Siri, la Gdf perquisisce l’azienda del secondo prestito “sospetto”

Anticipata dall’Espresso, va avanti l’inchiesta sui due prestiti sospetti ottenuti dal senatore ed ex sottosegretario leghista Armando Siri dalla Banca Agricola di San Marino senza garanzie e contro ogni regola di “sana e prudente gestione”. I pm di Milano indagano per autoriciclaggio e ieri hanno inviato la Finanza a perquisire la Tf holding srl, beneficiaria del secondo prestito da 600mila euro. La storia è nota: tra ottobre e gennaio, da pochi mesi al governo, a Siri fu concesso un prestito da 750mila euro, parte dei quali (550mila) girati alla figlia per l’acquisto di una palazzina a Bresso, nel milanese. Il secondo mutuo è quello della Tf holding, approvato appena tre mesi fa e caldeggiato all’istituto dal capo segreteria di Siri, Marco Luca Perini, peraltro figlio del titolare dell’agenzia che ha curato la vendita della palazzina di Bresso. La Tf holding, controllata da due persone, gestisce un paio di bar a Rogoredo, quartiere non proprio centralissimo di Milano e uno dei due “baristi” ha avuto in passato contatti sia politici che d’affari con Siri. Oltre ai pm milanesi, pure la Banca centrale di San Marino indaga sui prestiti, concessi allegramente – si legge nelle carte – per stringere un rapporto con un importante politico italiano.

“Niente resa ai palazzinari”, “Villa Paolina rischia”

Ospitiamo la replica dell’assessore all’urbanistica della Regione Lazio Massimiliano Valeriani all’articolo di Tomaso Montanari (“Roma, il blitz di Zingaretti è una resa ai palazzinari”) uscito ieri sul Fatto.

 

Gentile direttore, desidero replicare all’intervento di Tomaso Montanari, poiché contiene molte inesattezze e alcune falsità. I progetti di demolizione e ricostruzione che interessano alcuni “villini storici” della Capitale sono stati presentati con il vecchio Piano Casa approvato dall’Amministrazione Polverini, mentre dal 2017 è vigente la legge sulla Rigenerazione Urbana, che ha fissato un quadro normativo di tipo ordinario, assegnando maggiori poteri di controllo e di intervento ai Comuni e alle Soprintendenze. Nessun progetto di abbattimento dei villini storici di Roma è stato presentato facendo ricorso alla legge regionale sulla Rigenerazione urbana. Nel frattempo la Regione partecipa al tavolo di lavoro tecnico promosso dalla Soprintendenza Speciale di Roma, insieme al Campidoglio, per la definizione di un intervento di tutela, che armonizzi le trasformazioni urbane, lo sviluppo sostenibile e la salvaguardia dell’identità culturale dei quartieri storici. L’avvio dell’iter da parte della Soprintendenza Speciale di Roma per vincolare alcuni edifici della Capitale, dimostra che la strada è quella che avevamo indicato. Per quanto riguarda il Piano Territoriale Paesistico Regionale, la sua approvazione, dopo 20 anni di attesa, è una delle priorità assolute di questa legislatura. L’articolo contesta l’approvazione di un Piano paesaggistico svincolato dal rapporto con il Mibact: è falso. Il Piano è quello adottato e pubblicato nel 2008, frutto di un lavoro congiunto con il Mibact. Il Piano ha recepito tutti i vincoli puntuali e paesaggistici che sono stati individuati nel corso degli anni ed è aggiornato al 2018 con tutte le modifiche normative nazionali che sono intervenute. Per quanto concerne, invece, la tutela del centro storico di Roma, voglio ricordare che il comma 17 dell’articolo 43 del Piano paesaggistico disciplina in modo diverso il centro storico della Capitale rispetto agli altri Comuni, proprio su esplicita volontà espressa dal Campidoglio, rimandando la sua salvaguardia ad un protocollo di intesa del 2009 fra il Mibact e lo stesso Comune di Roma. Sia nel testo copianificato che in quello adottato il comma 17 è identico. In questi anni, inoltre, nessuno ha mai chiesto di cambiarlo. Ribadisco, però, che la Regione non ha alcuna difficoltà a rivedere la disciplina per le tutele della città di Roma. Rivendico come un successo aver cancellato il Piano Casa dell’amministrazione precedente, con l’abrogazione delle deroghe alle leggi nazionali e alla pianificazione regionale su aree naturali protette, i parchi e le zone sottoposte a vincoli paesistici. Il principio che abbiamo voluto affermare è che si interviene sui tessuti urbani esistenti, consentendo di recuperare e riqualificare edifici e aree degradate senza alcun consumo di nuovo suolo. Altro che regalo ai palazzinari!

 

La giunta Zingaretti ha prorogato il piano casa Polverini fino al gennaio 2017: creando moltissimi danni. Ed è esattamente la legge sulla Rigenerazione urbana di Zingaretti ad aver messo a rischio i villini romani: Villa Paolina, per esempio, su cui il Comitato ministeriale che presiedo ha consigliato di apporre il vincolo, era a rischio per un progetto presentato in base al suo art. 6. Infine, i documenti Mibac in mio possesso dimostrano che i Beni culturali sono stati scientemente tagliati fuori dal Piano: che, così concepito, è illegittimo.

Tomaso Montanari

Maria Elena la prezzemolina che non si perde una festa

Una delle ultime foto la ritrae, qualche sera fa, a un party, al Teatro Brancaccio di Roma, per il ritorno in edicola del quotidiano La Discussione. Di rosso vestita, pochette nera, calice in mano, sorriso smagliante. Maria Elena Boschi, da quando è deputata semplice, per giunta d’opposizione, si è data alla pazza gioia. A differenza del suo ex leader Matteo Renzi, il quale piuttosto che farsi vedere in un salotto romano preferiva la fucilazione, lei esce. Quasi tutte le sere. Specialmente in questa estate. Gli inviti arrivano numerosi e lei accetta. Da quelli istituzionali a quelli un po’ più pecorecci. Una prezzemolina.

Guardiamo solo le ultime settimane. Sabato 8 giugno è a Casina di Macchia Madama per il 71esimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele. Tailleur nero e occhiale da sole perché nel tardo meriggio il sole è ancora alto. Il 3 luglio non può mancare alla puntuale festa a Villa Taverna per l’Indipendenza degli Stati Uniti. Questa volta top di seta nero e gonna crema: tra le chiacchiere e gli hamburger di rito, è impegnata a tenere a bada Pier Ferdinando Casini, che le allunga un baciamano con la solita aria da lumacone.

Tra un party e l’altro riesce pure ad andare a una festa del Pd, ospite d’onore a Bagnolo, all’Impruneta, vicino Firenze. Poi si torna alla “Roma godona”, con l’appuntamento a Palazzo Farnese, ambasciata di Francia, per la festa del 14 luglio. Qui è ancora in nero, scarpa aperta, tacco dieci. Facendo un salto indietro, non è mancata al ricevimento che il Capo dello Stato dà ogni anno il primo giugno per la Festa della Repubblica. Tra i colleghi, solo Matteo Salvini riesce a starle dietro.

Ma in questo rovente luglio romano gli impegni di Meb sfuggono anche agli occhi dei fotografi. Una sera viene avvistata a un party dell’Istituto di Cultura Svizzero. Un’altra a casa di Giuliano Andreani, ex manager di Publitalia. A volte sola, altre accompagnata dal deputato del Pd Marco Di Maio o da Francesco Bonifazi (suo ex) o da Salvo Nastasi. Oppure da suo fratello, Pier Francesco Boschi.

Ad aprile, però, alla festa più divertente ed esclusiva della Milano Design Week, il party di Maurizio Cattelan, stava insieme a un ballerino non meglio identificato. Insomma, sembra proprio che Maria Elena abbia contratto la sindrome Bertinotti. Fausto Bertinotti, ex leader di Rifondazione comunista e presidente della Camera, a un certo punto, con la moglie Lalla, iniziò a frequentare i salotti romani e fu la sua fine. “Berty Nights”, lo ribattezzò il sito Dagospia. “Le feste mi hanno rovinato. È passata l’immagine del comunista festaiolo col maglioncino di cachemire”, ha ammesso anni dopo.

Ora tocca a Meb. Che negli anni di governo aveva l’obbligo di non farsi vedere in giro. Matteo voleva tutti a Palazzo Chigi, con le pizze ordinate a domicilio. Poi, liberi tutti. “Se Renzi la sera fosse uscito un po’ di più, magari avrebbe intercettato prima l’aria di un Paese che gli stava voltando le spalle”, osserva Roberto D’Agostino, patron di Dagospia.

Ma un politico non farebbe meglio a limitare le uscite? “E perché? Bertinotti è stato danneggiato, ma era un’altra epoca. Le feste non fanno male a nessuno, tanto meno alla Boschi…”. Meb però non frequenta solo vip: ieri su Instragam ha postato una foto con le sue amiche “in una spiaggia Toscana”. Bikini fucsia e addominali scolpiti. Sì, in effetti, le Berty Nights sembrano passato remoto.

Scola benedice Formigoni: “È uomo di fede e impegno”

L’ex arcivescovo di Milano e l’ex governatore della Lombardia, entrambi di Comunione e Liberazione, per anni guida del gruppo, si incontrano. Si tratta del cardinale Angelo Scola e di Roberto Formigoni, da pochi giorni uscito dal carcere. “È un uomo che vive in profondità una continuità con la sua esperienza di fede e con il suo grande impegno civile.” È questo il ritratto che il cardinale Angelo Scola tratteggia all’Adnkronos di Roberto Formigoni, ai domiciliari dallo scorso 22 luglio dopo cinque mesi dietro le sbarre del carcere di Bollate. L’incontro tra il cardinale che ha guidato a lungo la Diocesi di Milano e Formigoni, condannato per corruzione a 5 anni e 10 mesi di carcere nell’ambito del processo Maugeri-San Raffaele, è avvenuto nell’appartamento in zona piazza Firenze dove l’ex presidente lombardo sta scontando la misura alternativa ottenuta dal tribunale di Sorveglianza dopo l’inizio, a dire dei giudici, del suo “percorso di resipiscenza” che per la prima volta lo ha portato al “riconoscimento del disvalore delle sue condotte poste in essere”.

Lobby, Agcom e legge bucata: gli spot dell’azzardo resistono

Abolita la pubblicità del gioco d’azzardo! Si fa presto a parole, si fa tardi con le leggi. Il 12 luglio 2018, il governo ancora giovane, su spinta dei Cinque Stelle, approva una norma nel cosiddetto decreto “Dignità” per vietare la promozione del gioco d’azzardo, ovunque: televisioni, radiofonia, internet, cartelloni, magliette, giornali, negozi. A un anno dal varo, smaltite le comode moratorie per i contratti già firmati, assorbite le pressioni delle lobby e di chi addenta il denaro delle lobby, la legge è smunta, non è efficace, non produce sanzioni, ma è ridotta a una groviera con tanti buchi – cioè scappatoie – dopo l’intervento dell’Autorità di garanzia per le Comunicazioni (Agcom).

Che piaga, la fretta. Estate 2018. I Cinque Stelle s’illudono di smontare la Repubblica delle scommesse con un articolo assai perentorio e sette commi, riscritti in due settimane per manifesta imprecisione. Il testo delega il controllo all’Agcom, che non ha strumenti adeguati, oltre al costante monitoraggio radiotelevisivo per motivi di pluralismo. Così il primo vero (e vano) risultato è la scomparsa dei loghi dell’azzardo dai media generalisti e dagli abiti degli sportivi. È una finta resa delle lobby, perché tocca all’Agcom interpretare la legge – per una volta troppo smilza – e delimitarne i confini. Un’Autorità a fine corsa, nominata dal governo di Monti e giunta a scadenza di mandato, indice un’audizione per comporre le “linee guida”. La delibera viene diffusa il 18 aprile 2019 e per 8 pagine su 15 illustra le doglianze di chi ha contattato l’Agcom per un contributo: Sisal, Federgioco, Lottomatica, Sistema Gioco, Press Giochi, Gamenet Group, Eurobet Italia, Greentube Malta e tanti altri. Chiosa l’Autorità: “La maggior parte dei soggetti intervenuti ha sottolineato la contraddittorietà del quadro normativo ”. E come biasimarli, la “maggior parte dei soggetti intervenuti” è la lobby del gioco.

Con le “linee guida”, complesse e che non impegnano, guidano per l’appunto, non sono un regolamento e dunque restano elastiche, l’Agcom ha ragione a contestare al governo la confusione normativa. Un po’ di esempi. 1. Un tabaccaio può esporre il cartello di chi organizza il lotto per informare o si tratta di un’induzione all’azzardo? 2. Chi perlustra i circa 50.000 tabaccai che rischiano almeno 50.000 euro di multa e chi alza la diga su internet? 3. L’allibratore concessionario statale può affiggere l’insegna all’ingresso o è un’attrazione per il consumatore? 4. Se la Juventus incontra una squadra inglese finanziata da una multinazionale delle scommesse, le immagini della partita vanno trasmesse e la televisione va multata? Assieme ai legittimi dilemmi, l’Agcom procura le scorciatoie con la cavillosa distinzione tra “informazione” e “promozione”. Sono permessi gli “spazi quote” all’interno di rubriche ospitate nei programmi sportivi (televisioni e internet): per dire, all’intervallo fate come vi pare e puntate in coscienza sul vincitore più accreditato. E sono consentite un tipo di televendite, postulato determinante a cui s’è opposto il commissario Antonio Nicita. Assoluta libertà per la stampa specializzata.

Luglio 2019. Dopo un trimestre di essiccazione delle “linee guida” nell’indifferenza generale e nell’indignazione dei Cinque Stelle, l’Agcom scaduta del presidente Angelo Cardani con una votazione a maggioranza – contrari Nicita e il collega Posteraro, favorevoli Martusciello e Morcellini, decide il capo – invia al governo una “segnalazione” per suggerire una “riforma”.

Cardani calcola l’impatto negativo del divieto per le televisioni (60 milioni di euro), per l’editoria (40,8 milioni), per la Serie A (100 milioni), la percentuale di scommettitori persuasi dalla pubblicità (19,3%), ma si dimentica di esaminare i benefici per il sistema sanitario nazionale e per la lotta di Stato a un serio pericolo sociale.

Aspettando la riforma del decreto già riformato, ci vorranno molti mesi (o anni) per abolire la pubblicità sul gioco d’azzardo abolita un anno fa. Scommettete?

“Fondi ai partiti, il Carroccio vuol tener fuori il caso Belsito”

La Lega ha chiesto al Movimento 5 Stelle di escludere dalla nascente bicamerale d’inchiesta sui fondi ai partiti la gestione di Bossi e Belsito, quella che ha dato via al sequestro dei famosi 49 milioni. A confermare l’indiscrezione pubblicata ieri dal Fatto Quotidiano è stato il capogruppo M5S alla Camera, Francesco D’Uva: “Confermo quanto riportato – ha spiegato ieri all’Ansa – ma siamo fiduciosi che la Lega possa cambiare la sua posizione. Francamente, fatichiamo a comprenderla e faticherebbero anche i cittadini, ne vale del loro stesso interesse”. Nelle interlocuzioni avvenute nei giorni scorsi, il Carroccio avrebbe dato l’assenso alla nascita della commissione parlamentare d’inchiesta sui fondi ai partiti, chiesta dal M5S dopo il caso Rubligate, a patto di tenere fuori dalle indagini le legislature antecedenti a quella del 2013, inclusa quella che fa riferimento all’inchiesta Belsito sui 49 milioni di euro. “Ho saputo di questa cosa dai miei capigruppo – ha spiegato ieri Luigi Di Maio – Questo secondo noi non va bene. Noi vogliamo che la commissione lavori sugli ultimi 20 anni”.

Gozi entra nel governo francese: Parigi val bene un seggio europeo

Può un ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio entrare in un governo straniero? Sandro Gozi, responsabile per le politiche Ue del governo Renzi, pensa di sì e farà parte del governo francese con l’incarico di seguire le nuove istituzioni europee e i rapporti con il Parlamento europeo. La cosa non va giù ai “sovranisti” di casa nostra: Giorgia Meloni vorrebbe “sapere perché Emanuel Macron ci tenga a premiare così un signore che avrebbe dovuto fare fino a qualche mese fa gli interessi degli italiani”. Salvini si chiede come Gozi “abbia tutelato gli interessi nazionali quando era al governo”. Il M5S ventila l’accusa di tradimento. Gozi naturalmente è pronto a dimostrare, documenti alla mano, chi abbia “curato di più e meglio gli interessi del nostro Paese”. Se non che la risposta la si trova su Le Figaro che ha dato la notizia: ”Gozi dovrebbe restare in carica fino a quando la Brexit (che porterà via i deputati inglesi, ndr.) non gli permetterà di prendere il suo posto da deputato europeo” essendo il primo dei non eletti nella lista Renaissance Europe di Macron. Insomma, alla fine più che di tradimenti si tratta, più prosaicamente, di occupare una poltrona. Costi quel che costi.

Autonomia, altre liti: “Non penalizzi il Sud”. “Dite sì, basta slealtà”

Secondo i più ottimisti, il primo via libera potrebbe arrivare persino questa settimana, ma sul regionalismo differenziato Lega e 5 Stelle continuano a litigare tutti i giorni. Ieri è stato Luigi Di Maio ad attirarsi le ire dei ministri/avversari e dei governatori leghisti. “Credo che l’autonomia differenziata si debba fare nella misura in cui non danneggi le regioni del Sud – ha detto il vicepremier ospite dell’università Federico II di Napoli – E per non danneggiarle dobbiamo fare un’autonomia che ci permetta di stabilire insieme i livelli essenziali di prestazioni, il fondo di perequazione e un investimento straordinario per il Sud perché oggi, per come era progettata questa autonomia, andava a discapito non solo delle regioni del sud ma anche del centro”. Luca Zaia non l’ha presa bene (“l’autonomia non colpisce il Sud, ma lo aiuta: sta diventando penoso continuare a sentirlo”), la ministra Erika Stefani anche peggio: “Dopo un anno di discussioni mi auguro che nessuno voglia rimangiarsi slealmente la parola e l’impegno di cui il presidente Conte è garante. Sembra che qualcuno abbia deciso di proteggere una certa cattiva politica deleteria per il Sud”.

Venti di guerra interna sul dl Sicurezza-bis. Di Maio minaccia: “Via chi mette zizzania”

Il decreto sicurezza bis era già una mina, la più vicina. Ma da ieri sera è qualcosa di peggio per i Cinque Stelle. Perché a riempirlo di altra polvere pirica ha provveduto il capo politico Luigi Di Maio, che agli attivisti calabresi domenica a Cosenza ha parlato di epurazioni: “Con la riorganizzazione elimineremo un bel po’ di iscritti che mettono solo zizzania”.

Parole riaffiorate integralmente sul sito Lacnews24, la benzina che non ci voleva sul Movimento che è già tutto una fiamma. Innanzitutto a Palazzo Madama, dove la dissidenza si allarga come una fisarmonica, e la scontentezza si fa solida. Certo, pare ormai chiaro che i gialloverdi blinderanno il decreto con il voto di fiducia per approvarlo entro la pausa del 7 agosto. Ma i fuori linea esplodono di insofferenza, con il veterano Matteo Mantero che promette: “Ripresenteremo gli emendamenti già depositati alla Camera”. Sono almeno dieci, i senatori del M5S tentati dal fare la guerra a un provvedimento che è il totem di Matteo Salvini. Pronti a marcare visita, perché non votare la fiducia all’esecutivo varrebbe l’espulsione automatica dal Movimento, e allora potranno bastare un po’ di certificati medici per evitare il foglio di via e dare comunque un segnale politico. Ad occhio non scoraggiato dalle frasi belliche di Di Maio in Calabria: “È tempo di riprendere l’attività di pulizia perché non possiamo restare ostaggio di chi è in malafede”. Ma non dice solo questo il capo. Confessa l’evidente, cioè di dover mandare giù bocconi come fiele: “Ogni volta che si deve approvare un provvedimento, in Parlamento o in Consiglio dei ministri, ci dobbiamo sedere a un tavolo io, Conte e quell’altro là e dobbiamo fare un accordo”.

Quell’altro là ovviamente è Salvini, il carnefice giornaliero. Però Di Maio assicura che è meglio resistere: “A volte dobbiamo subire l’atteggiamento della Lega che è insopportabile, e io mi prendo i vaffanculo di chi dice che faccio gli accordi con Salvini. A me farebbe pure comodo far cadere il governo, perché nonostante la regola dei due mandati resterei il capo politico, ma penso ai risultati da ottenere da qui a dicembre: taglio del cuneo fiscale, riduzione canone Rai, acqua pubblica, taglio dei parlamentari”. Però si è fatta dura.

Lo ricorda lo stesso leghista, polemizzando volentieri: “Quell’altro? Posso non stare simpatico ma ho un nome, mi chiamo Matteo…”. Così Di Maio si affretta a riparare inviando a Salvini un sms con tanto di faccina sorridente: “Matteo non te la prendere, era un linguaggio colloquiale con gli attivisti, abbiamo tanto da fare”. Ma l’espressione “quello là”, raccontano, il 5Stelle l’aveva già usata nell’assemblea con gli attivisti romani. In questo quadro, tra gli eletti cresce la voglia di chiuderla qui con il governo, un bisogno che trabocca sulle chat interne. E il senatore romano Emanuele Dessì lo chiede su Facebook: “Resistere, resistere, resistere oppure tutti a casa?”. E in poche ore è un diluvio di commenti. Ma a pesare sono sempre i nervi scoperti in Senato, dove oggi il M5S si riunirà sul dl sicurezza. Incontro delicato, perché tra i senatori sono evidenti scorie di martedì scorso, con quell’ordine calato dai vertici pochi minuti prima che il premier Conte riferisse sul rubli-gate (“Uscite dall’Aula, a riferire doveva essere Salvini”). Un pasticcio. “Ci avevano detto che il premier era stato avvertito” s’indigna ancora un eletto. D’altronde il 30 per cento del gruppo martedì era rimasto in Aula, ignorando il diktat. Così un senatore guarda già oltre: “Come ci siamo spaccati sull’ascoltare o meno Conte, magari un domani potremmo spaccarci sul rinnovargli o meno la fiducia con una nuova maggioranza…”.

È questo , il pericolo che ha subito fiutato il ministro dell’Interno quando Conte l’ha detto in Senato, proprio martedì: “A questo consesso tornerò ove mai dovessero maturare le condizioni per una cessazione anticipata del mio incarico”. E al M5S fa già paura il possibile bivio. In attesa del dl sicurezza, un’altra stazione del calvario.

“Sulla Torino-Lione sto col M5S: il Pd così fa il gioco della Lega”

“Sul Tav voterò sì alla mozione dei 5 Stelle. Lo devo alla mia storia umana e professionale oltre che al buon senso”. Tommaso Cerno è senatore indipendente iscritto al gruppo Pd, ma a differenza dei colleghi di partito e del centrodestra, in prima fila in difesa dell’alta velocità, ha deciso che voterà la proposta di bloccare l’opera. In coerenza con gli anni all’Espresso, dove è stato caporedattore e poi direttore, firmando inchieste sulle ragioni dei No Tav.

Tommaso Cerno, voterà con i 5 Stelle per bloccare l’opera?

Non potrei fare altrimenti. La mia convinzione nasce da anni di lavoro nella valle. Mi spiace che la sinistra si dimentichi di 30 anni di lotte che invece dovrebbe intestarsi. La sinistra era nata per fare i treni, dice qualcuno; oggi sopravvive se non ne abusa, aggiungo io. Quel che accade in Val Susa non riguarda soltanto un treno ma la democrazia resistente, la capacità dei cittadini di far sì che lo Stato non passi sopra la loro testa in nome del futuro.

Il No al Tav dovrebbe essere una battaglia del Pd?

Quella lotta dovrebbe essere una medaglia per la sinistra: ragazzi in galera con fantomatiche accuse di terrorismo, una valle che convince lo Stato a stravolgere un progetto mal fatto. E in cambio? I fumogeni. È antistorico vedere il Pd votare per il passato convinto che sia il futuro: la sinistra italiana è stata sconfitta, è stata marginale, ma mai ignorante.

Anche Renzi era No Tav.

Diceva cose logiche: anche se il cantiere fosse proseguito non c’era nulla di cui esultare. La promessa che dovrebbero fare ai “Sì Tav per comodo” è giurare che sarà l’ultima volta che assisteremo a una sceneggiata del genere. Invece oggi lui, come altri, si appiattisce su posizioni identiche a quelle leghiste. È come cambiare Bella ciao perché va di moda il rap. I Sì Tav sono un’invenzione degli ultimi mesi, non esistono in Val Susa. Quindi non dovrebbero esistere in generale.

In che senso?

Ci sono sempre stati i No Tav e una parte di loro ancora resiste. Poi ci sono i rassegnati, i No Tav che hanno lasciato prevalere le indubbie migliorie al progetto. Gli unici veri e convinti Sì Tav che io abbia conosciuto sono gli ’ndranghetisti, che hanno sempre investito nella valle. Lo dicono le inchieste, lo Stato, non io.

C’è un partito del cemento?

Esiste sempre, anche se è difficile dire chi ne fa parte. Quando lo Stato dice che si deve andare avanti per forza, il partito degli affari ci guadagna: nell’emergenza tutto si può fare, anche rubare. La sinistra un tempo era chiara: non siamo in guerra, si parla di treni. E invece ci sono i blindati Lince al cantiere e le leggi speciali. Sembra Gaza.

Nel Pd lei è isolato?

Non lo so. Magari meno di quel che pensiamo. Almeno fra la gente normale. So che nel Pd c’è chi pensa a una terza mozione. Fra fare e non fare. Un bel gioco dialettico, il primo firmatario sarà Ponzio Pilato. Il problema è che così si porta acqua alla Lega, quindi di fatto schiera il Pd con Salvini: not in my name.

Questione di identità politica?

Prima di votare sul Tav dovrebbe essere obbligatorio un soggiorno di tre mesi in Val Susa. E un questionario con domande base. Io sono stato con le donne che filavano la lana per chi dormiva nelle tende, ho preparato panini con chi manifestava, sono stato coi professori che insegnavano cosa significhi dire No allo Stato, ho visto gente sposarsi e battezzare i figli sotto la bandiera No Tav: sul voto di alcuni colleghi dubito, ma io non ho paura del test. La valle è uno dei punti più avanzati di democrazia in Europa.

Ma i No Tav sono criminalizzati.

Da chi non sa nulla. Se il progetto originale oggi è stravolto lo si deve ai comitati, che hanno provocato cambiamenti positivi. Lo dice lo Stato nei sui atti, non io. Ma se per 30 anni lo Stato ha riconosciuto che i No Tav non erano dei pazzi, possibile lo siano diventati di colpo?

E se l’Ue pagasse di più?

Non è questione di soldi, sempre che alla fine ce li mettano davvero. Lo accetterei solo se dicessero: “Scusate, è uno scempio, ma dobbiamo finirla. Sarà la fine di questo tipo di opere”. Qui invece, anche nel mio gruppo, c’è gente entusiasta che non vede l’ora di realizzarla. Questa non è Norimberga, cara sinistra, è El Alamein.