La Google connection: così Cosa nostra s’adegua ai tempi

Le mafie italiane hanno sempre tenuto molto alla loro immagine. L’hanno promossa con tutti i mezzi che i tempi offrivano. Cosa sono le processioni religiose nei paesi del nostro Sud, con le Madonne ingioiellate e i santi fatti inchinare sull’uscio delle case dei boss se non una rappresentazione del senso religioso e, soprattutto, del potere dei mafiosi? Dalle processioni ad oggi tanta acqua è passata, anche sotto i ponti costruiti dai “malacarne”. È il tempo di internet e anche dentro il grande corpo delle mafie è nata la Google generation. La definizione è di Marcello Ravveduto, docente di Digital public history nelle università di Salerno e Modena, autore del libro Lo spettacolo della mafia, edito dal “Gruppo Abele”.

“Nel 2018 – ricorda lo studioso – le persone connesse a internet hanno superato i 4 miliardi (…) in Italia il 73% della popolazione è on line e trascorre circa 6 ore al giorno sul web. (…) Pertanto, se il virtuale è un’estensione del reale, anche l’esperienza criminale è parte dell’ecosistema digitale”. E allora, se è vero che “la nostra identità digitale deve essere il più vicino possibile alla nostra vera identità”, come sostiene R. Scandellari in uno studio, si comprendono tanti atteggiamenti.

La figlia di Totò Riina che trasforma il suo cognome (sinonimo di violenza, potere mafioso, stragi di magistrati amati dagli italiani, ignobili trattative con i pezzi peggiori dello Stato), in un brand spendibile all’estero, segue semplicemente il cammino imposto dalla modernità digitale. Se i giovani camorristi utilizzano a piene mani i social per proporsi per quello che sono nella realtà, ma anche per minacciare e lanciare segnali, si comprende come l’uso spregiudicato della rete sia la nuova frontiera dell’agire criminale. Ma anche nell’uso criminale dei social c’è un prima e un dopo. “Nella prima fase – scrive Ravveduto – si dissemina l’immaginario. Nascono gruppi, pagine fan e profili fake che da un lato amplificano le grandi imprese di boss del passato, dall’altro esaltano la potenza delle organizzazioni criminale nel presente”. La fase due è la più preoccupante, quella che dovrebbe allarmare (ma le “emergenze” sono sempre altre) anche i vertici del Viminale. Perché i giovani del crimine organizzato investono su tutte le possibilità della rete.

Non solo comunicazioni criptate e deep web per i loro affari, ma anche i social in tutte le loro declinazioni. “Si struttura l’interrealtà mafiosa: si postano messaggi testuali e frammenti audiovisivi espliciti provocando il corto circuito tra reale e virtuale”. Gli esempi non mancano, purtroppo. Pensate al boss del Rione Traiano, Napoli, colpito in un agguato che posta su FB la foto delle sue ferite e minaccia i rivali. La conseguenza, ricorda Ravveduto, è che 6 giorni dopo i suoi nemici sparano raffiche di mitra sulla sua abitazione.

“I rivali seguono il suo profilo social e reagiscono realmente alle minacce virtuali”. E oggi in quale fase siamo? La terza, quella della Google generation criminale”. Giovani leve senza regole immerse nell’interreale, intrise di una “cultura” fatta di gesta “dai villain cinematografici, televisivi e dei videogiochi action–adventure”. Il loro è “un continuo andirivieni tra immaginario e reale che rovescia la percezione del vissuto”. Per esplorare il mondo criminale 2.0, lo studioso si è infiltrato inventandosi un profilo fake, lo ha arricchito con l’armamentario usato dai giovani camorristi (canzoni neomelodiche e trap, spezzoni della serie Gomorra, ecc) e ha stretto diverse “amicizie”.

Vede i baby camorristi che amano farsi fotografare, cosa indossano (sempre abiti firmati e costosi), “si sfoggia la marca per sottolineare l’adesione ad una organizzazione di élite a cui possono aderire in pochi”. Ma la fissazione per gli abiti non è nuova. Già agli inizi del Novecento Ferdinando Russo ed Ernesto Serao scrivevano: “I camorristi hanno avuto nei tempi andati, costumi e fogge di vestire speciali per modo da potersi riconoscere agevolmente tra loro”. Non è una esclusiva della camorra, perché “anche i narcos messicani usano l’abbigliamento e alcune marche per indicare l’affiliazione a un cartello”. È la google generation criminale, bellezza.

L’Italia che eccelle nell’export: delle mafie

“Ma non li puoi mandare in bitcoin?”. “Non li vogliono, vogliono i soldi contanti”. “Ma questo scemo di merda… Questi sono strani allora”. È il 18 febbraio 2017 quando tre soggetti della Locride discutono di come pagare la cocaina ai narcos sudamericani che volevano solo contanti e in dollari. Nessun problema per i calabresi che, in meno di 24 ore, possono reperire qualsiasi cifra in Aspromonte. Domenico Pelle lo sa bene. È il figlio del boss Antonio Pelle di San Luca detto “la Mamma”. Se prima eseguiva gli ordini del padre ex latitante e del fratello, con la loro cattura nell’ottobre 2016, Domenico ha iniziato a prendere decisioni per conto della cosca Pelle–Vottari. A soli 25 anni è lui il capo e va in Brasile a trattare direttamente con i narcos sudamericani.

“A Platì vado domani a prenderli – dice Domenico Pelle – Il figlio di Pasqualino mi ha detto che ha 500 mila dollari e se glieli cambio. Gli do 40mila euro e mi da 50 mila dollari”. Detto, fatto. Ma, soprattutto, quelle frasi sono la dimostrazione plastica di come le altre organizzazioni criminali non riescono a tenere il passo della ‘ndrangheta che ha uomini in grado di muoversi da una parte all’altra del mondo con la stessa facilità di chi da San Luca deve fare pochi chilometri per spostarsi a Platì. L’intercettazione si trova nel fascicolo dell’inchiesta “Pollino” che, a dicembre, ha portato a numerosi arresti in tutta Europa. La Procura di Reggio Calabria ha dimostrato come i soldi della cocaina venivano riciclati e reinvestiti in attività commerciali all’estero. Così le pizzerie e i bar che la ‘ndrangheta gestisce in Olanda, in Belgio e in Germania, in realtà, sono la sede di supporto logistico ai traffici di droga proveniente dalla Colombia e dal Costa Rica.

Prima dell’operazione “Pollino”, ci sono state decine di altre inchieste, molte delle quali coordinate dalle Dda di Reggio Calabria, Catanzaro, Palermo e Napoli, che hanno dimostrato come le mafie italiane, non solo calabresi, hanno invaso il mondo. Un report sulla “globalizzazione” della criminalità organizzata è contenuto nella relazione semestrale pubblicata nei giorni scorsi dalla Dia secondo cui le mafie “da tempo scelgono di investire oltre i confini nazionali, sia per sottrarsi all’azione di contrasto italiana, sia per le maggiori possibilità di passare inosservati”. Dalla Germania alla Spagna, passando per la Francia, l’Olanda e il Belgio. ‘Ndrangheta, cosa nostra e camorra hanno preso tutto. Anche perché se il business più redditizio è il traffico internazionale di droga, i calabresi hanno “un rapporto privilegiato, se non esclusivo – si legge nella relazione della Dia – con le organizzazioni del Sudamerica”.

Non deve ingannare il calo dei sequestri di stupefacenti registrati negli ultimi anni nei porti italiani. Stando al report della Dia, le mafie hanno cambiato solo strategia “per l’importazione dei narcotici”: se prima Gioia Tauro era la porta di ingresso della cocaina nel vecchio continente, adesso Anversa, Rotterdam e Amburgo rientrano in quella che la Dia definisce “una rimodulazione delle rotte per diminuire i rischi di individuazione dei carichi”.

Tonnellate di cocaina che inondano pure gli Stati Uniti e il Canada dove Montreal è il territorio di Cosa nostra canadese (“una realtà criminale autonoma rispetto a quella siciliana”) mente Toronto si conferma la base operativa della cosca Commisso conosciuta come “Siderno Group of Crime”, presente anche negli Stati Uniti e in Australia.

Con l’inchiesta “Canadian ‘ndrangheta connection”, la Dda di Reggio ha dimostrato l’operatività della cosiddetta “camera di controllo” di Toronto, “un organismo abilitato a riunirsi in territorio estero e ad assumere decisioni” che hanno riflessi anche in Calabria.

Ritornando in Europa, se la Spagna è “il punto di approdo per ingenti quantitativi di stupefacente” (soprattutto la cocaina proveniente dal continente americano), la Francia è il “luogo di rifugio per i latitanti” e per gli ‘ndranghetisti” che nelle regioni delle Alpi, in Provenza e in Costa Azzurra investono “capitali di provenienza illecita”. A proposito di investimenti, sul piano finanziario il Regno Unito può essere considerato una vera e propria prateria per le mafie italiane che ricorrono alle corporation (Ltd) e ai Trust fiduciari, “come società di comodo”. Basta pensare che, con l’operazione “Galassia”, le Dda di Reggio Calabria, Bari e Catania hanno scoperto che nel “Regno Unito erano dislocate società cartiere che hanno consentito l’immissione nel circuito legale di denaro attraverso nuovi meccanismi di riciclaggio”.

In Germania, invece, il processo di espansione della ‘ndrangheta è stato favorito dalla caduta del muro di Berlino. Approfittando delle “difficili condizioni economiche connesse alla riunificazione nazionale”, le mafie italiane hanno visto nel mercato immobiliare tedesco “uno dei settori privilegiati in cui reinvestire i capitali illeciti”. I calabresi, infatti, hanno letteralmente comprato interi quartieri: bar, ristoranti, pizzerie, alberghi. Soldi sporchi per i quali la Germania non ha battuto ciglio per molti anni. Almeno fino al 15 agosto 2007 quando i tedeschi si sono svegliati con sei morti ammazzati, tutti di San Luca. Era la strage di Duisburg che poteva essere evitata se le autorità tedesche avessero preso in considerazione gli allarmi lanciati dal procuratore Nicola Gratteri.

Oggi “l’attività di cooperazione bilaterale con il Bka (polizia tedesca, ndr)” sta dando i suoi frutti ed è “un punto di riferimento anche per altri Paesi”, ma – sottolinea la Dia nella sua relazione semestrale – “la maggiore problematica riscontrata si individua nel mancato adeguamento legislativo alla normativa italiana, che non consente un’adeguata azione di contrasto oltre i confini nazionali”.

Il mega-bocciodromo ha dimenticato le bocce

Pattinaggio, piscina e calcetto, ristorante e pizzeria, parco giochi e campo estivo, affittacamere e centro convegni, feste di compleanno e addii al celibato, chi più ne ha più ne metta. Al Bocciodromo del Torrino a Roma, il più grande d’Italia, centro ufficiale della Federazione, ormai si fa di tutto. Pure troppo: infatti il Comune ha deciso di intervenire e minaccia di “sfrattare” per le violazioni commesse la FederBocce.

Siamo a Roma, zona Eur. Da oltre un decennio, qui sorge un grande bocciodromo, ovviamente pubblico: promesso dal sindaco Rutelli, costruito sotto l’amministrazione Veltroni (costò circa 4 milioni di euro), conta oltre 35 mila metri quadri e un’arena coperta da 1.500 posti. È l’unico impianto in Italia in grado di ospitare tutte le specialità federali della disciplina (raffa, petanque, volo).

La casa delle bocce, questo doveva essere: il Campidoglio lo affidò alla Federazione con una concessione annuale, prolungata in più tranche fino al 2036. In virtù della sua funzione pubblicistica, la Fib, che del resto aveva partorito il progetto, poteva gestire l’impianto e farne il suo centro federale, in cambio di un corrispettivo simbolico (30 mila euro di canone annuo, spiccioli per un’area del genere). Per fare attività e promuovere la propria disciplina, che poi sarebbe la funzione di ogni Federazione riconosciuta dal Coni. Il problema è che lì dentro ci si fanno tante cose, forse troppe. Il centro ha persino cambiato nome: oggi si chiama Eur City.

“Bocciodromo” sarebbe in effetti una definizione riduttiva. Nel 2017 la Federazione ha sottoscritto un contratto di affidamento di alcuni spazi con la Edr (Eventi di Roma) plus, società specializzata non certo nello sport ma in comunicazione e eventi. Accordo da 85 mila euro, più del doppio del canone pagato al Comune, con relativo margine di guadagno. Sul sito dell’azienda il centro è pubblicizzato come “posto ideale” per “party esclusivi”, dj-set, feste di laurea e di ogni tipo. Non è tutto. In passato in estate piscina, d’inverno pista di pattinaggio. L’area di ristorazione è un vero e proprio ristorante aperto al pubblico, con tanto di “menù carne” (20 euro, vino incluso) e recensioni su Tripadvisor. La foresteria si è trasformata in albergo: dovrebbe essere riservata ai tesserati, ma chiamando chiunque può prenotare come in un hotel qualsiasi (75 euro la tripla). A un certo punto pare fossero disponibili pure servizi da centro benessere (o almeno così è stato denunciato).

La Fib ha pensato di sfruttare il suo gioiello per guadagnare visibilità e rimpinguare le casse federali. Se ne vanta persino nell’ultimo bilancio, dove si citano i “100 mila euro di presunti ricavi dalla gestione diretta e indiretta”. Giusto o sbagliato, è questione di punti di vista, sul ruolo delle Federazioni sportive (a tutti gli effetti private, ma con funzione e soldi pubblici) Non si può fare, però, almeno secondo il Comune di Roma, che ha appena avviato un procedimento di “decadenza della concessione”, visto “l’assoluto divieto di far gestire a terzi l’impianto” (violazione anche comunicata all’Anac). Il documento evidenzia “varie criticità”: “il centro risulta essere utilizzato per eventi privati”, alcuni locali sono “impropriamente utilizzati”, “la foresteria è adibita ad affittacamere”. Le bocce ci sono ancora, certo, ma forse un po’ sacrificate. Il Comune fa notare che hanno perso due campi, dove una società sportiva esterna tiene corsi di ginnastica artistica. Su uno era stata scavata una buca che rischiava di danneggiarlo ed è stata oggetto di accertamenti.

L’amministrazione di Virginia Raggi (con l’assessore Frongia) sta cercando di regolarizzare la gestione degli impianti sportivi della Capitale (non è certo l’unica situazione critica). La Federazione ha già risposto: ora si attende l’esito. Intanto il presidente Marco Giunio De Sanctis rispedisce tutte le accuse al mittente: “Abbiamo risposto punto su punto. Qui c’è una società che ha vinto un bando regolare e gestisce uno spazio non istituzionale, per il resto solo appassionati che giocano a bocce. Purtroppo non si può fare più nulla, c’è sempre un esposto di qualche invidioso: chissà come mai il Comune si sveglia proprio ora”. Il n. 1 ce l’ha col predecessore Romolo Rizzoli, con cui non sono mancati attacchi (e denunce reciproche) da quando ne ha preso il posto nel 2017: “Se abusi ci sono stati, risalgono al passato. Io ho ereditato un impianto che perdeva e l’ho portato in pareggio. Il bocciodromo non è mai stato così vivo: a settembre ci faremo i campionati italiani, per la prima volta unificati fra tutte le discipline al centro tecnico federale”. Sempre che sia ancora della FederBocce.

Lusso a prezzi stracciati: vacanze in tempo di crisi

Dormire nel B&B economico, ma farsi la sauna all’hotel super lusso. Prenotare con tre stagioni di anticipo un agriturismo a prezzo stracciato, ma poi consentirsi una cena in gran spolvero e magari comprarsi vino e olio pregiati del posto. Saranno gli influencer, saranno le serie tv come la riuscita 4Hotel con lo chef Bruno Barbieri, ma gli italiani amano sempre più il lusso, pure quando non possono permetterselo. I soldi complessivi non sono di più, visto che la spesa media per le vacanze, secondo un’indagine Coldiretti, è scesa nel 2018 a 744 euro a persona, con un calo del 7% rispetto all’anno precedente. E infatti gli italiani continuano, – come spiega una ricerca Eurostat 2019 – a scegliere le vacanze in Italia (80%) e a spostarsi prevalentemente in auto (il 60%) per risparmiare: e tuttavia al tempo stesso cercano servizi di maggior qualità, alternandoli a scelte low cost. È l’affordable luxury, la faccia democratica dell’ultraluxory per pochi. Uno stile che unisce prodotti diversi nella stessa esperienza di consumo e che, come ha raccontato la ricerca di Euromonitor Post–Luxury Travel, è in aumento.

 

La domanda: risparmiare senza rinunciare al fasto

Imprese e start up hanno intuito la tendenza e si ingegnano ad offrire servizi a cinque stelle al costo di due. È il caso dell’idea della start up DayBreakHotels, 4.000 alberghi di lusso partner nel mondo: si prenota un albergo a 5 stelle, ma solo di giorno, con una tariffa scontata anche del 70%. Ma non pensate agli amanti clandestini: i daybreaker sono soprattutto viaggiatori – anche giovani – che la notte nella top suite non se la possono permettere. Però si regalano un pomeriggio al centro benessere, oppure un aperitivo nella hall, che è sempre più uno spazio di condivisione. Un’esperienza da raccontare, magari, sul sito www.viaggidilussoperpoveri.it, un blog di racconti di viaggio dove si possono trarre spunti e idee per viaggi di lusso a basso prezzo. Il lusso vero e proprio, comunque, cresce in Italia (rappresenta il 12,2% dei viaggi, 20% se si considerano gli stranieri secondo uno studio dell’Università Bocconi), e il dato si spiega – certamente – con l’aumento delle diseguaglianze, per cui i ricchi sono sempre più ricchi, ma anche con l’alta percentuale di stranieri in Italia.

Vero è, però, che c’è una componente di italiani a medio reddito che preferisce fare una vacanza con servizi elevati, riducendo però il numero di giorni: 11,3 durano in media le vacanze degli italiani, sempre secondo Coldiretti. Sempre più, poi, si prenota online per evitare i costi di agenzia – il volume di affari generato dall’online, 14,2 miliardi, è aumentato dell’8% rispetto all’anno scorso – ma sempre di meno, ed è un’inversione di tendenza, si compra last minute: secondo l’Osservatorio Astoi Confindustria Viaggi, l’aumento dei viaggi prenotati in anticipo è del 18%. Per risparmiare e magari potere consentirsi un upgrade.

Ma il vero boom, come certifica il Censis, è quello delle case in affitto e degli agriturismi: +45,2% dal 2008 al 2017, +14% rispetto al 2018, con 8 milioni di presenze (analisi Coldiretti/Ixé). Si affittano case, magari in campagna, per spendere meno, ma poi si investe nei servizi offerti, dall’equitazione al tiro con l’arco, dal trekking alle attività culturali, dai corsi di cucina ai servizi benessere per finire con i pic nic con prodotti di lusso (chic–nic). Si va via quasi sempre con acquisti di qualità (lo hanno fatto 7 su 10, 71% nel 2018), perché il lusso è anche comprare prodotti biologici locali, prelibatezze da re, anche solo per una sera. Come può farti sentire mangiare in un ristorante che non ti puoi permettere – anche all’estero e anche in viaggio – con lo sconto al 50% utilizzando applicazioni per ristoranti come The Fork, (ma attenzione, i giudizi sono variabili).

 

Strategie: barattare casa e ferie in bassa stagione

Un classico modo per una vacanza senza spendere è ancora lo scambio casa, un’opzione in crescita nonostante i numeri siano ancora relativamente bassi in Italia, come ha mostrato la ricerca “Turisti per scambio” a cura di Francesca Forno e Roberta Garibaldi dell’Università di Bergamo. Agenzie specializzate offrono anche lo swap deluxe, ma se non avete una dimora storica da “barattare” con un castello potrete comunque sperare che il vostro bilocale in una città d’arte venga scambiato con una villa in campagna o una casa con piscina a Miami. Ancora più facile se si cercano quei proprietari benestanti che cedono la loro casa in cambio di piante innaffiate o cibo a cane e gatto. Un’altra chance meno nota, per chi non ha la classica seconda casa da affittare, è ammortizzare anche i pochi giorni di vacanza in cui si è fuori, affittando la propria. Una delle start up che si è specializzata su questo è Leavy.co, fondata del 2018 e definita in Francia come “il tour operator dei Millenials”. Promette addirittura “una casa più pulita di come l’hai lasciata”, garantisce entrate mensili medie di 800 euro e ha numeri in crescita (60.000 iscritti).

Ma la più semplice opzione per aumentare le proprie chance di viaggiare con ogni comfort a prezzo basso è soprattutto una: partire fuori stagione. D’altronde il futuro del turismo è qui, tanto che in occasione del “Forum del lusso possibile” a maggio sono stati forniti alcuni dati sull’incidenza del turismo fuori stagione sul Pil, che potrebbe passare dal 5 al 6,7%. Insomma, una spiaggia sarda a ottobre va bene per tutte le tasche. Ma meglio sbrigarsi: viaggiare in autunno tra qualche anno non sarà una scelta ma una necessità, visto che con il cambiamento climatico si prevede una diminuzione dei turisti durante i periodi di massimo calore e i prezzi potrebbero tornare a crescere fuori dal periodo estivo. Come accedere in quel caso al lusso low cost? Armandosi di coraggio e prenotando nelle città d’arte in pieno agosto. Al massimo, si passerà il soggiorno nella Jacuzzi in camera. Il servizio più richiesto, non a caso, proprio dai daybreaker.

Roma, il blitz di Zingaretti è una resa ai palazzinari

Ma perché Nicola Zingaretti non schiera il Pd come un sol uomo contro la secessione dei ricchi, l’autonomia differenziata con cui Salvini vuole spezzare l’Italia e mettere le mani su educazione e territorio? Certo, la riforma pre-secessionista del titolo V della Costituzione l’ha fatta il Centrosinistra nel 2001; gli scellerati patti separati con le tre regioni secessioniste li ha firmati Gentiloni.

E una di questa è l’Emilia Romagna dem. Ma c’è qualcosa di più: un movente difficilmente confessabile. Cherchez la femme, diceva Dumas; seguite i soldi, dicono gli investigatori. Tenete d’occhio il cemento, si deve rispondere a chi chiede di capire i misteri della politica italiana.

Già perché Zingaretti non è solo il ‘nuovo’ segretario del Pd: è anche, da sei lunghi anni, il presidente della Regione Lazio. E non c’è nulla capace di spiegare un uomo, quanto il modo in cui quell’uomo esercita il potere.

Fin dalla conferma, e anzi dal sostanziale peggioramento, del già orrendo Piano Casa della Polverini, è stato evidente che Zingaretti stava dalla parte del cemento (e le conseguenti demolizioni dei villini romani del primo Novecento lo dimostrano).

Ma è solo negli ultimi giorni che si è capito fino a che punto. È stato la meritoria associazione Carte in Regola a svelare all’opinione pubblica che la giunta di Zingaretti sta varando (insieme all’opposizione: un partito unico del cemento cui ha votato contro solo il Movimento 5 stelle) un Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (Pptr) svincolato da ogni controllo del Ministero per i Beni Culturali.

È dal 1999 che la Regione Lazio si è impegnata a collaborare con i Beni Culturali per arrivare a questo Piano: ma ogni volta che si è provato a varare un piano condiviso, alla fine tutto si è incagliato su Roma. Sulla capitale è più forte la pressione della speculazione edilizia, e proprio per questo il Ministero chiedeva di stabilire insieme una rete di vincoli: ma nessuna giunta è stata abbastanza indipendente dai signori del cemento. E oggi Zingaretti getta definitivamente la spugna: grazie a un emendamento di tre consiglieri di maggioranza (con l’esplicito consenso dall’assessore all’urbanistica) nella versione del Pptr che sarà verosimilmente approvata la prossima settimana, si legge che le norme di tutela contenute nel Piano non si applicano al centro di Roma. Una clamorosa resa ai palazzinari: di cui si veniva a conoscenza nelle stesse ore in cui il soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, era rinviato a giudizio per traffico di influenze nello scandalo dello Stadio della Roma.

Ma come è possibile, si chiederà il lettore, che una simile porcata venga fatta passare da quel Ministero per i Beni Culturali che da anni cerca invano di sedersi a un tavolo con la Regione Lazio per fare insieme il Piano? Molto semplice: Zingaretti si è fatto in casa la sua autonomia differenziata all’amatriciana. E cioè sta approvando il Pptr senza dir nulla al Ministero. Ha dunque riesumato il Piano pronto nel 2007, buttando a mare tutte le osservazioni fatte in questi dodici anni dalle Soprintendenze laziali: che riguardano ben 445 casi di scempi territoriali.

La cosa ha del clamoroso, anche perché nel 2013 il presidente del Lazio firmò un protocollo di intesa con l’allora ministro per i Beni Culturali Massimo Bray in cui si impegnava a collaborare per adeguare il Piano al Codice dei Beni culturali: quel presidente era già Nicola Zingaretti.

Per fortuna il direttore generale delle Belle Arti, Archeologia e Paesaggio Gino Famiglietti (che, per disgrazia del Paese e gioia dei palazzinari, va in pensione dopodomani) si è accorto della mina innescata, e ha scritto una lettera ufficiale al ministro Bonisoli per informarlo che se l’8 agosto il Consiglio regionale approverà il Pptr, violerà il principio di leale collaborazione tra istituzioni, e soprattutto violerà la legge. Dal 2008, infatti, il Codice dei Beni Culturali (articolo 135, comma 1) proibisce alle Regioni di pianificare da sole (cioè senza il Mibac) proprio riguardo ai vincoli sul paesaggio. Se davvero Zingaretti arrivasse a tanto, il Piano del Lazio sarebbe illegittimo, e Bonisoli avrebbe il dovere di impugnarlo in ogni sede.

Questo episodio dimostra ancora una volta che l’antico assedio giuridico e politico alla “Repubblica” menzionata all’articolo 9 della Costituzione (che si è voluta intendere come riferita anche alle autonomie locali) non si è condotto in nome del diritto dei cittadini ad una maggior partecipazione nella difesa di questi loro beni comuni, ma, al contrario, in nome del consumo di quei beni: insomma, si è colpita la parola “Repubblica” per affondare la parola “tutela” dello stesso articolo. Ed è ancora questa la vera cifra dell’autonomia differenziata di Lega e Pd. Se Bonaccini schiera l’Emilia Romagna accanto al Veneto e alla Lombardia leghisti, la chiave è nella mostruosa legge urbanistica regionale che ha fatto approvare: una sorta di bomba libera tutti per il cemento. Se Zingaretti non fiata contro la stessa autonomia differenziata, è perché la sta già di fatto attuando nel Lazio. Il segretario del Pd ha ancora una via d’uscita: quattro consiglieri della sua maggioranza (Capriccioli, Leonori, Bonafoni e Ciani) hanno presentato insieme ai Cinque Stelle un emendamento che accoglie un testo proposto da Carte in Regola per vincolare il centro storico e i tessuti urbanistici di pregio di Roma. Se Zingaretti non lo accogliesse, e se dunque Roma venisse lasciata senza vincoli, saremmo di fronte ad un caso clamoroso: in cui i piani per il territorio diventano i piani dei palazzinari.

“Rischio salute per l’Iqos? E non aiuta a smettere”

I condizionali sono d’obbligo perché si tratta di novità recentissime, mentre la scienza lavora sui decenni. Ma si fa largo nella ricerca indipendente il fronte del “no”. L’oggetto è il dispositivo “a tabacco riscaldato”, in particolare l’Iqos della Philip Morris, dilagato in Italia (dopo il Giappone) con lauti investimenti, buoni esiti di vendita (in cinque anni hanno superato i sigari) e assunzioni ancora in corso (e un recente via libera alla commercializzazione negli Stati Uniti – ma con le stesse restrizioni delle sigarette), allo scopo dichiarato di “convertire verso i prodotti di nuova generazione tutti i fumatori adulti, che altrimenti continuerebbero a fumare sigarette tradizionali”.

Un cambio di rotta netto, almeno nella comunicazione, per le multinazionali americane, che a lungo avevano minimizzato l’enorme danno della sigaretta. Virata avviata col passaggio del nuovo millennio, al seguito di un paio di notizie per loro pessime. La prima, la presa di coscienza globale della strage (circa 7 milioni di morti l’anno a causa del fumo, oltre 70mila solo in Italia, più di tutte le odierne guerre), con anche l’esito di dure restrizioni normative (quali la legge Sirchia del 2003). La seconda, l’irruzione di un’invenzione cinese (copyright al farmacista Han Li), le “sigarette elettroniche”, e-cig. Costano meno e funzionano come un “aerosol”; il fumo esce lo stesso, appagando l’utente, ma arrivando da un liquido che non contiene più tabacco, e volendo neppure nicotina. L’effetto congiunto della doppia novità è stato un netto calo dell’incidenza dei fumatori nel mondo (erano più di un quarto della popolazione nel 2000, ora sono meno di un quinto) e anche in Italia, seppur con una recente recrudescenza purtroppo segnalata tra le donne. Meno sigarette, e già un anno fa Il Sole 24 ore titolava: “l’industria del tabacco non è più big”.

Non è mancata la reazione di Big Tobacco, su più fronti: quello normativo, con le e-cig costrette qua e là a rigidi paletti, e in qualche caso all’esclusione di fatto (è in corso tra l’altro una feroce battaglia in India, tra i mercati migliori al mondo coi suoi 120 milioni di fumatori); quello societario, con acquisizioni di aziende produttrici delle meno nocive elettroniche (“per arginarle”, dicono i maligni); soprattutto, escogitando una “terza via”, a contrastare la nuova concorrenza con lo slogan del medesimo obiettivo “salutista” (“Un futuro senza fumo”, lo spot aziendale). I nuovi Iqos sono un “ibrido”, che imita l’attivazione elettronica delle e-cig e vanta, rispetto alla sigaretta, il passaggio dalla “combustione” al “riscaldamento”, conservando il tabacco e altre sostanze in un apposito “stick”.

Un “sollievo”, almeno parziale, per la salute? Sì, secondo l’azienda, che ci sottolinea come la stessa autorizzazione della Fda statunitense non rilevi da una “mera valutazione amministrativa, ma da un rigoroso processo di verifica basato su evidenze scientifiche”, che avrebbero accertato la presenza di “meno sostanze chimiche tossiche rispetto al fumo di sigaretta”. Molti, però, contestano. “Non sono disponibili studi in grado di dimostrare che l’uso di sigarette a riscaldamento del tabacco riduca il rischio di cancro rispetto alle classiche”, tuona l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, aggiungendo che “non aiutano a smettere di fumare, danno assuefazione”. Concorda tra gli altri Roberto Boffi, pneumologo responsabile del Centro antifumo dell’Istituto Tumori di Milano: “Contengono tabacco trattato e non più liquidi come le e-cig classiche, una differenza che porta lo svapatore, che decida di provarle, a ricominciare ad assumere nuovamente tabacco”. Una revisione scientifica francese rivela infatti che “i dispositivi a tabacco riscaldato sono più una porta d’ingresso (20%) al tabagismo, che d’uscita (11%)”, aggravando il problema sanitario globale anziché lenirlo. Sul danno, una ricerca accademica australiana ha accertato che “la tossicità cellulare indotta dall’esposizione di concentrazioni crescenti di fumo di sigaretta è pari a quella indotta dall’esposizione all’Iqos alle stesse concentrazioni”, mentre qualche differenza viene riconosciuta per le e-cig. Insomma, “potrebbero far male quanto le sigarette tradizionali”, avverte anche la Fondazione Veronesi.

Scricchiola la strategia di Philip Morris, che punta tutto sul concetto della “riduzione del danno”, premendo sulle autorità sanitarie per poter vendere e pubblicizzare il prodotto in tali termini. A tal fine, prova a blindare la credibilità dei propri messaggi, a cominciare dal non negare del tutto la nocività del prodotto: il sito aziendale lo sconsiglia ad alcune categorie, dai non fumatori alle donne incinta, e riferisce tra l’altro di “effetti collaterali”, quali “mal di testa, nausea o irritazione alla gola”. Può suscitare ilarità, ma è comunque un passo rispetto a comunicazioni aziendali che in passato decantavano addirittura effetti benefici delle proprie sigarette contro la tosse.

Esplosa la drammatica evidenza sulle “bionde”, e il relativo sdegno (con scarso esito per i pazienti italiani, che non hanno ottenuto un euro di risarcimento dai produttori, a differenza ad esempio degli statunitensi), la pressione sugli ambienti scientifici non è peraltro mai venuta meno. “Dietro a molti degli studi eseguiti finora sul nuovo prodotto vi sono legami o finanziamenti di Big Tobacco”, nota ancora, tra gli altri, l’Airc. In Italia, solo l’anno scorso, Philip Morris ha partecipato, come sponsor, partner e talora perfino con propri stand, ad almeno 25 congressi medici. Sforzi enormi, ma il “fa meno male” sembra non fare breccia. Anzi, il mondo scientifico stavolta si ribella: un’ottantina di studiosi, società scientifiche e istituti (incluso l’Ircss) hanno firmato un “manifesto” per “l’indipendenza della scienza medica” dai produttori di tabacco. Sollevando inoltre dubbi sulla legalità di tali legami e sponsorizzazioni. Oltre che sulla deontologia.

Alfano, l’ex delfino di B. è il console di “Sua Sanità”

Angelino Alfano non è noto per avere il quid del manager in generale, né di quello sanitario in particolare. Eppure è appena stato chiamato a diventare presidente della holding Rotelli. Per il Gruppo Ospedaliero San Donato è un ritorno al futuro, o meglio: è l’eterno ritorno del connubio tra sanità e politica di cui si è sempre nutrito quello che oggi è diventato il primo gruppo italiano della sanità privata. Diciannove tra ospedali e cliniche, più di 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti tra medici, infermieri e amministrativi, 1,65 miliardi di ricavi nel 2018, in buona parte provenienti dai rimborsi pubblici regionali per la sanità accreditata. Angelino, animo democristiano, ex segretario di Silvio Berlusconi, pluriministro (Interno, Giustizia, Esteri), è uomo di relazioni e di politica. È molto legato a Dore Misuraca, ex parlamentare palermitano dell’Ncd e oggi nel Pd siciliano di Davide Faraone. La moglie di Misuraca, Barbara Cittadini, è a capo della Aiop, la potente associazione che raggruppa le cliniche private. Ecco dunque Alfano presidente del gruppo Rotelli. Il manager operativo continuerà a farlo Kamel Ghribi, tunisino, global advisor della famiglia Rotelli.

Il fondatore del gruppo, Giuseppe Rotelli, è scomparso nel 2013, lasciando la guida al figlio Paolo. Padre-padrone per trent’anni, Giuseppe, uno degli uomini più liquidi d’Italia, è stato imprenditore dalle idee chiare e dalle amicizie influenti: il socialista Carlo Tognoli, sindaco di Milano e poi ministro; il democristiano Roberto Formigoni, eterno presidente della Regione Lombardia ora agli arresti domiciliari; Silvio Berlusconi, imprenditore e leader del centrodestra; Giovanni Bazoli, banchiere con il cuore di centrosinistra.

Nasce ricco, Giuseppe Rotelli, a Pavia, in una famiglia che aveva fatto fortuna con i commerci e poi con la vendita degli Zuccherifici Meridionali all’Eridania. Si trova in casa due cliniche, la Città di Pavia e la San Donato, fondate dal padre Luigi, medico. Negli anni Settanta, quando il conflitto d’interessi non era di moda (come oggi), dopo la laurea in Legge fa il doppio lavoro: di giorno fa il giurista, l’esperto di programmazione sanitaria per la Regione, il consulente di un paio di ministri della Sanità, l’estensore del piano ospedaliero regionale lombardo, l’autore di molte leggi in materia di sanità; la sera torna a casa, a dare un’occhiata distratta ai conti delle sue cliniche. È un centauro, Rotelli: metà giurista della sanità e metà imprenditore della sanità. Dal 1980, unificate le sue due nature, fa l’imprenditore a tempo pieno, assume la guida del Policlinico San Donato, lo fa diventare Irccs (cioè Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico), comincia a fare shopping di altre cliniche e fonda il Gruppo San Donato. Da Antonino Ligresti rileva l’ospedale Galeazzi di Milano e poi le cliniche La Madonnina e la Città di Milano, per le quali sborsa 500 miliardi di lire. Dopo la morte di don Luigi Verzè e la crisi (giudiziaria e finanziaria) dell’Ospedale San Raffaele, se lo compra: lo soffia allo Ior del Vaticano e all’imprenditore genovese Vittorio Malacalza mettendo sul piatto 405 milioni di euro. Paga sempre cash, non ha bisogno dei finanziamenti delle banche.

Ormai è chiamato “Sua Sanità”, ha fatto dimenticare gli scandali e le inchieste che nei decenni precedenti avevano coinvolto le sue cliniche, come peraltro gran parte delle strutture sanitarie lombarde. Il suo gruppo è diventato una macchina per far soldi: soldi pubblici che entrano nelle sue casse private grazie agli accreditamenti regionali, che aumentano con il passare degli anni. Nel decennio 2000-2010 ha incassato dalla Regione Lombardia almeno 6 miliardi di euro. Nel 2010, i ricavi del Gruppo San Donato superano gli 800 milioni, con un margine operativo lordo stratosferico: 130 milioni. Sono i frutti più dolci della riforma sanitaria dell’amico Formigoni, che equipara le cliniche private (accreditate) agli ospedali pubblici. Il paziente se vuole può diventare cliente, sceglie dove vuole essere curato: anche nelle strutture private, tanto alla fine paga sempre la Regione (cioè i cittadini). Indovinate chi c’è nella squadretta di esperti che nel 1995 confezionano la riforma formigoniana: Giuseppe Rotelli il giurista. Giuseppe Rotelli l’imprenditore si allarma invece quando Formigoni declina e cade. Allora, conscio di quanto può essere utile avere buona stampa, si scopre editore, con una vera passione per il Corriere della sera. Compra azioni Rcs. Aveva già cominciato nel 2006, ma poi aveva continuato pagandole anche il quadruplo del valore di Borsa: un vero amatore. Nel 2012 il blitz finale: rileva il pacchetto del 5,2 per cento dei fratelli Toti, i costruttori, pagandolo ben 53 milioni di euro. Caro, ma gli serve per diventare il primo azionista del Corriere, con il 16,55 per cento. Nel giornale di via Solferino in totale butta, tramite Pandette Finanziaria, quasi 300 milioni, senza però mai riuscire a contare davvero, perché il patto di sindacato lo tiene fuori dalla stanza dei bottoni. “Le banche non mi servono, il mio gruppo si finanzia da sé”, dichiara. “Sono tutti soldi miei, non ho tolto un euro ai miei ospedali”. Respinto dai soci, molla la dispendiosa avventura e torna a concentrarsi sulla sanità. Subito dopo, nel 2013, muore, lasciando l’impero al figlio Paolo. Oggi arriva Alfano, con il compito di traghettare il gruppo in Borsa e aiutare l’espansione all’estero, verso il Medio Oriente. Il Gruppo San Donato, da sempre sensibile alla politica interna, ora punta anche sulla politica estera.

Rissa con coltello tra camerieri alle nozze dove era anche la Trenta

Rissa tra camerieri con accoltellamento sabato sera a un ricevimento di nozze a Rocca di Papa, alle porte di Roma. Tra gli ospiti del matrimonio c’era anche il ministro della Difesa Elisabetta Trenta con il marito. Dopo la cerimonia, gli invitati si erano riuniti per il pranzo ed è stato allora che è accaduta la lite e l’accoltellamento. I carabinieri della stazione del paese sui Colli Romani intervenuti hanno arrestato un italiano di 46 anni che con un coltello ha ferito all’addome un collega georgiano di 22 anni. Alla base della lite ci sarebbero motivi lavorativi. Il ferito è stato trasportato in ospedale e giudicato guaribile in 30 giorni.

Sorbillo, la bomba non voleva colpire lui

Il tempo è galantuomo, rivela verità nascoste, illumina le zone d’ombra. E quando c’è da sciogliere i nodi di una polemica, fa chiarezza su chi ha ragione e chi ha torto. Ci sono voluti sei mesi per scoprire che la bomba carta esplosa a gennaio a Napoli davanti alla saracinesca della pizzeria di Gino Sorbillo quasi certamente non era destinata a lui. Doveva colpire l’abitazione di una pizzaiola che si trova proprio sopra il locale di Sorbillo e che gestisce un altro esercizio, ‘Pizza e pummarola’, a pochi metri di distanza in via dei Tribunali. Risulta tra le pieghe delle 64 pagine di un decreto di fermo firmato dai pm Celestina Carrano e Urbano Mozzillo contro tre esponenti del clan Mazzarella mandati in carcere con l’accusa di taglieggiare quelli di ‘Pizza e pummarola’.

Ci sono voluti sei mesi per capire che aveva ragione Selvaggia Lucarelli quando sul Fatto Quotidiano sollevò dubbi e perplessità sulla dinamica dell’attentato. E su come Sorbillo, cambiando spesso versione sulle presunte cause dell’intimidazione, compresa la pista ‘calcistica’ della ritorsione per una pizza di solidarietà a Kalidou Koulibaly dopo i cori razzisti di Milano, stesse strumentalizzando l’accaduto per ricamarci un colossale spot autopromozionale. Ne ottenne dal famoso pizzaiolo una poco elegante risposta: “Selvaggia Lucarelli fomenta l’odio”. Sulla quale alcuni giornaloni titolarono, ma pazienza. Sono gli stessi giornaloni che ieri hanno confinato la notizia nelle pagine locali. A gennaio, invece, Sorbillo era in cronaca nazionale un giorno sì e l’altro pure. A denunciare la camorra, certo, sostenendo meritorie campagne di legalità. Ma anche a stringere la mano al ministro dell’Interno Matteo Salvini in un incontro organizzato apposta per lui. Erano i giorni delle ospitate di Sorbillo in tv e degli unanimi e trasversali attestati di solidarietà. Un’onda lunga che non si è esaurita: indovinate dove è andato a pranzo il premier Giuseppe Conte quando il 18 giugno è stato a Napoli per alcuni impegni istituzionali e politici? Da Sorbillo. A farsi fotografare con lui mentre infornava una margherita seguendo i consigli del pizzaiolo superstar.

Direte voi: e Sorbillo che colpa ne ha? Che ne poteva sapere che la bomba carta non era una minaccia contro di lui? A leggere le carte delle indagini, già il giorno dopo Sorbillo sapeva (o poteva quanto meno presumere con ragionevole consapevolezza) che il bersaglio poteva essere un altro. Lo avvertì un collaboratore, in una telefonata intercettata dagli inquirenti. “Non era a te… ci vediamo da vicino, chiamami alle 8 e ci incontriamo”. È lo stesso uomo che in un’altra telefonata a un’amica poliziotta spiega la presunta dinamica, che i pm riportano nel provvedimento: chi lanciò la bomba carta sopra il balcone sbagliò la traiettoria, l’ordigno colpì un pezzo di ferro e torno giù davanti alla pizzeria di Sorbillo. “Ora hanno creato un macello. Questo Gino che sta cavalcando…” dice la poliziotta. E l’uomo tira la sintesi: “Gino ha avuto 500 euro di danni e sta facendo un milione di euro di pubblicità”. In pratica, il Lucarelli pensiero.

Salvini difende la “benda”. L’Arma: “Atto molto grave”

Il generale Giovanni Nistri è furibondo. La foto che i suoi uomini, carabinieri, hanno diffuso è fuori da ogni regola dello Stato di diritto. Si vede Gabriel Natale-Hjorth, uno dei due coinvolti nell’uccisione del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, seduto in caserma con le manette ai polsi e gli occhi bendati. “Sono rimasto così cinque minuti”, racconterà lui a chi si sta occupando dell’indagine interna all’Arma. “Quello che è successo è molto grave – accusa Nistri – Abbiamo avviato un’inchiesta per individuare e sanzionare i responsabili, informandone l’autorità giudiziaria per ogni valutazione sugli eventuali aspetti penali”.

Eppure a 350 chilometri dal Viminale, nel suo quartier generale estivo – il Papeete di Milano Marittima – il ministro dell’Interno non accenna il minimo disappunto per quell’immagine. Anzi, twitta furibondo pure lui, ma con quelli che si indignano per la violazione delle elementari garanzie per chi, qualunque cosa abbia commesso, finisca nelle mani dell’autorità pubblica. “A chi si lamenta della bendatura di un arrestato – scrive Matteo Salvini – ricordo che l’unica vittima per cui piangere è un uomo, un figlio, un marito di 35 anni, un carabiniere, un servitore della Patria”.

Tantissime le reazioni al tweet di Salvini. Su tutte quella del senatore di Leu, Pietro Grasso, già procuratore a Palermo e capo della direzione nazionale antimafia: “Non ci si abbassa mai al livello dei criminali che si combattono”, commenta su Facebook ricordando quando arrestò Bernardo Provenzano o interrogò Giovanni Brusca, “uomini che avevano commesso stragi, fatto uccidere colleghi e amici, progettato il mio omicidio e il rapimento di mio figlio. Potete immaginare il mio stato d’animo – conclude Grasso – ma ho sempre avuto chiaro quale fosse il mio ruolo: quello di rappresentante dello Stato”.

Nel pomeriggio di ieri, la Procura di Roma ha chiarito che quella foto non è stata scattata durante l’interrogatorio ed escluso la possibilità che siano stati usati metodi “coercitivi” per arrivare alla confessione: “Gli indagati – spiega il procuratore generale Giovanni Salvi, a cui oggi dovrebbe essere consegnata l’informativa su chi abbia messo la benda e chi non abbia vigilato su quell’abuso – sono stati presentati all’interrogatorio liberi nella persona, senza bende o manette; all’interrogatorio é stato presente un difensore; l’interrogatorio é stato condotto da due magistrati, è stato registrato e ne è stato redatto verbale integrale”. Lo scatto è comunque finito, come ovvio, in apertura della Cnn e dei principali siti statunitensi sotto il titolo di “immagine scioccante”.

Oggi a Somma Vesuviana si terranno i funerali di Mario Cerciello Rega, trasmessi in diretta su Raiuno, a cui parteciperanno lo stesso Salvini e Luigi Di Maio. Il premier Giuseppe Conte è stato invece ieri alla camera ardente allestita a Roma, insieme alla sindaca Virginia Raggi.

Sul fronte delle indagini restano ancora molti i passaggi da chiarire sulla notte di giovedì.

Ieri sono stati diffusi gli audio delle telefonate tra Sergio Brugiatelli – il mediatore che ha messo in contatto i due giovani con il pusher identificato ieri, un 40enne italiano – e il 112: “Buonasera, mi hanno rubato la borsa, sto a piazza Gioacchino Belli – denuncia Brugiatelli nella prima chiamata – , però questi ragazzi li chiamo e mi chiedono il riscatto dei soldi (…) dentro avevo documenti, codice fiscale, patente, tutto. Se potete venire vi do il numero, se loro mi rispondono…se voi potete rintracciarli. Perché mi sono anche scappati, gli sono corso appresso con la bicicletta, non li ho presi – continua – sono scappati a piedi”. In una seconda telefonata, poi, è il 112 ad avvertire il mediatore: “Io intanto le mando una pattuglia lì, poi parla direttamente con i colleghi”. In zona Prati, dove i due americani avevano dato appuntamento per il “riscatto”, si presentano due militari in borghese. Non c’è nessuna gazzella – a quanto si apprende – nei pressi dell’incontro, pronta a intervenire in caso di necessità. È lì che è nata la colluttazione con i due carabinieri che ha portato alla morte di Cerciello Rega, colpito da 11 coltellate.