Forti nella Ue, deboli a Roma: perchè i Verdi non sfondano?

Grazia Francescato allarga le braccia: “è la domanda che mi hanno fatto più volte”. Eppure nessuno ha ancora capito la risposta, o comunque tutti se la dimenticano ogni volta che ci sono le elezioni, si contano i voti e la mente torna lì: “Ma perché i Verdi in Europa volano e in Italia non si schiodano dal 2 per cento?”. La questione fotografa dati di fatto: gli ambientalisti italiani sono fuori dal Parlamento da 11 anni e non prendono seggi a Bruxelles dal 2009, tre legislature.

Lo scorso 26 maggio la lista si è fermata al 2,3 per cento, mentre in Germania i Verdi finivano sopra il 20 e in Francia vicini al 13. L’anno prima, alle politiche, molto peggio: 0,6 per cento all’interno della coalizione del centrosinistra. Quella domanda, allora. A furia di sentirsela fare, Grazia Francescato – che dei Verdi è stata presidente tra il 1999 e il 2001, poi deputata e portavoce – una risposta se l’è data: “Non si può far finta che in Italia ci sia lo stesso contesto culturale e politico che c’è in Germania. Oltretutto non è vero che solo l’Italia è un’anomalia, perché i Verdi sono molto forti nel centro e Nord Europa ma sono deboli a Sud e a Est, non solo da noi”. Colpa anche di ragioni storiche, come ricorda Alfonso Pecoraro Scanio, che dei Verdi è stato fondatore ma che dal 2013 ha scelto di sostenere il Movimento 5 Stelle: “In Germania non esisteva il Partito Comunista e i Verdi hanno occupato gran parte di quell’area politica. Qua avevamo il Pci, il Psi e tutte le sigle minori. Per struttura e contesto il partito dei Verdi tedeschi andrebbe paragonato al Pci più che ai Verdi italiani, che nascono come una federazione di esperienze sui territori”.

Anche Angelo Bonelli, oggi coordinatore nazionale, la vede così: “L’autocritica ci deve essere, ma non dimentichiamoci che l’Italia è il Paese che ha legalizzato l’illegalità. Se vai da un parlamentare tedesco a spiegargli cos’è un condono edilizio ti prende per pazzo. C’è un enorme deficit di etica pubblica: in Italia il tema della legalità spesso diventa elemento ostativo per crescere nei consensi”.

Eppure proprio negli anni in cui i Verdi uscivano dal Parlamento nasceva un movimento che sulla legalità e sui temi ambientali avrebbe poi costruito un largo consenso. E pensare che prima dei 5 Stelle, Beppe Grillo aveva condiviso molte lotte dei Verdi: “Nel 2003 chiamo Beppe – ricorda Pecoraro Scanio – e gli chiedo se vuol fare una conferenza con me sull’elettrosmog in Parlamento. “Belin Pecoraro, vuoi che mi metto a far politica?’. Così è stato. Ci ha dato una mano con quel referendum”.

E allora sembra legittimo pensare che la creatura di Grillo e Casaleggio si sia preso uno spazio che i Verdi non erano stati in grado di occupare: “Sì, avremmo potuto fare quello che ha fatto il Movimento 5 Stelle – ammette Bonelli – ma con una impostazione diversa, più di governo fin dall’inizio e con una struttura di partito che sapesse creare una classe dirigente. Nei primi anni 2000 questa possibilità c’era, ma forse è mancata la credibilità del gruppo dirigente, troppo attento a farsi rieleggere più che a costruire una visione per il futuro”.

Opinione opposta a quella di Pecoraro Scanio: “I 5 Stelle hanno inglobato buona parte del voto ambientalista, ma il consenso vero lo hanno ottenuto sull’anti-politica, soprattutto all’inizio. E noi da quel punto di vista eravamo compromessi da anni di Parlamento, coalizioni e governo”. “Eravamo visti come la sinistra – è la versione della Francescato –, mentre loro nascevano sulla lotta alla casta”. D’altra parte a incidere nella storia dei Verdi italiani sono anche le alleanze e le contingenze dei sistemi elettorali. Perché è vero che da 11 anni la Federazione è fuori dal Parlamento, ma alle ultime europee – quando si è gridato all’ennesima disfatta – i Verdi hanno preso percentuali in linea rispetto a quando andarono al governo: nel 1996 (2,5 per cento, Edoardo Ronchi all’Ambiente e dal 2000 Pecoraro Scanio all’Agricoltura) e nel 2006 (2 per cento, Pecoraro all’ambiente). Questa volta però l’occasione era d’oro, con l’effetto Greta che ha riempito le piazze del mondo attorno al tema ecologista. A logorare una campagna elettorale che poteva essere in discesa ci si sono messi i guai con Federico Pizzarotti, prima alleato della lista e poi passato con +Europa, e con Pippo Civati, uno dei volti più popolari della coalizione che ha ritirato la candidatura un paio di settimane prima delle elezioni perché in polemica per la presenza di personaggi di destra.

Occasione mancata? Può darsi, per gli stessi dubbi che rimangono adesso sul futuro dei Verdi: meglio mantenere la propria “purezza” nella struttura e nei contenuti o magari cedere a qualche compromesso con la politica di oggi, che significa anche “personalizzarsi”, affidarsi a un nuovo leader mediatico e carismatico in grado di allargare i consensi? Grazia Francescato non ha dubbi: “Quella di un leader giovane che risolve i problemi è una illusione. Per carità. Dobbiamo costuire un partito sui temi. Tra gli italiani all’estero abbiamo preso il 10 per cento, segno che con il lavoro è possibile arrivare a tante persone”. “Il problema dei media però esiste – sostiene Bonelli – perché non è possibile che da anni nessuno ci inviti in televisione. Diventa difficile farsi conoscere, considerando che abbiamo dovuto far campagna elettorale con 30mila euro”. Se cambio al vertice sarà, comunque, è difficile immaginare un ritorno all’antico: “Io tornare nei Verdi? No, – esclude Pecoraro. Questione di quieto vivere: Adesso qualcuno per strada mi ferma e mi chiede ‘Dottò, ma perché non tornate?’. Lo so già: se poi torno è la volta che mi inizieranno a chiedere perché non me ne vado”.

“Migranti, ossessione leghista. E l’Italia è isolata per questo”

La vera politica è la geopolitica e in Italia c’è un solo osservatore informato sui fatti ma altresì distante rispetto alle fazioni in lotta tra di loro: l’ambasciatore Sergio Romano che è anche un raffinato analista, una personalità centrale – con i suoi libri – nel dibattito culturale.

L’Italia, per la sua posizione geografica, dovrebbe essere il vero timone nello scenario Mediterraneo e invece no.

Nel Mediterraneo non c’è un paese guida; la Francia vuole svolgere quel ruolo, la Spagna è ai margini, assorbita dai suoi problemi e l’Italia, invece, è stata protagonista nel passato, ultimamente solo col governo di Berlusconi – quando col “Patto di Bengasi” si porta dentro la Libia di Gheddafi – ma per vedere fallire poi ogni accordo per la dissennata operazione militare, francese, e che fu anche in parte americana.

E oggi?

Matteo Salvini fa della questione dell’immigrazione il problema fondamentale dell’Italia e la Lega non riesce a darla una soluzione perché a quanto pare l’Italia non può avere altra politica che il ravvivare solo, soltanto e sempre quel problema.

Forse perché c’è un problema di sovranità, una cosa è lo sconfinamento di una petroliera nel Golfo Persico, altra cosa è nel Mediterraneo, terra di nessuno.

Quello di fare il sovranismo senza sovranità è un esercizio piuttosto complicato.

Impolitico?

La dissenatezza dovrebbe essere trattata diversamente, l’uso di parole nobili – penso a impolitico – è quasi un nobilitarla….

L’attuale governo gialloverde ha avuto il via libera da quello Usa, quali sono i suoi margini di effettiva sovranità?

Solo in una prospettiva americana; gli Usa hanno in Italia le loro basi militari, se le devono usare non hanno altro che farlo e se uno dei partiti di governo – penso al M5S – coltiva i rapporti con l’Amministrazione Usa, svela il bisogno del grande protettore ma l’America, ripeto, è già padrone in casa.

Eppure il sovranismo, come categoria a-ideologica, domina il dibattito politico.

Se consideriamo le origini della stagione sovranista, sono solo le rivendicazioni contro Bruxelles, contro cui si giocava facile, ad avere raccolto un po’ di consenso; come si è dimostrato attraverso Nigel Farage o con Boris Johnson in Inghilterra, e così con gli altri leader europei del populismo.

A proposito di Londra, il 31 ottobre, con la Brexit compiuta, l’Europa finisce?

L’Europa senza l’Inghilterra continuerà a esserci; il giorno dopo non ci sarà un muro a dividerci; lo stesso Regno Unito non potrà prescindere dal continente, anche se la sua storia è stata sempre una rivendicazione di estraneità rispetto al contesto – ha esercitato da sempre il diritto a restarsene fuori – e tutto ciò incontrava immancabilmente delle simpatie e dei consensi; gli si concedeva sempre troppo in ragione di un’anglofilia snob praticata un po’ da tutti.

Tutti in soggezione?

Una forma di rispetto; Londra beneficia di considerazione in ricordo dei fasti dell’Impero Britannico.

Sull’Ue incombe il no deal e Johnson non sembra cercare mediazioni.

Se gli inglesi se ne vanno senza accordi, Bruxelles non torna certo indietro; i cocci li raccoglieranno poi le diplomazie ma Michel Barnier, il capo negoziatore della Ue su Brexit è stato chiaro, ha allertato i 27 membri, per prepararli a tutti gli scenari; si aprirà un contenzioso….

Se Londra non paga i debiti, i 27 non possono certo dichiararle guerra…

I debiti si possono anche non pagare ma una decisione come questa può essere costosa in altri campi, a cominciare dal commercio fino ai trattati futuri; questi Johnson – che è come dire questi Trump – hanno un tasso altissimo d’imprevedibilità: nel frattempo che proclamano i propri successi personali si tengono pronti per chiudere un accordo nell’ultimo minuto utile e finire con l’accettare un compromesso.

L’isolamento è, dunque, il prezzo, ma l’Italia interloquisce con Cina, Russia e Usa.

Agli occhi della Cina in Italia non c’è nessuno con cui parlare, il ministro Enzo Moavero è intelligente e simpatico ma non può prendere impegni in nome del governo….

La parola Italia, agli occhi della Cina, è molto più importante della parola Ue.

Questo è vero, nella prospettiva della Via della Seta, i cinesi hanno un enorme bisogno di marcare il percorso, ma se con l’Italia dell’economia è facile – come già accade a Trieste, col porto – con l’Italia della politica è difficile.

La Russia, poi.

Avere rinunciato ai vantaggi ottenuti con gli accordi di Pratica di Mare – Berlusconi che mette sullo stesso tavolo Washington e Mosca – è il nostro grande errore, abbiamo perso il nostro mercato.

Le sanzioni che Vladimir Putin s’aspetta siano cancellate dai sovranisti al governo.

Gli americani hanno questo diritto di imporcele le sanzioni perché noi glielo abbiamo dato; questo è il dato. Con Enrico Mattei, e con Giulio Andreotti, poi, abbiamo avuto sempre porte aperte in Urss; avevamo anche un buon numero di comunisti in patria, utili come sensali; molti di loro, partiti come studenti, trovavano moglie in Russia e le loro signore poi, diventavano interpreti delle aziende italiane… .

I russofili di ieri sono i russofobi di oggi. È venuto meno lo charme ideologico del comunismo, puro miele per la borghesia occidentale?

Non è facile essere amici di Putin; giocare la partita da putinista, per una persona che lavora sulle idee, è partita già persa, tant’è che di difendere Putin capita solo ai leghisti che non perseguono il plauso in società.

Oppure pasticciando al Metropol.

Appunto …erano russofili per snobismo sociale, quelli di ieri; la situazione, oggi, è diversa.

Tanto diversa che se tornassero oggi, a Mosca, Don Camillo e Peppone, il primo si sentirebbe a casa propria mentre il secondo si dichiarerebbe liberal di obbedienza clintoniana.

Tutto ciò merita una meditazione, ma – si rende conto? – Vladimir Putin è uno che nel giorno dell’Epifania ortodossa si tuffa nell’acqua gelata.

Tav, l’ultima mossa M5S. La Lega: “Dimettetevi”

La scena surreale si dovrebbe svolgere il 7 agosto, ultima seduta prima della pausa estiva, anche se la data non è ancora certa. Quel giorno il Senato potrebbe votare la mozione presentata dai 5Stelle per bloccare il Tav, la mossa disperata per evitare l’implosione interna e lasciare traccia della propria contrarietà all’opera, a cui il governo, di cui fanno parte, ha appena dato il via libera. La Lega, però, non ha voglia di concedere sconti all’alleato in difficoltà, anche perché la questione si intreccia con altre partite, come la bicamerale d’inchiesta sui fondi ai partiti.

Il testo, a prima firma del capogruppo Stefano Patuanelli, è stato depositato venerdì. Impegna l’esecutivo “a cessare le attività relative al progetto” e “riassegnare le risorse al bilancio dello stato per essere poi destinate ad opere pubbliche più utili e urgenti”. I senatori M5S bollano il progetto come “obsoleto, legato a modelli di sviluppo superati e non sostenibili”, affetto da “criticità rilevanti” e basato su previsioni “smentite dai fatti”. Ricordano poi che il contratto di governo prevedeva di “ridiscutere integramente l’opera”, ma questo non sarebbe stato possibile perché “la Francia ha sempre manifestato la propria indisponibilità, ribadendo con la legge per la mobilità di giugno scorso di volerlo fare”. La contrarietà della Lega non viene mai menzionata.

È la mossa pensata per uscire da una situazione esplosiva, chiedere di calendarizzare subito il testo e mostrare che in Parlamento esiste una maggioranza favorevole allo spreco ma senza far saltare il governo. Anche a costo di assistere a una scena imbarazzante. L’esito è scontato: voteranno Sì Lega, Pd, Fi, Fdi (salvo che le opposizioni non decidano di complicare la vita alla maggioranza presentando testi alternativi). Per evitare la figuraccia, pare, l’esecutivo non darà il proprio parere sulla mozione, come di norma avviene, rimettendosì all’aula. E così la forma sarà salva; la sostanza, seppur celata, pure: i 5Stelle non faranno cadere l’esecutivo sul Tav.

Questa strategia, per così dire, di lotta e di governo, sta creando non pochi malumori alla Lega, che ieri da deciso di sbertucciare l’alleato. “Se per i 5Stelle la Tav è un delitto, uno spreco, un crimine, un regalo a Macron e al partito del cemento, che ci stanno a fare in un governo che la realizzerà? Possono dimettersi, nessuno li obbliga”, hanno ironizzato i capigruppo della Lega alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo rispondendo a un post sul Blog delle Stelle che metteva in dubbio l’aumento dei fondi europei, indicato dal premier Giuseppe Conte come uno dei motivi che l’hanno spinto a dare il via libera. “L’Ue ha messo più soldi per la Torino-Lione? Ha solo fatto sapere che si impegnerà a farlo – si legge – Non è che questi soldi, in realtà, all’Italia non servono ma sono solo un altro favore alla Francia di Macron?”. L’uscita dei leghisti fa infuriare i 5Stelle. “Dalla Lega fanno i bulli sulla Tav coprendosi dietro ai numeri di Pd e Berlusconi”, si legge in una nota che parla di “patto del cemento” firmato “da tutti i partiti italiani, per regalare due miliardi degli italiani alla Francia”.

Dal Movimento spiegano il nervosismo della Lega con una dettaglio curioso: dopo le polemiche sul rubligate, il Carroccio avrebbe dato l’assenso alla nascita della commissione d’inchiesta sui finanziamenti ai partiti, a condizione, però, che a ritroso le indagini partano al massimo dall’ultima legislatura, quella 2013-2018. In questo modo verrebbe esclusa quella 2008-2013 dove si verificarono le irregolarità della gestione di Bossi e Belisto che hanno portato al sequestro dei famosi 49 milioni ricevuti sulla base di rendiconti falsi. Magari è un caso, ma nei giorni scorsi il leghista Romeo aveva spiegato che la bicamerale “sarebbe stata l’occasione per parlare non solo dei 49 milioni, che in realtà sono 800mila…”, cioè l’ultima tranche dei soldi pagati dal Parlamento nel 2013, sulla base dei rendiconti falsati tra il 2008 e il 2010.
Le tensioni fra alleati mettono a rischio anche il voto al senato sul decreto Sicurezza bis, anche se il Carroccio punta a sostituire i dissidenti 5Stelle col soccorso di Forza Italia e Fdi.

Ma mi faccia il piacere

La prova del bau. “Un uomo adesso proprio non lo voglio, mi basta un barboncino” (Elisa Isoardi, conduttrice de La prova del cuoco su Rai1, Vero, 8.7). Un altro?

La collegiale. “I renziani hanno paura di non essere rieletti in caso di elezioni anticipate? Figuriamoci: ma se diciamo che bisogna andare al voto! Noi siamo quelli che hanno vinto nei collegi uninominali” (Maria Elena Boschi, senatrice Pd, Repubblica, 24.7). A parte il fatto che il 4 marzo 2018 il centrosinistra ha vinto in 28 collegi uninominali alla Camera su 232, la Boschi fu eletta a Bolzano grazie ai voti della Svp (che prese il doppio dei voti dei dem), ed era talmente appassionata dei collegi uninominali da farsi blindare come capolista in ben 5 circoscrizioni proporzionali (Lombardia, Lazio e 3 in Sicilia). Ovunque tranne che ad Arezzo. Perchè lì la conoscono.

Renzostowne. “Tre giorni belli pieni in Montana, al Parco di Yellowstone, a discutere di futuro. Non ho trovato Yoghi e Bubu, eroi della mia infanzia, ma tante idee per il futuro. Buona Domenica. #Ritorno” (Matteo Renzi, senatore Pd, Instagram, 21.7). Quello, se non minaccia nessuno, non è contento.

La garanzia. “La Russia non ha dato nessun finanziamento alla Lega, ne sono sicuro. Mi è stato assicurato direttamente da Vladimir Putin” (Silvio Berlusconi, presidente ed eurodeputato FI, 16.8). Dev’essere quello che lui ha fatto entrare nella Nato.

Formanconi. “Se è vero, come è vero, che nelle prigioni italiane sono numerosi i detenuti anche ultra-ottantenni, il populismo vorrebbe che a Formigoni venisse imposta la medesima condizione carceraria. Qualsiasi progressista dovrebbe invece auspicare che a tutti i detenuti di età avanzata venga applicato il ‘trattamento Formigoni’” (Luigi Manconi, Repubblica, 25.7). Giusto: come dice la Costituzione, l’impunità è uguale per tutti. Peccato che Riina e Provenzano siano prematuramente scomparsi, sennò si sarebbero subito abbonati a Repubblica.

Pretenziosi. “Salario minimo tagliando il cuneo, ma costa 6 miliardi” (Repubblica, 24.7). “Il salario minimo? Così apriamo al far west” (Maurizio Casasco, presidente Confapi, Corriere della sera, 23.7). Certo che questi lavoratori sono dei bei tipi: non si accontentano proprio di faticare gratis.

L’estremo oltraggio. “Vita di Borrelli, l’inventore della giustizia politica” (Libero, 21.7). “Il regista di Mani Pulite che portò le toghe al potere” (il Giornale, 21.7). “Così il direttore d’orchestra trasformò Mani pulite in un processo di piazza” (Mattia Feltri, La Stampa, 21.7). “I Craxi fuori dal coro: fece un golpe” (il Giornale, 21.7). “Inchiesta turpe. Le Mani Pulite poi sporcate di rosso sangue” (Fabrizio Cicchitto, ex Psi, ex FI, ex Ncd, Libero, 24.7). Altre stronzate?

Oste, il vino è buono? “Greganti: difendo i giudici ma il populismo è cominciato allora: ‘Il vero errore di quell’inchiesta che mi ha cambiato la vita fu screditare le istituzioni’” (Repubblica, 21.7). “Tangentopoli ha distrutto i partiti e aperto la strada ai populisti. Io ora voto Pd. Su Borrelli giudizio negativo, a sua insaputa ha coperto un progetto politico autoritario” (Paolo Cirino Pomicino, Repubblica, 21.7). Ok, ma perchè rubavate?

L’insaputo. “Viaggi in auto blu, Scajola nei guai. L’ex ministro, sindaco di Imperia, e il suo autista accusati di peculato d’uso per le trasferte a Genova con scopi non istituzionali. Lui si difende: ‘Tutto in regola’” (La Verità, 24.7). Ma vi pare che uno Scajola si accorga di quei viaggi in auto? Lo sanno tutti che l’autista, prima di caricarlo nel bagagliaio dell’auto blu, lo anestetizza.

Lambiti. “Stretta di Bonafede sugli affidi, si scatena la propaganda anti Pd… Anche lui, come Salvini e Di Maio, attacca i dem, solo lambiti dalle indagini” (Repubblica, 22.7). “Le fake news su Bibbiano… Il sindaco Pd è accusato ‘solo’ di abuso d’ufficio, per aver concesso gli immobili ai presunti bruti… Un altro passetto verso la distruzione della democrazia rappresentativa sotto una montagna di bugie. Proprio come voleva Casaleggio senior” (Luca Bottura, Repubblica, 22.7). In attesa di sapere quando mai Casaleggio abbia auspicato la distruzione della democrazia rappresentativa sotto una montagna di bugie, segnaliamo che il sindaco Pd di Bibbiano è gli arresti non solo per aver concesso immobili (fake news) e che sono indagati anche gli allora sindaci Pd di Montecchio e Cavriago. Pardon, “solo lambiti”.

Il titolo della settimana/1. “Poche tette al vento per Carola” (Pietro Senaldi, Libero, 28.7). Sono soddisfazioni.

Il titolo della settimana/2. “Io, primo laureato in green economy, sposo l’Alta velocità” (Angelo Pettrone, La Stampa, 24.7). Per dire com’è ridotta l’Università.

Bernal re giovane del Tour nel giorno del “vecchio” Nibali vincitore dimezzato

E pedalarono (quasi) tutti felici e contenti: Egan Bernal conquista il primo Tour vinto da un colombiano. Vincenzo Nibali vince la tappa, l’ultima con arrivo in salita. Geraint Thomas, compagno di squadra di Bernal, è secondo in classifica generale. Sorride a denti stretti, consolandosi con il ricordo dello scorso anno, quando fu lui a vincere il Tour. Chi incassa l’ennesimo trionfo è piuttosto la Sky, pardòn, la Ineos che ha ereditato dalla Sky team strutture e tecnici. Cambia il colore della maglia, non il risultato. Monopolizza il Tour da un decennio, salvo la parentesi Nibali del 2014.

È soddisfatto il coriaceo olandese Steven Kruijswijk, salito in extremis sul gradino più basso del podio, perché alla fine il simpatico Julien Alaphilippe ha arrancato nell’ultima salita. È quinto assoluto, dopo due settimane di gloria, speranze e illusioni in maglia gialla, persa venerdì 26 luglio, il giorno della tempesta di ghiaccio. In fondo, anche lui ha vinto il Tour: per atteggiamento, per simpatia, per generosità. A tappa iniziata, ieri Ju-Ju ha rimontato il plotone. Cercava il giovane Bernal. Lo ha affiancato, gli ha stretto la mano, si è complimentato. Giorni fa, tagliato il traguardo, ha regalato la maglia gialla che indossava per far felice un bimbo: “Quand’ero piccolo, io la sognavo”.

Chi continua a sognare è l’audace Squalo. Ha colto l’occasione di un tracciato dimezzato, anche di più: la Albertville-Val Thorens è stata rabberciata brutalmente, da 130 ad appena 59,5 chilometri. Una crono in salita gli ultimi 33. Il messinese ha colto l’attimo fuggente, e vincente, a inizio tappa. Poi, da vecchia volpe, ha sgretolato la resistenza dei compagni di fuga. Nel finale ha retto agli assalti dei migliori. Alejandro Valverde è arrivato dieci secondi dopo. Bernal, quarto, a 17. Un successo di prestigio, il sesto al Toui, quest’anno sinora avaro di soddisfazioni per Nibali.

Felice è Peter Sagan, per la settima volta maglia verde del Tour. È ormai un mito. Il profeta del ciclismo rock. Pure l’Italia del pedale gongola. Elia Viviani, ha vinto la volata di Nancy, e può fare il bis oggi ai Campi Elisi. Giulio Ciccone è stato due giorni in giallo. Matteo Trentin, velocista che ha attaccato in salita, è arrivato solo a Gap, storico traguardo del Tour. Che ci è parso incerto, dalla classifica stretta. Ha rispettato gli attuali valori livellati del ciclismo di oggi. Quello di domani ha già un padrone designato. Bernal. Se non lo guastano.

Acqua azzurra in Corea: l’Italnuoto potenza mondiale

Italia popolo di santi, poeti e… nuotatori. O pallanuotisti, va bene lo stesso, purché sia in acqua: lì non abbiamo rivali. Campioni del mondo nella pallanuoto, per la quarta volta, più di chiunque altro. D’oro, d’argento e bronzo in vasca: i Mondiali di nuoto di Gwangju, Corea del Sud, sono un trionfo azzurro.

C’è un’immagine simbolo della rassegna coreana. Non è la vittoria nei 200 stile della “divina” Federica Pellegrini, quarto alloro iridato a 31 anni. Non è nemmeno il successo del Settebello: distrutta la Spagna in finale, come ai Giochi di Barcellona ‘92, stavolta 10-5, senza storia. L’immagine simbolo è la staffetta 4×200, che si dice rappresenti al meglio lo stato di un movimento: un quarto posto, una medaglia di legno, una beffa. Eppure una dimostrazione di forza: a una manciata di centesimi dagli Usa, alle spalle di Australia e Russia, davanti alla Cina del mostruoso (e chiacchieratissimo, per sospetti di doping) Sun Yang, le grandi potenze mondiali. Come oggi l’Italia del nuoto.

Gwangju 2019 verrà ricordato come il miglior mondiale di sempre: 4 ori, 13 medaglie, battuto il record di Roma 2009. Siamo quinti nel medagliere, davanti a tutte le europee. In nessun’altra disciplina (tranne la scherma, ma la competitività è molto più ristretta) l’Italia è così forte. Per arrivarci siamo partiti da lontano, dall’exploit alle Olimpiadi di Sidney 2000: da allora è iniziato un circolo virtuoso, che ha saputo migliorarsi, superando qualche momento difficile (Londra 2012), sfornando una generazione d’oro dopo l’altra. Fioravanti e Rosolino, Pellegrini e Magnini, adesso Gregorio Paltrinieri e Simona Quadarella (argento negli 800 stile alle spalle della primatista mondiale Ledecky), all’orizzonte già si vedono i fenomeni del domani: Benedetta Pilato, classe 2005 (!), a soli 14 anni oggi, giornata conclusiva, lotterà per una clamorosa medaglia nei 50 rana.

L’emulazione, vedere in tv il tuo idolo e poi tuffarsi in piscina (dove tante famiglie nel nostro Paese iscrivono i propri piccoli), è una componente fondamentale, ma da sola non basterebbe. Il segreto è la filiera che collega vertice e base, sempre più ampia anche al Sud (ad esempio in Puglia, da cui viene la stellina Pilato). La Federazione ha alimentato i campionati giovanili, riferimento stabile per tenere sotto occhio il movimento. C’è il lavoro fondamentale sul territorio delle società, alcune famose come l’Aniene (del presidente Coni Malagò, da sempre ai ferri corti col n. 1 del nuoto Paolo Barelli, uniti dai successi della Pellegrini), altre meno note ma preziose. Ci sono raduni e gruppi specializzati nei centri federali, dove a volte i migliori si trasferiscono (a Ostia i “gemelli” Detti e Paltrinieri sono cresciuti insieme). Ci sono le competenze dei tecnici, che si aggiornano nel settore di formazione federale, con standard nazionale unico.

E poi c’è la pallanuoto. La nostra nazionale è qualcosa in più di una semplice squadra: il Settebello è marchio d’eccellenza in una disciplina con una geografia ristretta, dominata dai Paesi dell’est per attitudine e storia. Nell’area balcanica e ex-sovietica, popoli naturalmente portati per lo sport e per la lotta hanno trovato nel “rugby d’acqua” la disciplina ideale. Il resto lo hanno fatto le tante piscine, costruite in blocco in epoca comunista. Hanno sempre dominato Ungheria, Urss, Jugoslavia, poi Serbia e Croazia. E fra i giganti dell’est, spesso davanti a loro, l’Italia. Con una storia altrettanto forte, al punto da diventare letteratura cinematografica (chi non ricorda Palombella rossa di Nanni Moretti), ben radicata a livello di club in Campania, Sicilia e soprattutto Liguria, dove c’è la grande Pro Recco. L’oro di ieri, conquistato da un gruppo giovane e consolidato, è l’ennesimo trionfo di una nazionale vincente sia al maschile che al femminile (bronzo e argento a Rio 2016). La tradizione continua pure in un momento difficile, in cui il campionato è stato ammazzato da una singola squadra (la Pro Recco vince da 14 anni), la crisi economica si è fatta sentire, il movimento un po’ annaspa. Ma non affonda mai, anzi. L’acqua è sempre azzurra.

Un fantasma in Vaticano: chi sarà il vero Papa?

C’è un fantasma in Vaticano: quello che i fedeli non riescono ancora a vedere e che esce dalla stanza del cardinale inglese Brannox, nella sua residenza di Woburn Abbey, Bedfordshire, per la prima volta messa a disposizione di un pubblico “profano” da parte del suo proprietario, il duca – per l’appunto – di Bedford, detentore di una collezione privata che spazia dal Canaletto a Velázquez, passando per Rubens e van Dyck. Il fantasma è quello di Lenny Belardo, in arte Pio XIII, il papa che Paolo Sorrentino, alla fine della prima stagione del suo The young Pope, aveva lasciato svenuto sul balcone di San Marco, a Venezia. “Concedergli di dormire per tutta la stagione successiva ci sarebbe costato troppo”, annuncia sornione il regista premio Oscar, che però volutamente non svela cosa accadrà sugli schermi dal prossimo autunno. Una produzione originale Sky, Hbo e Canal+, prodotta da Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside, The new pope è scritta con Umberto Contarello e Stefano Bises da Sorrentino, che ne ha girato tutti gli episodi.

Come sempre quando si tratta del regista de La grande bellezza, ben poco deve trapelare prima della messa in onda (o dell’arrivo in sala). L’altro giorno si è avuta la conferma che sarà portata in anteprima a Venezia, dove i critici potranno visionare soltanto la seconda e la settima puntata – anche per evitare il rischio spoiler. Sappiamo per certo che esiste la scena del fantasma di Lenny che esce dalla stanza di Brannox e quella in cui quest’ultimo annuncia ai suoi che sarà papa. Due pontefici, dunque, Pio XIII in coma e Giovanni Paolo III chiamato dal cardinale Voiello a riprendere in mano le redini della chiesa.

Quasi come Ratzinger e Bergoglio (“Ma la realtà supera anche la nostra fantasia – commenta Sorrentino –, anche se mi auguro che non accadano realmente le cose che si vedranno in questa seconda stagione”), i due pontefici sono diversissimi tra loro. Rigidissimo e spietato teologo, appannato dalla vanità, Pio è capace di compiere miracoli che lui stesso non si spiega (“Un attore cerca di contraddire il proprio personaggio – racconta ridendo Jude Law –, ma in questo caso è già tutto talmente scritto che io la mattina stilo in camerino l’elenco dei colleghi con cui non mi piace lavorare, esattamente come fa il mio papa”). Bonario, comunicatore, mediatore e meno vanesio sarà allora Giovanni Paolo, interpretato da un sublime John Malkovich che avrà il compito – affidatogli da Silvio Orlando, alias Voiello, l’eterna doppiezza della curia romana – di ricompattare il gregge dei fedeli attorno a una chiesa smarrita dai comportamenti del coinquilino di San Pietro.

Ci sono numeri che esemplificano bene il gioco del “trova le differenze”: da un lato otto talari bianchi, un mantello rosso, tre piviali, tre mitrie, due mozzette, tre casule, un accappatoio, due pigiami, una tuta, un paio di pantofole e due Louboutin, cappelli, guanti e dieci anelli (certo, per due stagioni); dall’altro venti abiti borghesi, tre talari, un piviale, guanti e cappelli e un paio di Louboutin (“che sono più belle delle mie”, ha ammesso Law). Due papi, due stili. Un immenso lavoro di sartoria, nelle abili mani di Carlo Poggioli e Luca Canfora. I due costumisti hanno dovuto realizzare o far realizzare (dall’antica ditta Pieroni, dalla sartoria clericale Ety Cicioni e dalle sorelle veneziane Adriana e Aglaia Minelli, che hanno impresso stampi in legno su una vestaglia in velluto di seta, secondo una tecnica dei primi del 900) 200 bozzetti, 4500 abiti (con 120 mila pietre ricamate a mano sui costumi papali), 1.100 paia di scarpe, 450 tra papaline e cappelli.

Numeri impressionanti utilizzati, oltre che per gli attori (103 in tutto), anche per le 9000 comparse, che rivestono soprattutto i ruoli di suore e preti. “Paolo andava a controllare che i costumi delle comparse fossero stirati bene”, rivelano i costumisti.

Ogni cosa al suo posto, come la Pietà di Michelangelo riprodotta in resina esattamente nelle dimensioni originali. O come la navata, gli interni di San Pietro e il balcone papale, ricostruito in esterno, dato che il Vaticano non avrebbe mai consentito le riprese a palazzo. “Quando siamo andati a misurare la Cappella Sistina – racconta la scenografa Ludovica Ferrari, da tempo accanto a Sorrentino – se ne sono accorti e ci hanno cacciato: utilizzavamo piedi e tablet cercando di confonderci con i turisti”. E allora succede che nel Teatro 5 di Cinecittà, laddove girava Fellini, sia riprodotta la Basilica ridotta del 20 per cento, compresi i pavimenti, che sono in linoleum stampato e dipinto a mano, così come l’antico portale della chiesa. Intorno, il blue screen a ricordare che, in fondo, è solo un film. Per gli interni e gli esterni di San Pietro sono state impiegate 58 persone per la costruzione del set, sono servite 8 settimane di progettazione, 10 di costruzione in laboratorio, 8 di costruzione in teatro, per un totale di 8 mesi di lavoro complessivi. Un progetto così non può permettersi di andare male (e infatti la prima stagione, nel 2016, è stata venduta in 154 Paesi).

Da qui il mistero su quanto accadrà, fantasmi a parte. “Il Vaticano sa custodire molto bene i suoi segreti”, afferma Sorrentino, e lui non è da meno. Per capire cosa ne sarà di Nostra Madre Chiesa, bisognerà aspettare il risveglio di Lenny Belardo.

“Assediato dalle donne, mi rinchiudevo nei negozi. Il successo è un veleno”

Il tono è pacato, l’atteggiamento è consapevole, quasi complice, il concetto è diretto; la sostanza non lascia alibi: “Il grande successo è come un veleno immesso nelle vene, una droga talmente forte da non poterne più fare a meno”. Quel veleno Lino Capolicchio lo conosce benissimo, non lo ha combattuto, inutile, ma affrontato e vissuto; cavalcato e goduto, giusto qualche volta subìto (“dopo aver girato Il giardino dei Finzi Contini ero assediato dalle fan. Una follia quotidiana”). Ha vinto un David, ha girato con i grandi della cinepresa: Vittorio De Sica, Dino Risi, Giuseppe Patroni Griffi, Carlo Lizzani e per nove volte è stato scelto da Pupi Avati (è anche ne Il Signor Diavolo, in sala dal 22 agosto). E a quasi 76 anni riconosce una certa fortuna nella propria esistenza, ma quando parla di Fellini e del mancato ruolo in Satyricon, gli occhi diventano piccoli, perdono il loro azzurro, i concetti duri: “Il più grande dolore professionale della mia carriera”.

Insomma, con Avati siete al nono…

A Comacchio, nel mio ultimo giorno di riprese e negli ultimi attimi, mi ha piazzato una mano su una spalla: “Pensa Lino, siamo nello stesso punto in cui abbiamo girato una scena de La casa dalle finestre che ridono (1976): sono passati quarant’anni e non ce ne siamo accorti.

Lì aveva un ruolo ambiguo.

Sono abituato, mi è capitato spessissimo.

Come mai?

Perché all’inizio della carriera, nel1969, ho interpretato Ric in Metti, una sera a cena: personaggio complesso, uno che a pagamento andava con uomini e donne, e in una delle scene c’è un bacio a tre. Ovvio scattarono le polemiche.

Feroci?

Anche mia madre inorridita: “Ma giri questi film? E poi sei sempre nudo!” Mamma, è il personaggio. “È terribile”.

Quindi…

Da allora ho l’etichetta dell’attore bravo a interpretare personaggi particolari.

Le è pesato?

Nel quotidiano sono una persona rigorosa, chiusa e censurata, mentre sul lavoro sfogo il mio contrario, sono pronto a tutto, e già allora me ne fregavo di quel che accadeva.

Dopo “Metti, una sera a cena” tra lei e Patroni Griffi è nato un rapporto forte.

Si era innamorato di me: con gli omosessuali mi è accaduto spesso; (sorride) ho ricevuto tante lettere d’amore, da Mauro Bolognini in particolare.

La sua reazione?

Imbarazzato.

E con le donne?

Ho vissuto anni di delirio collettivo, soprattutto dopo il ruolo da protagonista ne Il giardino dei Finzi Contini: ogni giorno mi aspettavano circa 200 ragazze.

Rockstar.

Situazione problematica, si infilavano ovunque, e ne dovevo rispondere pure con gli altri; una sera il direttore di un albergo mi chiama: “C’è una ragazza che ci sta stressando, non ne possiamo più”.

Ha ancora quelle lettere?

Forse non è chiara la portata: dopo Il giardino ne ho ricevute più di cinquemila e da tutto il mondo, dalla Cina alla Svezia, dall’Argentina al Giappone. Io inconsapevole di suscitare tali sentimenti.

Proprio inconsapevole, no.

In realtà ho sempre stimolato una sorta d’ipnosi: a sei anni, la maestra di scuola è andata da mia madre con una richiesta bizzarra: “Voglio adottare suo figlio: è speciale, strano, curioso”.

Sua mamma?

“Non se ne parla proprio”. Mentre papà mi odiava, uomo terrificante, mi voleva strozzare, picchiare, sbarazzarsi di me: ad appena sette anni mi ha spedito in collegio.

In competizione con lei.

Il giorno in cui gli ho comunicato l’idea di diventare attore, ha risposto: “Sai qual è la tua fine? Chiederai l’elemosina”.

E quando è arrivato al successo?

Ha derubricato: “Sei stato fortunato. Devi ringraziare la natura”. Non mi ha voluto sul letto di morte, ha finto di stare bene pur di non vedermi.

Per fortuna, mamma.

Ero innamorato di lei. Donna bellissima.

Il cinema.

Tutto nasce dalla figlia del panettiere sotto casa: lei 15 anni, io 12. Ero pazzo di lei. In uno dei miei infiniti pellegrinaggi per vederla, mi guarda e s’illumina: “Hai un volto da cinema, pensaci”. Pensaci? Ho iniziato a guardarmi per ore allo specchio, desideravo capire se aveva ragione o meno.

Fino a quando.

Affronto mamma: “Basta con questa rottura del pianoforte, del solfeggio, voglio un’insegnate di recitazione”.

E…

Mi asseconda, la trova, ma la signora accetta con riserva: “Prima voglio verificare le sue capacità”. Mi presento con il monologo di Antonio dal Giulio Cesare di Shakespeare. L’insegnante resta sulle sue: “Impegnativo”. Finisco la prova e resta in silenzio.

E poi?

Chiama mia madre: “Devo dirle due cose di suo figlio. Uno: è la persona più presuntuosa mai conosciuta; due: ha talento assoluto”.

Così presuntuoso?

Moltissimo.

E come lo manifestava?

Avevo un atteggiamento di chi afferma: sono bello, sono bravo, sono intelligente. Cosa desiderate di più?

Come reagivano i registi?

Mi hanno perdonato.

Non provavano a metterla al suo posto.

Certo, in molti (e gli brillano gli occhi).

Tipo Giorgio Strehler.

Mi adorava, aveva un atteggiamento paterno, quando arrivava il pizzicotto sulla mia guancia era matematico; fino a quando oltre al pizzicotto ha associato l’esigenza di un chiarimento: “Per caso sei un po’ checca?”. “No maestro, mi piacciono e molto le donne”.

Sia ben chiaro…

All’epoca ero fidanzato con una ragazza di una bellezza spropositata: viso da madonna su un corpo da pin up, l’unica che avrei sposato.

Quindi…

Un giorno sono con lei all’ingresso degli artisti e vedo arrivare Strehler. La mando via. Alla fine delle prove il maestro si avvicina: “Chi era?”. “La mia fidanzata”. “Allora non sei davvero checca”.

Omofobo.

Solo curiosità: doveva sapere tutto.

Il dopocena a teatro è così importante?

È fondamentale, è il momento del pettegolezzo, della leggerezza, della valutazione soggettiva dei colleghi; con Volontè erano sedute di confronto, lui mi chiamava Tolstòj.

Con Volonté sempre riferimenti comunisti.

Perennemente. Una sera ci incontriamo, e si lamenta: “Ho appena finito di girare una stronzata in Spagna, un set lunghissimo, non finiva mai per assenza di fondi. Non voglio più cascare in queste situazioni terrificanti”. Il film era Per un pugno di dollari.

Perfetto.

Un’altra volta siamo in pizzeria, la cameriera molto carina. Noi ci proviamo. Lei esasperata pone la giusta distanza: “Sono fidanzata”. “Non importa, mica vede niente”. “In realtà è qui, è il pizzaiolo”.

Bella figura.

A quel punto ce lo presenta e conosciamo un traccagnotto meridionale, cordiale. “Salve”. “Piacere”. E la ragazza: “Ha una voce pazzesca”. Noi divertiti: “Ci canti qualcosa?”. “Qui no, solo pizze”. Il traccagnotto era Al Bano.

Torniamo al cinema: il primo film importante è del 1968, Faenza alla regia.

Al primo incontro arrivo con i capelli lunghi e ossigenati. Non ero un bel vedere. Quando mi vede, apostrofa: “Parlano bene di lei, ma sembra frocio e drogato”.

Ecco.

La fortuna non mi ha mai abbandonato, e così la segretaria di produzione si incavola con Faenza e il produttore: “Continuate a chiedere provini a tutti, ma è Capolicchio quello giusto”.

La sua bellezza l’ha limitata?

Mi ha aiutato.

All’inizio ha parlato di “veleno”.

Sì, te lo iniettano. Diventa vitale. (Cambia tono) Oltre alle 200 ragazze ad aspettarmi, per un periodo non ho potuto camminare per la strada: assalito; un pomeriggio, in piazza Risorgimento a Roma, mi sono rifugiato nella farmacia di un’amica al grido: “Chiudi la porta!”

Idolo assoluto.

In quegli anni sono arrivati a offrirmi il ruolo di testimonial della Coca Cola, con annesso un assegno da brividi.

Lei, niente.

Una cifra incredibile per pochi giorni di lavoro: quando mia madre lo ha saputo, è realmente svenuta; ma per me, allora, la pubblicità era professionalmente disdicevole. E poi guadagnavo molto bene.

Oggi meno?

Rispetto a quei tempi lavoro quasi gratis.

Impegnato politicamente?

Sempre votato a sinistra, mai iscritto. Partecipavo a qualche manifestazione, seguivo Volontè. Mi interessavo al dibattito interno al cinema, alla salvaguardia del ruolo di attore. Niente più.

Vittorio De Sica.

Come tutti lo appellavo “commendatore”; solo un po’ di tempo dopo ottenni una concessione: “Mi puoi chiamare signor De Sica”.

Il set con lui.

Faticoso, era un cesellatore di recitazione, una battuta la potevi ripetere decine di volte, però sentivi l’opera di un maestro: era in grado di mostrare a ognuno la propria parte, anche per i ruoli femminili, e le scene d’amore.

Giuseppe De Santis.

Persona speciale, un comunista con un rigore assoluto nei confronti della professione.

Tradotto?

Erano anni che non lavorava e finalmente chiude per un film. Mi coinvolge. A ridosso delle riprese arriva il produttore: “Dalla sceneggiatura devi tagliare almeno 30 pagine”. Cosa? “Sì”. Risultato? Ha sospeso tutto e lo abbiamo girato molto tempo dopo.

Un ruolo mancato?

Fellini è il dolore più grande.

Come mai?

Doveva girare Satyricon, quindi mi convoca: “Capolicchio, se la prendo deve andare in palestra”. “Nessun problema”. “Ci sono molte scene di nudo”. “Maestro, va bene”. E aggiunge: “La questione è la seguente: il produttore vuole lei e Pierre Clementi, mentre io preferirei due volti non noti. Per questo noi abbiamo risolto con una scommessa: chi vince decide i protagonisti”.

Ha vinto Fellini.

Con una grande “però”: Martin Potter, l’attore preso al mio posto, era identico a me. Identico.

Si è avvelenato.

Di più: ancora sono incazzato nero. Furibondo. (torna a sorridere) Poi ho perso Profondo rosso, e a causa di un incidente spaventoso, anzi mortale.

Colpa sua?

All’epoca vivevo dei disguidi con mia moglie, temevo mi avvelenasse perché la tradivo e lo aveva scoperto: per questo vivevo in Scozia, da amici.

Scelta comoda.

L’agente mi chiama: “Torna a Roma c’è un ruolo per te nel prossimo di Argento”. Obbedisco. Incontro Dario e mi dà la sceneggiatura: “Leggila nel weekend e ci vediamo la prossima settimana”. Va bene. Decido di andare a trovare mio figlio nelle Marche, non lo vedevo da mesi, ma non guidavo; allora chiedo a un’amica di accompagnarmi.

Ecco l’incidente.

Un frontale con un pazzo. Per me una batosta, ginocchio a pezzi, mentre la mia amica in coma. Addio film. Ma il punto è un altro: tempo dopo torno a rivedere l’auto e insieme alla compagna di sventura. Distrutta. Guardo dentro e sul sedile posteriore c’era la sceneggiatura di Dario, intatta, ma ogni pagina, sottolineo ogni, era macchiata di sangue e ancora rosso.

Per anni ha insegnato al Centro Sperimentale e scoperto grandi attori.

Pierfrancesco Favino, Sabrina Ferilli, Francesca Neri, Alessio Boni, Iaia Forte, Paolo Virzì. Tutti veramente bravi.

Il primo?

Favino: l’ho visto a un provino mi è immediatamente piaciuto, lo volevo, ma c’era un problema: “Sei bravo, ma il personaggio è veneto e tu sei romano”. Lui tranquillo risponde: “Per combinazione la mia ragazza è di Treviso, se vuole parlo come la sua famiglia”. Cacchio, era perfetto.

Fuoriclasse.

Assoluto e certe cose le sento: ho un orecchio da musicista, se i suoni sono quelli giusti o superiori, allora fermo tutto. E con lui è andata così.

Momenti di imbarazzo?

(Scoppia a ridere) A Vercelli, di fronte a un risotto strepitoso, mi avvicina lo chef: “L’ammiro tanto”. Ringrazio compiaciuto, pensavo si riferisse a Il giardino. Poi aggiunge: “Sono un fan di Hazard (telefilm dei primi Ottanta), e lei ha doppiato Bo (uno dei protagonisti)”. Non ci volevo credere.

Nella vita si è divertito?

È stata una bellissima avventura, senza grandi problemi fisici. Giusto ora qualcosina soffro, ma l’oncologa mi ha detto “lei è un bell’uomo anche così”. Quindi va bene.

Proteste, lacrimogeni e scontri tra polizia e manifestanti in nero

Continuano le proteste ad Hong Kong. In migliaia vestiti di nero hanno sfidato il veto della polizia di manifestare e si sono riuniti a Yuen Long, dove domenica scorsa una gang – sospettata di essere legata alla Triade, la mafia cinese – ha attaccato con spranghe e bastoni nei pressi della metropolitana i manifestanti antigovernativi di rientro dalla marcia del Civil Human Rights Front, ferendo 45 persone. Per la seconda volta si sono registrati gravi scontri con la polizia, che ha reagito in tenuta antisommossa con gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Anche venerdì ci sono stati tafferugli: gli attivisti hanno invaso le sale dell’aeroporto internazionale della metropoli. A inasprire il clima di tensione è stato il sospetto di infiltrazione della mafia cinese tra gli agenti di polizia. Le proteste sono iniziate ad aprile in seguito alla proposta di un emendamento alla legge sull’estradizione, che favorirebbe l’ingerenza del governo cinese nella politica locale. Se approvato dal Parlamento, infatti, consentirebbe di processare in Cina continentale le persone accusate di reati punibili con almeno sette anni di carcere, ovvero omicidio e stupro, e aprirebbe alla possibilità di estradare anche verso Macao e Taiwan. Molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno espresso dissenso, perché Hong Kong sarebbe più esposta al sistema giudiziario cinese e ciò potrebbe compromettere la libertà di espressione e di critica. Si teme anche che, così facendo, si favoriscano i rapimenti per mano delle autorità cinesi. Oltre a voler bloccare l’emendamento, chiedono un’inchiesta indipendente sull’uso della forza da parte della polizia e le dimissioni della leader di Hong Kong, Carrie Lam. Da oltre due mesi, si riversano per le strade per protestare nel nome della democrazia, contro il governo locale accusato di favorire la politica del presidente cinese Xi Jinping.

Lava Jato, Moro si vendica e prova a disfarsi di Greenwald: “Via gli stranieri sotto inchiesta”

Da quando il fascista-razzista-omofobo Jair Bolsonaro è diventato presidente grazie all’uscita di scena forzata di Lula, finito dietro le sbarre nell’aprile 2018 per corruzione a seguito dell’inchiesta Lava Jato, il Brasile sta prendendo una deriva sempre più pericolosa. Dopo aver facilitato l’acquisto e la detenzione di armi, dato il via libera alla confisca dei terreni di proprietà delle tribù indigene e accelerato la deforestazione dell’Amazzonia, ora è la volta della censura alla stampa indipendente. Con un’aggravante, se possibile. Perché, a firmare venerdì scorso il decreto che subdolamente prende di mira il giornalista premio Pulitzer Glenn Greenwald e la piattaforma online The Intercept, da lui cofondata, è stato l’ex giudice Sergio Moro, oggi ministro della Giustizia. Moro è diventato noto ovunque nel mondo per aver aperto l’inchiesta conclusasi con la condanna a 12 anni di carcere per Luiz Ignazio Lula da Silva, dato per vincente anche alle scorse elezioni. La nuova mossa del Torquemada in salsa carioca intende limitare ufficialmente la permanenza degli stranieri sotto inchiesta penale, o etichettati come “pericolosi” dai servizi di intelligence brasiliani o stranieri. Guarda caso, il decreto numero 666 può essere usato proprio contro Glenn Greenwald, uno dei più autorevoli giornalisti investigativi statunitensi che vive da oltre un decennio a Rio de Janeiro dopo aver sposato un politico brasiliano, David Miranda. Greenwald, lo scorso giugno, ha “osato” pubblicare un’inchiesta con le conversazioni private sul servizio di messaggistica Telegram tra l’allora giudice Moro e Deltan Martinazzo Dallagnol – il procuratore generale a capo del pool inquirente dell’operazione anti corruzione – dimostrando che i due hanno agito in collusione per far condannare a ogni costo Lula.

L’associazione della stampa brasiliana ha bollato il decreto di incostituzionalità affermando che si tratta di un “abuso di potere”. L’ufficio del procuratore generale brasiliano ha nel frattempo presentato due denunce chiedendo la rimozione degli articoli. Il decreto di Moro è stato messo a punto due giorni dopo l’arresto di quattro persone con l’accusa di aver violato i telefoni cellulari di Moro e del presidente Jair Bolsonaro.