La Serie A tratta con Mediapro, ma non scarica Sky

Con l’imbarazzo di chi flirta il pomeriggio con l’amante e poi va a cena a casa dalla vecchia fidanzata, la Serie A fa un passo verso MediaPro e il suo ambizioso progetto del “canale della Lega” su cui trasmettere dal 2021 tutte le partite, proprio nel giorno in cui presenta il calendario del campionato negli studi di Sky. Ancora, però, non ha scaricato definitivamente la pay-tv, che di sicuro avrà il calcio per i prossimi due anni e poi chissà. La svolta epocale è rimandata al 30 settembre, ammesso che si faccia davvero.

Mentre nasce la prossima stagione (si parte il 24 agosto, già alla seconda giornata il derby Lazio-Roma e Juve-Napoli), il calcio italiano guarda al futuro. Il 2021, quando scadrà il contratto con la premiata coppia Sky-Dazn, non è poi così lontano. Da mesi si discute freneticamente della proposta degli spagnoli di MediaPro, costretti a ritirarsi nel 2018 dopo l’accordo Sky-Mediaset e ora tornati alla carica. Il piano, anticipato dal Fatto Quotidiano a giugno, prevede che la Lega si faccia editore e costruisca con gli spagnoli il suo canale. Un prodotto unico, da trasmettere su varie piattaforme (dalle tradizionali pay-tv, Sky compresa, fino agli streaming online) senza esclusiva. Un modello diverso, rivoluzionario, che libererebbe la Serie A da un mercato asfittico (senza Mediaset, quello di Sky è di fatto un monopolio). Gli spagnoli promettono 1.150 milioni a stagione, 177 in più rispetto a Sky-Dazn, per 6 anni. Tanto. In cambio, però, pretendono quasi tutto, dalla pubblicità alla vendita degli abbonamenti. Questo, col rischio d’impresa, spaventa alcuni presidenti.

Ieri la Lega calcio del presidente Miccichè avrebbe dovuto decidere. Ovviamente non l’ha fatto. La delibera, approvata all’unanimità, è il classico colpo al cerchio e alla botte: ok a Mediapro, ma con un piccolo spiraglio ancora aperto per Sky. “L’assemblea intende mantenere la piena facoltà di rivolgersi agli operatori del mercato, valuta positivamente l’ipotesi di realizzazione del canale e delibera di definire l’accordo con Mediapro entro il 30 settembre 2019”. Tradotto: l’offerta degli spagnoli (che stufi di aspettare minacciavano di ritirarla) è accolta solo parzialmente, almeno sulla parte economica; l’ad Luigi De Siervo ha 2 mesi per chiudere. Un bando però sarà fatto comunque (lo prevede la Legge Melandri), e quindi Sky avrà la possibilità di superare la loro offerta, se sarà in grado di farlo.

È un modo per evitare lo scontro, nessuno si è sentito abbastanza forte per votare. Intanto la trattativa con MediaPro va avanti sui punti più critici: dalle garanzie alla penale pretesa in caso di mancata realizzazione del canale (30 milioni per 3 anni), fino alle fatturazioni ai club. Anche la tempistica della nuova scadenza forse non è casuale: a ottobre ci sarà il cambio della guardia in Sky, dove arriverà il nuovo amministratore Maximo Ibarra (che, tra l’altro, è fratello della compagna del n.1 Figc Gravina). La Serie A è spaccata, come sempre: c’è chi crede che la pay-tv non sarà in grado di garantire quel miliardo (scarso) che da un decennio manda avanti il calcio italiano, che è il momento di cambiare e che senza gli spagnoli c’è il rischio di rimanere a mani vuote. Ma ci sono resistenze, di chi è legato al vecchio sistema o semplicemente non si fida degli spagnoli: in testa la Juventus di Agnelli, l’ultimo dubbioso è Urbano Cairo, in origine sostenitore del canale, in visita qualche settimana fa a Sky dove ha incontrato l’ad Zappia. Così alla fine la Serie A ha deciso di rinviare: è la cosa che sa fare meglio.

Amici del clan come “agenti provocatori”. Ecco l’accusa al pm

“Se interviene lui…”. “Sai che la mattina stessa… ha fatto tutto”. “Sì, ma comunque se interviene il pro… (incomprensibile)… Generale là”. “C’è già stato”. “Non penso che mi ha venduto”.

È il 19 luglio del 2018 e il maresciallo dei carabinieri Carmine Greco parla con la moglie nella sala colloqui del carcere di Cosenza. Dodici giorni prima era stato arrestato per mafia dalla Dda di Catanzaro che, indagando sugli imprenditori Spadafora di San Giovanni in Fiore, ha scoperto che questi (coinvolti nell’inchiesta “Stige”) sono stati “utilizzati dal pubblico ufficiale in ordine alla conduzione di un’indagine delegata dalla Procura della Repubblica di Castrovillari”.

È da qui che parte l’inchiesta sul procuratore Eugenio Facciolla, indagato per corruzione dai pm di Salerno. Tra gli indagati c’è pure il maresciallo “Carminuzzo” Greco. Rinviato a giudizio per mafia a marzo, per arrestare una dirigente regionale di “Calabria Verde” il sottoufficiale ha utilizzato come “agenti provocatori” gli imprenditori Spadafora “ritenuti espressione delle cosche cirotane”.

Che la cosa fosse organizzata lo si legge in un’informativa del Noe finita sulla scrivania del pm di Salerno Vincenzo Senatore che, tra le carte del fascicolo, si ritrova pure una relazione di servizio in cui viene riportato il commento di un capitano dei carabinieri il quale, durante la notifica dell’avviso di garanzia a due marescialli del suo ufficio, ha dichiarato: “Se il maresciallo Greco ha fatto qualcosa, ogni sua mossa era comunicata e diretta puntualmente dal pubblico ministero titolare dell’indagine”. “Con me faceva il confidente e lo faceva con il procuratore, va bene?”. Carminuzzo Greco si sfoga con la moglie: “Io dettagliavo pure gli appuntamenti che prendevo. Questa è tutta la vicenda. Poi tutte le altre sono… sono barzellette”.

In realtà da ridere c’era ben poco. Nell’informativa consegnata ai pm di Salerno, i carabinieri hanno riassunto i rapporti tra il procuratore Facciolla, il maresciallo Greco e il poliziotto Tignanelli, titolare di fatto della società “Stm”, coinvolta nell’inchiesta della Procura di Napoli sul software Exodus e sulle intercettazioni abusive. Di backup e dati da trasportare “su un altro server”, il procuratore Facciolla ne ha parlato il 5 aprile 2018 proprio con Tignanelli che, stando a una nota della guardia di finanza di Salerno, dal 2016 al 2018 con la Stm ha incassato “in totale”, dalla sola Procura di Castrovillari, “la somma di 761.837,99 euro”.

Nell’informativa dei carabinieri, invece, c’è la conversazione in cui Facciolla chiede consigli al poliziotto Tignanelli sulla necessità di “elaborare una risposta diretta al Procuratore Generale di Catanzaro, circa l’organizzazione delle attività di intercettazioni, presso le varie Procure”. “La cosa grave – dice Facciolla – è la creazione di una cabina di remoto… lo stanno facendo apposta per sputtanare le attività che uno ha”. “Dobbiamo studiare bene – consiglia il poliziotto – e fare una bella cosetta”. Facciolla tira dritto: “Oltre a questo, io faccio in modo di farlo avere al procuratore generale della Cassazione… siccome è un amico… sfruttiamole ste cose, così cerchiamo di mettere i puntini”.

I puntini, intanto, li sta unendo la Procura di Salerno che, proprio in questi giorni, ha aperto un altro fascicolo su un alto magistrato che ha competenza su tutte le procure del Distretto di Catanzaro. Stando alle indiscrezioni, le ipotesi di reato sarebbero tre: falsità ideologica, falsità materiale connessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e errore determinato dall’altrui inganno. Se ieri il prefetto di Cosenza sarebbe stato sentito come persona informata sui fatti, nella stessa veste davanti ai pm di Salerno oggi sfileranno i vertici delle forze dell’ordine che dovranno riferire su alcune decisioni assunte nei mesi scorsi dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica in merito al potenziamento di una scorta a un procuratore che sarebbe stato pedinato sull’autostrada. Una vicenda tutta da chiarire e che, sospettano gli inquirenti, forse è maturata nello stesso contesto.

L’ex capo dei servizi tedeschi: “La Merkel dietro la Rackete”

Secondo l’ex capo dei servizi segreti tedeschi Hans-Georg Massen (rimosso un anno fa) la vicenda della Sea Watch e di Carola Rackete è stata una sceneggiata messa in piedi dalla tv pubblica Ard: quindi dal governo Merkel per screditare il governo italiano e forzare la mano a Salvini. La vicenda è ricostruita dal quotidiano The Guardian, che racconta come Massen abbia condiviso su Twitter un articolo del blog di controinformazione Journalistenwatch, critico con le politiche della Merkel, che sostiene come l’operazione Sea-Watch 3, in realtà sia stata finanziata dalla tv di Stato tedesca. L’articolo era accompagnato dal commento: “Se questo articolo fosse vero, vorrebbe dire che la tv di Stato tedesca è censurata come ai tempi della Germania comunista dell’Est”. Successivamente, l’ex capo dei servizi segreti ha cancellato il tweet. A precisa domanda, ha risposto che il suo account è gestito personalmente da lui e che il profilo non è gli è stato hackerato. Insomma, un messaggio agli utenti del web da parte di Maassen, che probabilmente ha ancora buone fonti all’interno della struttura di intelligence.

“Siamo una squadra”: l’Università “bandita” sceglie la continuità

Il nuovo rettore dell’ateneo di Catania che uscirà fuori dalle urne del 23 agosto rischia di nascere già vecchio, in continuità col sistema raso al suolo un mese fa dall’inchiesta “Università bandita”. Tra i cinque candidati alla carica, infatti, i due nomi forti sono Roberto Purrello e Francesco Priolo. Persone stimate ed estranee alle indagini, ma i cui nomi ricorrono in più di un passaggio dell’ordinanza con cui il Gip di Catania ha sospeso dall’attività, per presunti concorsi truccati, otto docenti e il rettore Francesco Basile.

Purrello, figlio di professore universitario e due fratelli ordinari, è ordinario di Chimica ed è legato a Giacomo Pignataro, rettore prima di Basile e uno degli otto docenti sospesi. Purrello, come raccontano le intercettazioni dell’inchiesta, si sente spesso con Pignataro per preparare le elezioni che poi avrebbero portato alla nomina di Basile nel 2017 e a tal fine si incontrano a casa di Giancarlo Magnano di San Lio. Pignataro dice a Purrello: “Noi siamo una squadra” e Purrello replica di aver trovato altri voti per Basile. Francesco Priolo, 57 anni, ordinario di Fisica della Materia e Pignataro, per la campagna 2017 incontra anche Priolo “ribadendo che già esiste un solco tracciato che ha permesso di trovare un equilibrio tra le diverse aree”, sottolineano i pm. Per l’ex rettore è importante la continuità e ribadisce il concetto a Priolo e Basile. Entrambi i candidati, Purrello e Priolo, hanno sottoscritto due settimane fa, con altri 8 docenti, un documento di solidarietà all’ex rettore Basile.

Ma non manca chi contesta la legittimità delle elezioni. Come la costituzionalista Ida Nicotra, componente dell’Anac e la politologa Sara Gentile, professeur invité al Cevipof di Sciences Po di Parigi, autrici di due appelli per il rinvio in base alla norma del regolamento universitario che vieta elezioni nei mesi estivi.

Il decano Vincenzo Di Cataldo, noto giurista, tre fratelli professori e imparentato per parte di madre con la famiglia Magnano di San Lio, cita invece un’altra norma dello statuto che prevede, in caso di anticipata cessazione della carica di rettore, il potere per il decano di indire nuove elezioni entro 60 giorni.

Ma c’è anche chi ha chiesto il commissariamento dell’ateneo, come l’eurodeputato Dino Giarrusso, la deputata Simona Suriano (M5S) e l’associazione Trasparenza e Merito, fondata dal ricercatore di Storia Giambattista Scirè, che si batte da tempo contro il sistema dei concorsi truccati anche per esserne stato vittima.

La novità è che il commissariamento è stato formalmente richiesto anche da quattro giuristi catanesi i quali hanno spedito un invito al Consiglio dei Ministri. Il Miur, facendo leva sulla legge Gelmini, afferma che il commissariamento si può chiedere solo per motivi di dissesto finanziario, ma i giuristi ribattono che il potere di vigilanza del Ministero si estende alle situazioni di eccezionale gravità.

Uno dei firmatari è l’ex direttore generale dell’ateneo Lucio Maggio, estromesso nel 2014 dall’ex rettore Giacomo Pignataro. Dopo aver fatto causa per il reintegro l’ex direttore generale vinse in primo grado ma poi perse in appello. Da anni Maggio presenta denunce in Procura sulla gestione dell’ateneo e da una di queste si è sviluppata l’inchiesta che ha portato al terremoto giudiziario nell’ateneo catanese. “Settecento milioni di euro l’anno è il bilancio dell’ateneo di Catania che però figura al penultimo posto della classifica Censis 2019 dei mega atenei italici. – denuncia Maggio – Non è un caso che in questo ultimo quinquennio Catania abbia perso 20 mila studenti, su 60 mila, quasi il 50% di entrate in meno”.

Come emerge dalle indagini sembra che a governare l’ateneo sia stata un’unica grande famiglia allargata. Lo documenta l’intercettazione ambientale fra l’ex Rettore Francesco Basile e il direttore generale Bellantoni: “Se si riesce a fare l’articolo 24 (la chiamata diretta ndr), perché ne ho uno al giorno, che è un problema di parentela… poi alla fine qua siamo tutti parenti… l’università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta, una specie di élite culturale della città, perché fino adesso sono sempre quelle le famiglie”, dice Basile a Bellantoni.

E così chiosano i magistrati: “L’élite culturale di cui parla il Basile è tale perché ha illegalmente occupato i ruoli nevralgici dell’università orientando in favore di parenti e affini l’assegnazione di concorsi che avrebbero dovuto premiare i più capaci in ossequio al dettato previsto dall’articolo 3 della Costituzione”.

Dalla Gregoretti sbarcano solo i minori, gli altri no

“Tranquilli, scenderete presto, non ci sarà un “Diciotti-bis’”, gli avevano detto. E loro ci avevano creduto. Invece nonostante i contatti, le rassicurazioni (ovviamente informali) ricevute, la Gregoretti è ancora lì: ferma in mare, ormeggiata al molo Nato del porto di Augusta (Siracusa) in attesa di un accordo sulla redistribuzione dei 116 migranti ancora a bordo e del via libera per lo sbarco, che dal Viminale non arriva. Per ora sono scesi soltanto i minori, gli altri sono ancora tutti a bordo.

Dalla nave della Guardia Costiera ieri hanno potuto scendere 16 minorenni. La sostanza però non cambia: l’unico ok dato dal Ministero è per i ragazzini (fra i 15 e i 17 anni). Di profughi però ce ne sono altri 116, recuperati dall’autorità dopo il salvataggio da parte di un peschereccio italiano, per cui non c’è nessuna autorizzazione. La linea di Matteo Salvini è sempre la stessa: fino a quando l’Europa non si farà carico della suddivisione delle persone recuperate in mare nessuno avrà il permesso di scendere. Porti chiusi, insomma, come piace al leghista.

Eppure le premesse sembravano diverse. Per evitare un nuovo caso mediatico (oltre che una seconda indagine, dopo quella della scorsa estate sul presunto sequestro della Diciotti), il Viminale sembrava intenzionato a concedere l’approdo in tempi rapidi.

Questo almeno era stato comunicato in via informale all’equipaggio della Gregoretti, che sabato aveva fatto rotta verso la Sicilia orientale, raggiungendo un punto di ancoraggio fuori il porto di Catania, dove era stata rifornita di viveri e medicinali. “Massimo 24-48 ore”, era la promessa. Invece la nave è ancora in mare, tra Catania e Siracusa, con quasi tutti i suoi passeggeri a bordo, se si escludono i 16 minorenni sbarcati ieri e i pochi che avevano potuto scendere nei giorni scorsi. perché in condizioni critiche di salute.

Intanto qualcosa si muove a Bruxelles. La Commissione Ue fa sapere che, facendo seguito a una richiesta della autorità italiane di venerdì scorso, ha iniziato i contatti “per sostenere e coordinare gli Stati membri che vogliono prendere parte agli sforzi di solidarietà.” Al momento, però, solo la Germania ha fatto sapere di essere disponibile. E sicuramente non distendono il clima le dichiarazioni di Salvini, che ieri ha attaccato via social la ong Sea Eye, appena tornata nella sar libica con la sua nave Alan Kurdi: “La solita nave di Ong tedesca annuncia di essere tornata nelle acque libiche e batte cassa chiedendo donazioni online (prezzo suggerito: 14 euro al miglio nautico). No comment… Buon viaggio, ma lontano dall’Italia”, ha scritto il ministro. Così i giorni continuano a passare.

Lo stupidario social: “Bestie, lavori forzati e figli di papà”

“Catturati. Tre cittadini di origini marocchine uno di origini algerine. Se uccidi uno di noi hai il tempo contato e ti trascineremo davanti a un giudice” (pagina Facebook di Puntato, app degli operatori di polizia. Segue foto segnaletica di 4 maghrebini). Quel sottile confine tra l’essere inflessibili tutori dell’ordine e l’albertosordismo.

 

“Italia non può essere punto di approdo di certe bestie” (Giorgia Meloni). Giusto. Chiudiamo gli aeroporti ai californiani: se vogliono venire in Italia facciano il giro in nave passando sotto l’Argentina, attracchino in Sudafrica, giungano in Libia, e da lì si imbarchino su un gommone degli scafisti d’accordo con le Ong di sinistra pagate da Soros ecc.

 

“Carabiniere ucciso a Roma, l’identikit della belva nordafricana: le mèches lo incastrano?” (Libero, articolo poi cancellato). Quando fai questo mestiere, il fiuto è tutto.

 

“Sono ricercati due magrebini alti circa 1,80, magri. Uno dei due indossava una felpa nera, l’altro una felpa viola. Un particolare: uno dei due africani ha i capelli mesciati” (Secolo d’Italia). A voler essere proprio precisi precisi.

 

“Il carabiniere interviene e viene ferito. Ma riesce a bloccare l’attentatore, un biondo tinto” (Il Giornale). Quando c’era una speranza che fossero almeno afroamericani.

 

“Aveva 35 anni, faceva il Carabiniere… accoltellato a morte stanotte. A Roma in pieno centro, durante un controllo su due sospetti nordafricani (Paolo Gentiloni, tweet poi cancellato). Un capolavoro di eccesso di zelo. Per non essere accusato di buonismo e di omettere la nazionalità dei criminali neri, Gentiloni concede la presunzione di non-nordafricanità ai due fermati.

 

“Ucciso per difendere Roma” (Il Messaggero). Nei bar della Magliana, al mattino gli avventori salgono sui tavoli e declamano i titoli sempre sobri del Messaggero; quel rifuggire la facile retorica destrorsa, quello schivare le esagerazioni consolatorie da Curva Sud per restituire un senso umano e laico del nostro convivere. (Magari, ecco, invece di giocare al Gladiatore ogni volta che ne muore uno, sarebbe più utile fare campagne per pagare meglio i carabinieri e dotarli di protezioni adeguate).

 

Per qualche ora, i due americani sono stati studenti della prestigiosa John Cabot University. Sfumata la possibilità di incolpare l’Africa, si è tentata la strada “figli di papà dell’élite globalista cosmopolita accoltellano il popolo” (segue citazione di Pasolini-Valle Giulia).

 

“L’assassino era un abituale consumatore di psicofarmaci: nella sua valigia è stata trovata una boccetta di Xanax, potente ansiolitico il cui uso, purtroppo, è molto diffuso in America”. (Repubblica). In Italia no: noi curiamo l’ansia con i decotti di erbe. (Chissà grazie allo Xanax, solo a Roma, quanti omicidi si evitano ogni giorno).

 

“Nella stanza dei due fermati ritrovato anche dello Xanax” (TgLa7). Passi per un coltello insanguinato nascosto dietro un pannello del soffitto, chi di noi non ce l’ha; ma lo Xanax è la prova regina.

 

“Snello, con smalto nero sulle mani e capelli ricci con meches, il ragazzo…” (Corriere Roma). Ma diteci di più. Smalto nero lucido o opaco?

 

“Conosciamo solo la versione della polizia. Aspettiamo di sentire cosa dicono i ragazzi” (Cnn). Purtroppo, hanno confessato. Aspettiamo di leggere cosa scriveranno nel libro di memorie prossimo best seller in Usa, magari ci ripensano.

 

“Spero che gli assassini di Mario vengano beccati e mandati in carcere a vita ai lavori forzati” (Salvini). L’epoca in cui non c’è alcuna differenza tra le esternazioni di un ministro e le sparate di un ganassa in un bar.

 

“Chi ha la responsabilità morale e politica di quanto accaduto, fino a prova contraria, abita sui colli fiorentini” (on. Maria Teresa Baldini, FdI, che allude a Renzi).“Uno in meno e chiaramente con sguardo poco intelligente” (Professoressa di Novara esulta per la morte di Mario Cerciello Rega). Suggeriamo un metodo di auto-regolamentazione: prima di pubblicare una “opinione” sui social, la si legga ad alta voce e si finga che a pronunciarla sia una persona perbene. Se stride, astenersi dal pubblicarla.

 

“A tarda notte confessa uno dei due studenti statunitensi 19enne, di origine libanese” (Giornale). Chissà se è quello che risulta essere anche di origine italiana, con zii a Fiumicino.

 

“Gli avevo tirato il pacco con la cocaina. Avevo paura di loro, così quando ho chiamato il 112 per dare l’allarme ho detto che erano stati due magrebini. Volevo un po’ depistare” (il presunto mediatore dei pusher). Un dropout di quartiere riesce a gabbare tutti i più smagati politici su piazza, da Salvini a Meloni a (vabbè) Gentiloni.

 

“Bestie immonde. Animali. Carogna” (Giorgia Meloni). “Due stronzi” (Salvini). La dignità, il contegno dei due statisti, acerrimi nemici di piazzale Loreto. Non è male come idea: invece di spendere i soldi per i processi e le carceri, mettiamo i politici a insultare i sospetti delinquenti fino al linciaggio; vedrai che la smettono.

 

“A chi si lamenta della bendatura di un arrestato, ricordo che l’unica vittima per cui piangere è un uomo, un figlio, un marito di 35 anni, un #Carabiniere, un servitore della Patria” (Salvini). Almeno finché i tweet del ministro non sostituiscono lo Stato di diritto, la frase non ha alcun senso logico. Va dritta nell’intestino crasso, non processata dal cervello. (Ma non era sovranista identitario, ‘sto qua? E lo difende così, l’onore del suo Paese? E i marò?).

 

Lezioni americane. “Foto del sospettato bendato e con le mani legate. I media Usa: ‘Atto illegale’”. Gli italiani sono accoglienti: le forze dell’ordine avranno voluto farlo sentire a casa.

Nistri, strana frase: “Evitiamo di dargli la coltellata n. 12”

“Giusti i dibattiti ma oggi teniamoli fuori, evitiamo la dodicesima coltellata”. Come a chiedere pietas è il comandante dell’Arma dei Carabinieri il generale Giovanni Nistri durante il funerale del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, il militare ucciso a Roma con 11 coltellate. La funzione si è svolta a Somma Vesuviana in provincia di Napoli nella chiesa di Santa Croce dove un mese e mezzo fa Mario aveva sposato la fidanzata Rosa Maria.

Sulla bara, l’immagine del matrimonio, la maglia del Napoli di Insigne, la bandiera italiana e il copricapo da carabiniere. La celebrazione è stata officiata dall’arcivescovo ordinario militare per l’Italia monsignor Santo Marcianò.

“Mario è morto per tutelare i diritti di tutti, anche di una persona arrestata: insieme con lui chiediamo rispetto per tutti gli altri carabinieri che fanno il suo stesso lavoro – ha proseguito il generale Nistri – rispetto e riconoscenza”. Nell’omelia il rimando all’immagine di Gabriel Natale-Hjort, arrestato per l’assassinio del militare e ritratto nell’immagine in cui è bendato e ammanettato, diventata oggetto di un’indagine sfociata in caso politico. “La fede non esime ma obbliga alla denuncia di ciò che è ingiusto, in un coro di tante voci che chiedono che venga fatta giustizia e che eventi come questo non accadano più” sono state le parole dal pulpito del celebrante parlando del carabiniere come di chi “incarnava a perfezione la missione dell’arma: capace di vegliare una notte intera in ospedale, accanto a una madre vedova e alla figlia, o di provvedere ai pasti e alla dignità dei criminali arrestati. Ha servito persino la vita dei criminali – ha sottolineato Marcianò – anche di colui che lo ha accoltellato e che, certamente, avrebbe voluto difendere dal dramma terribile della droga che disumanizza e rende vittime dei mercanti di morte, soprattutto i giovani”. Non era un rassegnato, ha insistito l’arcivescovo. Poi l’appello alle massime cariche dello stato presenti alla funzione: “Non è nostro compito dire se servano leggi più rigide o soltanto leggi più giuste, ma una cosa osiamo chiedervela. Fate della vita degli altri il senso della vostra vita, consapevoli che quanto operate o non operate è rivolto a uomini concreti: a cittadini e stranieri, a uomini e donne delle Forze Armate e Forze dell’Ordine”.

Un danno all’indagine, ma abbiamo anticorpi

Due ragazzi nordamericani in vacanza a Roma interessati, più che alle antichità classiche, al consumo di droga. Una concatenazione di eventi che li porta sulla strada di due carabinieri chiamati a svolgere i loro compiti di tutela della legge. Il tremendo epilogo di undici micidiali colpi di coltello (o di baionetta) che stroncano la vita di uno dei carabinieri. Il fermo dei due nordamericani sulla base di elementi probatori che paiono concreti, precisi e concordanti.

Dunque, un fatto di cronaca nera. Connotato da profili di speciale disumanità e ferocia, ma pur sempre un fatto di cronaca, affidato ai doverosi approfondimenti della polizia giudiziaria e dei magistrati. Ma ecco l’imprevisto: una fotografia scattata e fatta uscire dall’ufficio dei Carabinieri inquirenti, nella quale uno dei due fermati appare (su una sedia) ammanettato e bendato. Un fatto increscioso, che tuttavia non può e non deve alterare l’ordinario sviluppo degli accertamenti, anche se definirlo stupido e controproducente è il minimo.

Ogni persona privata della libertà che sia custodita da un rappresentante della legge, deve essere pienamente tutelata nei suoi diritti e protetta contro qualunque violenza o trattamento degradante. È un principio assolutamente inderogabile, scritto nella Costituzione ma prima ancora nelle regole di civiltà e nel buon senso.

Prendiamo il caso di specie: esibire come un trofeo (sotto le fotografie di Della Chiesa e Falcone-Borsellino) un fermato sotto indagine bendato, equivale ad aprire nella linea d’accusa – per quanto fondata – faglie pericolose. Utili a chi voglia contestare anche solo in parte il rispetto delle regole che presidiano le modalità di assunzione e di utilizzabilità delle prove. Con esiti che potrebbero suonare offensivi per l’Arma dei Carabinieri, che non può restare impigliata nella sconsideratezza (per quanto imperdonabile) di questo o quel singolo; nonché per lo stesso carabiniere ucciso, che merita nient’altro che una verità piena, senza appannamenti di sorta.

Per fortuna i pericoli sembrano scongiurati. Il comandante generale dell’Arma ha subito avviato – per individuare i responsabili della foto – una rigorosa indagine, che (stando alle cronache) ha portato ad un primo risultato: il declassamento di un militare a compiti non più operativi (come a dire, absit iniuria…, che un centravanti viene retrocesso a magazziniere).

Nel contempo il Procuratore generale di Roma, confermando che la brutta storia della foto sarà chiarita fino in fondo, forte dei suoi poteri di vigilanza sulla Polizia giudiziaria e sui Pm del distretto e quindi – presumibilmente – all’esito di una specifica informativa, ha categoricamente assicurato la piena regolarità degli interrogatori.

Tanto premesso, tenendo altresì conto che la ricostruzione dei fatti operata dall’accusa si basa (sempre stando alle cronache) su fatti obiettivi di indubbio peso, come ad esempio il ritrovamento dell’arma del delitto, resta poco spazio – sul piano processuale – per le polemiche che i media USA hanno subito scatenato, confortati dalle tesi di un illustre avvocato, noto per aver fatto assolvere dall’accusa penale di omicidio della moglie il celebre atleta 0.J. Simpson, poi dichiarato colpevole da una giuria in sede civile.

Certo è che se tutti abbiamo da imparare qualcosa dagli altri, gli Usa potrebbero anche ricordare che in Italia non si è mai dato un caso come quello del processo del 1969 a Bobby Seale, leader delle Black Panthers, imputato di associazione sovversiva che veniva accusato di oltraggio ogni volta che pretendeva di parlare. Finchè, per farlo tacere, il giudice dell’udienza (Julius Hoffmann) non lo fece legare alla sedia con una catena ed imbavagliare con nastro adesivo. Il merito del processo, in pratica, non fu neppure esaminato.

Americano bendato, altri militari saranno puniti

L’inchiesta interna all’Arma dei Carabinieri sul caso di Christian Gabriel Natale Hjorth, il cittadino Usa coinvolto nella vicenda dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega bendato durante il fermo da alcuni militari, sembra procedere velocemente. Chi era presente negli uffici di via In Selci a Roma e che ha ben pensato di immortalare quell’immagine per poi farla girare nelle chat dei colleghi è stato identificato e già nelle prossime ore potrebbero essere presi provvedimenti nei suoi confronti, come il trasferimento.

E siamo già ai primi due militari “puniti”: il collega responsabile di aver bendato il 19 enne americano è stato già trasferito nei giorni scorsi. Ma non è finita. Perchè l’inchiesta interna punta anche ad identificare chi avrebbe dovuto controllare l’operato dei carabinieri e non lo ha fatto: in questo caso la responsabilità cadrà sul militare con il più alto grado presente in quel momento nella caserma romana e che quel giorno avrebbe dovuto tenere sott’occhio la situazione, mentre il comandante del Nucleo investigativo, Lorenzo D’Aloia, era nell’albergo dove alloggiavano i due americani per seguire le attività di perquisizione.

Ora quindi l’Arma sembra voler prendere le distanze dall’ennesimo scandalo, usando il pugno duro, convinta che l’episodio della foto sia ascrivibile al comportamento di singoli che in quel modo volevano mostrare l’arresto dell’americano come una sorta di “trofeo” per il loro collega ucciso. In un primo momento, quando la foto di Christian Natale Hjorth era finita sui giornali, dall’Arma – come riportato dal Corriere della Sera giorni fa – spiegavano che il giovane era stato tenuto con la benda sugli occhi “4 o 5 minuti per non fargli vedere quanto c’era in quell’ufficio soprattutto sui monitor” dei computer, che in realtà nell’immagine pubblicata risultavano spenti.

Così è arrivata la reazione dell’Arma con il comandante generale Giovanni Nistri che ha giudicato l’episodio “inaccettabile”, disponendo immediatamente un’indagine interna. Che ha già portato al trasferimento ad un incarico non operativo del militare che ha bendato l’americano. E nelle prossime ore ulteriori provvedimenti saranno presi verso alcuni degli altri tre o quattro militari presenti in via In Selci durante il fermo dei due americani.

Intanto oltre l’indagine interna all’Arma, su questa vicenda sono in corso altri due procedimenti. Il primo è stato avviato dal procuratore generale di Roma Giovanni Salvi che ha la responsabilità dell’azione disciplinare quando si tratta anche di ufficiali di polizia giudiziaria: una relazione con tutti i nomi dei militari presenti in via in Selci è già stata consegnata, ma ci vorrà un altro mese circa per definire il caso.

Allo stesso modo è stata aperta un’indagine dalla procura di Roma. Sulla scrivania del procuratore aggiunto Nunzia D’Elia nei giorni scorsi è arrivata anche una lettera del Garante dei diritti dei detenuti Mauro Palma, che chiede di capire se siano stati commessi reati, come la violenza privata o l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti. Ai magistrati capitolini è stato già inviato il nome del militare che ha bendato il ragazzo americano e che adesso rischia anche di finire nel registro degli indagati.

In Procura è già arrivata anche l’informativa con i nomi dei tre o quattro militari presenti in via in Selci quando è stato fermato Christian Natale Hjorth, insieme al suo amico Finnegan Lee Elder, il 19enne che, come ricostruito dalle accuse, ha colpito con undici colpi di coltello il vicebrigadiere Cerciello Rega, causandone la morte.

Il Fatto ieri ha contattato Sean Elder, zio di Finnegar ed ex giornalista di NewsWeek: non si sbilancia sulle prossime mosse della famiglia: “Dobbiamo conoscere tutti i fatti del caso”, ha spiegato mentre ha definito “inquietante” l’immagine di Christian Natale Hjorth bendato dai carabinieri.

E sulla foto ieri, nel giorno dei funerali di Cerciello Rega, è tornato il comandante generale Nistri: “Giusti i dibattiti – ha detto – ma oggi teniamoli fuori. Evitiamo la dodicesima coltellata”.

Il primo intervento, i carabinieri e l’uomo “amico delle guardie”

C’è un punto da chiarire, nella notte che porterà alla morte del vicebrigadiere Mario Cerchielli Rega. Negli atti del giudice Chiara Gallo, che ha disposto il carcere per Elder Finnegar Lee e Christian Gabriel Natale Hjorth, accusati di concorso in omicidio, è annotato il racconto di Andrea Varriale. Il carabiniere dichiara di essere stato chiamato nel suo cellulare “all’1:19”, “su ordine del maresciallo Pasquale Sansone”, in servizio alla caserma di piazza Farnese, per raggiungerli in “piazza Mastai” e aiutarli nella “ricerca di un soggetto”. Quasi un’ora prima che Sergio Brugiatelli chiamasse il 112, per denunciare la tentata estorsione dei due americani.

Il maresciallo Sansone insieme ad altri tre militari, erano tutti fuori servizio, e avevano notato movimenti sospetti in piazza Trilussa. Si erano avvicinati, per tentare di cogliere sul fatto una compravendita di droga. I “4 militari”, nella testimonianza raccolta da AdnKronos e non presente nel documento del giudice, spiegano che un “uomo con il cappellino” si sarebbe avvicinato a e gli avrebbe spiegato di “non essere in possesso di documento d’identità” perché abitante del luogo, e di essere “amico delle guardie”. Si potrebbe ipotizzare che l’uomo con il cappellino fosse il pusher, mentre la persona fuggita era uno dei due americani. Varriale e Rega Cerciello, “in abiti civili”, raggiungono Sansone e i colleghi in piazza, identificano Brugiatelli e prendono la “tachipirina” spacciata per coca.

Ma facciamo un passo indietro. Sono le 23.30, Brugiatelli è in compagnia di “Meddi”, un amico egiziano, e sarebbe stato “avvicinato da due ragazzi stranieri” che cercano cocaina. Lui non la possiede ma dice di essere “in grado di recuperarla”. Gli americani prelevano al bancomat, e tutti insieme si dirigono verso piazza Mastai (00:30). Una volta arrivati però, il pusher non c’è. Brugiatelli lo chiama, concordano di vedersi “in viale Trastevere, all’angolo con via cardinale Merry del Val”. Quindi uno dei due americani con Sergio raggiunge il pusher, l’altro resta in una panchina con “borsa e bicicletta” di Brugiatelli. Lo scambio non si concretizza, per l’intervento dei militari. Quando Brugiatelli torna, non trova più la borsa. Decide quindi di contattare gli agenti intervenuti poco prima.

Può sembrare strano che prima Brugiatelli, come scrive il giudice “persona con pregiudizi di polizia”, scappi per evitare le forze dell’ordine e pochi istanti dopo ritorni per segnalare ai carabinieri il furto.

Dalle telecamere posizionate al Ministero dell’Economia e Finanze di piazza Mastai, si nota l’arrivo dei due ragazzi con Brugiatelli (00:50) e poi la fuga dei due giovani (01:16). Circa un quarto d’ora dopo (1:31), gli americani, ripresi dalle telecamere esterne ed interne dell’hotel Meridien, tornano “in albergo”.

Gli eventi combaciano, anche se con orari diversi, con il racconto del pusher italiano, che ascoltato dagli inquirenti, spiega di aver incontrato Brugiatelli nei pressi del “cinema Alcazar” in compagnia di due stranieri, il primo un egiziano di nome “Tamer”, il secondo presentatogli come “il mio fratellino”. Alle 2, spiega il pusher, incontra nuovamente Brugiatelli a Trastevere, che gli racconta di aver subito il furto della borsa, da “quei due”, ovvero il “fratellino” e un’altra persona.

Agli atti ci sono le due chiamate di Bruciatelli al 112, in cui denuncia che i due stranieri vogliono soldi per avere indietro quanto rubato.

La Centrale operativa dei carabinieri di Roma (02:04) via radio, chiede di poter intervenire. Pochi minuti più tardi (02:10) Cerciello Rega è contattato al suo “cellulare” dalla Centrale, che gli “forniva” la “nota d’intervento” sull’estorsione, insieme al collega Varriale, a piazza Gioacchino Belli. I due carabinieri giunti sul posto, registrano tramite “whatsapp” la chiamata che Brigiatelli fa, utilizzando “il telefono di un amico”, al suo cellulare che si trova nella borsa. Risponde “una persona di sesso maschile, con accento inglese”, che chiede soldi in cambio del borsello. L’appuntamento è fissato in via Cesi a Prati.

A quel punto, spiega il gip, i carabinieri raggiungo a piedi il luogo dell’incontro, lasciando Brugiatelli vicino l’auto parcheggiata in via Belli. La ricostruzione di Varriale appare nitida, “la strada era ben illuminata e pertanto riuscivano a notare i due soggetti”, il primo di “circa 20 anni, alto circa 1,80 cm, carnagione chiara” che indossava un “pantalone nero” e “una felpa di colore nero con cappuccio” per coprire il capo, ma il carabiniere sarebbe comunque riuscito a vedere “la capigliatura bionda”. Il secondo, fisicamente e carnagione pressoché uguali, con “capelli scuri con doppio taglio e tinti di colore blu/viola”, indossava dei “bermuda di colore bianco-nero” e una “felpa viola con cappuccio” che copriva “parte del capo”. Il resto è storia nota: Finnegan Lee Elder per ben 11 volte colpisce il vice brigadiere, lasciandolo esangue.