Tav, l’inciucio di B. e Salvini per la mozione contro i 5S

Sarà un finale al cardiopalmo. Perché prima della pausa estiva al Senato si incroceranno i voti sul decreto sicurezza bis che la Lega vuole portare a casa al più presto e senza ricorrere al voto di fiducia, che è sempre rischioso. E quello sulla mozione No Tav con cui i 5 stelle riaffermeranno in solitaria (o quasi) la contrarietà all’opera che dopo l’imprimatur di Giuseppe Conte, il Carroccio dà già per fatta. Anche se Luigi Di Maio non sembra voler gettare la spugna, a costo di tirarsi dietro strali e ironie. “Fa il treccartaro: non basta una mozione per bloccare l’opera. E comunque per far passare la mozione pentastellata i voti deve trovarli lui con il suo 33 per cento di senatori” taglia corto il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Maria Stella Gelmini. L’altra capogruppo forzista, la senatrice Anna Maria Bernini invita Di Maio a sfiduciare Conte che nel dire sì all’opera “ha evidentemente tradito il mandato ricevuto dalla forza politica che lo ha espresso”.

Ma al di là delle dichiarazioni, si lavora di fino. E con il pallottoliere alla mano. Perché le fibrillazioni in seno alla maggioranza proseguono. E le opposizioni sperano, come sempre, che qualcosa accada. “Tra pochi giorni si voterà sulla Tav al Senato. Per la prima volta assisteremo alla parlamentarizzazione delle divisioni. La crisi sarà conclamata ma hanno paura di lasciare le poltrone” sottolinea il capogruppo del Pd a Montecitorio Graziano Delrio mentre Lega e 5 Stelle con dichiarazioni ufficiali e veline se le danno tutto il giorno di santa ragione. “Solo lo scorso maggio Sandro Gozi (già parlamentare dem, ndr) definiva la Tav Torino-Lione ‘il simbolo di un’Europa che vogliamo ricostruire’. Tempo due mesi e Macron gli ha dato un incarico nel suo governo. Gozi accettandolo ha dimostrato che tradiva il Paese prima e lo tradisce oggi. Ma in tutto ciò la Lega che dice? Sostiene le stesse idee di Gozi, del Pd e degli amici di Macron che hanno girato le spalle alle Italia. Perché?” fanno sapere del Movimento. Rintuzzato dalla Lega sulla riforma della giustizia, il taglio delle tasse e l’autonomia: “L’Italia ha bisogno di sì per crescere, non di no”. A partire dal Tav che a Palazzo Madama terrà banco fino all’ultimo giorno prima delle ferie. Sudate, perché i prossimi giorni saranno dedicati alle strategie, per non dire alle trappole, per portare a casa il migliore risultato possibile: Forza Italia e Fratelli d’Italia potrebbero presentare ciascuno una mozione per ribadire l’appoggio all’opera.

“A quel punto sarebbe lecito attendersi che la Lega le appoggiasse. Ancora meglio se fosse proprio la Lega a presentarne una sua che andasse in quella direzione. A quel punto voteremmo in blocco la mozione unitaria che renderebbe plastico il ritorno del centrodestra in Parlamento” ragiona qualcuno dello stato maggiore di Forza Italia. Certo, la “complicità della Lega” con FI e FdI sarebbe un chiaro atto di ostilità del Carroccio contro il Movimento 5 Stelle. A cui verrebbe inflitta “una umiliazione di tali proporzioni da mettere in discussione l’alleanza”. In questa prospettiva – è il ragionamento – la domanda da farsi è una sola: al di là dei toni ormai quotidiani da fine di mondo, Salvini il banco vuol farlo saltare davvero o no?

E il Pd? Ieri anche in casa dem si ragionava dell’opportunità di presentare un documento autonomo per ribadire il sì all’alta velocità in Val di Susa. “Non solo per sottolineare che la mozione 5 stelle che impegna il Parlamento e non il governo come avrebbe dovuto fare nei tempi e nelle sedi opportune, è una castroneria. Ma soprattutto per rompere il blocco gialloverde sfidando la Lega a prendere atto delle contraddizioni interne alla maggioranza”.

Però sia in casa dem, sia nei gruppi di Fi e FdI, adesso è il momento di fare i conti della serva. Perché se alla fine decideranno di andare in ordine sparso, il risultato sarà di raccattare sulle singole mozioni, meno voti di quella del Movimento 5 Stelle. Che potrebbe essere appoggiata pure da Leu, sempre a patto che i pentastellati faranno lo stesso con il documento che dovrebbero presentare i senatori guidati da Loredana De Petris.

In questo caso si tratterebbe di tutte “mozioni a perdere”, ragiona un senatore di lungo corso aduso alla pugna, ma senza mai perdere di vista il cuore delle cose. “Si tratta di una vicenda tutta mediatica. Quanto all’aula il dibattito, ne sono certo, sarà caldissimo. Poi tutti al mare”. Con un’altra finestra elettorale chiusa.

Traditori no: sconfitti

Domenica ero in Val di Susa, a Venaus, invitato dal Festival dell’Alta Felicità a presentare Perché No Tav. E tutti i leader del movimento mi hanno raccontato la stessa cosa: “Da quando Conte ha annunciato che il Tav si fa, non viviamo più: siamo assediati da decine di richieste di interviste da parte di giornalisti che fino all’altroieri ci ignoravano o ci trattavano come dei mezzi terroristi. Ora improvvisamente vogliono parlare con noi, a patto che diciamo che i 5Stelle sono dei traditori”. Nulla di nuovo sotto il sole: sabato Repubblica, da due anni organo ufficiale del Tav in concorrenza con gli altri giornaloni e giornalini, ha persino pubblicato un pezzo contrario di Gad Lerner, cosa che mai aveva fatto quando i 5Stelle combattevano da soli per far prevalere il no nella maggioranza. Ancora una volta quella comunità profondamente democratica, che da trent’anni combatte contro tutto e contro tutti per la propria salute e la propria sopravvivenza, ha capito perfettamente il problema: se quello dei 5Stelle fosse un “tradimento” di gente che ha preso i voti dei No Tav e poi si è venduta al Partito degli Affari, sarebbe un’ottima notizia: basterebbe sputare in faccia ai traditori, sostituirli con gente incorruttibile e il problema sarebbe risolto. La realtà è di gran lunga peggiore: quello dei 5Stelle sul Tav è un fallimento, una sconfitta culturale e mediatica, prim’ancora che politica. Ci hanno provato, fra mille errori e inadeguatezze, a dire almeno un no al dogma dell’Immacolata Costruzione e al Partito Preso, come li chiamava Adriano Sofri su Repubblica prima che il Partito Preso diventasse Partito Unico.

Ma non ci sono riusciti, soverchiati da una campagna di stampa a suon di fake news a reti ed edicole unificate che li ha schiacciati nel ruolo scomodo di nemici del progresso e addirittura dell’ambiente. E ha contribuito alla loro débacle alle Europee: la buona e giusta causa No Tav non porta voti, anzi ne fa perdere, in un Paese disinformato e spaventato come il nostro. Il M5S avrebbe dovuto capire come sarebbe finita già nel maggio 2018, quando imposero alla Lega di inserire nel Contratto di governo la cancellazione del Tav Torino-Lione. Dagli uffici del Quirinale arrivò subito l’ordine di modificare quel paragrafo, per non indispettire i francesi contestando il trattato bilaterale. Così il no secco divenne una formula ben più ambigua e fumosa: “Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione, ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”. Che condizionava l’eventuale recesso al placet di Parigi.

Salvini, a tu per tu con Di Maio, si disse disponibile a sacrificare una delle grandi opere contestate dal M5S, a sua scelta. Di Maio scelse il Tav. Salvini garantì la cancellazione: poi, al solito, fregò il presunto alleato, mettendosi al servizio del Partito degli Affari. Esaltato da tutta la stampa di destra, di centro e di sinistra, compresa quella che finge di combatterlo dandogli del fascista. A marzo, analisi costi-benefici (negativissima) alla mano, Conte tentò l’ultima carta, l’unica a sua disposizione in base al contratto: ridiscutere il Tav con Macron e Juncker, tentando di convincere i due partner e finanziatori dell’opera (Francia e Ue) ad accantonarla. Ma, nei due colloqui bilaterali, entrambi gli sbatterono la porta in faccia. La Commissione Ue era ed è in scadenza: meglio lasciare la patata bollente alla nuova. Quanto al governo francese, del Tav non potrebbe fregargliene di meno, tant’è che ha rinviato al 2038 la decisione se realizzare o meno la ferrovia di collegamento dal buco di Saint Jean de Maurienne e Lione; e per il buco (“tunnel di base”) non ha ancora stanziato un euro nel bilancio dello Stato: ma le amministrazioni locali della Savoia interessate alle “compensazioni” premono perchè l’opera si faccia, o meglio per intascare un po’ di fondi europei, tantopiù che i francesi pagherebbero molto meno degli italiani. Grazie ai governi Berlusconi e Gentiloni, cioè ai ministri gemelli Lunardi e Delrio, i 9,6 miliardi di costo preventivato per il buco di 57,5 km nelle Alpi verrà pagato per il 57,9% dall’Italia e solo per il 42,1 dalla Francia: un incredibile regalo ai francesi, visto che il tunnel insiste per l’80% sul loro territorio e solo per il 20 sul nostro.

Per questo Conte s’è arreso ai bandi di gara, dicendo che ora “fermare il Tav costa più che farlo”: lo sa anche lui che l’opera è in perdita per 7-8 miliardi (almeno 3 per l’Italia, e solo sui preventivi) e non ci conviene. Ma, per bloccarla, stante l’indisponibilità di Parigi a rinnegare il trattato, occorre un voto del Parlamento italiano che lo disdetti unilateralmente. Altrimenti, se l’Ue ritira i finanziamenti e poi il Tav non si blocca, si rischiano azioni della Corte dei Conti per danno erariale. A questo punto il voto del 7 agosto in Senato potrebbe non essere soltanto una sceneggiata dall’esito scontato per salvare la faccia al M5S. Dipende dalle presenze in aula. Se gli assenti saranno pochi, ogni mozione verrà bocciata perchè nessun gruppo ha il 50% dei seggi. Se invece le assenze vacanziere fossero parecchie, potrebbe passare la mozione No Tav dei 5Stelle (106 senatori), con qualche apporto da sinistra. Infatti la Lega ha già imbarcato FI per arrivare a 119 senatori, 13 più dei pentastellati. Però il pd dissidente Tommaso Cerno, da sempre contrario al Tav e autore di ottimi reportage dalla Val Susa da inviato e poi da direttore dell’Espresso, annuncia oggi al Fatto che voterà col M5S. Chissà che qualche pidino ecologista segua il suo esempio, ridando dignità alla fu sinistra. Lo stesso si spera che facciano gli ex-5Stelle Nugnes e De Falco. E i 4 senatori di Leu. Semprechè tengano più all’ambiente che alla Banda del Buco.

La Terra invecchia nell’Antropocene: servirà un badante?

Se la specie umana si estinguesse oggi e tra 100 milioni di anni un alieno piombasse sulla Terra, troverebbe l’impronta della vita che fu. Mica opere letterarie e resti archeologici. Scavando nella roccia, ad esempio, s’imbatterebbe in tracce di radioattività; eredità avvelenata dei test nucleari condotti dagli anni ’50. Oppure particelle di plastica, alluminio, cemento e carbone. Perciò gli scienziati hanno battezzato una nuova era geologica: l’Antropocene, l’età della Terra quando l’uomo ha preso il sopravvento e madre natura ha cambiato pelle; per sempre.

Una mostra, fino al al 6 ottobre alla Fondazione Mast di Bologna, dipinge il volto del nuovo mondo. Il ritratto è multimediale: fotografie, cinema, realtà immersiva e aumentata. I curatori sono Sophie Hackett, Andrea Ard e Urs Sthael. Gli autori: i fotografi Edward Burtynsky e i registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier. Tecnologie diverse, per un quadro inquietante: i lineamenti della Terra, nell’era dell’Antropocene, sembrano sfigurati. La natura appare sfiorita, nelle immagini della mostra: deforestazioni, grandi infrastrutture, discariche più grandi di una città (come quella di Dandora, in Kenya), miniere e raffinerie di petrolio. Dice Jennifer Baichwal: “Non vogliamo fare prediche, rivendicare o attribuire colpe. Solo testimoniare, e da testimoni, cercare di smuovere le coscienze. Il pensiero e il confronto generano una trasformazione più profonda nel pensiero”. I tre autori hanno firmato la pellicola Anthropocene: the human epoch, visibile per i visitatori del Mast.

La domanda: quali saranno gli effetti dell’inquinamento sull’evoluzione della Terra? Impossibile azzardare previsioni. Di sicuro, ora il termometro del pianeta dipende da noi, per via dei gas serra che scaldano l’atmosfera. Come il livello dei mari, la fauna e la vegetazione: l’agricoltura ha sostituito le piante selvatiche su gran parte dei terreni fertili; l’uomo e i suoi animali domestici sono oltre il 90% degli animali di grossa taglia (più grandi di un pollo). Il rischio è che la Terra smetta di funzionare. È l’ipotesi dello scienziato Paul Crutzen, premio nobel per la chimica nel 1995: se saltassero i cicli naturali, e il metabolismo del Pianeta si ammalasse, toccherebbe a noi tenere le redini dell’equilibrio naturale. Il genere umano come “badante” della Terra: ci sarebbe da preoccuparsi. Crutzen ha coniato il termine “geoingegneria”, come un destino per l’homo sapiens. Un altro scienziato, James Lovelock, già nel 1979 profetizzava, per la specie, “l’eterna mansione di ingegneri addetti alla manutenzione planetaria. L’incessante e complesso compito di mantenere in equilibrio i cicli globali sarebbe tutto nostro. Ci troveremmo a guidare uno strano marchingegno, l’astronave Terra”. Federico Bastiani, giornalista e blogger del fatto.it, dopo aver visto la mostra suggerisce una riflessione: “Con le biotecnologie creeremo cibi in laboratorio, se la Terra si ammalasse. Ci adatteremo, come gli scarafaggi immuni agli insetticidi”.

Ilmeteo.it, previsioni col dramma: catastrofi e “deliri”, boom di click

Il picco del non sense si è registrato il 7 luglio scorso, quando sul sito ilMeteo.it compariva questo cripto–angoscioso titolo: “Comunicato Ufficiale Urgente, Crolla Tutto prima del Previsto, Panico sulla Domenica”. Perché mai non si potesse parlare di una perturbazione di aria fredda in arrivo con anticipo non è dato saperlo. Anzi sì: l’ormai collaudata tattica del sito, che punta su titoli funesti e sconvolgenti (“Sarà caldo a oltranza senza pietà”, “Mostro Africano sull’Italia”, “Meteo: è delirio, dal caldo record al Burian”), produce montagne di visualizzazioni, spingendo ilMeteo.it – che ha pure clienti illustri – in cima alla classifica dei siti di informazione più consultati dagli italiani. D’altronde, è facile intuirlo: chi intravede un titolo su ilMeteo.it, dove le parole sono enfatizzate dall’uso della maiuscola, in stile anglosassone, è preso da un’ansia sconfinata, che lo spinge a consultare compulsivamente altre pagine, in un circolo vizioso che ha come esito molta confusione su uno dei temi più delicati degli ultimi anni.

Nonostante le maiuscole, però, di anglosassone ilMeteo.it ha ben poco, anzi è nato, come rivela lo stesso fondatore, Antonio Sanò – il cui curriculum non è chiarissimo, probabilmente ingegnere (ma sul sito non c’è scritto), sicuramente meteorologo autodidatta – in collaborazione con una scuola di meteorologia di Belgrado, nel lontano 2000. Da allora, Sanò alterna il battesimo delle perturbazioni atmosferiche con nomi storico–letterari (da “Caronte” a ”Scipione”) a riflessioni nostalgiche dei bei tempi “tranquilli e sereni”, dove si potevano pianificare le gite senza quelle “dinamiche ricche di colpi di scena con continue sorprese”.

La verità, però, è che col cambiamento climatico ilMeteo.it va a nozze, e l’alternanza tra picchi di calore e piogge rovinose – sul piano dei contatti – è quasi una festa. Purtroppo, ilMeteo.it si occupa di riscaldamento globale giusto en passant senza spiegarlo né aiutare a capire di che si tratti. Ma perché perdere tempo in soluzioni ragionate che non infiammano i follower, quando una nuova virata metereologica è già in arrivo e con essa il prossimo titolo folleggiante e pieno di dramma? Comunque sia, a loro va sempre bene, anche quando tutto volge al peggio. Alle critiche – tra cui quelle di alcuni enti locali, stufi di proiezioni allarmistiche – Sanò risponde di non essere un meteo terrorista e che l’“allerta” non è “allarmismo”.

In realtà, sembra che per fortuna a ilMeteo.it abbiano capito – e l’arrivo di un nuovo amministratore delegato, Emanuele Colli, lo dimostra – che forse l’apocalisse quotidiana in fin dei conti non conviene e che indurre panico è controproducente. Aspettiamo dunque con ansia (anzi, senza) un restyling non solo grafico, ma soprattutto semantico. E, magari, più informazione, oltre le previsioni: oltre a sapere se prendere l’ombrello, ci sarebbe molto utile capire come il clima (purtroppo) cambierà e anche cosa possiamo fare per non soccombere. IlMeteo.it, siamo certi, ha tutti i numeri per farlo.

Il catering da nozze che ti sposa due volte: “Se sei gentile, vinci”

“Questa signora l’ho sposata io”. Detto così, con compiaciuta naturalezza, intorno al tavolino di un bar. Con l’indice puntato. La signora che fu “un giorno sposa” sta seduta accanto. Ma chi racconta non è un prete, anzi è una donna alta ed elegante. Niente matrimonio religioso, dunque. Ma nemmeno matrimonio civile, perché la mia interlocutrice, a quanto capisco, non ha mai fatto il sindaco o l’assessore o il consigliere comunale. C’è imbarazzo. Ha forse avuto una di quelle deleghe a celebrare che i sindaci rilasciano una tantum a cittadini speciali? Pochi secondi per rimuginare e nel racconto di gruppo finisce una giovane coppia. “Li ho sposati io” ripete la signora. Stavolta la curiosità schizza a mille. Il tempo di chiedersi se costei celebri matrimoni per mestiere, e la risposta arriva dall’interessata, che deve avere colto lo stupore. L’ipotesi non era poi così balzana. “Mi scusi, uso sempre questa espressione, ma è per dire che gli ho organizzato io il catering del matrimonio. Sa, io mi identifico con i clienti”. Ora la cosa riprende una sua normalità.

L’esperta di matrimoni si chiama Paola, e nel bar sul litorale livornese racconta la sua storia di libera professionista e imprenditrice. Il cognome prima di tutto: Picchi. Che a molti non dirà nulla, roba comune. Ma che negli innamorati del calcio di un tempo, specie se allora interisti sfegatati, accende una scintilla. Picchi, Livorno. È automatico: ma è parente di Armando, il grande capitano dell’Inter di Helenio Herrera, il difensore immenso a cui Livorno ha dedicato il suo stadio? Sì, è la nipote. Figlia del fratello Leo, il più grande, mezz’ala del Livorno e poi preso da un Torino in lutto, costretto a rifare la squadra dopo Superga. Paola sa di calcio e frequenta un Inter club di queste parti. Ma il nome, un nome tutto suo, se l’è fatto con la propria attività.

“Ho iniziato 18 anni fa. Prima, pensi, facevo la segretaria in uno studio dentistico da un mio zio, e dopo con mio fratello Gianni. Ma un po’ la vocazione a far gastronomia ce l’avevo, me l’aveva passata mia madre Grazia. Lei aveva un motto che era una filosofia di vita: ‘aggiungi un posto a tavola’. L’ospitalità, il cibo per accogliere. Ecco, ho voluto provarci, mi sono detta va’ dove ti porta il cuore. Ed è andata bene”. Da Livorno a Venturina, a Campiglia, o altrove, sempre su questo litorale tirrenico.

Con la società che cresce, in certi matrimoni impiegando venti, trenta persone, perfino quaranta in alcuni casi. Per famiglie che lei elenca con orgoglio: Antinori, Della Gherardesca, Frescobaldi, quelle che innervano la storia dell’aristocrazia locale; ma anche per una miriade di giovani senza troppi soldi, nel raggio un po’ di tutta la Toscana. Una volta soltanto d’estate, ora in ogni stagione. “Vita privata? Ho due figli. Uno che ha studiato in America e in Portogallo e che si occupa di chinesiologia, cioè degli atleti con traumi. L’altra, la bimba (32 anni…ndr), fa il lavoro che facevo io con mio fratello dentista”. Nonna giovanile, Paola prova a spiegare le ragioni di un successo che l’ha caricata di lavoro, forse troppo. “La mia dote? Credo l’umanità, il rapporto che creo con le persone. Sa, oggigiorno la gentilezza vera è merce rara. E la gente ne ha bisogno. Si figuri ai matrimoni, si figuri ragazzi molto giovani. Se sei gentile vinci. Questo è un lavoro in cui devi dare tutto te stesso, non si tratta solo di organizzare bene, perché poi il ricordo di quel giorno resta per sempre. Perciò posso pure avere un braccio destro per la cucina, e ce l’ho, è Alessandra che è bravissima. Ma le pubbliche relazioni le faccio tutte io direttamente. Per questo mi sembra di celebrare quasi il secondo tempo dei matrimoni. L’ho visto, sa?, come mi ha guardato quando ho detto ‘li ho sposati io’. È un modo di dire, ma è quasi vero”. È orgogliosa del suo lavoro, Paola, dice che il sacrificio vale la pena, anche se le si increspa la voce, perché alla fine ne ha risentito proprio il suo, di matrimonio. Enumera gli ultimi successi, il catering sulla Amerigo Vespucci, 500 persone, quello per le cantine Masseto, “tra le più importanti del mondo”.

Poi mentre alcune signore al bar ricordano in estasi la bellezza, locale, di Riccardo Fogli dei Pooh, sottovoce confida le attività di beneficenza che regala con il suo catering. Ma è un segreto, “se no non è beneficenza”. Posso solo dire che aiuta mamme poco fortunate. Pensando al grande capitano nerazzurro che mi rese felice da ragazzo, buon sangue non mente.

Prescrizioni ostetriche per risparmiare

C’è uno spreco facile da eliminare, per le regioni. Si annida lungo la gravidanza: anche quando la donna è sana e la gestazione senza rischi in gran parte del nostro Paese è ancora il medico di famiglia o il ginecologo a dover prescrivere sul ricettario del Servizio sanitario nazionale gli esami del sangue e le ecografie di routine indicati dall’ostetrica, con disagio e tempo perso per la donna col pancione, liste di attesa in ambulatorio e aumento dei costi. Grazie al “ricettario rosa” invece è possibile, direttamente per l’ostetrica, prescrivere gli esami sul ricettario Ssn. Un modello di cura sostenuto dall’Oms e già entrato a regime in Toscana, Val D’Aosta, Piemonte, Friuli, Trentino, Emilia Romagna e Veneto. Venerdì anche il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato un ordine del giorno sulla necessità della misura. “Per evitare test inutili, consigliati dai ginecologi per eccesso di cautele, e per ridurre cesarei e visite a pagamento – spiega Michele Usuelli, neonatologo e consigliere di +Europa, primo firmatario dell’odg –. L’appello è rivolto a tutte le regioni”.

Marciare sul ghiaccio del debito. Come si esce dalla droga creditizia

L’economia mondiale, per assorbire i postumi della Grande Recessione, incede da dieci anni su una lastra di “teso ghiaccio che si incrina”, rappresentato dall’eccesso di debiti a livello globale. La Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) aggrega i dati di tutte le maggiori economie del mondo (avanzate ed emergenti). Il debito del settore privato (famiglie e imprese, escluse le banche) nel ferale terzo trimestre del 2008 in cui implose Lehman Brothers, aveva raggiunto il 137,8% del Pil totale dei paesi membri della Bri. Considerando che la crisi del 2008 era stata causata proprio dagli eccessi di debito (e di leva finanziaria) ci si sarebbe aspettato che le autorità monetarie e di governo avessero operato per ridurli. Invece negli anni successivi alla crisi il rapporto tra debito privato e Pil ha continuato a dilatarsi fino a raggiungere il 151,3% a fine 2018.

Questa espansione non è stata spinta dalle banche che a fine settembre 2008 avevano erogato crediti ai privati pari all’84,1% del Pil e a fine 2018 avevano aumentato questa percentuale di soli 5 punti all’89,1%. Invece la politica monetaria ultra espansiva ha dato un forte impulso al mercato obbligazionario e ai fondi di investimento che hanno finanziato principalmente le imprese, mentre le famiglie hanno mantenuto costante il loro debito in rapporto al Pil. Peraltro i governi sono stati anche più voraci delle imprese: i loro debiti erano pari al 57,5% del Pil a settembre 2008 e a fine 2018 sono saliti al 78,7% (nei paesi avanzati sono passati nello stesso periodo dal 78,2% al 104.2% del Pil, dopo un picco del 114.5% nel 2016).

In sintesi, la causa principale della crisi del 2008 non solo non è stata rimossa, ma è stata aggravata. E per di più ogni dollaro, euro, yen o yuan di debito ha generato una crescita dell’economia e del benessere molto più debole rispetto al periodo pre-2008. Come si esce dall’ assuefazione alla droga creditizia alimentata dalle banche centrali? Sostanzialmente in due modi. Nello scenario ottimistico i debiti sono stati usati per investimenti in innovazioni. Quindi si ipotizza che grazie all’introduzione del 5G, ai progressi nelle energie rinnovabili, alla diffusione delle auto a guida autonoma, alla robotizzazione, ai progressi della medicina, alle nanotecnologie e all’ottimizzazione di processi, il tasso di crescita nei paesi avanzati supererà stabilmente il 4% contro l’attuale media asfittica inferiore al 2%.

Nello scenario pessimistico tutto questo debito non genererà le risorse necessarie a ripagarlo, quindi presto o tardi uno dei tanti cardini del sistema finanziario internazionale cederà di schianto. A quel punto i risparmiatori verranno espropriati brutalmente o imponendo loro una massiccia ristrutturazione del debito o attraverso un’impennata dell’inflazione.

Crac delle banche, la via crucis per ottenere i risparmi svaniti

Doveva arrivare entro il 26 luglio, venerdì scorso, la piattaforma digitale sul sito del Fondo indennizzo risparmiatori (Fir), lo strumento per presentare per via informatica le domande di rimborso per i circa 300mila piccoli investitori coinvolti nei dissesti bancari del periodo 17 novembre 2015 – 31 dicembre 2017. Invece sul sito web del Fir a venerdì 26 luglio della piattaforma di registrazione non c’era ancora traccia. Non solo: non è stato ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il secondo decreto ministeriale attuativo dalla legge di bilancio 2019 che deve indicare la data di avvio per la presentazione delle domande di rimborso (data dalla quale decorrerà il termine di 180 giorni). Infine, si riunirà per un primo incontro solo la prossima settimana l’apposita commissione di nove saggi che dovrebbe creare un vademecum sulle violazioni massime delle regole finanziarie da usare nelle domande di rimborso. Con agosto alle porte, c’è la possibilità concreta che le procedure inizino solo a settembre. Ma vediamo quali sono le procedure per ottenere i ristori delle azioni e obbligazioni subordinate delle banche finite in liquidazione coatta amministrativa o andate in “risoluzione”.

Il Fondo indennizzo risparmiatori (Fir) ha una dotazione di 525 milioni per ciascun anno dal 2019 al 2021, per un totale di un miliardo e 575 milioni. Il “ristoro” riguarda i possessori di azioni e obbligazioni subordinate di Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara, Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca e anche di alcune banche di credito cooperativo: Banca Padovana, Bcc di Pelaco, Banca Popolare delle Province Calabre, BCC Banca Brutia e Credito cooperativo Interprovinciale Veneto. Per queste Bcc però i bond subordinati sono già stati rimborsati, dunque possono essere richiesti i ristori solo per le azioni.

Il “ristoro” seguirà un doppio binario. Il primo, automatico, andrà solo a persone fisiche e imprenditori individuali con patrimonio mobiliare di proprietà inferiore a 100mila euro (nel quale non vanno compresi i valori dei titoli azzerati) o con reddito complessivo imponibile Irpef inferiore a 35mila euro nel 2018. Hanno diritto al ristoro anche i loro familiari (coniuge, soggetto legato da unione civile, convivente more uxorio e parenti entro il secondo grado), che abbiano acquisito gli strumenti finanziari con atto tra vivi dopo la data di risoluzione o liquidazione delle banche e che abbiano continuato a detenerli. Lo stesso diritto è concesso anche ai successori di risparmiatori defunti e a organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale, microimprese con meno di 10 addetti e fatturato annuo o un totale di bilancio non superiori a 2 milioni Per chi ha invece patrimonio sopra i 100mila euro o Isee sopra i 35mila euro, il “ristoro” sarà semi-automatico: si dovrà presentare una domanda alla Commissione allegando le prove di avere subito una vendita scorretta di titoli che abbia violato le norme del Testo unico della Finanza.

L’indennizzo per gli azionisti sarà pari al 30% del costo di acquisto e per i bondisti subordinati al 95% del costo di sottoscrizione, entro 100mila euro a testa al netto delle somme già ricevute per eventuali rimborsi, ristori o risarcimenti precedenti. Per i bondisti subordinati che avevano già ottenuto un ristoro dell’80% con la vecchia procedura di indennizzo del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) sarà possibile chiedere un ulteriore 15%, con domanda da presentare entro il 28 gennaio 2020. Tutti i rimborsi saranno esenti da prelievi fiscali. La priorità nella ripartizione dei fondi sarà data a chi deve ricevere rimborsi sino a 50mila euro.

Chi ha diritto ad accedere al Fir può chiedere l’indennizzo, anche tramite un rappresentante, presentando e firmando la domanda che sarà pubblicata dalla Commissione tecnica. La domanda dovrà riportare tutti i dati personali degli aventi diritto, dei loro familiari e successori e dell’eventuale rappresentante, la quantità e tipo, costo di acquisto, data di acquisto, codici identificativi delle azioni e dei bond per i quali si chiede l’indennizzo, come pure i dati della banca che li ha emessi, oltre ai codici bancari e postali dei conti sui quali saranno versati gli indennizzi. Alle domande, da presentare in forma digitale sulla piattaforma che tuttavia ancora manca sul sito online del Fir (all’indirizzo internet https://fondoindennizzorisparmiatori.consap.it/) dovranno essere allegati numerosi documenti (di identità, fiscali e bancari) e dichiarazioni, oltre alle copie “di eventuale documentazione bancaria o amministrativa o giudiziale utile ai fini dell’accertamento delle violazioni massive” del Testo unico della finanza “che hanno causato il danno ingiusto ai risparmiatori”.

Costruttori britannici: “Hard Brexit costa 50mila pound al minuto”

L’auto inglese viaggia senza freni contro un muro. Michel Barnier, capo negoziatore dell’Ue per la Brexit, ha avvertito ufficialmente gli Stati membri che reputa inaccettabili le richieste del nuovo premier britannico Boris Johnson. Diventa concreta la prospettiva di un’uscita ‘no deal’, entro il 31 ottobre. Per le quattro ruote, siamo al peggior scenario possibile. Impietoso il rapporto della Society of Motor Manufacturers and Traders, che riunisce le aziende del settore nel Regno Unito e quantifica nella cifra astronomica di 50 mila sterline al minuto il contraccolpo sull’intero comparto automotive di un’uscita senza accordo. Ovvero con barriere e lungaggini doganali che manderebbero in tilt il sistema di approvvigionamenti delle fabbriche britanniche, penalizzate da un ulteriore saldo di 4,5 miliardi di sterline annuali in imposte di importazione ed esportazione. L’impatto sembra ormai inevitabile su 168 mila dipendenti, 850 mila lavoratori totali considerando l’indotto, più 6 centri di design e 20 laboratori di ricerca. Se Honda ha già annunciato la chiusura dello stabilimento di Swindon nel 2022, Toyota parla apertamente del futuro dell’impianto di Burnaston, e Nissan è alle prese con prospettive fosche per quello di Sunderland. Mini per ora conferma i volumi produttivi della fabbrica di Oxford (nella foto), ma Opel ridiscute l’utilità di quella di Ellesmere Port. Nel Regno Unito, 1,4 milioni di vetture prodotte sono destinate all’esportazione: un ruolo che i costruttori possono riprogrammare in tempi ragionevoli a favore di impianti in Russia, Est Europa e Messico. Salvo l’effetto benefico di presunti incentivi alle auto elettriche, come si attende il gruppo Jaguar Land Rover, ovvero il mezzo miliardo di sterline con cui Boris Johnson potrebbe persuadere qualcuno a restare. Senza accordo, ma in contanti.

Meno auto in Europa. Cresce il gruppo PSA

Non sono stati mesi memorabili, per l’auto. Nel primo semestre l’Europa ha perso il 2,4% delle immatricolazioni, e l’Italia qualcosa in più (3,5%). Eppure c’è chi come PSA, sotto la cui egida ci sono i marchi Peugeot, Citroën, Opel e DS, sembra non aver risentito di questa onda di risacca. Stabile o in aumento sui principali mercati del vecchio continente (in Italia +1,1%), il gruppo guidato da Carlos Tavares ha appena presentato i risultati della semestrale: nonostante i ricavi siano scesi da 38,6 a 38,34 miliardi di euro, gli utili netti sono cresciuti del 17,6% passando da 1,7 a 2 miliardi. E, soprattutto, il margine operativo è volato dal 7,8% del 2018 a ben l’8,7%. “Che significa ottenere guadagni da marchi premium, cosa che neppure riesce a tutti”, commenta il direttore generale di PSA Italia Gaetano Thorel. Il quale aggiunge: “Il nostro Paese è quello in cui cresciamo di più a livello europeo, e nei prossimi 20 mesi ci si presenta un’opportunità clamorosa: abbiamo le nuove Peugeot 208 e Opel Corsa, e non dimentichiamo pure la Citroen C3. In un mercato come quello italiano, dove il segmento B pesa più di tutti, significa una potenza di fuoco che non faremmo il nostro dovere se non sfruttassimo appieno”.

Il messaggio, non certo in codice, è per la concorrenza. In primis quella di Fca, il primo costruttore italiano per volumi: il solo al quale il Psa è secondo, dopo aver scavalcato il gruppo Volkswagen. Un primato che, tuttavia, è stato intaccato da un semestre difficile, in cui il sodalizio italo–americano ha perso il 12%. E proprio qui Thorel vuole incidere, con un’aspirazione che più chiara non potrebbe essere: “Vogliamo prenderci lo spazio che Fca ha lasciato e lascerà libero”.

Per fare questo, sarà fondamentale cavalcare le nuove tecnologie. In primis, quelle a batteria. “Entro il 2025 – conferma Thorel – ogni modello dei nostri marchi avrà una variante elettrificata. Sarà importante che la rete dei concessionari si faccia trovare pronta”.

E presto, aggiungiamo noi, visto che entro la fine del prossimo anno saranno ben 15 i modelli a batteria (8 ibridi, anche plug–in, e 7 elettrici puri) immessi sul mercato dal sodalizio francese. Che, per sostenere la transizione verso l’elettrone, ha anche stretto un accordo con Enel X per la fornitura chiavi in mano di impianti di ricarica (Wall Box) casalinghi e servizi di ricarica urbana. Del resto, questo è anche l’unico modo per ottemperare da subito ai limiti sulle emissioni inquinanti che scatteranno da gennaio 2020: “Vogliamo farlo fin dall’inizio, per diversi motivi. Il primo resta quello etico: è importante lasciare aria pulita alle nuove generazioni. Poi, certo, le multe per chi sgarra saranno salate (95 euro per ogni grammo di CO2 che ecceda i 95 per km a vettura, ndr) e bisogna evitarle. Quindi ci saranno i costruttori buoni e quelli cattivi, a seconda di chi è più virtuoso. Noi vogliamo essere quelli buoni”.