L’album della senatrice FI sul volo blu della Casellati

Cos’è che nutre il populismo? Donatella Conzatti, senatrice esordiente di Forza Italia, assieme a una ristretta delegazione di colleghi trentini, ha accompagnato Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente di Palazzo Madama, in visita ufficiale fra Bolzano e Trento. All’aeroporto romano di Ciampino, giovedì mattina, davanti al volo di Stato con le insegne della Repubblica e la scaletta aperta, Conzatti non ha resistito all’ebbrezza di una fotografia di alto rango, rovinata dal solleone, al fianco del corregionale Andrea de Bertoldi di Fratelli d’Italia. Con un’illuminazione più adeguata e perciò invitante, Conzatti ha completato l’album – diffuso sul profilo social di Instagram ai circa 830 iscritti autorizzati a seguirla – con un selfie e altre immagini a bordo del velivolo dell’Aeronautica militare con accanto i senatori autonomisti di Svp, il capogruppo Julia Unterberger, il vice vicario Dieter Steger e il nazionalista di Bolzano de Bertoldi.

Non c’è abuso. Non c’è spreco. Non c’è violazione. Qui il tema è il decoro istituzionale. Il presidente di Palazzo Madama ha diritto a un trasporto rapido e sicuro per tutelare se stessa e l’incarico che ricopre, può ospitare passeggeri con i titoli in regola, come i parlamentari della Repubblica, ma è almeno bizzarro per i senatori, che ricevono un trattamento di favore, ostentare l’avventura nel volo di Stato con i sorrisi di chi è in gita. Casellati ha trascorso due giorni con Conzatti e compagni per una serie di cerimonie pubbliche per celebrare l’autonomia, oltre al bel gesto, non in agenda, di incontrare i familiari di Antonio Megalizzi, il giornalista ammazzato durante l’attentato terroristico di Strasburgo del dicembre scorso.

La trasferta di Casellati, però, ha pure un significato politico: i partiti locali – Svp in testa – sono tornati nel centrodestra e brindano con il presidente di Palazzo Madama di centrodestra. Addio all’infatuazione per i democratici che consigliò a Maria Elena Boschi di rifugiarsi nel collegio di Bolzano per uno scranno garantito a Montecitorio.

Oscillare nel perimetro degli schieramenti politici è un vizio e una virtù – per contare, chiaro – dei parlamentari autonomisti di Trento e Bolzano. Non è immune a oscillazioni la senatrice Conzatti, classe ‘74 di professione commercialista, che vanta una carriera breve con tanti salti di qua e di là. Viene candidata con esito infausto nel 2013 da Scelta Civica, poi scivola verso Forza Italia con una capatina nel fugace cartello centrista di Raffaele Fitto. Stavolta è riuscita a entrare in Parlamento, e sarà l’inesperienza, e sarà la felicità, così è incappata nell’errore veniale di documentare il ritorno “a casa” in volo di Stato e col presidente del Senato. “Il mio fine è la ricerca del senso di ciò che faccio. Di quello che deve e dovrà essere”, scrive nella sua biografia. Per la circostanza, di senso, ce n’è poco. Se non un certo provincialismo. Autonomista, ovvio.

La versione di Siri: “Mai preso soldi, mai visto Nicastri”

Nessuna tangente, né promessa di soldi, nessun incontro con l’imprenditore in odor di mafia Vito Nicastri, solo la colpa di “aver regolarmente svolto il mio lavoro di parlamentare proponendo un emendamento chiestomi dal Consorzio dei Produttori di Mini Eolico (Cpem)”. Questa la versione che Armando Siri affida a La Stampa sulla presunta tangente da 30mila euro che, secondo i pm, Arata gli avrebbe dato o promesso in cambio della sua attività legislativa a favore del Cpem: è vero, scrive l’ex sottosegretario, Arata fu “insistente”, ma non più di “qualunque altro soggetto” in casi simili. E comunque, “non ho mai ricevuto o accettato offerte, né dazioni di denaro. Mai l’avrei fatto”. Quanto ad Arata, che intercettato parla dei 30mila euro, “non ho idea di cosa gli passasse per la testa o quali fossero le sue intenzioni. Non sapevo nulla dei suoi affari, delle sue attività o delle sue discutibili frequentazioni”. Infine, sul “fantomatico pranzo con questo Signor Nicastri”, il senatore leghista smentisce seccamente: “Calunnie e ricostruzioni irreali (…) Con queste persone io non ho mai avuto nulla a che fare, mai ho sentito i loro nomi prima del 18 aprile scorso, quando ho appreso dell’inchiesta che mi riguarda”.

Giornali, autostrade e cliniche: così “ri-vivono” gli ex politici

Qualche giorno fa ci siamo occupati dei primi nomi: Angelino Alfano, Roberto Maroni, Nunzia De Girolamo, Gian Luca Galletti e molti altri ex ministri e parlamentari che per vari motivi si sono ritirati dalla politica con l’inizio della nuova legislatura. Adesso ecco altri cinque profili, tutti usciti di scena in cerca di fortuna altrove. Enrico Letta, dopo le delusioni italiane, si è rifugiato in Francia senza disdegnare incarichi spagnoli, l’ex ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza si dà da fare nel privato mettendo a frutto anche i rapporti con gli ex colleghi politici. D’altra parte impegnarsi in Parlamento o al governo per anni aiuta a costruirsi un network di conoscenze niente male. La storia di Denis Verdini, decano di mille larghe intese, insegna. Ma per chi è stufo di consigli d’amministrazione, riunioni e responsabilità resta sempre la strada indicata dall’ex senatore Antonio Razzi, che nell’ultimo anno si è buttato sulla televisione dando seguito in prima persona al personaggio caricaturale già reso celebre da Maurizio Crozza. E così ognuno, a suo modo, ha trovato come re-inventarsi.

 

Enrico Letta

Dopo #enricostaisereno è ripartito da Abertis, Macron e Università

Matteo Renzi, suo successore a Palazzo Chigi, lo aveva infilzato col celebre hashtag #enricostaisereno. Forse è anche per quella scottatura che Enrico Letta è fuori da ogni incarico istituzionale italiano da quattro anni, da quando cioè si era dimesso anche da deputato. Da allora però il lavoro non gli è mancato. Il ruolo più controverso è quello da consigliere di amministrazione di Abertis, il gigante spagnolo delle autostrade che controlla anche il tratto della A4 in Italia. Letta è rimasto in carica per oltre un anno, dimettendosi poi con l’ingresso di Atlantia (famiglia Benetton) nel gruppo. Più o meno nello stesso periodo Letta ha anche lavorato per un organo pubblico francese, il Comitè Action Publique 2022 voluto da Emmanuel Macron per preparare la riforma della pubblica amministrazione. Poi ci sono gli incarichi accademici. Il 13 giugno scorso Letta è entrato nel cda di Stoà, un istituto di formazione, ricerca e consulenza alle imprese. Nel frattempo, mantiene la direzione della Scuola di affari internazionali all’Istituto di Studi Politici di Parigi.

 

Antonio Razzi

Tutto cominciò con Crozza, adesso balla con le stelle (ma la De Girolamo lo batte)

Per un certo periodo la sua imitazione creata da Maurizio Crozza era forse ancor più celebre di lui, complice la parlata goffa e i riferimenti grotteschi ai privilegi della politica. Poi Antonio Razzi, già senatore di Forza Italia non ricandidato alle ultime elezioni, ha sfruttato quell’ironia per diventare un personaggio che potesse resistere anche fuori dai Palazzi. E così oggi Razzi, 71 anni, è fuori dalla politica e si gode la nuova vita in televisione. Lo scorso anno ha debuttato sulla Rai come inviato di Quelli che dopo il Tg, il programma di Luca e Paolo, prima di avere uno show tutto suo sul canale Nove dal titolo Razzi vostri. Il vero successo è arrivato però in questa stagione grazie all’approdo a Ballando con le stelle: qui il baffuto ex senatore ha tra l’altro ritrovato l’ex ministra (e collega di partito) Nunzia De Girolamo, concorrente della stessa gara. Nella gioia generale, una beffa: la De Girolamo è arrivata in finale, lui no.

 

Maria Chiara Carrozza

L’ex ministra al Don Gnocchi e in Piaggio col dem Colaninno

Ministra dell’Istruzione durante il governo Letta, deputata con il Pd per cinque anni fino al 2018, quando non si è ricandidata per la Camera. Da allora Maria Chiara Carrozza è fuori dalla politica e si dedica soprattutto agli incarichi scientifici: è infatti docente di Bioingegneria Industriale all’Istituto Superiore Sant’Anna di Pisa e presiede l’Associazione Gruppo Nazionale di Bioingegneria. Dal 2018 la Carrozza è anche Direttore Scientifico della Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus, gigante della riabilitazione con diverse strutture sparse in tutt’Italia. Ma l’esperienza nel gruppo del Partito democratico ha rinforzato legami che resistono fuori dal Parlamento. Da quattro anni la Carrozza è infatti consigliera di amministrazione del gruppo Piaggio, controllato dalla famiglia Colaninno: Roberto ne è il presidente, Matteo – tutt’ora deputato dem al terzo mandato e dunque ex collega della Carrozza – ne è vicepresidente.

 

Giuliano Poletti

Pensionato e attivo nel sociale (con la benedizione di Gentiloni)

Per ricordare il suo periodo al ministero del Lavoro, dal 2014 al 2018, bastano due parole: Jobs Act. Giuliano Poletti, 67 anni, emiliano, ha occupato la casella che ora è di Luigi Di Maio mentre Matteo Renzi compiva una delle sue riforme più controverse. Confermato durante il governo Gentiloni, Giuliano Poletti ha poi deciso di non candidarsi nelle liste del Partito democratico: “Ci sono tante cose belle da fare fuori dalle Camere, – aveva detto – ho una grande passione per tutte le vicende che riguardano la dimensione sociale, come il volontariato, l’associazionismo, la cooperazione”. E in effetti la nuova vita di Giuliano Poletti segue quella strada: da pensionato l’ex ministro si occupa di iniziative sociali nella zona di Imola, dove risiede, e nelle scorse settimane ha lanciato una nuova piattaforma: si chiama Social e sarà un’associazione che studia l’innovazione del mondo del lavoro. Una specie di intermediario tra persone, imprese e società, la cui presentazione è avvenuta a Roma alla presenza di Paolo Gentiloni.

 

Denis Verdini

Un anno in Tosinvest: gli affari del collega-editore Angelucci

Dei suoi incarichi pubblici e privati si perde memoria, indietro nei decenni. Tre volte deputato, una senatore, fautore delle intese politiche più larghe, fino al Patto del Nazareno che doveva cambiare la Costituzione. Lo scorso anno sembrava che Denis Verdini fosse destinato a una candidatura blindata all’estero, poi però il leader di Ala ha deciso di non presentarsi alle elezioni. Da allora tanti processi relativi agli anni in cui era presidente del Credito cooperativo fiorentino (l’ultima condanna è a 4 anni e 4 mesi per bancarotta preferenziale) e nuovi incarichi nei media: da febbraio 2018 a aprile 2019 è stato presidente del ramo editoria del Gruppo Tosinvest di proprietà dell’ex collega di Forza Italia Antonio Angelucci. Un colosso che comprende Libero, Il Tempo e diversi “Corrieri” locali tra Umbria e Toscana. Il motivo dell’addio? Più che dissidi con i direttori dei quotidiani, i rapporti con Giampaolo Angelucci, figlio del forzista e presidente del cda del gruppo.

Il Pd gongola e chiede le dimissioni di Toninelli e Di Maio

Dopo il via libera ”ufficiale” al Tav, arrivato con la lettera di venerdì del ministero delle Infrastrutture alla Ue (non firmata da Danilo Toninelli), il Pd gongola e mette nel mirino i “No-Tav” di governo invitandoli alle dimissioni. L’ex ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, oggi capogruppo dem alla Camera, la mette così: “La Tav prosegue. Abbiamo vinto. Conte si arrende ai fatti. Chi si oppone dovrebbe scegliere fra dignità e attaccamento alla poltrona”. Il suo omologo al Senato, Andrea Marcucci, sottolinea l’incoerenza di dare il via libera come ministero, ma presentando una mozione contro l’opera in Parlamento: “Se il M5S ora vuole discutere la propria mozione per bloccare il Tav, Toninelli si appresti ad assumersene le conseguenze e a dimettersi”. Il responsabile infrastrutture del Pd, Roberto Morassut, ci mette anche Di Maio: “Se Di Maio non vuole arrendersi al Tav non lo deve dire su un social, ma al suo presidente del Consiglio. Le discussioni sono chiuse. Se non è d’accordo si dimetta insieme a Toninelli”. Il ministro è il bersaglio anche di Matteo Renzi: “O firmi la lettera per dire che l’Italia è favorevole al Tav o firmi le dimissioni, non ci sono altre strade. Lo capirà?”.

L’incontro sul palco con i Gilet gialli: “Uniti nella lotta”

Incontro tra i no Tav e rappresentanti dei Gilet gialli. Ieri a Venaus, prima della marcia contro la Torino-Lione, due esponenti del movimento francese sono salite sul palco del festival “Alta felicità” per raccontare la loro esperienza. “Tra il Movimento no Tav e i gilet gialli – hanno sostenuto gli organizzatori aprendo l’incontro – abbiamo visto numerose similitudini, i gilet esprimono un potenziale di cambiamento che ci ha fatto pensare quanto sia importante cercare alleanze con chi si batte per mettere in crisi il sistema. La loro lotta è la nostra lotta e sostenerli aiuta anche la Valsusa a vedere la possibilità di un cambiamento”. Da parte loro, le due ospiti francesi hanno invece rivendicato la vitalità del loro movimento, che pure appare in netto calo nei consensi e nella considerazione popolare: “I Gilet gialli non sono finiti, siamo sempre qui perché la determinazione è essenziale nella lotta. Siamo fiere di far parte di questo collettivo e ci batteremo di nuovo e per sempre contro la repressione, perché il capitalismo è il vero veleno”.

A settembre la Telt farà partire le gare “francesi”

A meno di improbabili voti contrari in Parlamento, la partita del Tav Torino-Lione si è conclusa venerdì sera alle otto di sera. È il momento in cui dal ministero delle Infrastrutture – e più precisamente dalla Direzione generale per lo sviluppo del territorio, la programmazione e i progetti internazionali – è partita la lettera all’Agenzia esecutiva per l’innovazione e le reti della Commissione europea (Inea) con cui il governo “conferma l’impegno italiano” a completare “in nome dell’interesse nazionale” l’alta velocità tra Italia e Francia o meglio il cosiddetto “tunnel di base” da 57 chilometri tra Saint Jean de Maurienne e Susa/Bussoleno perché sul resto della linea non c’è alcuna certezza, né fondi già stanziati in nessuno dei due Paesi.

Anche se questo non significa che la linea Torino-Lione vedrà certamente la luce, il processo autorizzativo può dirsi concluso. Significativamente sulla lettera della “resa” non c’è la firma di Danilo Toninelli, ministro grillino che continua a dirsi contrario all’opera, ma solo quella di un direttore generale. Nella missiva all’Inea, che sollecitava una decisione fin da giugno, si citano la promessa di Bruxelles di aumentare dal 40 al 55% il finanziamento complessivo dell’opera e di arrivare al 50% di quello sulla tratta italiana (al momento impegni tutt’altro che certi), l’approvazione in Francia della “legge sulla mobilità” a giugno che ha ribadito l’importanza del Tav per Parigi e il “discorso del presidente Conte del 23 luglio scorso” nel passaggio in cui si afferma che ormai “costerebbe di più bloccare l’opera che farla” (affermazione, peraltro, smentita dagli stessi numeri del governo).

Ora Telt (Tunnel Euralpin Lyon Turin), la società italo-francese che è la stazione appaltante dell’opera, può procedere con le gare d’appalto. Nel frattempo la Commissione Ue e i governi di Italia e Francia dovranno accordarsi per concedere una proroga almeno biennale al Grant Agreement, l’accordo finanziario, del 2015 che assegna al progetto 813 milioni di fondi europei per i lavori esplorativi fino al 2019 (su 1,9 miliardi di spese totali stimate).

A settembre, invece, Telt avrà terminato di esaminare le “manifestazioni di interesse” a realizzare il primo tratto del tunnel francese (2,3 miliardi di euro) e dirà quali aziende potranno partecipare alla gara in base al capitolato prodotto dalla stessa società italo-francese. La stessa procedura per il lato italiano del tunnel (1 miliardo) richiederà più tempo: raccolte entro settembre le manifestazioni di interesse, si procederà a individuare le ditte per la gara entro fine anno. Ovviamente con l’avvio e ancor più la conclusione delle gare vere e proprie per il tunnel sarà difficile tornare indietro senza essere costretti a pagare grossi indennizzi alle aziende coinvolte.

Quando i lavori partiranno davvero, secondo l’ultima modifica al progetto definitivo (marzo 2018) il cantiere principale in Italia sarà basato a Chiomonte e non a Susa, ampliando quello usato per il tunnel geognostico da 7 chilometri e dichiarato “sito di interesse strategico nazionale” nel 2012. Insomma, si tenterà di userà un cantiere già militarizzato negli anni scorsi per evitare le proteste del movimento No-Tav.

Nel 2015, al momento della definizione dell’attuale progetto della Torino-Lione, l’obiettivo di Telt era concludere i lavori entro il 2029 e aprire la tratta transfrontaliera entro il 2030: difficile farcela visto i ritardi accumulati in questi quattro anni.

Il tunnel – probabilmente l’unica cosa che si proverà davvero a costruire – secondo il governo italiano (dati 2017) costerà circa 9,6 miliardi: 4 per la Francia e 5,6 per l’Italia (in parte cofinanziati dall’Ue). Va ricordato che in Italia i lavori dell’alta velocità già conclusi non hanno finora mai rispettato le stime di costo: il costo per chilometro costruito – calcolato l’anno scorso dalla Corte dei Conti Ue – era pari a 28 milioni contro i 15 della Francia, i 13 della Germania e i 12 della Francia.

Il muro di Morra e Dibba, veterani che si smarcano

Il capo politico ha depositato quel pezzo di carta per salvarsi un pezzo di anima. Ha fretta di lasciare agli atti un ultimo no, burocratico quindi inutile. Ma la vecchia guardia a 5Stelle si muove, non vuole rassegnarsi alla resa finale sul Tav, quindi (ri) segna la distanza con i vertici. Con Nicola Morra che apre le ostilità su Facebook e Alessandro Di Battista che copia e incolla il post con tanto di commento: “La penso esattamente come lui”.

Insomma l’ex deputato si smarca di nuovo, perché assieme a Morra contesta la versione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla Torino-Lione, i numeri e i dati citati martedì dall’avvocato per giustificare il sì alla tratta. “Non è scritto in nessun documento ufficiale che l’Unione Europea finanzierà non più il 40, bensì il 55 per cento dei previsti 9,6 miliardi di costo dell’opera” scrive il presidente dell’Antimafia. Per poi ricordare che “non è prevista alcuna penale per la rescissione dell’accordo”.

Constatazioni che smentiscono innanzitutto Palazzo Chigi, ma che sono un pro-memoria anche per Luigi Di Maio, che pure continua a urlare il suo no “a un’opera inutile e dannosa”. Tanto che nel sabato della manifestazione in Val di Susa annuncia di aver fatto depositare in Senato una mozione contro la Torino-Lione. Però è proprio Di Maio ad aver delegato il dossier e quindi la decisione al premier, liberandosi dell’amaro calice. Quindi il voto a Palazzo Madama, sempre se si riusciranno a trovare tre ore nell’affollato calendario prima delle ferie, sarà un esercizio di stile, con il Movimento da solo a dire no. Tutto evidente, nel giorno in cui Morra recita una preghiera laica sulla pagina Facebook di Di Battista: “Alessandro, servi come il pane perché il Movimento non disperda la sua identità. Tutti siamo importanti, ma chi ha più talenti è chiamato a dare di più”.

Più tardi con il Fatto lo stesso Morra ostenta cautela: “Sono contento che Alessandro abbia condiviso il post, però non parlate di asse o alleanza”. Ma il suo occhio critico emerge: “Alla votazione sulla piattaforma Rousseau sulle nuove regole hanno partecipato meno di 25mila iscritti: significa che stiamo perdendo attivisti ed entusiasmo, e questo dovrebbe indurre alla riflessione”. E poco può cambiare il post del Movimento sulla mozione, dove viene ribadita la linea: “Abbiamo già depositato il documento ufficiale col quale affermiamo che occorre escludere la prosecuzione delle attività connesse alla realizzazione dell’opera. È necessario avviare in Parlamento un percorso per la cessazione delle attività relative al progetto e un diverso uso delle risorse, da destinare ad opere alternative”. Ma gli iscritti non si commuovono, e sotto il testo compare una selva di accuse: “Ci avete venduti”. Anche se dal M5S tirano dritto. Puntano il dito contro “l’asse tra Lega, Pd e Berlusconi” sulla Torino-Lione. E anche il post di Morra viene ufficialmente deglutito senza patemi: “Ha detto quanto sosteniamo noi, no al Tav”. Nel pomeriggio lo stesso senatore, come a stemperare, rilancia un post di Di Maio dove il capo lo scrive in maiuscolo: “Non ci arrendiamo”. E in questa stanca sciarada di post rilanciati, Conte deve sorbirsi smentite e prese di distanza. Ma da Palazzo Chigi si mostrano atarassici: “Va tutto come previsto”. Così non resta che la mozione in Senato.

Venerdì Di Maio ha riunito i direttivi delle due Camere per ribadire che bisogna far votare a Palazzo Madama entro l’ultimo giorno utile, il 7 agosto, perché rimandare a settembre significherebbe prolungare l’agonia. Probabile che il Pd presenti una mozione a favore della Torino-Lione, mentre dal M5S ritengono (e sperano) che la Lega eviti di farlo. Di certo il Tav si riallaccia al tema del rimpasto, di cui Di Maio e Matteo Salvini hanno parlato a Palazzo Chigi giovedì. “Molti dei miei vogliono andare a votare, ma per me è sufficiente cambiare qualche ministro” ha detto il capo del Carroccio. E il leader del Movimento ha risposto con critiche ai ministri leghisti Bussetti (Istruzione) e Centinaio (Agricoltura). Ma il responsabile delle Infrastrutture Danilo Toninelli resta in bilico, nonostante l’appoggio di Beppe Grillo. Di Maio vorrebbe sostituirlo con un altro 5Stelle: il capogruppo in Senato Stefano Patanuelli (ma spostarlo è rischioso) o il presidente della commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama, Mauro Coltorti.

“Li abbiamo eletti e fanno Ponzio Pilato”. I No Tav contro M5S

“Questo è un segnale del fatto che il movimento No Tav è ancora in piedi e vive uno dei suoi momenti migliori”: seduta vicino a un cancello montato a protezione del cantiere di Chiomonte, Nicoletta Dosio, insegnante in pensione e militante di lunga data, assicura che questa storia non è finita. Migliaia di persone ieri hanno marciato da Venaus, partendo dal Festival dell’Alta velocità, fino alle reti del cantiere del tunnel geognostico della Torino-Lione. Ma stavolta, a differenza di tante altre occasioni simili, tra quelle migliaia di manifestanti c’era soltanto una rappresentante del Movimento 5 Stelle, Viviana Ferrero, una delle consigliere comunali di Torino più in dissenso con la linea ufficiale, l’unica che ha “sfidato” l’invito rivolto dal prefetto Claudio Palomba ai pentastellati di evitare il corteo: dopo il Sì del governo Conte alla grande opera, farsi vedere in valle avrebbe potuto essere interpretata come una provocazione. “Una parte di questo governo è lì grazie al sostegno della Valle – ricorda Dosio -, ma in un anno non hanno fatto nulla contro la Tav”. E la commissione per l’analisi costi-benefici presieduta da Marco Ponti? “Abbiamo visto cosa ne hanno fatto. Non hanno deciso, hanno lasciato la scelta al Parlamento per lavarsene le mani, come Ponzio Pilato, così potranno dire di aver votato contro mentre gli altri votano sì”, dice riferendosi ai Cinque Stelle. Alberto Perino, il portavoce della protesta della Valle di Susa, se la prende con alcuni eletti pentastellati: “Quello che infastidisce è che signori come la Castelli (Laura, viceministra all’Economia), come Di Maio, come Carabetta (Luca, deputato), come altri fanno comunicati incredibili dove si dichiarano ultra No Tav”.

Dall’estate scorsa, quando si è fermato il contratto di governo in cui si parla di “ridiscutere” il progetto e non dello stop ai lavori, il movimento valsusino aveva capito a cosa andava incontro e da allora va ripetendo che “non ci sono governi amici”. Quello che è successo su Tap e Ilva era un antipasto: “Sapevamo benissimo che alla fine avrebbero calato le brache sulla Tav, come le hanno calate su tutto il resto – prosegue Perino -. Abbiamo consigliato di fare questo o quest’altro, ma non ci hanno mai ascoltati”. E di consultare Beppe Grillo, per molto tempo al fianco della protesta contro la Torino-Lione, Perino non ne ha voglia: “Sono deluso. C’era grossa stima. E adesso non lo stimo più”.

Sempre Perino aveva auspicato una manifestazione pacifica: “Chi oggi tira anche solo una castagna, un petardo, una pietra o altro, lo fa soltanto per fare un regalo a Salvini e fare incazzare noi”, aveva detto. “Qualche ‘castagna’ è volata per poter raggiungere l’obiettivo – commenta al termine Lele Rizzo, militante del centro sociale Askatasuna -. L’obiettivo era raggiungere il cantiere. Moltissime persone hanno partecipato e sono arrivate vicino alle reti. Abbiamo dimostrato che siamo gli stessi di sempre e non ci arrenderemo”. “Era da anni che non ci avvicinavamo”, aggiunge Giorgio Rossetto, altro leader di “Aska”. Col volto coperto e armati di flessibile alcuni manifestanti, arrivati al primo cancello in metallo che sbarra il passaggio al cantiere, hanno aperto un varco e proseguito fino alle reti vicino ai lavori dove, dopo aver appeso uno striscione, hanno fatto esplodere delle bombe carta. Le forze dell’ordine sono intervenute soltanto con alcuni lacrimogeni. Per la questura la manifestazione ha avuto un “bilancio assolutamente positivo”: “Pur operando in un terreno difficile e reso insidioso dalla pioggia, sia gli organizzatori della manifestazione sia gli operatori di polizia hanno affrontato con grande responsabilità la gestione dell’evento – si legge in una nota -. La manifestazione non ha visto alcun momento di scontro diretto ‘corpo a corpo’”.

Per i disordini, attribuiti ad alcuni “noti esponenti dei centri sociali”, sono state denunciate 48 persone. “Ringrazio le forze dell’ordine che hanno evitato feriti (ad eccezione di un poliziotto)”, ha commentato il ministro dell’Interno Matteo Salvini, prima di concludere: “La Tav si farà, indietro non si torna”.

Il ministro dell’Esterno

Segnatevi questa frase. È del 4 febbraio 2015, da un’intervista a Panorama: “Pazzesco. Un ministro dell’Interno che twitta su indagini in corso non merita neppure un commento. Il fatto in sé la dice tutta sul quel personaggio lì”. Quel personaggio lì era Angelino Alfano, che aveva appena annunciato tutto giulivo via Twitter l’arresto di Massimo Bossetti, sospettato dell’omicidio di Yara Gambirasio e da lui già dato un minuto dopo per sicuro colpevole. E il nostro uomo gli saltò (giustamente) addosso: “Io non sopporto la spettacolarizzazione… Massimo riserbo e massimo silenzio. Non dovrebbe trapelare nessuna notizia… Poi non bisogna mai esibire un catturato. Se devi portare via uno, lo porti via di nascosto, la notte”. E chi era di questo squisito ipergarantista, questo sensibilissimo custode del riserbo? Matteo Salvini, tre anni prima di diventare ministro dell’Interno e di twittare compulsivamente su ogni arresto (anche se ancora da eseguire), indagine e sospetto, assumendosene il merito (che peraltro è sempre della magistratura e delle forze dell’ordine), chiedendo condanne esemplari e promettendo inasprimenti di pene. “Pazzesco”, avrebbe detto il Salvini del 2015 sul Salvini del 2019. Anzi, di “quel personaggio lì”.

Memorabile il suo cinguettio all’alba del 4 dicembre scorso: “15 mafiosi nigeriani arrestati a Torino dalla Polizia. Grazie alle Forze dell’Ordine! La giornata comincia bene!”. Purtroppo la Polizia ne stava ancora cercando alcuni, sfuggiti alla cattura perchè non erano in casa o non avevano casa. Forse qualcuno, avvisato dal ministro che lo stavano cercando, non si fece più trovare. Il procuratore Armando Spataro s’infuriò: “Non sono accusati di mafia, non sono 15 e non li abbiamo ancora arrestati tutti. Così si rischia di danneggiare l’operazione”. Il cosiddetto ministro replicò: “Se il procuratore di Torino è stanco, vada in pensione” (unica variante del refrain prima fassiniano e poi salviniano: “Se Tizio vuole fare politica, si faccia eleggere”). Poi, il 6 giugno scorso, ci ricascò con un altro leggendario tweet: “Si erano fronteggiati a Prato con coltelli e pistole per il controllo della prostituzione: 10 cinesi, tra cui 6 clandestini, sono stati arrestati. Grazie ai Carabinieri! Nessuna tolleranza per i delinquenti: la pacchia è finita!”. Furioso il procuratore di Prato Giuseppe Nicolosi, perché l’operazione era in pieno corso: i cinesi arrestati erano solo 3, gli altri 7 non si sono più trovati. Pare che ormai i delinquenti comuni – oltre a quelli in guanti gialli che popolano il suo partito e il suo entourage – seguano appassionatamente Salvini sui social.

Vedi mai che li avverta in anteprima che qualcuno sta andando a prenderli. L’altroieri, l’apoteosi con la tragedia del vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello Rega, assassinato durante un’operazione in borghese ancora tutta da chiarire. Salvini condivide subito una notizia del messaggero.it – presa per buona anche da Gentiloni, poi rivelatasi falsa o incompleta – sulla “caccia a due nordafricani” e aggiunge: “Caccia all’uomo a Roma, per fermare il bastardo che stanotte ha ucciso un Carabiniere a coltellate. Sono sicuro che lo prenderanno, e che pagherà fino in fondo la sua violenza: lavori forzati in carcere finché campa”. E poi, a stretto giro: “Spero li prendano il prima possibile e che finiscano in galera ai lavori forzati a vita, come in Austria”. La solita pagliacciata di annunciare o promettere cose impossibili: ammesso e non concesso che un giorno Salvini presenti una legge sui lavori forzati (al momento, è la prima volta che ne parla), questa varrebbe comunque per chi commettesse reati dopo quella data, non per chi li ha perpetrati prima. Idem per l’escalation di insulti ai sospettati ancora senza nome e senza volto: “bastardi”, “infami”, “stronzi”, come se qualcuno provasse simpatia per loro, e se bastasse qualche contumelia per riportare in vita il morto ammazzato, lenire il dolore dei familiari e placare lo sdegno dei cittadini. Infatti, siccome nessuno se lo fila, qualche ora dopo Salvini si riprende dallo choc per la nazionalità dei sospetti (extracomunitari, sì, ma americani). E rilancia ancora, col solito ribaldo accenno alla pena di morte, lanciando il sasso e ritraendo la mano: “Sperando che l’assassino del nostro povero carabiniere non esca più di galera, ricordo ai buonisti che negli Stati Uniti chi uccide rischia la pena di morte. Non dico di arrivare a tanto, ma al carcere a vita (lavorando ovviamente) questo sì!”.

Peccato che l’ergastolo per l’omicidio volontario aggravato, come quello del carabiniere, in Italia sia già previsto. Da sempre. Se qualche omicida non lo sconta per intero, è per le mille norme impunitarie varate da centrosinistra e centrodestra (Lega inclusa) per i loro amichetti accusati di tutt’altri reati. Il problema è che il ministro dell’Interno non è pagato per piangere i morti ammazzati, lanciare insulti e auguri di “marcire in galera” a chi delinque e suggerire le pene ai giudici. Ma far sì che si delinqua un po’ meno, con quella cosa (per lui) misteriosa che si chiama “prevenzione”. Cioè con investimenti per riempire i vuoti in organico delle forze dell’ordine (a Roma – segnala Virginia Raggi, inascoltata da Salvini, da prima del delitto Desirée, maturato anch’esso nei bassifondi della droga – mancano almeno 2 mila agenti di Polizia, e l’ordine pubblico e la prevenzione anticrimine non spettano certo a sindaci e vigili urbani). E soprattutto per organizzarli e dislocarli meglio sul territorio. Ma tutto questo riguarda un eventuale ministro dell’Interno. Noi invece abbiamo un ministro dell’Esterno, che fa e dice tutto quel che non dovrebbe e quel che dovrebbe non lo fa e non lo dice. “Quel personaggio lì”.

Torino, poliziotti accerchiati dalla folla dopo un controllo

Di farsi identificare dalla polizia non ha nessuna intenzione. “Siete sbirri di merda, non vi consegno proprio nulla”, urla contro due agenti delle volanti che gli chiedono i documenti. Dalle parole ai fatti il passo è breve. L’uomo, un nigeriano di 28 anni, un permesso per asilo politico ormai scaduto, spintona e strattona gli agenti. Poi chiede rinforzi e chiama a raccolta gli amici che, in pochi minuti, accerchiano i poliziotti e la loro auto. Il parapiglia cessa soltanto quando arriva un’altra volante, e il nigeriano viene arrestato, gli agenti costretti a ricorrere alle cure del pronto soccorso.

Siamo in corso Palermo, nel cuore di Barriera di Milano, quartiere della periferia Nord di Torino. Soltanto lo scorso settembre nella stessa zona si era registrata una rivolta contro la polizia che aveva fermato un pusher gabonese. Nella rissa interviene per aiutare i poliziotti una coppia di passanti. Lui, ex agente in pensione, cerca di bloccare l’uomo. Lei, ex vigilessa, spruzza dello spray al peperoncino. E si becca un pugno in faccia, che le spezza un dente. Anche un agente delle volanti utilizza lo spray urticante d’ordinanza. Alla fine il nigeriano viene arrestato e oggi sarà processato per direttissima.