Da Sorgi a Benedetto: bocciato il ricorso per la quota di solidarietà

Sono due le sentenze del Consiglio di Stato che respingono il ricorso di alcuni giornalisti in pensione contro il contributo straordinario di solidarietà imposto dall’Inpgi, l’Ente previdenziale dei giornalisti, che nel 2016 era stato applicato, in via temporanea per la durata di tre anni a decorrere dal primo gennaio 2017, a tutti i trattamenti di pensione erogati dall’Inpgi con percentuali crescenti per contribuire al riequilibrio finanziario della gestione previdenziale. Tra i 14 ricorrenti, alcuni nomi molto noti del giornalismo italiano, come quello di Marcello Sorgi (ex direttore del Tg1 e de La Stampa), Guido Paglia (già direttore del Corriere Elbano, edito dal gruppo Onorato Armatori, di Sardinia Post, ex vice direttore de Il Giornale, ex direttore delle Relazioni Esterne della Rai) e Marco Benedetto (ex amministratore delegato del gruppo Espresso). Dopo la bocciatura del Tar, l’anno scorso, nei giorni scorsi i giudici della terza sezione del Consiglio di Stato (presieduta da Franco Frattini) hanno respinto il ricorso ritenendo infondate le osservazioni e le contestazioni dei ricorrenti.

“Armi spuntate anti-evasione: gli autonomi sono i più tentati”

L’evasione fiscale è alimentata soprattutto dalla consapevolezza della sostanziale impotenza dell’amministrazione nell’azione di contrasto”. Ne è convinto Fabio Di Vizio, sostituto procuratore della Repubblica al Tribunale di Firenze e giudice tributario nella Commissione tributaria della Toscana. Di Vizio ha diretto indagini anche transnazionali su violazioni economiche, finanziarie e fiscali e tra il 2012 e il 2016 ha fatto parte del Comitato degli esperti dell’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia.

Dottor Di Vizio, se dovesse dare un volto a coloro che evadono il fisco in Italia, quali profili sceglierebbe?

È difficile dare un volto all’evasore. Anni fa, tenendo conto dei risultati della voluntary disclosure, ne emerse uno incredibile: pensionato, lombardo e erede controvoglia di risparmi altrui tratti da pensioni e lavoro dipendente prestato all’estero, costituiti fuori del territorio nazionale e prima del 2010. Insomma, anche quando “emerge”, lo fa mentendo per convenienza economica.

Difficile credere che i pensionati lombardi siano il motore dell’evasione di massa

La realtà è un’altra. Per l’Irpef la propensione all’evasione di lavoratori autonomi e imprese in soli tre anni è cresciuta di ben 12 punti percentuali, partendo dal 55,9% 2012—2013. Le percentuali di propensione all’evasione per i lavoratori dipendenti sono stabilmente poco superiori al 3%. Vi è una vasta area di evasione che non si nasconde. Penso a quella dei mancati versamenti delle imposte dichiarate, divenuta una impropria forma di finanziamento. Vi è poi un’evasione da omessa fatturazione e dichiarazione, basata in gran parte sul consenso tra gli operatori economici, che si accordano per non fatturare l’Iva.

L’eccessiva pressione fiscale causa evasione “difensiva” verso lo Stato?

Negare che esistano condizioni nazionali predisponenti sarebbe fuori della realtà. Il livello della pressione fiscale e del carico contributivo sulle imprese è molto alto e pone problemi di competizione internazionale: in Italia è superiore per oltre il 20% rispetto ai valori Ue. Lo stesso per il cuneo fiscale e i costi per adempiere gli obblighi fiscali. Ha un ruolo anche la consapevolezza dei contribuenti della debolezza del sistema dei controlli e dell’inefficacia di quello di riscossione.

Lo Stato non ha personale e mezzi sufficienti per contrastare?

Il problema non è solo di personale. Certo, dirigenti, funzionari e dipendenti dell’Agenzie, al pari dei militari della Guardia di Finanza andrebbero motivati, quantomeno evitando continue rese davanti ai risultati delle loro verifiche. La vera questione è quali strategie si vuole impostare. Resta assai bassa la possibilità di essere sottoposti ad accertamenti, interessano annualmente solo il 2,4% dei contribuenti e rimane sostanzialmente inutilizzata l’Anagrafe dei rapporti. Contro l’evasione intenzionale, in un quadro di regole chiare, non si può rinunciare oltre alla tecnologia. In primo luogo, nell’incrocio dei dati delle fatture e dei corrispettivi con quelli dei flussi finanziari dell’Anagrafe.

La normativa è adeguata?

La normativa fiscale ha molte colpe. Sovente è complicata, oscura, asistematica, originata da ragioni estemporanee. L’amministrazione finanziaria, poi, concentra i suoi sforzi sulle fasce di contribuenti di piccole dimensioni. Questa situazione ingenera vaste simpatie verso chi resiste al fisco. Il 45% degli accertamenti risultati positivi, ancora nel 2018, si è definito per inerzia: il contribuente non ha contestato l’accertamento ma neppure ha pagato; la prospettiva di recuperabilità dell’imposta accertata è pressoché nulla. Il credito pubblico è poco tutelato, anche per le ricorrenti sanatorie, condoni, rateizzazioni, rottamazioni, definizioni agevolate, eccetera.

La magistratura si sente impotente?

Alcune riforme dei precedenti esecutivi, in nome della certezza del diritto, hanno allentato le condizioni per un intervento penale repressivo. Penso all’innalzamento delle soglie per il rilievo penale dell’evasione in molti reati tributari. O alla depenalizzazione delle forme insidiose di abuso del diritto. Non può dire manchino alla magistratura strumenti seri di contrasto dell’evasione. Ad esempio i sequestri dei beni hanno oggi condizioni di praticabilità più sviluppate. L’esigenza di un’effettiva collaborazione giudiziaria, oltre che amministrativa, internazionale sta diventando patrimonio comune, specie in Europa.

È utile un intervento per far “emergere” il contenuto delle cassette di sicurezza in cambio di sconti fiscali?

No. Per ragioni economiche e legali. Anzitutto, stiamo parlando di cifre presunte. Possiamo conoscere il numero degli accessi alle cassette, ma non certo i valori in esse contenuti. Inoltre, credo che nessuno possa anche solo immaginare di fare altri sconti rispetto all’osservanza della normativa antiriciclaggio. Gli abusi sarebbero intuibili. Vorrei ricordare, poi, che di recente è stata sperimentata una procedura per l’emersione di contanti e titoli al portatore risultata assai deludente in termini di gettito.

Chance di riscatto o delusioni? Le storie, i sogni e le proteste

Sono circa 1,3 milioni le domande di Reddito di cittadinanza arrivate finora, 800mila almeno le card ricaricate. In questi mesi i beneficiari stanno raccontando al Fatto l’effetto che questo ha avuto nella loro vita (le loro storie le trovate di seguito). Per qualcuno è cambiata, per altri, invece, le critiche per gli importi esigui o le difficoltà ne hanno limitato l’impatto. Intanto, andranno “a battesimo” lunedì in Sardegna i primi navigator: in 121 parteciperanno a una giornata di presentazione e formazione, la prima a livello nazionale, all’Università di Cagliari. Ci sarà anche Mimmo Parisi, presidente dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per il lavoro: “Sarà una giornata di orientamento che prevede la comunicazione di tutte le informazioni necessarie ai navigator per svolgere i propri compiti” ha detto, in parte rispondendo alle accuse sull’eccessiva spesa che sarebbe stata erogata per la convention di tre giorni. All’appuntamento di Cagliari seguiranno infatti quello di Roma e di Palermo. “Anpal – si legge sul sito dell’Agenzia – ha disegnato un percorso formativo” che consenta “di essere pienamente operativi già ad agosto”.

 

Sono disoccupato da aprile 2017 e sono ospite a casa di un amico. Ho sperato nel reddito di cittadinanza come un piccolo aiuto per venir fuori da una povertà che mi spezza l’anima e il corpo. Ho ricevuto solo 207 euro, perché mi è stato detto che si va a integrare con la mia situazione del 2017. Cosa che trovo assurda. Ci vuole poco a comprendere che le entrate che avevo due anni fa non le ho più ora.

Paolo A. (Roma)

 

Ho due figli di cui uno invalido. Sono divorziata da pochi mesi. Senza lavoro dal 2016. Vivo in affitto. Io nel 2017 avevo l’assegno di mantenimento da parte del mio ex marito, per cui fra il mio e quello del figliolo raggiungevo 750 euro al mese. Ora, invece, percepisco solo 400 euro. Per questo mi hanno accreditato solo 40 euro. Capirete che mi sono sentita presa in giro. È bello aiutare ma fate in modo che i poveracci come me possano dichiarare la situazione attuale non quella di due anni fa.

Cinzia D. (59 anni, Bergamo)

 

Mia moglie e io ci siamo potuti comprare le scarpe e riesco a pagare il mutuo e le bollette. Prima del reddito di cittadinanza facevo volantinaggio, naturalmente in nero. Colgo l’occasione per incoraggiare tutti quelli che sono nelle mie stesse condizioni a non perdere mai la speranza. Può darsi che questa volta un lavoretto ce lo trovano davvero.

Giampaolo (61 anni, Cagliari)

 

Sono disoccupato dal primo giugno 2017, ho una casa in affitto e vivo solo. Sapete quanto mi hanno dato? 87 euro, perché nel 2017 ho lavorato 5 mesi.

Stefano M. (57 anni, Perugia)

 

Sono laureato in giurisprudenza, ho 28 anni e da aprile percepisco 144.75 euro di reddito di cittadinanza. Premesso che prima di tale data per lo Stato italiano non esistevo, 144 euro al mese sono ben lontane dalle più rosee aspettative dei 780. Ho molta voglia di lavorare, vorrei metter su famiglia, vorrei qualcosa di stabile, al momento sto ultimando il tirocinio propedeutico all’esame di abilitazione alla professione forense, 18 mesi non retribuiti, senza copertura assicurativa nè previdenziale. Il mese di agosto invece di andare al mare andrò a fare il vigile urbano. Per un mese, e probabilmente perderò il sussidio. Poco importa, spero di non uscire dal programma e che mi sia trovata un’occupazione, qualsiasi. Il lavoro non mi spaventa, neanche quello manuale, per mantenere gli studi ed aiutare i miei ne ho fatti di ogni tipo. Qui, però, il lavoro è oggetto di ricatto sociale, lavori come uno di Milano o forse anche di più, ma la busta paga (quando la vedi) è la metà se non un terzo. Il reddito di cittadinanza non mi ha reso ricco come qualcuno sosteneva e tanto meno sono stato sul divano a girarmi i pollici. Ma mi ha permesso di comprare un paio di scarpe o una maglietta senza dover chiedere i soldi ai miei genitori. A 28 anni, credetemi, è una cosa molto deprimente, soprattutto per chi come me ha affrontato un percorso di studi molto difficile. Tutte le mattine osservo la mia laurea a quell’angolo di muro, ma sarò davvero soddisfatto quando smetterò di chiedermi se ne sia valsa realmente la pena.

Gianluca (28 anni, Calabria)

 

Sono mamma di due bambini con disturbo dello spettro autistico. Prima di percepire il reddito di cittadinanza, di circa 915 euro, vivevamo con 680 euro delle pensioni dei miei figli e i 200 euro che prendo io in busta paga. Spero tanto che ci chiamino a lavorare e soprattutto spero che tengano conto dell’impegno per i nostri figli tra scuola e terapie. Per noi è stato di vitale importanza il reddito di cittadinanza.

Onida (34 anni, Cremona)

 

Avrei voluto scrivere che magari con il reddito potevo pagare il bollo scaduto oppure le tasse comunali oppure il pieno ogni tanto. Ma non posso perché non l’ho ricevuto. Perché? Perché l’Inps conta come reddito la pensione di invalidità, come se per noi fosse un lavoro essere invalidi. Io come tanti altri invalidi siamo rimasti esclusi proprio per questo conteggio.

Francesco S.

 

Sono disoccupata dal 2005.Ho iniziato a lavorare nelle fabbriche di abbigliamento a 17 anni, sempre sfruttata e pagata poco. I contratti sono da tre ore ma ne fai anche 14. Dopo la scuola di estetica, con sacrifici, ho trovato la stessa situazione, prove infinite senza retribuzione né contratto. Ora posso pagare una bolletta, l’affitto, comprare il pesce, alimento per me impossibile da mangiare prima, una pizza, un bagno schiuma in più. Mi vergognavo della mia situazione perché dovevo riscaldare l’acqua per lavarmi, lavare i panni a mano non avendo una lavatrice. Tuttora vivo in una stanza col mio compagno ma vivo dignitosamente nell’attesa di una chiamata dal centro per l’impiego perché prima di tutto vorrei lavorare, un lavoro normale con contratto, che mi permetta di vivere finalmente una vita normale.

Daniela (36 anni, Benevento)

Caso Orlandi, esami sui sei sacchi di ossa al cimitero teutonico

Sei sacchi di ossa sono stati esaminati ieri nel Campo santo del Collegio teutonico vaticano nell’ambito delle ispezioni disposte dalla magistratura vaticana alla ricerca del corpo di Emanuela Orlandi. Lo ha reso noto il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi. È stata la seconda giornata di esami dopo che sabato scorso erano iniziate le operazioni. Una settimana fa, il perito nominato dagli Orlandi, il genetista Giorgio Portera, all’uscita dal Vaticano aveva parlato di migliaia di ossa rinvenute nel cimitero Teutonico, l’antica istituzione all’interno delle mura leonine che ospita gli ossari di antiche famiglie nobili tedesche. È stato il Vaticano stesso a comunicare che le operazioni riprenderanno oggi alle 9 e che gli esami di oggi hanno riguardato l’analisi morfologica di una parte dei reperti ritrovati negli ossari, a cura del professor Giovanni Arcudi, il perito vaticano. Arcudi ha svolto, “l’analisi morfologica dei reperti ritrovati negli ossari, rappresentati da ossa, frammenti ossei o ossa frammentate anche di piccole dimensioni. L’analisi sarà effettuata secondo i protocolli riconosciuti a livello internazionale, in particolare identificando gli elementi, nella struttura ossea, utili a diagnosticare la datazione dei reperti”.

Riapre la cripta di Mussolini: “Per noi è una risorsa turistica”

“Sono le solite polemiche cucite addosso alla nostra realtà, le subiamo, per noi è la routine. Sappiamo che per una settimana il mondo giornalistico ci guarda, ma noi come predappiesi viviamo tutto ciò con tranquillità e distacco”. Lo afferma Roberto Canali, sindaco di Predappio dove oggi, dalle 8:30 alle 18 riapre la cripta di Mussolini a Predappio in occasione del 136esimo anniversario della nascita del capo del fascismo. Da parte sua, spiega il sindaco, l’amministrazione comunale ha ottemperato alle misure previste come “disporre i divieti di sosta lungo le strade di accesso al cimitero”. Sulla posizione dell’Anpi, che nei giorni scorsi aveva bollato come un oltraggio la riapertura di domani, Canali osserva: “Per decine di anni la cripta è stata aperta, fino alla chiusura di due anni fa. All’epoca non ero amministratore, ma non ho mai sentito parlare di oltraggio”.

Affidi illeciti: “Il Tribunale minorile di Bologna sapeva”

Il Tribunale dei Minori di Bologna sapeva che uno degli affidi autorizzati dai servizi sociali dell’Unione Val d’Enza, finito nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, per cui sono indagate 29 persone, era illecito. La Procura di Reggio Emilia aveva comunicato che le relazioni che avrebbero allontanato il minore dai genitori contenevano dei falsi. A novembre scorso il sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi si era rivolta al giudice minorile Mirko Stifano. Lo aveva prima chiamato, annunciandogli l’urgenza di interrompere l’iter di allontanamento, e poi gli aveva inviato gli atti, dimostrando che quanto riportato dai servizi sociali non era vero.

Il minore doveva essere portato via a causa delle condotte penali di suo padre riscontrate dal servizio sociale. Condotte che, come avrebbe riferito la pm Salvi a Stifano, non risultavano tali da procedere. Ma la sua richiesta è caduta nel vuoto. Il bambino è finito ugualmente nel centro “La Cura” di Bibbiano, dov’è rimasto fino all’ordinanza del giudice Luca Ramponi, che ha disposto gli arresti domiciliari per sei persone, tra cui il fondatore del Centro Hansel & Gretel Claudio Foti (la misura per lui poi è stata attenuata).

Il minore in questione è uno dei dieci finiti nel giro degli affidi illeciti. Potrebbe trattarsi del ragazzino di origine straniera la cui abitazione veniva descritta dai servizi sociali come “spoglia” e “priva di giochi”. Dettagli poi contraddetti da un sopralluogo dei Carabinieri. Secondo l’accusa, Federica Alfieri, psicologa Asl, e Annalisa Scalabrini, assistente sociale, riportavano nella relazione, poi trasmessa dalla dirigente del servizio sociale, Federica Anghinolfi (personaggio chiave nell’inchiesta), al Tribunale dei Minori, il falso. “Lasciavano intendere uno stato di denutrizione del bambino”, poi smentito dal pediatra. Descrivevano il minore come “depresso”, a causa di suo padre soggetto dedito al consumo di alcolici e violento. “Pare che il padre abbia un atteggiamento molto aggressivo e che sia stato coinvolto in diverse risse”, avrebbero dichiarato. Alla figura paterna avrebbero imputato anche una cattiva gestione del denaro, “basando tale assunto esclusivamente sul dato del mancato pagamento di alcune rette scolastiche”. Notizia poi dimostratasi falsa. Per l’accusa, è vero che il padre era stato fermato 2 volte per guida in stato di ebbrezza, ma 10 anni prima e con un livello modesto di positività al test. Infatti, i giudici considerano un’esagerazione ritenere che fosse dipendente da alcool. Per questo minore, i servizi sociali avevano richiesto il collocamento in luogo protetto assieme alla madre. Il decreto di allontanamento del Tribunale dei minori di Bologna veniva eseguito dai servizi sociali dell’Unione Val d’Enza il 22 novembre 2018. Presumibilmente, qualche giorno prima la pm Salvi aveva cercato di impedirne l’attuazione, rivolgendosi direttamente al giudice minorile.

Ma viene allontanato ugualmente e portato presso “La Cura” di Bibbiano. La madre lo segue e l’assistente sociale, Francesco Monopoli, avrebbe commentato così la sua presenza: “Gli dirà guai a te se parli”. Influenzato dalla madre, il minore avrebbe negato gli abusi (mai avvenuti). Non si esclude invece, che abbia assitito ad aggressioni del padre nei confronti della madre.

Contratto dirigenti della Pa, c’è la bozza. Aumento di 250 euro

La partita per il rinnovo del contratto dei dirigenti di Stato, il contratto più ricco della Pubblica Amministrazione, non si concluderà prima dell’estate. In questi giorni l’Aran, l’Agenzia che fa le veci del governo nei tavoli negoziali, e i sindacati, hanno provato a chiudere. Se il rush non è riuscito, qualche frutto però lo ha dato. Dopo gli ultimi serrati incontri è uscita una bozza di contratto in cui compaiono le prime cifre sugli aumenti per il triennio 2016-2018. Si tratta di +125 euro lordi al mese sullo stipendio base della seconda fascia e +160 euro per la prima fascia. A cui vanno aggiunti rispettivamente altri 31 e 99 euro sempre tra le voci ‘fisse’. Resta ancora da determinare la parte variabile, quella legata agli incarichi ricoperti e ai risultati raggiunti. Per le categorie più alte può anche rappresentare il capitolo più pesante. I sindacati puntano a portare a casa 250 euro medi il più possibile sulle voci fisse. Ma visto che l’aumento complessivo per legge deve essere del 3,48%, la cifra che dovrebbe risultare dalla somma totale sarebbe comunque vicina ai 250 euro. La dirigenza della Pa centrale si confermerebbe così quella meglio remunerata. Per i medici l’asticella si è fermata a 190euro, per i presidi a 160.

Fisco, la guerra legale di Ruffini al Tesoro

Poco meno di un anno fa, quando il governo gialloverde non lo ha riconfermato alla guida dell’Agenzia delle entrate, spiegò al Messaggero: “Quanto a me è la legge sullo spoil system che consente all’esecutivo di fare le proprie scelte in piena autonomia. Sono pronto a un cordiale passaggio di consegne con il mio successore”. Passato qualche mese, però, Ernesto Maria Ruffini ha deciso di far valere lo stesso il suo contratto avviando un contenzioso con il ministero delle Finanze, titolare del rapporto di lavoro. Il tributarista di origini siciliane, romano d’adozione, ha chiesto 480 mila euro al ministero per aver dovuto terminare in anticipo il suo incarico all’ente ora guidato dal generale della Finanza Antonino Maggiore. La cifra corrisponde a due anni di stipendio del contratto triennale (240 mila euro lordi annui), chiuso dopo solo un anno. O, in alternativa – recita il ricorso presentato al Tribunale di Roma – il ripristino del rapporto di lavoro.

Ruffini è un avvocato tributarista assai vicino a Matteo Renzi (frequentatore della sua Leopolda), che nel giugno 2015 lo nominò amministratore delegato di Equitalia. Da ottobre 2016 ha ricoperto il doppio incarico di a.d. e di presidente della società. Nel febbraio del 2017 è stato nominato commissario della nascente “Agenzia delle entrate – Riscossione” che ha assorbito Equitalia, il colpo di genio di Renzi per vendersi, in vista del referendum costituzionale, la fine dell’odiata società di riscossione dietro un semplice cambio di nome. Nel giugno successivo, il governo Gentiloni gli ha consegnato la guida dell’Agenzia al posto di Rossella Orlandi, nominata da Renzi nel giugno 2014 e poi caduta in disgrazia presso lo statista di Rignano, folgorato dalle idee del tributarista sul “fisco amico”, più dialogante con il contribuente.

L’incarico di Ruffini sarebbe dovuto durare tre anni, ma ad agosto scorso il governo gialloverde lo ha fatto decadere, nominando Antonino Maggiore (l’indicazione spetta al dicastero dell’Economia). Secondo la legge sullo spoil system un governo appena insediato entro 90 giorni deve riconfermare i vertici degli enti amministrativi apicali, che altrimenti decadono. È quello che è successo con Ruffini, che – dopo i buoni propositi iniziali – ha avviato il contenzioso legale rivendicando che il contratto, in caso di risoluzione anticipata, prevede lo stesso un indennizzo pari alle mensilità ancora da versare, nonostante lo spoil system, di cui comunque contesta la legittimità. Secondo il ministero dell’Economia, invece la norma è legittima e a Ruffini non è dovuto nulla. La linea di difesa, sostenuta dall’avvocatura di Stato, ha convinto il Tribunale, che il 16 luglio scorso ha respinto il ricorso, condannando Ruffini a risarcire le spese legali (3.500 euro).

Non è chiaro se la partita si sia chiusa qui. Di certo al professionista romano il lavoro non manca. A marzo è stato nominato responsabile della sede romana del noto studio tributario Falsitta & Associati, mentre il 9 luglio è entrato nel cda del gruppo ospedaliero San Donato della famiglia Rotelli, il più grande della sanità privata italiana, di cui presiederà la controllata Gsd Sistemi e Servizi. Passaggio avvenuto con l’arrivo al vertice dell’ex ministro Angelino Alfano.

L’Anac è già archiviata: così il Carroccio vuole svuotarla

Il presidente Raffaele Cantone non ha ancora svuotato la scrivania, lo farà a settembre, ma è già chiaro che il destino della sua Autorità anti-corruzione è segnato. Abolirla non si può, ma ridimensionarla è semplice, basta restringere il perimetro della sua azione. “Con Cantone abbiamo lavorato benissimo”, ha detto il vicepremier Luigi Di Maio alla notizia dell’addio anticipato del magistrato dall’Anac. Ma l’opinione dei Cinque Stelle, che pure avevano avuto un inizio complicato di rapporto con l’autorità introdotta dal governo Renzi, oggi conta meno di quella della Lega.

E allora conviene prendere sul serio le parole di Massimo Garavaglia, viceministro leghista dell’Economia: “L’Anac era diventata la foglia di fico, ognuno ad ogni livello piuttosto che prendersi una responsabilità mandava una lettera all’Anac”. E dunque, suggerisce Garavaglia, “l’autorità andrebbe usata solo per le cose importanti altrimenti diventa inutile. Si può ragionare in termini di massimali, categoria o di materia”.

Garavaglia non ha mai nascosto le sue opinioni, considera il Codice degli appalti sponsorizzato da Cantone “una boiata pazzesca”. Altri esponenti di vertice della Lega esprimono lo stesso concetto con altre parole. Come Giulia Bongiorno, ministro della Pubblica amministrazione: “Alcune linee guida e regolamenti dell’Anac non riuscivano a coniugare l’esigenza della trasparenza con quelle dell’efficienza e della rapidità”. Ormai è diventato un luogo comune: l’Anac ha bloccato gli appalti, il Codice degli appalti ha fatto crollare gli investimenti. In realtà nel 2018 il valore degli appalti pubblici di importo pari o superiore a 40mila euro è stato di 139,43 miliardi di euro, il più alto di sempre e in decisa crescita rispetto ai 132,36 miliardi del 2017. I problemi riscontrati nel 2016 al momento dell’approvazione del Codice erano dovuti alla fase di transizione: quell’anno gli appalti sono scesi da 121,3 miliardi del 2015 a 102. Ma già l’anno successivo il livello era tornato alla normalità. Numeri che Cantone non ha potuto introdurre nel dibattito parlamentare sul decreto Sblocca Cantieri perché, per la prima volta, non è stato convocato in audizione.

Giovanni Toti, Forza Italia, governatore della Liguria, ha le idee chiare: l’Anac deve “tornare a essere un’autorità di controllo e di garanzia solamente per gli appalti molto grossi (…) questa è una funzione sensata”. Peccato che gli appalti “molto grossi”, sopra i 5 milioni di euro, sono appena il 5% del totale. E quelli sopra il milione di euro soltanto il 10%. Proprio nella Regione di Toti, peraltro, c’è il più grosso degli appalti, quello per la ricostruzione del ponte Morandi a Genova. Ma il commissario, cioè il sindaco della città Marco Bucci, prima ha chiesto la supervisione preventiva dell’Anac sui contratti, poi non gliene ha sottoposto nessuno. Cantone, sentendosi preso in giro, si è sfilato dal protocollo d’intesa. E grazie al decreto Sblocca cantieri, voluto sia da Lega che M5S, ora si può estendere a tutta Italia il “modello Genova” con un semplice decreto della presidenza del Consiglio, senza passare dal Parlamento: basta definire un cantiere “strategico” e resta in vigore soltanto il codice penale, senza i fastidiosi vincoli che il Codice degli appalti e quello civile prevedono per assegnare commesse pagate dai contribuenti. Quindi l’Anac è già stata svuotata da sopra, il governo può escluderla dai dossier più rilevanti. Ora i leghisti promettono di svuotarla da sotto.

Tornare al passato, come chiede Toti, significa sottrarre al controllo del successore di Cantone praticamente tutti gli appalti d’Italia. L’Anac può essere guardata con sospetto per i superpoteri che le ha attribuito il governo Renzi. Ma non è che prima la vigilanza pubblica sugli appalti avesse attraversato una stagione gloriosa: l’ultimo presidente dell’Avcp, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, antenata dell’Anac, è stato arrestato nel 2014 con accuse di corruzione.

Adam e Ramy sono cittadini italiani: ieri il sì definitivo

È arrivato ieri l’atto finale per la cittadinanza italiana a Adam El Hamami e Ramy Shehata, i due ragazzini della scuola media Vailati di Crema che il 20 marzo scongiurarono una strage a bordo di un autobus, minacciato dall’autista che stava trasportando loro e i loro compagni di classe. La sindaca di Crema ieri durante una cerimonia in Comune ha letto il decreto con il quale il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, definiva il gesto “di alto valore etico e civico”, concedendo ai due la cittadinanza.

Adam è il ragazzo che diede la localizzazione esatta ai carabinieri segnalando dove si trovava il pullman (San Donato milanese) dirottato da Crema da Ousseynou Sy, l’autista italiano di origine senegalese, il quale sarà processato in autunno, e che avrebbe dato poi fuoco al mezzo. Ramy, fingendo di pregare, in arabo, aveva invece dato l’allarme al padre, sempre per telefono.

Il Comune di Crema ha intenzione di costituirsi parte civile nel processo a carico di Sy che si aprirà il prossimo 18 settembre davanti alla Corte d’Assise di Milano.