti, in Francia sono 60 mila. In Italia ora andremo a quota 13 mila, con un rapporto 1 a 90 molto sotto gli standard europei. In Sardegna i centri per l’impiego sono già stati interiorizzati dalla Regione con Aspal (l’Agenzia regionale per il lavoro) e i precari sono stati tutti stabilizzati. Enrico, invece, fa parte della pattuglia dei 121 nuovi contrattualizzati di Anpal che collaboreranno con i centri per l’impiego per l’individuazione delle offerte di lavoro a favore dei beneficiari del reddito di cittadinanza. La Sardegna è una delle Rgioni con il numero più alto di richieste in rapporto alla popolazione, oltre 38 mila. “Sono fiducioso, anche se nessuno in questo momento può dire di essere pronto per questo lavoro: è una figura completamente nuova. Sono laureato in legge e conosco il diritto del lavoro. Il contratto? Per ora si arriva ad aprile 2021, con eventuale proroga scritta. Per ora va bene così, parlare di stabilizzazioni mi sembra prematuro”.

Rosa e Michela vengono dalla provincia di Sassari, anche loro neo-contrattualizzate. Sono laureate in Scienze politiche e Psicologia. La loro preoccupazione è capire a quali servizi saranno assegnate nel territorio: “La provincia di Sassari è molto vasta e potrebbe capitare di essere distanti parecchi chilometri da casa. Per il resto abbiamo aspettative abbastanza alte, sarebbe bello che diventasse il lavoro della vita”. Molta curiosità anche sulla declinazione delle mansioni, e sul rapporto coi percettori del reddito: “Ogni Regione fa riferimento a una specifica convenzione che è stata stipulata, nella nostra è scritto: ‘di supporto o a contatto diretto’. Quindi una volta formati potremmo avere un certo ruolo di autonomia”, spera Rosa.

Lancio di pietre contro il “Corriere dell’Umbria”

Atto intimidatorio alla sede del Corriere dell’Umbria a Perugia. Nella notte tra domenica e lunedì due individui a volto coperto dai caschi si sono avvicinati al palazzo del giornale umbro diretto da Davide Vecchi (già giornalista de Il Fatto quotidiano) danneggiando la struttura del palazzo poco fuori il centro storico. Secondo le prime scarne informazioni le due persone sarebbero scese da una moto, avrebbero attraversato la strada iniziando a scagliare pietre contro le vetrate del quotidiano, provando anche a forzare la porta d’ingresso che però ha resistito ai tentativi di effrazione essendo blindata: “Secondo gli agenti della Digos che hanno fatto i primi rilievi si tratta sicuramente di un atto intimidatorio legato a qualcosa che abbiamo scritto negli ultimi giorni ma dobbiamo approfondire – dichiara Vecchi –. È preoccupante non tanto il fatto in sé quanto il fatto che succeda in un territorio tranquillo come quello di Perugia e che qualcuno si prenda la briga di tirare pietre per quello che il giornale scrive. Noi pubblichiamo notizie poi se qualcuno ha da dire qualcosa ci sono gli avvocati, le querele. Il Corriere – conclude Vecchi – continuerà a fare il lavoro di sempre”.