Gigi Marzullo intervista Giulio Cesare

“Stanotte ho sognato Marzullo che intervistava Giulio Cesare, proprio lui sì, quello dell’antica Roma. Appena entrato Giulio gli ha chiesto: “Scusi come si chiama?” – “Marzullo” – “Sì, ma di nome? Non si chiama Bruto o Cassio vero?” _ “No, Gigi”. Così Marzullo ha dato inizio alle solite domande Marzulliane: “La vita è un sogno o i sogni ti aiutano a vivere? Lei nella vita voleva diventare Giulio Cesare o le è capitato? Come mai è tornato a Roma dopo 2000 anni?” – “Beh, avevo nostalgia della mia città, ora non ho grandi impegni ” – “E come l’ha trovata dopo tanti anni?” – “Le dirò, più o meno è la stessa. Più grande, più trafficata. Anche se il traffico non mancava ai miei tempi, mi ricordo certi ingorghi di bighe all’ora di punta che ci facevano diventare pazzi. Quelli in seconda fila poi non ne parliamo” – “E le famose buche le ha viste? Ai suoi tempi non c’erano” – “Magari! Roma antica era piena di buche, ogni tanto le coprivano, poi alla prima pioggia si riformavano. Un inferno” – “ Si, però la spazzatura non c’era?” – “ Ma lei sta scherzando, eravamo pieni. D’accordo la plastica non esisteva, i supermercati con i loro imballaggi neanche, ma tutto il resto uguale! E non le dico la puzza, da levarti il respiro, specie d’estate” – “Ah però. Sugli autobus c’è stato?” – “ Sì divertenti, se arrivano e se non prendono fuoco” – “Signor Giulio, Roma è una delle città più belle del mondo, ha visto quanti turisti, quanti stranieri?” – “ Guardi Marzullo che questo c’è sempre stato. Ai tempi miei eravamo invasi da greci, fenici, ispanici e quelli che nascevano a Roma, anche se stranieri, diventavano cittadini romani” – “Mi dica la cosa di Roma che le è più piaciuta” – “L’amatriciana Marzullo, la devo far assaggiare a Cleopatra” – “E quando ce la porta?”-“ Non lo so, di certo non alle Idi di Marzo”.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Dagospia: giornalismo pop. In rete, il lettore è l’autore

Un autore competente sul giornalismo digitale, Salvatore Patriarca, affronta Dagospia, il celebre marchio inventato e gestito da Roberto D’Agostino in rete, con lo stesso spirito di esploratori che è stato tipico di Oreste Del Buono e Umberto Eco quando hanno aperto per i lettori giovani del loro tempo la scatola dei fumetti, e hanno mostrato la qualità innovativa del nuovo strumento, una diversa vocazione a narrare, e hanno chiesto che venissero trattati come seri compagni di viaggio. Patriarca (in Popgiornalismo, il caso Dagospia e la post–notizia, Castelvecchi Editore) prende in mano il groviglio di fatti nuovi della comunicazione digitale e nota il sito chiamato Dagospia come “lo strumento più efficace per la transizione nell’epoca della contemporaneità digitale”.

Ci dice subito che una prima ragione è il successo “che ne fa un unicum nel panorama informativo italiano”. Tutto vero, e stiamo per iniziare un viaggio interessante, in un vasto retrogiardino, molto goduto ma poco spiegato, di un modo diverso di comunicare. Manca a Patriarca, occorre notare, l’allegra chiarezza con cui Del Buono ed Eco hanno portato i fumetti nei templi della letteratura e della saggistica.

Per esempio, il nostro autore scrive: “In particolare gli aspetti essenziali che fanno di Dagospia un esempio da studiare per provare a scovare le modalità di una produzione informativa che sappia essere a suo agio nell’attualità dell’oggi (ovvero, ndr) l’esclusività digitale, la dimensione popolare e, rivoluzionando un concetto tradizionale, una linea editoriale polimorfa”; ci sta portando a un seminario in cui loda Dagospia per ciò che l’autore del testo su Dagospia non fa. Sta per dire che la grande trovata di Dagospia è una sorta di educazione informativa all’ “opera aperta” dove il lettore diventa autore. Ma lo fa con un linguaggio specialistico che, se non fosse per l’argomento, ti tiene a distanza. Patriarca nota che Dagospia spinge il lettore verso il popgiornalismo, in cui ogni frequentatore diventa professionista di una sua edizione delle notizie del mondo. E diventa più chiaro e più utile quando, nel capitolo “Nuova via dell’informazione”, elenca e spiega quelle che, secondo lui, sono le tre direttrici della struttura informativa di Dagospia: il “modello di fruizione” ( che definisce “al passo con il proprio tempo”), il “modello contenutistico” ( “non c’è un preventivo riconoscimento di importanza” di un argomento su un altro), e “il flusso” (un preciso intento di de–gerarchizzazione della notizia”).

In altre parole, l’argomento salva il professore e il tema conta. Patriarca ha aperto il dibattito mancante sul fenomeno Dagospia: è la gazzetta di una nuova Italia, che la racconta e la esprime, o ha contribuito a creare una nuova Italia (certo molto diversa ) con la forza di un riuscito strumento di informazione–formazione per le masse in arrivo?

L’era della democrazia al tramonto. Troppo liberalismo, poca sovranità

La democrazia fonda la propria legittimità su un’affermazione – “non c’è altro sistema migliore” – che è a sua volta, con Winston Churchill, una negazione suprema: “La peggior forma di governo a eccezione di tutte le altre”. Non ammette altra alternativa a se stessa che il “male”. E ben più che l’assolutismo, la democrazia, radica la propria compiutezza nella perentoria cristallizzazione del demos. Una sorta di nulla salus extra ecclesiam, questo è l’egualitarismo elevato a sistema, per ricavarne una chiesa definitiva in cui alloggiare il minaccioso muggito delle masse. “Temi Iddio e l’idiozia della plebe”, recita Ezra Pound nel LXXIV dei suoi Cantos, fa ancora testo Aristofane rispetto alla tirannia “dei peggiori” ma il popolo è da sempre il pretesto per l’esercizio del potere e la cosiddetta sovranità popolare non rappresenta la popolazione nella sua interezza e il liberalismo che ha permesso la democrazia – ed è la tesi di Yves Mény – si sta trasformando nella minaccia a questa stessa. Un accumulo di istituzioni che limitano la sfera decisionale della politica – le autority, le banche centrali, le corti costituzionali – generano quello che Mény, nel suo saggio Popolo ma non troppo, il malinteso democratico (Edizioni Il Mulino), definisce “effetto paralizzante” all’interno del sistema.

Lo spettro del populismo si aggira per le sparse sovranità d’Europa. La discussione è aperta e l’obiezione del politologo francese trova conferma nella crisi di sistema nell’intero spazio occidentale. La crisi della democrazia d’Occidente, secondo Mény, coincide con l’eccesso di liberalismo. La collocazione dell’individuo al centro della società “evoluta”, alle sue estreme conseguenze, genera monadi tra loro scollegate ma “nessuna società può sopravvivere senza un legame tra i singoli”. Lo strapotere liberale sulla democrazia – il proliferare degli organismi di mediazione – prescinde dai vincoli “spirituali” che lega la vita di tutti e delle cose. Il liberalismo ammette l’esistenza del male sociale solo quando il governo sfugge ai borghesi e cade in mano ai popoli. La scuola liberale che si è assunto il compito di amministrare, per dirla con Juan Donoso Cortés, “senza Dio e senza popolo”, spregia la dimensione più intima. Non di solo indistinta umanità vive il popolo. Quella che sgorga dall’io profondo dei popoli, come pure dal genius loci che fa di ogni contrada una distinta patria – spazio e tempo circoscritti in un confine – è la radice in cui ogni comunità incardina il proprio destino. Il liberalismo si proietta nella direzione di un dominium svuotato di qualunque legittimità identitaria. Fa dei simili, dei dissimili: “Ogni individuo”, dice Mény in un’intervista di Anais Ginori su Repubblica, “è come Sansone che demolisce le colonne del Tempio, distrugge le fondamenta del sistema rappresentativo” ma l’assoluto democratico – se vale la controprova offerta dalla realtà dei fatti – trova l’inciampo in se stesso. Il liberalismo altro non è, infatti, che la nemesi per la democrazia, la forma più affinata di capovolgimento del proprio verbo. Suo ufficio resta – ed ecco il malinteso ben inteso su tutte le conseguenze della crisi d’Occidente – stabilire di volta in volta ciò che per l’individuo è bene e ciò che è male sottraendolo al dovere sociale verso i singoli, al farsi popolo di un destino. Nulla salus oltre il liberalismo, dunque – e il populismo incombe – ma se si è secolarizzata la Chiesa, non dovrebbe potersi smaterializzare la democrazia?

Bibbiano e l’affido dei minori. “Assistente sociale? Un lavoro stupendo. E vi spiego il perché”

 

Gentile Selvaggia, lavoro come assistente sociale in un Servizio Tutela Minori. Ti scrivo perché sono giorni che sento un groviglio nello stomaco per la vicenda di Bibbiano. Ci sono delle ipotesi di reato (gravissime), sono in corso delle indagini e, se confermeranno le imputazioni, spero che queste persone paghino per quello che hanno fatto. Ma questa vicenda, emotivamente forte, ha scatenato opinioni, accuse, dichiarazioni da chiunque, innescando una reazione a catena che coinvolge l’interno mondo dei servizi sociali e mette sotto accusa la mia professione. Non voglio spiegarti il funzionamento, ruolo e mansioni delle diverse istituzioni. Non voglio nemmeno dirti quanti pochi giudici ci sono nei tribunali minorili rispetto alla reale necessità. Non ti racconterò con quali misere risorse economiche e professionali portiamo avanti il nostro lavoro. Voglio parlarti del lato emotivo del mio ruolo. Di quel doloroso groviglio che sempre mi accompagna nella mia meravigliosa professione, che sento ancor più ingarbugliato in questi giorni. Una (piccolissima) parte della mia professione è anche quella di “portare via i bambini dalle loro famiglia” o, parlando in termini tecnici, “a provvedere al loro collocamento in idonea struttura”. Pensa, lo dico con orgoglio. Perché ciò avviene in situazioni di grave emergenza e pericolo o in situazioni in cui, nonostante numerosi aiuti messi in atto per sostenere i genitori e aiutarli a risolvere gravi problematiche che ricadono sui figli, le dinamiche pregiudizievoli nel tempo non si modificano. È chiaro che, in questa fase, proteggere il prioritario interesse dei bambini e garantire che non si trovino in una situazione di grave pregiudizio, si scontra con il pensiero dei genitori che spesso non hanno consapevolezza dei propri problemi e, soprattutto, delle ricadute sui figli. In 10 anni di lavoro ho visto tante cose. C’è stato quel padre che mi ha portato la figlia di 6 anni in ufficio, con i suoi vestiti e i suoi giochi ammucchiati in grandi sacchi neri della spazzatura. Non poteva più occuparsi di lei, perché la nuova compagna non la accettava. L’ha lasciata lì, dimenticandosi che la piccola era già stata abbandonata anche dalla sua mamma.

Quella madre che ha rifiutato e combattuto per mesi ogni aiuto proposto dicendomi che “volevo portale via la figlia” per poi chiedermi, da un giorno all’altro, di trovarle una sistemazione a tempo pieno, poiché lei si trasferiva in un’altra città con il nuovo compagno e non poteva portarla con sé. Quel padre (italiano) che dichiarava tranquillamente che è normale picchiare la moglie. E insegnava ai figli a usare la violenza con persone, animali e oggetti. Quella che non ha creduto alla figlia, che accusava suo marito di averla molestata.

Il padre che ha abusato della figlia della compagna, con sua figlia nel letto vicino.

La madre che, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, ha somministrato i suoi farmaci al figlio di 2 anni, mandandolo all’ospedale. Quel padre che ha provato più volte il suicidio, facendosi trovare dal figlio di 7 anni. Potrei continuare. Ci sono genitori che soffrono di malattie psichiatriche, che hanno problemi di dipendenza (alcool, droga, gioco), che sono violenti, abusatori, disinteressati totalmente alle più basilari esigenze dei loro figli. Esistono. Ci sono. E sono esseri umani, che soffrono. Gran parte del mio lavoro consiste nell’aiutarli a comprendere le loro fragilità e ad affrontarle. Ma se non lo fanno, è mia responsabilitá proporre ai giudici altre soluzioni, che talvolta possono rendere necessario un temporaneo allontanamento dei minori dalla famiglia d’origine. Questo perché i bambini non possono aspettare i tempi lunghi dei loro genitori. L’allontanamento è un provvedimento che attiva un corposo lavoro di aiuto e sostegno alla famiglia d’origine: l’obiettivo è il rientro del minore nella sua famiglia. È l’inizio di un progetto, non la fine. Quando arriva un provvedimento di questo tipo, è anche per noi Servizi una sconfitta. Perchè significa che non siamo stati incisivi, efficaci, e che non siamo riusciti ad aiutarli. Né io né le mie colleghe dormiamo, la notte prima dell’allontanamento. Pensiamo a quel bambino, a cosa proverà, a cosa penserá la notte quando andrà a dormire in un letto sconosciuto. Pensiamo molto anche ai genitori, al dolore che proveranno. Pensiamo, infine, anche alla nostra incolumità, perchè minacce e aggressioni in quelle situazioni non mancano mai. Infine, voglio spendere due parole anche per parlare dell’istituto dell’affido. Chi è così follemente coraggioso da decidere di mettere a repentaglio il proprio equilibrio familiare per accogliere, per un pezzetto della sua vita, un bambino, percepisce un contributo economico. Contributo, la cui cifra non è stabilita a livello nazionale, ma che è lasciato al buonsenso (e al non-senso, talvolta) dei singoli territori. Contributo che permette di coprire (forse) le spese, non certo arricchire queste famiglie. In questi anni di lavoro, dalle persone che ho incontrato, ho imparato tante cose; soprattutto che le sfumature sono importanti, perché niente è solo bianco o solo nero. È un lavoro faticoso, che ti mette alla prova. Che ti sfianca e ti sfinisce, a volte. Ma terribilmente meraviglioso. Perchè non smetti di imparare dalle persone. Di stupirti, della vita e degli abissi. E delle infinite possibilità di riscatto che ognuno possiede, anche coloro su cui non avresti mai scommesso.

Francesca

 

Cara Francesca, ti ho lasciato tutto lo spazio delle lettere perché la tua lettera, cara Francesca, restituisce fiducia nel sistema degli affidi e in chi ci lavora. E un po’ anche nell’umanità in generale. Grazie.

 

Inviate le vostre lettere a:

il Fatto Quotidiano
00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2.
selvaggialucarelli @gmail.com

Dall’Anticristo allo scandalo di Siri: Burke, cardinale che ama il potere

Chi segue Il Chierico Vagante sa che il pasciuto cardinale Raymond Leo Burke è un ospite assiduo di questa rubrica già da qualche anno. Cacciato dalla Curia romana da papa Francesco – Burke era il prefetto del tribunale della Segnatura Apostolica – il cardinale americano conduce da quasi un lustro una campagna di odio contro il pontefice argentino della misericordia e dell’accoglienza. E per questo ritenuto, Bergoglio, un eretico, un apostata, se non l’Anticristo, “l’impostore religioso” di cui parla il Catechismo della Chiesa cattolica.

Convegno dopo convegno, il rotondo prelato è diventato una sorta di vero antipapa per la variegata rete dei clericali di destra che in nome dell’arida dottrina vogliono una Chiesa omofoba e razzista: in Italia, il loro leader politico è ovviamente il leghista Matteo Salvini, divorziato che usa strumentalmente il rosario e il crocifisso.

Le relazioni tra Burke e Salvini sono costanti e vengono curate da Giancarlo Giorgetti, cattolico praticante nonché numero due della Lega. I tre – Burke, Giorgetti e Salvini – siedono pure insieme nella Fondazione onlus Sciacca. Un rapporto stretto che può essere una delle chiavi di lettura delle ultime novità dell’affaire Siri, l’ex sottosegretario su cui puntava l’imprenditore dell’eolico Paolo Arata, il cui figlio Federico è vicino a Giorgetti e ha un contratto a Palazzo Chigi. Si scopre adesso, infatti, che l’anti-bergogliano Burke, fariseo di nome e di fatto, riceveva telefonate da Arata per spingere il nome di Siri al governo, nell’aprile dell’anno scorso, durante le trattative gialloverdi. Arata cita il solito Giorgetti e questo fa emergere il côté sovranista e clericale della Lega. E il cardinale punto di riferimento è quello che vuole una “correzione” pubblica di Francesco per le aperture ai divorziati sulla comunione. Senza dimenticare che Burke considera la “sodomia” come un “atto diabolico”.

I siti del network tradizionalista di solito lesti ad aggiornarci sulle opere di Burke stavolta non hanno scritto nulla sulle intercettazioni. Sull’americano valga infine il severo giudizio del cardinale Maradiaga: “È un poveruomo, un uomo deluso perché voleva il potere e lo ha perso”.

L’etica semplice non muore mai: fare bene e fare del bene, sempre

No, caro Coen, questo sgangherato Paese non è ancora morto. Fino a quando ci saranno persone come Carlo Giarratano e Mario Cerciello Rega, l’Italia potrà avere una speranza. Due uomini, due storia diverse. Uno uomo di mare, l’altro Carabiniere, entrambi del Sud e con la stessa concezione della vita. Che è quella semplice del fare bene e fare del bene. Perché, come diceva Tom Benetollo, intellettuale e pacifista, “qualcuno ci prova. Non per eroismo o narcisismo, ma per sentirsi dalla parte buona della vita. Per quello che si è”. Mario Cerciello Rega è il giovane vice maresciallo ucciso a Roma da due balordi ebbri di benessere e droga. Lo hanno accoltellato fino ad ammazzarlo, e la sua morte, come spesso accade agli eroi della normalità, ci ha fatto scoprire la sua vita di giovane sposo, entusiasta carabiniere, e volontario. Portava pane e vestiti usati ai “barboni” della stazione Termini, accompagnava i malati nei viaggi della fede e della speranza. Carlo Giarratano, invece, è il comandante del peschereccio d’altura “Accursio Giarratano”. Qualche notte fa ha visto al largo del Canale di Sicilia un gommone in difficoltà con una cinquantina di migranti a bordo. Ha fermato i motori e li ha salvati. “Soccorriamo i migranti con tutto il cuore, e lo facciamo come omaggio alla memoria di mio figlio Accursio, morto a 15 anni”. Il comandante e il carabiniere non si sono mai conosciuti, ognuno ignorava l’esistenza dell’altro, ma in comune avevano la volontà di sentirsi “dalla parte buona della vita”. Anche nel mare di merda nel quale il Paese sta affogando. Una cloaca fatta delle ignobili parole di un ministro dell’Interno pericoloso per la democrazia e la convivenza civile, i vomiti razzisti sui social che subito hanno individuato gli assassini del carabiniere in extracomunitari neri portati in Italia da odiose ONG, il silenzio ormai complice degli indifferenti. No, finché ci saranno uomini come il carabiniere e il comandante non sprofonderemo.

Chiude il casinò di Campione: tutti al funerale, da disoccupati

Caro Enrico, volevo raccontarti la meschina storia di Campione, cittadina italiana in territorio elvetico che dopo aver goduto della manna che le pioveva addosso dal Casinò, si ritrova da dodici mesi senza più il suo bancomat, chiuso per fallimento. Così, per celebrare l’anniversario, sabato 27 luglio c’è stato il funerale di questo “borgo d’età romanica e longobarda, mancato all’affetto della sua popolazione”. I 1958 abitanti sono ora costretti a vivere senza i salari e l’indotto generati dai tavoli verdi. Il corteo si è mosso alle 15 dal piazzale comunale, in una giornata uggiosa, adatta alle esequie di un luogo che dell’azzardo ha fatto monocultura assistenziale. Ora, 86 dei 102 (!) dipendenti municipali saranno licenziati, assieme a 486 lavoratori della casa da gioco. Tempo fa, l’ex sindaco Roberto Salmoiraghi (da sempre vicino al centrodestra) ha detto che gli organici di Comune e Casinò erano stati gonfiati per accontentare le pressanti richieste dei politici che volevano piazzare i loro raccomandati. Tutti sapevano, tutti per decenni hanno fatto finta di nulla. E ora nessuno paga il conto. I giudici di Como, scartabellati i bilanci (il Comune unico azionista), hanno scoperto ammanchi e disastri, una società seppellita dai debiti (132 milioni), spese faraoniche come quelle per il nuovo Casinò progettato dall’archistar ticinese Mario Botta, aperto nel 2007 (9 piani, 55mila metri quadri). Anche da chiuso, costa 530mila euro al mese di mutuo.

Poi ho letto, tra gli ormai cronici commenti razzisti e xenofobi che flagellano le nostre cronache, uno più ignobile degli altri sulla tragedia di quei 150 disperati migranti annegati, “potevano stare a casa loro, buon appetito pesci”. L’ha scritto una donna che ha postato come immagine del suo account una foto dei propri figli e sotto ha aggiunto lo slogan “verità per Bibbiano”. È un’oscena manipolazione, suggerita da tracotanti leader che sventolano rosari e chiudono porti. Ecco, ho pensato che quelle indecenti parole suggellino il funerale del nostro Paese. Sono l’epitaffio della cara estinta Italia.

Sky senza il calcio rischia il tracollo

Il conto alla rovescia è partito. E i rintocchi risuonano pesanti a Milano Santa Giulia dove ha sede Sky, l’azienda che ha il monopolio (o quasi) del calcio a pagamento in tv. L’allarme è rosso. A fine anno verranno assegnati i diritti per il triennio 2021–2024 e Andrea Zappia, ad di Sky Italia, si trova nella scomoda posizione dell’asino di Buridano: da una parte ha di fronte la Lega Serie A che gli chiede conto del traumatico crollo di audience registratosi nella stagione da poco conclusa (- 31%); dall’altra deve vedersela col management Usa che a fronte dell’inatteso insuccesso (la mission era inglobare i quasi 2 milioni di abbonati Mediaset Premium, mentre il 36% è sparito e il 15% si è limitato a spendere 10 euro per passare a Dazn) preme con forza per un ridimensionamento dei costi e allo stesso tempo per il mantenimento dei diritti, che restano vitali.

Sky Italia ha quasi 5,1 milioni di abbonati (il sogno di sempre è arrivare a 7), ma 3,2 lo sono per le partite di calcio; inutile dire che senza di loro, qualora i diritti passassero agli spagnoli di Mediapro rientrati prepotentemente in corsa col progetto del canale di Lega proposto a cifre assai allettanti per i club (+ 219,7 milioni all’anno rispetto a quanto versato oggi da Sky e Dazn), crollerebbe tutto. Non bastasse la sanguinosa e travagliata chiusura della redazione romana, a Sky si comincia a parlare ora di una possibile soppressione di Sky Sport 24, il notiziario che pesa non poco sui conti dell’azienda, un costo che diverrebbe insostenibile in caso di matrimonio Lega–Mediapro. Senza contare tagli e sforbiciate ad altre voci, come quella dei talent: pare ad esempio che a Ilaria D’Amico stia per essere proposto un contratto notevolmente ridimensionato rispetto a quello in corso, 250 mila euro invece di 1 milione.

Inutile dire che il raggiro messo in atto l’estate scorsa ai danni del pubblico e sanzionato prima dall’Agcom con una multa a Sky di 2,4 milioni, poi dall’Antitrust con una multa a Sky di 7 milioni e a Dazn di 500.000 euro, sempre per pubblicità ingannevole, era già stato duramente punito dagli abbonati: che abituati a vedere su Sky tutto il calcio di serie A e B a 36,80 euro, di colpo si sono visti costretti a spendere più soldi (45,10 euro) per vedere meno partite (7 invece di 10) e a dover aggiungere 10 euro per vedere su Dazn le altre 3 partite di A più la serie B. E “vedere” è una parola grossa: i problemi tecnici che hanno accompagnato il debutto del marchio pubblicizzato da Diletta Leotta sono stati inenarrabili e hanno provocato un veemente moto di ribellione popolare che ha indotto Dazn a tenere segreto il numero, evidentemente modesto, degli abbonati conquistati.

E così, mentre l’ex dirigente di Sky nonché ex fidanzato di Diletta Leotta, Matteo Mammì, nelle vesti di nuovo consulente Mediapro ha messo a punto, coadiuvato da Marco Bogarelli ex Infront, il progetto di canale di Lega che promette alla serie A di passare da un incasso odierno stagionale di 973,3 milioni a uno di 1.193 (con incremento, come detto, di 219,7 milioni a stagione), lasciando persino intravedere ai presidenti margini di guadagno ulteriori, la sua ex fiamma Diletta Leotta vaga corrucciata nei corridoi di Dazn mentre il suo ex boss a Sky, Andrea Zappia, sente la poltrona traballargli sinistramente sotto il sedere. Così è la vita.

Un bisogno umano radicale: la vera eredità di Agnes Heller

Bei giorni, questi, per Viktor Orbán. Il 19 scorso la sua nemica irriducibile, Agnes Heller, è morta a novant’anni mentre faceva un bagno nel lago Balaton. Io con la Heller ho un doppio debito di riconoscenza. L’ho invitata due volte a tenere delle lezioni ai miei studenti e due volte, generosamente, è venuta, ha detto cose magistrali e si è intrattenuta a lungo, con la sua naturale vitalità, ad accontentare i giovani che la tempestavano di domande.

Nata a Budapest il 12 maggio 1929 in una famiglia ebrea agiata e colta, fu influenzata dalle molteplici conoscenze interdisciplinari del padre, poi internato e morto ad Auschwitz. Lei, a sua volta, a quindici anni fu rinchiusa nel ghetto di Budapest. Seguace di Karl Korsch e soprattutto di Gyöergy Lukács, con cui creò il sodalizio intellettuale della “Scuola di Budapest”, è stata privata due volte della cattedra universitaria: prima, nel 1959, dal regime comunista e poi, recentemente, dal regime sovranista di Orbán. Ciò l’ha costretta a riparare in Canada, in Australia, negli Stati Uniti con un nomadismo coatto che non ne ha mai scalfitto la vitalità.

Nella sua Breve storia della mia filosofia la Heller ha scritto: “La scelta di un tema, o di un argomento concreto ed effettivo, è dovuta a due fattori. Il primo è un pensiero ricorrente, che necessita di essere ripensato giorno e notte e che ci impedisce di dormire. Il secondo è un’intuizione improvvisa. I due fattori possono essere collegati”. La decisione di scegliere i bisogni come campo da approfondire dev’essere scattata nella 34enne Agnes durante un suo soggiorno a Firenze, nel 1963: “Nelle vie, nelle chiese, nelle case, nei palazzi di Firenze ho incontrato un sogno, o meglio, ho incontrato il mio sogno di un mondo adeguato all’uomo”. In cosa quest’uomo rinascimentale è diverso da un bruto? Quali bisogni nutre, che lo rendono umano?

Gli psicologi intendono per “bisogno” la percezione della mancanza totale o parziale di uno o più elementi che consentono alla propria persona la sensazione di benessere. Secondo la Heller tutte le specie viventi, siano esse un fanciullo, un animale, una pianta, condividono il bisogno della nutrizione e della procreazione. Ma vi sono bisogni prettamente umani sui quali occorre azzardare una teoria più soddisfacente di quelle in voga. Quando la Heller cominciò a esplorare questo problema, nelle facoltà di psicologia e nelle business school la teoria di Abraham Maslow stavascalzando quella di Henry Murray e del suo Exploration in Personality del 1938.

Murray divide i bisogni in manifesti e latenti, proattivi interni e reattivi esterni, focali e diffusi, viscerogeni (cioè fisici e comuni a tutti gli individui) e psicogeni (cioè psicologici e diversi da individuo a individuo). La teoria di Murray aveva preso piede soprattutto perché egli ne aveva ricavato un test proiettivo tuttora in voga: il Thematic Apperception Test, applicato anche da Banfield in Lucania per studiare il tanto discusso familismo amorale.

Ma nel 1954 Abraham Maslow capo del dipartimento di psicologia dell’università Brandeis, a Waltham, nel Massachusetts, scalzò Murray pubblicando Motivation and Personality in cui cercava di dimostrare che ogni individuo è unico e irripetibile mentre i bisogni sono comuni a tutti e sono collocati in strati come una piramide.

In ognuno di noi scattano per primi i bisogni fisiologici (respiro, fame, sete, sonno e omeostasi) e solo quando questi sono sufficientemente soddisfatti scatta una seconda categoria costituita dai bisogni di sicurezza e protezione (sicurezza fisica, occupazionale, morale, familiare, di salute e proprietà). Quando anche questo secondo livello è soddisfatto, scatta il terzo dei bisogni di appartenenza (amicizia, affetto, intimità). Gli ulteriori due gradini, che rappresentano il vertice della piramide, sono i bisogni di stima (autostima, autocontrollo, prestigio, realizzazione, rispetto) e, sopra a tutti gli altri, i bisogni di autorealizzazione (identità, spontaneità, creatività, problem solving, successo).

A questa teoria schematica, che dominava ormai incontrastata, la Heller ne contrappose una molto più articolata, pur nella sua semplicità. A suo avviso i bisogni umani sono di due tipi. Vi sono quelli “alienati”, che Kant aveva definito Süchte, ovvero la sete di ricchezza, di potere e di beni materiali. Si tratta, dunque, di bisogni quantitativi, che tendono a beni che si prestano a essere misurati e paragonati per cui c’è sempre qualcuno che ne ha più di noi, destando in noi l’invidia che ci aliena.

Ma vi è una seconda categoria di bisogni umani, che la Heller chiama “radicali” perché consustanziali alla radice squisitamente umana della nostra personalità. Si tratta dei bisogni d’introspezione, di amicizia, di amore, di gioco e di convivialità: tutti accomunati dalla loro essenza qualitativa, che non si presta a essere misurata né mercificata.

Per tutta la vita Agnes Heller ha lottato affinché i bisogni radicali trionfassero su quelli alienati e la bellezza potesse intrecciarsi con la bontà: “La bellezza – amava dire – non salverà l’Europa, si può essere amanti delle cose belle (Hitler amava Beethoven e Stalin la poesia sublime) e non agire di conseguenza. Però lo sforzo di essere buoni, amando le cose belle, porta alla tensione verso la felicità”.

Ora la Brexit ri-divide le due Irlande: rissa per il confine

In caso di Brexit, queste città disteranno solo pochi metri dalla frontiera europea ma il loro futuro non sarà più nell’Unione. È un duro colpo per chi vive al confine. Siamo in Irlanda del Nord, tra Newry, Belcoo e Strabane. “Voglio morire europeo. Ecco cosa ho risposto a mia moglie quando mi ha chiesto perché ho voluto un passaporto irlandese”. Donal O’Donnell è un ex giornalista nordirlandese. Lo incontriamo al mercato di Newry, una cittadina di 27.000 abitanti a cavallo del confine con l’Eire. Quando parla della Brexit, il suo sguardo si infiamma: “È un vero caos in Parlamento, non ho mai visto una cosa del genere!”. O’Donnell ha seguito come reporter i disordini politici dell’Irlanda del Nord “per più di 30 anni”. All’epoca, il conflitto – The Troubles, la “guerra a bassa intensità” (1968-1998) – scuoteva la provincia britannica. In questa guerra civile, protestanti unionisti vicini alla corona britannica si opponevano ai nazionalisti repubblicani favorevoli alla riunificazione delle due Irlande.

“Gli inglesi penseranno sempre di essere superiori agli altri, si sentono superiori persino ai francesi!” esclama O’Donnell, prima di concludere: “Oggi dobbiamo combattere contro il nazionalismo inglese”. Il giornalista in pensione critica severamente il Partito unionista d’Irlanda del Nord (Dup). Tre anni fa, il movimento conservatore ha preso posizione in favore dell’uscita dall’Unione Europea. Alleato del governo di minoranza, il Dup svolge un ruolo chiave nei negoziati sulla Brexit. Nei tre voti sull’accordo negoziato dall’ex primo ministro britannico Theresa May, il partito unionista ha rifiutato il backstop, la “linea di protezione” che avrebbe permesso all’Irlanda del Nord di restare nel mercato unico europeo in caso di Brexit. “Il Dup se ne infischia di cosa vogliono gli irlandesi del Nord – afferma O’Donnell -. Il popolo ha votato per rimanere nell’Unione europea”. Ma il Dup è il solo partito nordirlandese a riuscire a imporsi a Westminster. Dalla parte opposta dello scacchiere politico, il Sinn Féin, lo storico partito nazionalista e repubblicano, favorevole alla riunificazione delle due Irlande, rifiuta di entrare in Parlamento. “Non c’è nessuno che possa difendere la nostra causa”, protesta l’ex giornalista fermandosi davanti a un banco del mercato. “Non esiste uomo più ragionevole di lui”, dice, indicando col dito John Bradley. L’ex insegnante di 60 anni tiene uno stand di antiquariato al mercato di Newry da una ventina di anni. Vecchie riviste, medaglie e soprammobili sono disposti su un tavolo di legno aperto davanti a lui. “Penso che l’Unione europea dovrebbe dire al Dup di farsi da parte”, denuncia Bradley, che lascia per qualche minuto il suo stand per parlarci dei suoi timori: “Il ritorno di una frontiera terrestre sarebbe un passo indietro. Ho paura di cosa potrebbe succedere in caso di Brexit”. John Bradley non è il solo. Finanziata dall’Unione Europea, la Action Mental Health segue da vicino i progressi della Brexit. L’organizzazione, la cui sede si trova poco lontano dal mercato, accompagna le persone con disturbi mentali. Il centro ospita attualmente 145 persone. “La metà dei nostri finanziamenti proviene dall’Unione Europea”, afferma il suo direttore, Brian Huge. In caso di Brexit, l’organizzazione perderà i fondi europei. ”Ma il governo britannico ha promesso di stanziare del denaro entro il 2020-2022”, aggiunge. I pazienti del centro però sono lo stesso molto preoccupati, come Dell Rogers: “Dove andremo se il centro verrà chiuso?”.

A circa dieci miglia da Newry, i pescatori di cozze di Warrenpoint, secondo porto d’Irlanda, navigano in acque torbide. Hank Waverton, un marinaio olandese, sta fumando una sigaretta sulla porta di un pub. “Qui ci sono solo pescatori di cozze e la maggior parte delle aziende sono irlandesi o olandesi. Ma credo che il 95% delle entrate della pesca vada alle compagnie olandesi”, dice, con gli occhi rivolti verso il porto. L’olandese ci racconta cosa sta cambiando a causa della Brexit: “Da qualche tempo, la frontiera è più sorvegliata. Due mesi fa, una nave di Kilkeel, primo porto d’Irlanda del Nord, è stata fermata dalla marina irlandese”. I controlli a ripetizione ai due lati della frontiera stanno facendo fuggire i pescatori irlandesi che “non si recano più in Irlanda del Nord”. Waverton prende ad esempio quello che è successo a uno dei suoi amici: “Ha attraccato in un porto senza avere l’autorizzazione. Gli è costato più di 15.000 euro!”. Getta via il mozzicone di sigaretta: “Sfortunatamente – aggiunge dopo una pausa – nessuno sa dove sia il confine”.

Come i pescatori, anche gli agricoltori saranno in prima linea nel caso di una Brexit “dura”. Ne è consapevole John Sheridan, contadino nordirlandese che vive a Belcoo, paese di confine nella contea di Fermanagh, a nord-ovest di Newry. Questa contea d’Irlanda del Nord dipende economicamente dal turismo e dall’agricoltura. L’allevatore di pecore ammette che negli ultimi tre anni ha dovuto congelare gli investimenti per fronteggiare l’incertezza della Brexit.

“Per vendere la carne, abbiamo bisogno di 20 mercati a carcassa, ma non ci sono 20 mercati nel Regno Unito”, si lamenta Sheridan. Secondo lui, in caso di no deal le sue pecore “potrebbero essere tassate al 75%”. Al volante della sua jeep, l’allevatore attraversa sentieri scoscesi. “Siamo sul ponte al confine tra Belcoo e Blacklion, nella Repubblica d’Irlanda. Quando ero bambino, le forze britanniche erano distaccate qui sulla frontiera”, racconta il 56nne, guardando fisso la strada. Essendo nato nei primi anni 60, Sheridan ha conosciuto il periodo dei Troubles, anni che non potrà mai dimenticare. “Quando vedavamo uno scatolone per strada, la prima cosa che ci chiedevamo era se si trattasse di un pacco bomba”, ricorda l’agricoltore protestante. Nel 1998, l’accordo del Venerdì Santo ha messo fine a una guerra che ha segnato l’Irlanda del Nord per trent’anni. “È stato un accordo fantastico, raro e unico. Spero che continuerà a proteggerci”, confida Sheridan, che ringrazia l’Unione europea per aver semplificato il processo di pace. “Bruxelles ha iniettato oltre 7 miliardi di sterline tra il 2007 e il 2020. È in parte grazie a Michel Barnier, all’epoca ministro per gli Affari europei, se tutti questi soldi sono stati sbloccati. Non si sputa nel piatto dove si è mangiato”. La sua fattoria è stata finanziata dalla Ue: “Mi considero un figlio dell’Europa”, dice con un sorriso. Poco più lontano, dall’altra parte della frontiera, nella Repubblica d’Irlanda, si trova il borgo di Ballyshannon. È qui che vive Patrick Rooney, allevatore di pecore e mucche da latte. “Non condivido tutto ciò che l’Ue ha fatto – afferma -, ma penso che Bruxelles abbia collaborato in modo corretto con l’Irlanda”. Il contadino irlandese teme l’arrivo sul mercato britannico della carne bovina sudamericana: “Sono prodotti di qualità inferiore ai nostri e con una minore tracciabilità – osserva Rooney – In Irlanda abbiamo prodotti unici e se il Regno Unito dovesse imporre tariffe dal 15 al 30%, l’agricoltura irlandese rischia di essere distrutta”. Rooney si rivendica “europeo ma irlandese nel sangue”. Anche lui attraversa regolarmente la frontiera. Per l’allevatore, il controllo totale del confine sarebbe impossibile senza chiudere le strade secondarie. “Diventeremo l’unico paese europeo a condividere una frontiera terrestre con il Regno Unito”, aggiunge. Un confine che potrebbe separare di nuovo le città di Strabane e Lifford. La prima è in Irlanda del Nord, la seconda nella Repubblica d’Irlanda.

Oggi le auto circolano liberamente tra le due cittadine di confine. Alcune si fermano nel parcheggio del supermercato Asda di Strabane. Il 40% dei clienti sono irlandesi. “Se si dovesse instaurare una frontiera, ne subiremo direttamente le conseguenze, perché i clienti avranno bisogno del passaporto per fare la spesa” afferma uno dei gestori del negozio, che preferisce restare anonimo. Se le città di Strabane e Lifford fossero divise dalla frontiera europea, ostacolando gli scambi, il supermercato subirebbe dei danni, dal momento che una parte dei prodotti venduti nel negozio provengono dall’Unione Europea. Il ritorno a una frontiera terrestre preoccupa gran parte dei commercianti di Strabane. Con 18.000 abitanti, Strabane è la seconda città della contea di Tyrone, dopo Omagh. A Strabane, le due-tre strade principali del centro sono tappezzate con i manifesti elettorali del partito Sinn Féin. All’ingresso di un negozio di elettrodomestici, un commesso scoppia a ridere quando gli parliamo di Brexit: “Non succederà mai, è impossibile!”. Poi va a chiamare il responsabile del negozio, Conor Devan. Il direttore, poco più di trent’anni, racconta l’impatto che avrebbe il ritorno di una frontiera terrestre. “Consegniamo molti dei nostri elettrodomestici dall’altro lato. Con la Brexit, si rischia di incontrare delle difficoltà in termini di assicurazione”. Ma come prepararsi al peggio? A questa domanda Conor Doherty, 24 anni, non riesce a dare una risposta. Sua madre è proprietaria di un negozio di fiori a qualche passo dal negozio di elettrodomestici di Devan. “È difficile prepararsi perché ci sono troppe incertezze, almeno fino a quando non verrà presa una decisione – afferma il giovane nordirlandese – Il dibattito a Westminster è una grande presa in giro. Nessuno sa cosa vuole”.

Conor Doherty teme per l’attività commerciale della madre, che in parte si fa in Irlanda. “Consegniamo bouquet anche nella contea di Donegal (nel nord della Repubblica d’Irlanda, ndr) e molti dei nostri fiori provengono dai Paesi Bassi”, precisa il giovane. Si sistema gli occhiali e continua: “Già lottiamo contro i supermercati che vendono i fiori a prezzi molto bassi, è improbabile che la Brexit risolva le cose”. Come molte cittadine di confine, Strabane ha votato in massa per restare nell’Ue. Il 30 marzo scorso, un corteo di un centinaio di persone ha marciato fino alla frontiera per protestare contro la Brexit. Doherty avrebbe voluto partecipare alla manifestazione ma quel giorno aveva avuto “un contrattempo”. Nato dopo i Troubles, il giovane confida di voler vivere nell’unità. “Sono cresciuto dopo la guerra civile e questo ha influenzato la mia visione delle cose – dice – Nella mia testa sono irlandese. E più europeo che britannico”.

(traduzione Luana De Micco)