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La disorganizzazione di questi quaquaraquà

Mi trovo presso un Asp di una cittadina della Sicilia, Adrano, per una visita medica: nessun controllo della temperatura, del pass, siamo mischiati con quelli che devono fare il tampone, il vaccino ecc. Vorrei chiedere al generale Figliuolo: non ha pensato di usare le caserme per convogliare i tamponi e i vaccini? Dopo che sarà finita la giornata, avremo centinaia di contagi. Siamo messi male, soprattutto perché ci siamo affidati a dei quaquaraquà. Povero Pnrr.

Giovanni La Mendola

 

Dare del “pregiudicato” solo a chi fa comodo

Quando viene ammazzato oppure arrestato qualcuno che ha subìto una condanna penale, i media sottolineano che è un pregiudicato. Con la “razza padrona” questo non accade. Con un potente si va leggeri. Ad esempio, negli articoli giornalistici che parlano di B., non ho visto né sentito un richiamo del tipo “il pregiudicato Berlusconi si è incontrato con Meloni e Salvini”. Evidentemente farebbe brutto, non vi pare? Però è semplicemente la realtà dei fatti. B. è un pregiudicato, essendo stato condannato per frode fiscale. È stato condannato perché ha rubato agli italiani, frodando l’erario per 368 milioni di dollari. Nella sentenza viene poi definito “delinquente”. E dunque se avessimo una informazione meno omertosa, questi fatti dovrebbero essere messi in bella evidenza affinché i cittadini si ricordino chi è il Caimano. Per cui, se non ci fosse questa disinformazione, Meloni e Salvini e tutto il cucuzzaro di destra non potrebbero nemmeno pensare di candidare un soggetto simile come possibile nuovo presidente della Repubblica. Sarebbe scandaloso in un qualsiasi Paese mediamente serio.

Anilo Castellarin

 

D’Alema disprezza Renzi e tanto mi basta

A me il ritorno di D’Alema all’interno del Pd non dispiace. Non che mi faccia impazzire, ma piuttosto che la figura sbiadita di Enrico Letta, preferisco quella di D’Alema. Fu lui tra i primi a perorare un accordo con i 5Stelle e, soprattutto, non le manda a dire a Renzi e a tutti i suoi, fuori e dentro al Pd.

Giovanni Frulloni

 

Il significato dell’obbligo vaccinale ai lavoratori

Quasi sicuramente, nel Consiglio dei ministri del 5 gennaio, il governo introdurrà l’obbligo vaccinale per tutti i lavoratori del pubblico e del privato. Ci spero, ma solo per vedere gli effetti nel mondo del lavoro. Sì, perché l’obbligo vaccinale esiste già per alcune categorie (sanitari, forze dell’ordine, personale scolastico) con il risultato che oltre ai contagi, sono aumentati anche i disagi. Immagino cosa succederà nelle piccole e medie imprese. E sono stati pure furbi: durante le festività hanno lasciato correre il virus con conseguente aumento esponenziale dei contagi (complici anche noi cittadini, che non vogliamo maturare): così si sono creati la scusa per introdurre l’obbligo per lavorare. Domanda: perché introdurre l’obbligo vaccinale se, nonostante il 90% di italiani “immunizzati”, i contagi risalgono a dismisura? Ormai sono sempre più convinto che ci sia un odio viscerale verso i cittadini da parte di questi mantenuti dello Stato. Più ci tolgono la dignità, più ingrassano le loro indegne vite. E complimenti anche al M5S, che in appena undici mesi è stato capace di buttare nel cesso tre anni di leggi che rimettevano al centro proprio la dignità delle persone. Quella stessa dignità che negheranno a tutti quei lavoratori non vaccinati (o che decidono di non completare il ciclo vaccinale), se anche loro appoggeranno questa porcheria. E meno male che siamo “una Repubblica fondata sul lavoro”.

Stefano Bevilacqua

 

Una digitalizzazione a dir poco fantozziana

Questa storia del Green pass che in pochi giorni è sceso di validità da dodici a nove mesi, poi a sei ma di fatto a quattro, per evitare la quarantena, mi ricorda tanto quel film di Fantozzi dove, dopo aver guadagnato tutti i gradi sino a dirigente d’azienda, di colpo il ragioniere Ugo perde tutto: dalla pianta di ficus fino alla poltrona sotto il sedere. A questo punto i vigili urbani ci consegnino direttamente la sanzione e noi, inchinati come il ragionier Fantozzi, rispondere disciplinati: “Come siete umani, voi”. Torno serio un attimo per evidenziare come il Green pass segni la morte della digitalizzazione. Doveva essere tutta una cosa di app e invece ha quadruplicato a dismisura la necessità di forza lavoro: code nelle farmacie per i tamponi, tempo perso per scaricare più volte il certificato verde, tempo per prenotare i richiami e presentarsi più volte agli hub di vaccinazione, forze dell’ordine schierate ed esercenti occupati nei controlli alle porte di bar e ristoranti. Alla faccia della moderna digitalizzazione, dove fai tutto senza muoverti di casa.

Stefano Masino

Bollette luce e gas. La trasparenza non è proprio di casa per gli italiani

Nei media, il tema delle tariffe per il gas e l’energia elettrica è molto dibattuto per l’entità dei rincari di questi mesi. Io, invece, da anni sono veramente inferocito, perché mi chiedo per quale legge divina dobbiamo ricevere delle bollette incomprensibili. A titolo di esempio, allego una copia di una mia fattura del gas per utenza domestica residente, tariffa servizio di tutela, fornitore E-On (notare che invio solo una delle due pagine di righe fittissime). Ma c’è qualcuno che riesce a capirci qualcosa quando riceve una fattura del genere? Perché una cosa così semplice, come i metri quadrati consumati per tariffa, viene trasformata in una giungla inestricabile dove nessuno è in grado di capire se ci stanno imbrogliando o no? La mia idea è che lo si sta facendo apposta… non dobbiamo capirci nulla.

Massimo Forza

Gentile Forza, confermo che la fattura che ci ha inviato con il dettaglio delle voci che compongono la sua bolletta del gas sia di difficile comprensione per la maggior parte degli utenti. E che, beffa delle beffe, più si cerca di rendere le bollette chiare e trasparenti, meno ci si riesce. Pubblicare il costo della materia prima, degli oneri, della commercializzazione, del trasporto, dello stoccaggio o delle quote variabili e fisse, solo per citare alcune voci, comporta poi che queste voci vengano scorporate per unità di misura, per quantità, per Iva, ecc. Insomma una sfilza interminabile di numeri che non riescono assolutamente a spiegare come viene calcolata la tariffa delle bollette che siano del gas o dell’elettricità. Del resto, già nel 1998, il linguista Tullio De Mauro, per conto dell’Enel, studiò e rielaborò le clausole dei contratti di fornitura per rendere più fruibile il linguaggio. Un restyling della bolletta che Enel definì come “amichevole, personalizzata e non più scritta in burocratese”. Sono passati 24 anni e non è cambiato nulla. Anzi, la trasparenza è anche peggiorata nel mercato libero, dove a complicare tutto ci sono circa 200 offerte tariffarie, in relazione ai diversi profili di consumo che possono prevedere fasce orarie di consumo e tariffe a tempo. Ricordando soprattutto che i 2/3 delle bollette sono composti da quote fisse Abbiamo già spiegato che per quote fisse si intende non legate ai consumi. Difficilmente possiamo capirci qualcosa.

Patrizia De Rubertis

Ma vista la situazione pandemica, davvero Draghi può lasciare?

Il 30 dicembre, forse in preda a un eccesso di nostalgia bonapartista, il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ha pronunciato una frase di cui temiamo (ma non ci auguriamo) dovrà prima o poi rendere conto. Mentre già i contagi erano in aumento, Brunetta, sprezzante del pericolo e allergico a ogni scaramanzia, ha detto: “Quella che stiamo vivendo è una sfida tra l’intelligenza di chi governa, con il consenso del 90% degli italiani, e l’intelligenza del virus. Per il momento la stiamo vincendo noi e penso che continueremo a vincerla”.

Nei giorni successivi, però, tra la truppa (i cittadini) sono cominciati a serpeggiare i primi dubbi. Ovunque nel mondo la variante Omicron appare inarrestabile: un milione di positivi negli Stati Uniti, 300mila circa in Francia, quasi 200mila in Italia. E se la bassa letalità di Omicron permette ai più di affrontare il virus come un’influenza, un dato preoccupa. Per le statistiche, arrivati oltre una certa soglia di contagi, anche la piccola percentuale di persone positive che finisce in ospedale o al camposanto sarà sufficiente per riportare la sanità nelle condizioni in cui si trovava durante le precedenti ondate. Accanto a questo vi è poi il problema dei servizi essenziali: in molte città cominciano ad aprirsi vuoti tra le file degli autisti di mezzi pubblici, dei vigili del fuoco, della polizia locale, degli insegnanti e del personale non docente. Gli assenti sono tutti contagiati, quasi tutti poco o per niente gravi, ma in ogni caso sono costretti a restare a casa per almeno una decina di giorni.

È facile insomma prevedere che nelle prossime settimane la nostra vita non sarà semplice. Come dimostra ciò che sta accadendo negli uffici dove, al di là dell’inerzia del governo, ci si organizza autonomamente per lo smart working: ogni multinazionale, ogni banca e azienda riduce al massimo il numero di lavoratori in presenza. A Milano, la capitale del virus, la gente, se può, sta rinchiusa in casa; bar e ristoranti sono vuoti così come i cinema e i teatri. Si vive un lockdown non dichiarato in cui la sensazione prevalente è quella di esser stati lasciati soli: senza guida, senza precisi ordini dall’alto e senza nemmeno una parola di conforto.

Tutti i cittadini hanno chiara solo una cosa: c’è un inverno davanti, bisogna tener duro e reggere fino all’ancora lontana primavera. E così facciamo anche noi. Certi che il virus sia meno intelligente di Brunetta (anche perché i virologi ci spiegano che i virus sono privi di cervello).

Ma visto che, a seconda dei punti di vista, il Signore o l’evoluzione ci ha dotati di materia grigia (poca o tanta non importa) una domanda tentiamo di avanzarla. Davvero ha un senso stare a dibattere in questi giorni di Mario Draghi al Quirinale? Il 24 gennaio, giorno dell’apertura delle danze, è a un passo. Speriamo di essere smentiti, ma nulla fa supporre che la situazione possa improvvisamente migliorare. Anzi, la logica e i numeri per ora dicono il contrario. Draghi, che piaccia o meno, in questo momento è il comandante in capo. È il capitano di una nave in tempesta. È l’uomo a cui spetta il compito di prendere, da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, decisioni difficili e possibilmente (cosa che fin qui non ha fatto) di spiegarle. Davvero si può pensare che abbandoni nave, equipaggio e passeggeri per diventare ammiraglio? Per questo da lui, se come crediamo non è uno Schettino qualsiasi, ci attendiamo che finalmente parli. Per dire ai cittadini dove sta cercando di portarli e ai grandi elettori che un premier, finché c’è uragano, resta a bordo.

 

L’autosorveglianza. Dopo il Covid, magari arriverà pure quella sul fisco

Sono affascinato, devo ammetterlo, dal concetto di “autosorveglianza”, introdotto dall’ultimo decreto legge sul Covid. Immagino che voglia dire “arrangiatevi”, cosa che già facciamo in abbondanza e quindi bene, niente di nuovo. Non stupisce nemmeno che avvenga in ambito sanitario, in un Paese dove è più facile parlare col Papa che col medico di base, dove un tampone d’emergenza o controllo costa come una cena da Cracco, dove le regole sono interpretabili, eccetera, eccetera.

Che la parola compaia in un decreto legge (col trattino in mezzo, auto-sorveglianza) inquieta un po’, questo sì.

Mettetela come volete, ma l’autosorveglianza, in generale, rischia di darci grandi soddisfazioni. Contiene una retorica densa di senso di responsabilità e ragionevolezza (“Badi, buon’uomo! Io mi autosorveglio!”), e una prateria davanti di cose che si possono autosorvegliare, anche al di fuori dell’emergenza Covid. Se la cosa prende piede, tra un po’ qualcuno chiederà l’autosorveglianza fiscale, e qualcun altro dirà be’, sai, non è una brutta idea. Sappiamo come vanno queste cose. E se cerchi “sorveglianza” in Rete non ti esce subito Foucault, ma decine e decine di venditori di telecamere, sicurezza, anti-intrusioni, panoramiche del tuo salotto dal telefonino. Ecco, diciamo che sorvegliare ci piace di più che autosorvegliarci (Foucault torna sempre fuori), e prima qualche prova pratica la farei. Che so, un decreto in cui si dica: ehi, gente, niente multe per un mese, autoregolatevi il codice della strada! Un’orgia di doppie file, un’ordalia di lamiere. Oppure due turni di Serie A senza arbitri, “Oh, sul fuorigioco fate un po’ voi”. Delirio.

Ma posto che “autosorveglianza” significa “non riusciamo a sorvegliarvi” – a pensarci bene è strano che non abbiano trovato una parola inglese – verrebbe da dire che è meglio così. Al netto delle regole arabescate e ghirigoreggianti, è ovvio che uno si autoregola, cioè si arrangia. Chiede in giro, si informa presso le massime autorità del ramo, tipo il dottore che sta in tivù, o la cassiera del panettiere, o addirittura ascolta quel che gli dice il medico, se riesce a trovarlo. Si fa insomma, delle sue proprie regole, accettando la sua collocazione nella complicata scala sociale sanitaria del momento. Asintomatico con booster! Guarito da 120 giorni! Hurrà!

Ci autosorvegliamo tutto il tempo, peraltro, non andiamo al centro commerciale con un fucile a pompa, non prendiamo l’autobus nudi e riusciamo persino a non tirare i piatti al televisore durante certi dibattiti o interviste. Direi che fin qui la tenuta di nervi e la capacità di autosorveglianza degli italiani è stata persino strabiliante, oltre ogni più rosea previsione. Ora cerchiamo di autosorvegliarci – inteso come stiamo calmi – anche mentre leggiamo il decreto legge e la circolare del ministero della salute, che dicono cose diverse su come devono comportarsi gli autosorvegliati. Serve il tampone, quando ti sei autosorvegliato da asintomatico per cinque giorni? Non serve? È argomento di grande attualità nelle file per i tamponi, che intanto fatturano come la Krupp nel ’41. E il gioco dell’anno sarà sfuggire alla sorveglianza, dribblare quarantene, sminuire contatti, mentire, in modo da non cadere nel limbo dell’autosorveglianza. Per scoraggiante coincidenza, l’appello e l’incoraggiamento a sorvegliarsi da sé coincidono con la più grande matassa di regole che si sia mai vista, il più complicato origami di articoli e commi in cui le nostre vite siano mai rimaste impigliate.

 

Il conflitto d’interessi avvocati-parlamentari

Ritengo sia necessario iniziare a riflettere su una peculiarità del nostro sistema: il ruolo dell’avvocato difensore che, al contempo, può difendere un indagato, essere membro del Parlamento (fenomeno che ha raggiunto proporzioni notevoli nelle ultime legislature) e persino inserito nella compagine governativa. Invero, la concentrazione di ruoli e di poteri offre e può offrire una difesa privilegiata a determinati imputati eccellenti o politicamente contigui, a discapito di quelli meno abbienti o derelitti, posti ai margini della società, che certamente non dispongono di risorse finanziarie sufficienti o di una vita relazionale adeguata per poter beneficiare di un’assistenza legale privilegiata. La coesistenza di tali ruoli da parte di un avvocato può favorire, inoltre, l’esercizio del potere legislativo per finalità privatistiche: da un lato, quelle del professionista che potrà pretendere un onorario ben più lauto; dall’altro, quelle dell’imputato eccellente che per via difensiva può stimolare la presentazione di disegni di legge e ottenere normative (come è accaduto nel nostro Paese) ritagliati su misura per i propri interessi particolari ed essere portatore di specifiche istanze scaturenti dal processo che lo riguarda. E un avvocato difensore potrebbe concorrere con gli esponenti del proprio partito alla scelta dei ministri, ivi compreso quello della Giustizia, ritenuti più funzionali alle finalità che si vogliono raggiungere. Si oltrepassano così i confini della difesa tecnica e il professionista è posto nelle condizioni di utilizzare strumentalmente le prerogative inerenti al ruolo di parlamentare o di membro del governo per difendere l’assistito dal processo e non nel processo attraverso gli strumenti giuridici che lo stesso offre. In altri termini, se l’applicazione della legge non consente un’assoluzione, la stessa potrebbe divenire il frutto di una mirata iniziativa legislativa che obblighi il magistrato ad assolvere, attraverso l’abolizione di una determinata figura di reato o la modifica della condotta penalmente rilevante, anche mentre il processo è in corso, o attraverso una nuova regolamentazione più garantistica e restrittiva delle modalità di acquisizione delle prove. Sussiste un evidente conflitto di interessi. Ma non solo. La bilocazione o trilocazione (Tribunale quale legali, Parlamento quale componente del Parlamento e di commissioni, governo quale ministro o sottosegretario) del difensore introduce una forte sperequazione rispetto al pubblico ministero, al quale è interdetta, giustamente, la possibilità di svolgere contestualmente le funzioni giudiziarie e di essere membro del Parlamento e della compagine governativa. Egli dovrebbe optare tra i più ruoli e, nel caso in cui al termine del mandato parlamentare, decida di riprendere l’esercizio delle funzioni difensive dovrebbe poterlo fare solo in altro distretto. In buona sostanza, sussiste il rischio che la carenza della regolamentazione sulle incompatibilità del ministero del difensore, preposto a salvaguardare il fondamentale diritto di difesa, si traduca in un vulnus per l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e, conseguentemente, in una caduta di democrazia. La situazione di conflitto di interessi potrebbe ulteriormente dilatarsi se dovesse concretizzarsi la prospettiva di modifica che il governo sembra voglia introdurre per le valutazioni di professionalità sull’operato dei magistrati, in quanto l’avvocato difensore potrebbe divenire partecipe, con diritto di voto, alle delibere dei Consigli giudiziari, chiamati a esprimere pareri anche con riferimento alla capacità organizzativa, che costituisce uno dei parametri per l’attribuzione degli incarichi direttivi e semidirettivi in seno alla magistratura. E in tal modo un difensore potrebbe essere chiamato a contribuire alla formazione di un parere, a titolo esemplificativo, di quel giudice che ha condannato il proprio assistito o del pubblico ministero che ne ha chiesto la cattura. Si tratta di una situazione che di per sé potrebbe esasperare la conflittualità tra le due categorie professionali (magistratura e avvocatura) e compromettere l’imparzialità nell’agire dei giudici e dei Pm, se si consentisse la permanenza in seno ai Consigli giudiziari di avvocati che, simultaneamente, concorrono direttamente o per il tramite di colleghi di studio all’esercizio delle funzione legislative ed esecutive. Trovo quindi indispensabile che nel nuovo anno si proceda a una regolamentazione delle molteplici situazioni di conflitto di interessi che ruotano attorno alla figura dell’avvocato difensore.

Pur se dotate di sistemi giudiziari diversi da quello italiano, plurime democrazie occidentali hanno affrontato il tema. In Gran Bretagna esiste, infatti, una norma deontologica che vieta all’avvocato parlamentare di accettare un mandato professionale allorché i cittadini siano ragionevolmente esposti all’idea che egli potrebbe fare uso del suo stesso incarico per avvantaggiare il proprio cliente. Negli Stati Uniti e in Francia gli avvocati deputati non possono difendere persone o aziende che hanno cause con lo Stato. In Spagna è prevista l’incompatibilità: chi da avvocato siede in Parlamento non può esercitare la propria professione nel periodo in cui svolge la funzione politica. In Germania il codice di condotta del Bundestag obbliga i deputati a informare il presidente su ogni incarico defensionale con interessi che confliggono, potenzialmente, con lo Stato e la Pubblica amministrazione.

 

Perché la commissione europea punta sui cibi contaminati da ebola

Dopo il nucleare, la Commissione europea vuole considerare sostenibili i cibi contaminati da virus Ebola. Governi e organizzazioni umanitarie hanno protestato contro la decisione della CE di inserire i cibi contaminati da virus Ebola all’interno di una lista di attività economiche considerate sostenibili, cioè a basso impatto ambientale. È la cosiddetta tassonomia, prevista dal Green Deal europeo come strumento fondamentale per guidare nazioni e imprese nelle loro scelte di sviluppo e bla bla bla: l’inserimento nella lista di una determinata attività economica garantisce investimenti a lungo termine, cosa particolarmente importante soprattutto nei settori messi in ginocchio dalla pandemia, come la ristorazione e il tango figurato. La tassonomia è stata realizzata da un gruppo di 57 scienziati, ong, broker di borsa e lobbisti di multinazionali, ma la decisione di inserire nella tassonomia i cibi contaminati da virus Ebola è stata di natura soprattutto politica, spinta cioè dalle esigenze degli Stati che non hanno l’Ebola, come la Germania (ovunque essa sia), mentre è stata ostacolata da chi ne teme l’arrivo in seguito ai flussi migratori, per esempio la Francia (un Paese, non a caso, dove le buone maniere anche appena passabili suscitano scalpore). Paradossalmente, se l’inserimento dei cibi contaminati da virus Ebola ha provocato grosse polemiche, l’inserimento del nucleare è stato accolto invece con un certo consenso dai governi europei che ne fanno ampio uso (sempre la Francia, una delle nazioni più colte del mondo, se solo i suoi abitanti lo sapessero). Secondo la Commissione, sia il nucleare sia i cibi contaminati da virus Ebola dovrebbero essere inseriti nella tassonomia delle attività economiche sostenibili in quanto entrambi necessari alla transizione ecologica: pur non essendo completamente sostenibili, dovrebbero rimanere attivi nei prossimi decenni per garantire il fabbisogno energetico e alimentare della popolazione europea, man mano che energie rinnovabili e pietanze a base di insetti fritti diventano più diffusi. Sul fatto che i cibi contaminati da virus Ebola possano essere considerati sostenibili c’è un certo dibattito, ma gli economisti convengono che non calmierandone i prezzi l’allocazione di questa risorsa resterebbe ottimale (teoria marginalista). Inoltre, produrre l’Ebola in laboratorio, nel caso non ce ne fosse abbastanza per tutti, non emette gas serra, anche se c’è preoccupazione da parte dell’opinione pubblica sulla sicurezza dei laboratori: si rischiano contaminazioni inopinate, di quelle che, pur raramente, causano pandemie difficili da gestire, specie nelle regioni guidate da dilettanti allo sbaraglio come la Lombardia (teoria sbaraglista). Ebola è comunque meno dannosa rispetto al nucleare, e viene accettata soprattutto come male minore: ti uccide facendoti sanguinare copiosamente da ogni orifizio, ma non dà alopecia. La polemica sull’inserimento dei cibi contaminati da virus Ebola nella tassonomia è stata particolarmente vivace in Francia, dove il governo sta lottando da anni contro la popolazione. Macron, togliendo il lenzuolo copripolvere da una poltrona per rivelare la sua occupante nascosta, Brigitte (chissà come sarà a letto), ha detto che la Francia non approverà la tassonomia se includerà i cibi contaminati da virus Ebola: “In Consiglio sarà necessaria una maggioranza di almeno 20 Stati membri per approvare la tassonomia: voteremo sì ai i cibi contaminati da Ebola solo se in cambio potremo ampliare il nostro parterre di centrali nucleari” (Teoria inculista). Per protesta contro l’intenzione della CE, alcune ong hanno annunciato la loro uscita dal gruppo dei 57, sai che paura.

 

Il capo politico e quel vaffa bis che servirebbe

Proprio perché fanno parte di un movimento, i parlamentari del Movimento 5 Stelle, coerenti con la propria ragione sociale (e politica), non stanno fermi un momento. Quando non sono occupati a farsi espellere, o a zompare con volo carpiato nel Gruppo misto, semplicemente scompaiono come certi monelli con l’argento vivo in corpo, che si nascondono in garage per farsi uno spinello. L’altroieri, sarà stato lo scirocco, ma i simpatici birbantelli ne hanno combinate di ogni. Per esempio, non si trovava più Paola Taverna, la senatrice sempre così festosamente caciarona si era eclissata quando, fortunatamente, il Giornale l’ha scovata “dietro le quinte che prepara il dopo-Conte”. Vedi a pensar male: tutti convinti che fosse impegnata in qualche marachella e invece lei, chissà, se ne stava lì diligente a scavare una fossa in giardino perché “punta alla reggenza del M5S appena il leader cadrà”. Poi arriva Virginia Raggi che, liberatasi di Spelacchio, “sull’obbligo vaccinale compatta il fronte grillino del No e il marito fa propaganda in chat” (Repubblica). E chissà se alla vigilia del vertice di governo Conte ringrazia sentitamente per la decisa spintarella familiare. Ma è a sera che il Movimento si fa frenetico: “È rivolta tra i gruppi 5S” (La Stampa). “I 5S scavalcano Conte” (Repubblica). “La richiesta del M5S di ‘commissariare’ il leader”. Cosa diavolo ha combinato l’allegra combriccola? Terrorizzati dalle ipotesi di voto anticipato, che stando ai sondaggi ne lascerebbe a casa una carrettata, i senatori “morituri” si aggrappano a un improbabile bis di Mattarella. E per impedire che da Conte possano giungere aperture alla presidenza Draghi (e al rischio di elezioni anticipate) lo spediscono alle trattative con gli altri partiti, però scortato dai capigruppo. La scorsa estate, quando Beppe Grillo ricoprì di affettuose contumelie l’ex premier, definendolo “un incapace senza visione politica, né capacità manageriale”, ci augurammo che il medesimo Giuseppe Conte (che si metteva a disposizione di un marchio in profonda crisi di prestigio e popolarità) rinnovasse quel grido di battaglia, che diede lustro al Movimento dei primordi. E che anche adesso suonerebbe quanto mai opportuno, se mai ne fosse tentato. MaVaffa.

La vicenda Bankitalia, un’altra procedura per Bertini

Seconda procedura disciplinare della Banca d’Italia contro Carlo Bertini, il whistleblower della Vigilanza che, dopo aver inutilmente sollevato la questione in Via Nazionale, attraverso Report del 13 dicembre ha segnalato le connessioni del broker di diamanti Dpi con i vertici di Mps e che per questo ha subito prima il demansionamento, una perizia psichiatrica (con esito di idoneità al servizio) e poi la sospensione per un anno da lavoro e stipendio. Il 30 dicembre la Questura di Roma ha notificato a Bertini un “ammonimento“. Il procedimento è stato aperto dopo una segnalazione della vicedirettrice generale di Banca d’Italia, Alessandra Perazzelli, che Bertini ha incontrato più volte sotto la sua abitazione e alla quale il 25 novembre ha inviato una email con la scritta “se le minacce fossero tutte così non esisterebbero più le scorte”. A quella email ne sono seguite altre. Comportamenti che, secondo la Questura della Capitale, hanno generato a Perrazzelli “uno stato di ansia e crescente turbamento, nonché di paura per la propria incolumità, costringendola a modificare le proprie abitudini di vita”. La segnalazione della vicedirettrice di Banca d’Italia ha portato al secondo procedimento disciplinare contro Bertini. Il whistleblower respinge le accuse e nega che la frase fosse una minaccia a Perrazzelli. Del caso si sta interessando la Falbi, sindacato autonomo dei dipendenti di Via Nazionale, che aveva già difeso Bertini nel primo procedimento disciplinare.

Diamanti venduti in banca: i giornali e le balle a 24 carati

Dal 2016 Report di Rai3 si è occupato più volte dei diamanti rifilati ai risparmiatori italiani a prezzi gonfiati, soprattutto dalla Idb (Diamond Broker e poi Business). Ha denunciato sia l’operato delle banche sia, recentemente, le carenze della vigilanza di Banca d’Italia. Ma c’è un aspetto finora sistematicamente trascurato: è il ruolo della stampa italiana nell’accreditare le menzogne alla base di tutto l’imbroglio. In virtù della sacrosanta libertà di stampa, un articolo può dare credito a falsità, che in un’inserzione sarebbero sanzionate. Ovviamente bisogna che i giornalisti bevano qualunque frottola.

Purtroppo è stato così per decenni, come risulta dai circa 180 articoli, interviste e tabelle che ho archiviato dal 1979 in poi. Il punto non sono gli spazi sul quotidiano della Confindustria comprati dalla Idb, che dagli anni 70 ha spacciato il suo listino di vendita come “quotazioni del Sole 24 Ore”, mentre il giornale lasciava fare. Questo è stato detto. Mi riferisco invece a titoli simili a slogan pubblicitari: “È anche più liquido di un immobile” (Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2002, pagina 26), “Rifugiarsi nei carati” (Il Mondo, 30 marzo 2012, p. 56), “Meglio del mattone e dell’oro” (La Stampa, 18 novembre 2013, p. 23), “Ecco perché chi investe in diamanti fa affari d’oro” (Il Venerdì di Repubblica, 30 gennaio 2015, p. 52), “Sicuro, intoccabile e verso l’esaurimento” (Repubblica, Affari & Finanza, 24 ottobre 2016, p. 60). Mi riferisco a numerosissime interviste ridotte ad altoparlanti per i venditori dei diamanti, in particolare per Idb con Antinea Massetti De Rico e poi senza tregua con Claudio Giacobazzi. Vedi, fra le varie testate, Il Sole 24 Ore, Repubblica, La Stampa, Il Giornale, Quotidiano Nazionale, L’Espresso, Milano Finanza, il Mondo, Economy. Ma soprattutto il giornalismo italiano ha messo nero su bianco le falsità usate per abbindolare i risparmiatori. Tali articoli, opportunamente fotocopiati, erano il supporto ideale in fase di vendita. Esaminiamo dunque le singole frottole distinte per categorie.

1 – Niente commissioni: “L’acquisto diretto è meno costoso” (Milano Finanza, 25 novembre 2006, p. 31), “Basta andare in banca, senza pagare nessuna commissione” (L’Espresso, 3 maggio 2012, p. 142), “L’acquisto è quasi gratuito” (La Stampa, 10 dicembre 2012, p. VII). Falso, era proprio lì l’imbroglio: Idb applicava ai prezzi delle pietre ricarichi del 100-150%.

2 – Difesa dall’inflazione: “Serve a conservare il potere d’acquisto soprattutto in situazioni di inflazione (Il Sole 24 Ore, 3 aprile 1995, p. 23), “Per anni si è dimostrato capace di battere l’inflazione” (Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2012, p. 2), “Prezzi stabili e sopra l’inflazione” (Repubblica – Affari & Finanza, 22 febbraio 2016, p. 20), Elena Dal Maso poi si sbilancia: “Rendono il 4,5% oltre l’inflazione” (Milano Finanza – Patrimoni, 5 aprile 2003, p. 16). Falso! Con un acquisto per esempio da Idb a fine 1980 e smobilizzo nel 1989, la perdita reale superò l’80%.

3 – Il prezzo sale sempre: “Prezzi in continua ascesa ne fanno un investimento sicuro” (Il Mondo, 30 marzo 2012, p. 56), “Diamanti, l’investimento che protegge il capitale” (La Stampa, 18 novembre 2013, p. 23). Falso, si ebbero discese dei prezzi (veri) dei diamanti soprattutto dopo il 1980, ma anche in seguito.

4 – Vantaggi fiscali inventati: “Il meno soggetto a tassazioni (solo l’Iva)” (Corriere della Sera D, 23 novembre 2014), Sandra Riccio dice pure a chi rivolgersi: “sono tax free, vale a dire che sono soggetti solo all’Iva […] e un’opportunità la offre la Idb” (La Stampa, 18 maggio 2015, p. 21). Fuorviante, perché l’Iva risultava di regola più onerosa dell’imposta sulle plusvalenze.

5 – Evitare i gioiellieri: “Il diamante da investimento non ha niente a che vedere con la pietra preziosa da incastonare” (L’Espresso, 14 giugno 2012, p. 140). Molto concreta Lucilla Incorvati: “Ben diverso da quello che si regala il giorno del fidanzamento” (Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2013 p. 13). “È assolutamente consigliabile comprare attraverso società specializzate o banche” (Il Venerdì di Repubblica, 30 gennaio 2015 p. 53). Falso, buono solo indirizzare i risparmiatori in banca anziché dal gioielliere. Che dire infine del Corriere della Sera? Sull’inserto di economia (6 giugno 2016, p. 26) Pieremilio Gadda presentava i diamanti addirittura come meno rischiosi dell’oro: rischio medio-basso rispetto a rischio medio. E consigliava di mettervi il 5% del proprio patrimonio: un’enormità.

Aggiungo, perché non sembri che io pontifichi col senno del poi, che già nel 2001 smontai la frottola della difesa dall’inflazione nel libro Il risparmio tradito (pagine 153-154) e addirittura nel 1995 avevo avvertito che i diamanti “si pagano il 100% o 200% più del prezzo di realizzo” (Gente Money, n. 1-1985, pagine 48-49). Più unico che raro il caso di Daniele Lepido, allora al quotidiano di Confindustria, che segnalò le magagne dei “diamanti da investimento” in uno sparuto articolo sul Sole 24 Ore in totale dissonanza con la linea editoriale della testata (4 gennaio 2007, p. 14). Un articolo che i venditori non fotocopiarono per mostrarlo ai propri clienti.

Altro che lavoretti: ‘570mila impiegati nella Gig economy’

Afar tramontare definitivamente la tesi per cui i lavori su piattaforma digitale sarebbero “lavoretti” svolti da una ristretta nicchia solo per arrotondare i propri guadagni ci pensa un report diffuso ieri dall’Inapp. Secondo l’Istituto pubblico di ricerca, infatti, nell’ultimo biennio in Italia abbiamo avuto oltre 570 mila “platform worker”, e per metà di questi tale attività costituisce la principale fonte di reddito. Un pianeta, che ormai non può più essere definito “gig economy”, formato com’è dai rider del cibo a domicilio per il 36%. Poi ci sono gli addetti alle consegne di pacchi, i lavoratori domestici e una fetta molto ampia – il 34,9% – che esegue compiti online, per esempio traduzioni. Più che creare nuove professioni, le piattaforme sembrano essere diventate uno strumento per dedicarsi ai mestieri tradizionali. I diritti, però, stentano a essere riconosciuti: solo l’11,5% ha un contratto da dipendenti; 9 su 10 sono inquadrati come autonomi, sebbene – dice l’Inapp – molti siano “subordinati mascherati”. Anche perché le prestazioni sono soggette a valutazioni con criteri che vanno dal numero di incarichi svolti (per il 59,1%) alle recensioni dei clienti (42,1%). E le conseguenze dei cattivi feedback possono comportare la perdita di incarichi più redditizi (40,7%), il peggioramento degli orari (25,2%) o addirittura, in casi meno frequenti, il mancato pagamento o l’esclusione dalla piattaforma. L’Ue sta discutendo una direttiva che tenderà a imporre alle piattaforme di assumere e tutelare i loro lavoratori.