Le troppe zone d’ombra dell’assurda morte di Mario

Si era sposato da appena 44 giorni, e da 14 aveva compiuto 35 anni. Il vice brigadiere Mario Cerciello Rega era tornato lunedì a lavoro, dopo essere stato in viaggio di nozze in Madagascar. Nella notte di giovedì, per un banale borsello rubato – o almeno così sembra – ha perso la vita. Otto colpi di coltello sul ventre e sulla schiena, il collega Andrea Varriale ha chiamato i soccorsi mentre il carabiniere era in una pozza di sangue. Non è bastata la corsa in ospedale e i tentativi di rianimarlo. Mario si è spento nella notte. Originario di Somma Vesuviana, in provincia di Napoli, il carabiniere pare fosse intervenuto insieme al collega per arrestare dei ladri, che tramite il “cavallo di ritorno”, tentavano di restituire alla loro vittima la refurtiva in cambio di denaro.

“Me lo hanno ammazzato”, ha gridato in lacrime la moglie Rosa Maria, accompagnata dai familiari in ospedale. Chi lo conosceva, racconta che Mario era un bravo ragazzo, che spesso faceva del volontariato per gli altri. Barelliere per l’Ordine di Malta, accompagnava anche i malati a Lourdes e a Loreto. Una volta a settimana si dedicava ai senza tetto, che vivono nei pressi della Stazione Termini, portando loro la cena. Donava i suoi abiti a chi ne aveva più bisogno. “Ancora non ci posso credere”, commenta il fratello.

Una ferita, che ha segnato anche l’Arma dei Carabinieri, che in un messaggio sui social, ha voluto ricordare la memoria del suo militare. “Un’esistenza consacrata agli altri e al dovere, di una dedizione incondizionata e coraggiosa, di un amore pieno di speranze e di promesse. E la tragedia reca la cifra più alta: l’infinito. Il più vivo dolore per una mancanza che affligge 110 mila Carabinieri”.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso “solidale vicinanza” alla famiglia e all’Arma, e il premier Giuseppe Conte ha definito la morte del vice brigadiere “una profonda ferita per lo Stato”.

Nella tarda mattinata di lunedì 29 luglio, nella città che ha dato i natali a Mario, ci sarà l’ultimo saluto al carabiniere. Per un triste scherzo del destino, i funerali saranno celebrati nella chiesa di Santa Croce, dove lo scorso 19 giugno si era sposato.

E pensare che solo giovedì c’era stato un presidio a piazza Montecitorio con un centinaio tra poliziotti e penitenziari, che hanno manifestato per “le mancate promesse del governo in materia di sicurezza”. Daniele Tissone, segretario generale del sindacato di polizia Silp Cgil, aveva parlato di “aumenti mensili inferiori al costo di un abbonamento Netflix”.

La vicenda però non sembra essere così semplice e ha diversi punti ancora da chiarire. Innanzitutto le prime dichiarazioni diramate parlavano di “cittadini africani”, uno altro un metro e ottanta, con le mèches ai capelli. Poi si è diffusa la notizia che i due sospettati potessero essere un italiano e un marocchino. In seguito si parla di altri due marocchini, già pregiudicati, tutti sottoposti a interrogatorio.

L’altro punto riguarda invece la dinamica dell’incontro e della conseguente aggressione. Dopo il furto, l’uomo derubato prova a recupere la refurtiva e i ladri gli propongono il classico cavallo di ritorno, ovvero ti diamo la borsa in cambio dei soldi. L’uomo avvisa i carabinieri, che nel giro di poco, non sappiamo ancora quanto, decidono di intervenire presentandosi all’incontro. Ma ci vanno in borghese, alle 3 di notte, senza armi davanti a due presunti criminali, che potevano essere armati, pregiudicati e magari accompagnati da altri sodali, pronti a un’imboscata.

Secondo i primi racconti però, ci sarebbero state delle volanti a scortare i due carabinieri, pronte ad intervenire. Eppure qualcosa è andato storto. Il carabiniere è aggredito, ripetutamente colpito con un pugnale, ma il collega essendo disarmato non può aiutarlo. E le volanti? Secondo il protocollo, un’operazione simile prevede la partecipazione di quattro o sei uomini.

Infine, ultimo tassello. La borsa? Cosa c’era? A chi è stata rubata? Perché anche in questo caso, si sapeva all’inizio che il furto era stato a una donna, poi invece le versioni cambiano e si parla di un uomo. Un signore calvo, a piedi in bicicletta, che risulta inquadrato dalle telecamere presenti vicino all’aggressione. Chi si presenta a un “cavallo di ritorno” con un pugnale, pronto anche ad uccidere? Vicende che probabilmente proveranno a chiarire sia l’Arma, che i magistrati della procura di Roma.

Carabiniere accoltellato Studente Usa: “Sono stato io”

“Sono stato io, l’ho ucciso io”. Dopo diverse ore d’interrogatorio, davanti alla procuratrice aggiunta Nunzia D’Elia e la sostituta Maria Sabina Calabretta, uno dei due diciannovenni americani ha confessato di aver inferto otto coltellate al vice brigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, 35 anni, morto a Roma nella notte di giovedì mentre era in servizio.
Il giovane che si trova nella capitale in vacanza-studio, era stato prelevato nel pomeriggio di ieri dall’Hotel Meridien Visconti, in zona Prati, dove alloggiava. Avrebbero rubato uno zainetto per acquistare della droga, organizzato in seguito uno scambio con la vittima derubata, “cavallo di ritorno”, e colpito mortalmente il brigadiere.
Le indagini iniziano con la testimonianza del carabiniere Enrico Varriale, ferito durante la colluttazione che è costata la vita al collega Cerciello Rega. Secondo la sua ricostruzione, i due militari erano intervenuti in via Pietro Cossa, zona Prati, per un presunto “cavallo di ritorno”. Un cittadino italiano era stato scippato del borsello poco prima in piazza Mastai, a Trastevere.
All’interno dello zaino c’erano un centinaio di euro, effetti personali e il suo cellulare. La vittima avrebbe quindi chiamato al suo telefonino, e dall’altra parte avrebbe risposto uno dei due rapinatori, disposto a restituire la refurtiva in cambio di soldi. La vittima però avrebbe avvisato i carabinieri, che si sarebbero presentati all’incontro in borghese, e con una pattuglia pronta a intervenire. Quando i militari raggiungono il luogo dello scambio, poco dopo le tre di notte, qualcosa va storto.
Ne nasce una colluttazione, con il giovane americano che brandendo un coltello colpisce più volte il brigadiere Cerciello Rega, ferendolo al cuore e alla schiena. I due rapinatori fuggono, mentre Varriale interviene per soccorrere il collega. “Quando ho sentito Mario urlare ho lasciato quell’uomo e ho provato a salvarlo – spiega Varriale -. Perdeva tanto sangue”. Il militare trasportato d’urgenza all’ospedale Santo Spirito, è morto dopo il tentativo di rianimazione.
Parte quindi una convulsa caccia agli aggressori. In un primo momento, le autorità cercano due nordafricani, magri e alti circa un metro e 80. Uno dei due con i capelli mesciati, con indosso delle felpe, con cappuccio, una nera e l’altra viola.
Gli inquirenti incrociano i tabulati telefonici della vittima, raccolgono le testimonianze dei presenti, i reperti trovati nella stanza d’albergo dei due americani e i video di sorveglianza presenti nella zona vicina all’aggressione. Le immagini, girate a piazza Mastai, mostrano un uomo in canottiera bianca, con in spalla uno zaino che cammina a piedi con una bicicletta. Alle loro spalle due americani, ben vestiti, indossano una camicia e una t-shirt, e sembrano seguirlo. Nel secondo video invece, i due ragazzi fuggono a piedi tra i vicoli di Trastevere, mentre uno dei due, scappa con in mano lo zaino nero.

La Zanzara vola via, ma Cruciani rimane

Siamo messi così: ormai fanno notizia le chiusure visto che c’è ben poco di nuovo sotto il sole. E non parliamo della chiusura di Miss Italia, che anzi, dovrebbe tornare su Rai1 grazie “alla Rai del cambiamento” (ora si attende il ritorno di Non è mai troppo tardi); parliamo della chiusura della Zanzara di Radio24. Il conduttore Giuseppe Cruciani l’ha annunciata con largo anticipo, da libertario qual è (prevenire è meglio che reprimere): “Sono stanco. La prossima sarà l’ultima stagione.” Di solito sono gli spettatori a stancarsi, ma stavolta è andata al contrario e non si tratta di un bluff, il programma è in salute, Cruciani si è inventato un genere da uomo del suo tempo qual è: anarco-populista e radical-trash, Er Monnezza in onde medie. Ma in questa spazzatura c’è del metodo. E se si vuol capire perché il 37 per cento degli italiani vota Salvini, è Cruciani che bisogna ascoltare, mica Gad Lerner.

Come sempre, il mezzo è il messaggio. Si riteneva la radio immune a certa volgarità divenuta pane quotidiano della Tv, ma Cruciani ha dimostrato il contrario: pur senza il conforto del video, come gastroenterologo della pancia del paese è imbattibile. Vuoi spararla grossa? Vieni da me. Io ti darò di più, come cantava Orietta Berti. Vuoi far vedere agli haters come si fa? Accomodati. Non ha ancora sciolto la riserva sul futuro, ma avrà solo l’imbarazzo della scelta: La Zanzara ha mostrato che nel cuore di ogni salotto dorme un termovalorizzatore. Missione compiuta.

La leggenda del santo Pignatone

Aveva ragione Renzi: “Il tempo è galantuomo”. É bastato attendere nove mesi e il gip ha respinto la richiesta di archiviazione per suo padre Tiziano su Consip. Spiace per chi (tutti) l’aveva spacciata per la pietra tombale su uno degli scandali più gravi e censurati della storia recente: il padre del premier che traffica direttamente o per interposto Carlo Russo per influire su gare miliardarie della stazione appaltante pubblica guidata da un manager nominato dal figlio, facendosi promettere tangenti dall’imprenditore Alfredo Romeo; e gli amici del figlio premier che, avvertiti dell’indagine della Procura di Napoli, avvisano il suo babbo e i capi di Consip perché rimuovano le cimici e non parlino più al telefono. Ereditato quel po’ po’ d’inchiesta, i pm romani non trovarono di meglio che indagare su chi aveva indagato (prima Woodcock, poi Scafarto); liquidare Russo come millantatore; salvare Tiziano e Romeo malgrado le prove del loro incontro (sempre negato); e chiedere il processo solo su Lotti, i generali Del Sette e Saltalamacchia e pochi altri per le fughe di notizie, e su nessuno per le trame su appalti e mazzette (non pagate proprio per le soffiate). Un capolavoro di minimalismo giudiziario tipico di Giuseppe Pignatone e dei suoi fedeli, pm e giornaloni. Voi direte: ma chi se ne frega di Renzi buonanima, e tantopiù di suo padre. Vero. Ma il caso Consip è una formidabile prova su strada di come s’è ridotta gran parte della magistratura e della stampa. Che infatti hanno dipinto la guerra per bande attorno al Csm come una lotta fra i cherubini guidati da un cavaliere senza macchia e senza paura (Pignatone, sempre sia lodato) e i diavoli al soldo di un manigoldo (il terribile Palamara). E, sul dogma dell’Immacolato Pignatone, han costruito l’imperativo della “continuità” in procura: un modo soave per sponsorizzare Lo Voi, l’amico dell’ex procuratore, alla successione. Ora che il gip Sturzo smaschera quel minimalismo, ci si attenderebbe un po’ di resipiscenza sulla leggenda del Santo Pignatone. Invece, zero titoli.

Il 30 ottobre Repubblica sparava in prima pagina la richiesta di archiviazione per Renzi sr.&C., come pure il Fatto. E, dentro, altre due pagine col commento di Bonini che metteva in un unico “verminaio” le soffiate di Del Sette&C., gli errori del cap. Scafarto e gli scoop del Fatto (“cassa di risonanza e clava per massimizzare l’eco e il danno politico al presidente del Consiglio”: peccato che Renzi il giorno dello scoop non fosse più premier da 18 giorni).

E poi un pezzo strappalacrime sul dolore inestinguibile di babbo Tiziano per il lungo calvario subito: “Mi riprenderò la reputazione, ora chiederò anche i danni”. Sì, ciao core. Ieri invece, sul no all’archiviazione, solo uno striminzito pezzullo in basso a pag. 17. Nulla in prima pagina. Lì, in compenso, trova ampio spazio l’ennesima intervista al neocondannato Giuseppe Sala, che esclude alleanze con Di Maio perchè “è screditato moralmente e politicamente”: infatti è incensurato. Per il Corriere, la richiesta di archiviazione nove mesi fa valeva un’intera pagina: ora il diniego vale un bassetto a pag. 6. Stesso spaziuccio su La Stampa, che il 30 ottobre festeggiava lo scampato pericolo con un’intera pagina. Strepitoso il Messaggero: apertura di pagina per la richiesta e trafiletto di 13 righe sul rigetto. Il Mattino aveva addirittura un commento in prima di tal Massimo Adinolfi, furibondo con i giornali che avevano raccontato lo scandalo (quindi non col suo) e brindava perchè “le accuse contro Tiziano Renzi finiscono in nulla”, “un fatto politico rilevante, vista la canea sollevata”. Ieri abbiamo cercato tracce di lui e della notizia sulla prima del Mattino, ma invano: l’Adinolfi sarà in ferie o a disperarsi al muro del pianto. Anche Avvenire, a suo tempo, si associò ai festeggiamenti, scambiando i pm per giudici e le richieste per sentenze: “Inchiesta Consip al capolinea. Archiviazione per Tiziano Renzi”. Ora si scopre che non era vero, ma ci vuole il microscopio elettronico per scovare il mini-titolo a pagina 8. Piero Sansonetti, sul Dubbio, ci dava lezioni di diritto perchè osavamo contestare la scelta dei pm: “L’assoluzione del giudice vale poco: conta solo il giudizio di Marco Travaglio”. Cioè: il pover’uomo chiamava il pm “giudice” e la sua richiesta “assoluzione”. Ora che finalmente si pronuncia il giudice e ci dà ragione, il Dubbio – che intanto ha cambiato direttore – nasconde la notizia in una brevina.
Sempre nel reparto “giuristi per caso”, segnaliamo la povera Annalisa Chirico. Il 30 ottobre delirava su un’intera pagina del Foglio: “Scafarto e l’attacco politico a Renzi”, “la Procura sgonfia la fuffa di Consip”. E tributava il giusto omaggio ai pm, naturalmente non gli odiosi napoletani, ma gli adorati romani: “Senza il provvido intervento della procura capitolina, con Pignatone e Paolo Ielo in testa, i cittadini avrebbero creduto a una fake inchiesta basata su prove letteralmente false”. Adesso che il gip ha disposto diversamente, scoprirà forse che, fra il pm e il giudice, vince il giudice. E magari se ne farà un ragione. Infine, l’angolo del buonumore. Il 29 ottobre il rag. Claudio Cerasa, direttore del Foglio, twittava giulivo: “Oggi la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione per Tiziano Renzi… Forse qualcuno dovrebbe cominciare a farsi un esame di coscienza”. Con lo spiritoso hashtag “#domaninotiziainunboxapagina450”. Noi, alla richiesta di archiviazione, dedicammo l’apertura della prima pagina, come ieri al suo rigetto. Invece il Foglio è l’unico quotidiano (si fa per dire) che non ha scritto una riga. In realtà la notizia era prevista a pagina 450, ma purtroppo il Foglio ne ha solo otto.

Quelle bugie per cui Agnese si tolse la vita: il “metodo foti”

I carabinieri le bussano a casa, a Sestu, la vigilia di Natale del 2016. Agnese Usai ha 62 anni e quello è il suo primo Natale da pensionata, dopo 42 anni di lavoro nelle scuole come bidella. Lei, che da giovane era stata bellissima, non si è mai sposata. Come tante donne della sua famiglia ha scelto di dedicare la sua vita al lavoro, e quel lavoro nelle scuole è stato la sua vita. Mai una macchia, mai un problema. Sì, qualche discussione con i colleghi perché Agnese certe volte è un po’ scorbutica, ma è amata e rispettata. “Che ho fatto?”, domanda ai carabinieri che le chiedono di firmare. “Ah, se non lo sa lei…”, le rispondono con un velato sarcasmo.

Agnese scopre di essere ufficialmente indagata dalla procura di Cagliari per il reato di violenza sessuale. Da questo momento, quel tratto di penna che unisce in tutta Italia tante storie di accuse false, assurde o zoppicanti di minori e che riconducono con un’impressionante frequenza a Claudio Foti e ai seguaci del suo metodo, arriva anche lì, in Sardegna, e disegna un nuovo intreccio, oltre che il destino di Agnese. Un destino breve, perché la bidella si toglierà la vita due anni dopo gridando la sua innocenza.

La storia inizia nel 2014. Agnese lavora da un paio di mesi in una scuola materna frequentata da una bambina di 4 anni che chiameremo Stella. I genitori della piccola, entrambi non giovanissimi e profondamente religiosi, vicini all’ambiente neocatecumenale, hanno notato che Stella ha dei comportamenti strani. Non vuole fare il bagno, ogni tanto fa brutti sogni o bagna il letto. “Fa salti troppo alti per la sua statura” e “Si arrampica sui mobili”, racconterà la mamma ai carabinieri. Stella cerca anche di baciare altri bambini o le mani dei genitori. Vuole lavarsi spesso la patatina.

Il 10 novembre la mamma la va a prendere a scuola e la trova bagnata di pipì. La sera, la bambina ammette che non va in bagno perché ha paura dei mostri. “I mostri del cartoncino di signora Agnese”, spiega. E afferma anche che la signora Agnese, in bagno, le accarezza la patatina e le lecca la faccia. Dunque la bambina si farebbe la pipì addosso per non vedere più Agnese che in effetti qualche volta accompagna i bambini in bagno e li aiuta a pulirsi.

I due genitori, allarmati, si fanno suggerire dagli amici della parrocchia una psicologa a cui rivolgersi. La psicologa è Elisabetta Illario della Asl di Cagliari, il cui curriculum racconta un profondo e continuativo legame sia nella formazione professionale che in qualità di relatore a incontri del Cismai e di Hansel & Gretel. Il Cismai è l’associazione di cui fanno parte psicologi e assistenti sociali al centro dei casi più contestati, da Massa Finalese a Bibbiano. La dottoressa Illario è anche esperta in terapia Emdr (quella della macchinetta dei ricordi) e il suo nome è su varie locandine di incontri con Claudio Foti, Nadia Bolognini (Angeli e demoni), Federica Anghinolfi (Angeli e Demoni), Andrea Coffari (avvocato di Foti), Pietro Forno (pm del caso Lucanto), Cleopatra D’Ambrosio (caso Sorelli, Brescia).

La psicologa Illario ascolta il racconto dei genitori e afferma che i sintomi sono compatibili con un possibile abuso. Senza neanche vedere la bambina. Fa una segnalazione alla procura. Stella non va più a scuola. Nei giorni successivi, a casa, la bimba comincia a sfregarsi la patatina contro i mobili o a toccarsi. Tutto questo accade sempre e solo in loro presenza. Nessuno, né a scuola né altrove, la vedrà mai fare cose simili.

Passano mesi, la procura non si muove fino al 2015

La psicologa Illario “accompagna” intanto i due genitori e la bimba nel percorso, vedendo Stella senza registrare gli incontri. La bambina aggiunge nuovi particolari: all’epoca ha raccontato alla maestra Tania le molestie di Agnese, la maestra Tania le ha detto: “La spedisco nel sistema solare” ma poi non ha fatto niente. Questa maestra non sarà mai interrogata sulla questione.

Stella sembra riprendersi presto, dopo un mese dalla rivelazione inizia già a frequentare una nuova scuola. Tra il 2015 e il 2016 vengono interrogati il preside e alcune maestre. Il preside afferma che non ha mai ricevuto alcuna segnalazione sulla bidella da genitori e personale. La maestra Carla si limita a dire che Stella non ha mai manifestato segnali di disagio. L’altra maestra dice che Stella si era fatta un paio di volte la pipì addosso e che “Agnese era la collaboratrice ideale, qualche bambino era anche dispiaciuto del suo allontanamento”.

Agnese intanto è ignara di tutto. Non subisce perquisizioni. Non vengono messe telecamere nell’asilo (verrà a lungo intercettato il suo telefono solo dopo il 2016, senza alcun esito). La bambina, in seguito, affermerà che Agnese in bagno la riprendeva col cellulare e le faceva fare dei balletti, ma Agnese ha un cellulare vecchio che non fa video e non naviga. Il bagno è 1 metro e 50 di larghezza, difficile anche muoversi.

L’incidente probatorio nel 2017 e quella consulente…

L’incidente probatorio inizia due anni e mezzo dopo i fatti. E qui subentra un personaggio interessante. La psicologa consulente di parte della famiglia di Stella è Cleopatra D’Ambrosio, già citata perchè relatrice a vari incontri con la psicologa Illario, colei che ha raccolto la denuncia dei genitori di Stella, e che è nel direttivo di “Rompere il silenzio”, associazione di Claudio Foti. Ma c’è di più. Cleopatra D’Ambrosio entrò in contatto con alcuni genitori del famoso caso Sorelli a Brescia, organizzando incontri per aiutare le mamme dell’asilo.

Nel 2003 un prete, sei maestre e un bidello furono accusati di pedofilia ai danni di 23 bambini. La D’Ambrosio ai tempi fornì libricini tipo “fumetti” ai genitori con indicazioni su come interrogare i bambini. Durante il processo, spuntarono fuori questi libretti, l’avvocato della difesa chiese al consulente del pm Marco Lagazzi: “È corretto dire che consegnare questi libretti in mano ai genitori è come chiedere a un genitore ‘ti consegno un bisturi, fai tu l’operazione di appendicite?’”. Il consulente rispose: “Questo non è un bisturi, è una sega elettrica”. Il nome della D’Ambrosio nei verbali di quel processo compare 600 volte. Prete, maestre e bidello furono tutti assolti. Cleopatra D’Ambrosio è anche quella che afferma: “È comprovato scientificamente. Un trauma non elaborato può essere trasmesso nel DNA fino a 14 generazioni”. In pratica, un bambino potrebbe soffrire per un abuso subito da un suo trisavolo, a sentir lei.

Dopo il disastro dell’asilo Sorelli, la D’Ambrosio arriva anche qui. Nella materna di Sestu. Viene chiamata addirittura da Brescia, visto il curriculum. Durante l’incontro della consulente del giudice Patrizia Cuccu con la bimba, la D’Ambrosio fa entrare nella stanza – dove solo lei poteva assistere – anche i genitori di Stella. C’è un’accesa discussione. La D’Ambrosio afferma: “Sono stata io a farli entrare, non capisco perché non debbano essere autorizzati a guardare dal vetro”. Nella confusione il papà di Stella urla: “Hanno stuprato mia figlia!”. Cosa che Stella potrebbe aver udito. L’esito della perizia è che ci sono segnali di “invischiamento”, che la bambina presenta disagio e non particolari sintomi post-traumatici, ma comunque, i segnali dell’abuso sono stati rivelati dalla bambina alla psicologa Illario e ai genitori. Insomma, la psicologa crede alla psicologa.

La D’Ambrosio, nella sua consulenza, evidenzia che il trauma perdura anni (non erano secoli?), che se alla consulente del giudice Stella è parsa senza particolari segni post-traumatici è perché ci vuole l’ascolto empatico da parte degli adulti. E quindi cita i suoi riferimenti nel campo: Claudio Foti, Pietro Forno (pm titolare dell’inchiesta nel caso Lucanto, ricostruito nella fiction con la Ferilli), il Cismai.

Tante chiacchiere: di una prova non c’è traccia

I genitori non hanno mai portato Stella dal ginecologo per appurare se ci sia stata deflorazione, e questo nonostante nell’agosto del 2016, quando ormai la bambina usufruisce dell’ascolto empatico della psicologa Illario da due anni, il fratellino Sandro corra dalla mamma dicendo: “Stella ha provato a infilarmi un dito nel culetto!”. La bimba dirà che l’ha fatto perchè si annoiava, cambiando versione più volte, finché col linguaggio tipico di una bambina affermerà: “Ero gelosa di Sandro perché a lui Agnese non ha fatto male, avevo una grande tristezza dentro che pensavo andasse via toccando il culetto a lui, ma invece è aumentata”. Insomma, nel 2016, dopo due anni dalla denuncia, le accuse diventano più gravi, la memoria della bambina anziché più flebile si fa più nitida: Agnese le infilava le dita nella patatina e nel culetto.

Il giudice ascolta la bambina nel marzo del 2017 e l’audizione aggiunge nuovi pezzi all’assurdo puzzle di accuse. Stella dice che Agnese la toccava e la leccava, ma che lei non doveva leccare Agnese come invece precedentemente affermato. Non si ricorda più che in bagno c’erano i mostri “nel cartoncino di Agnese”. Poi – e questa è l’assurdità più grossa – aggiunge: “Maestra Carla c’era sempre quando Agnese mi faceva del male. La maestra di religione, proprio quella che insegna a amare Dio, dovrebbe essere licenziata! Sbirciava dall’oblò mentre mi toccava la patatina!”. Quindi la bambina accusa una maestra di partecipare all’abuso descrivendo porte con oblò che in quella scuola non esistono. Un’accusa gravissima, eppure nessuno indaga su quella maestra.

Infine il giudice chiede alla bimba di descrivere Agnese. Stella risponde che ha i capelli gialli e lunghi fino alle spalle. Agnese aveva i capelli cortissimi e bianchi.

In un’udienza il difensore della Usai Walter Pani, fa notare come nel 2014, l’anno in cui la bambina denuncia il fatto, il fratellino subisca un’importante operazione. Lo stesso anno muore il nonno di Stella. Inoltre Stella è nata prematura e i primi tre anni di vita non ha potuto frequentare il nido. La mamma quando lei ha due anni subisce una lunga ospedalizzazione. Insomma, i genitori sono certi che nel 2014 Stella sia cambiata per una bidella cattiva, anziché per una situazione familiare complessa.

Senza una prova, nonostante le tante dichiarazioni false o contraddittorie di una bambina che all’epoca dei fatti aveva 4 anni e viene interrogata due anni e mezzo dopo, senza una visita ginecologica ma con perizie che suggeriscono l’abuso in base a sintomi che nessuno oltre la famiglia e le psicologhe ha mai notato, il pm Gilberto Ganassi non archivia, e il 2 maggio 2018 la Usai si vede notificare la chiusura delle indagini. Capisce che si va verso un processo.

Il peso di accuse insopportabili

Efisio, il fratello di Agnese, mi racconta che lui e suo fratello avevano sempre cercato di proteggerla dall’iter giudiziario: “Eravamo sicuri che avrebbero archiviato, ci sembrava tutto così sciatto, campato in aria. Purtroppo quella notifica è arrivata nelle sue mani e lei non ha più sopportato le accuse”.

Il 6 maggio del 2018, quattro giorni dopo, Agnese si chiude in un piccolo bagno che dà su un cortile dove c’è la sua casa. Prova a far arrivare il fumo della marmitta di uno scooter tramite un tubo nel bagno ma non ci riesce. Allora usa un braciere, lo accende, lascia che l’aria si consumi e muore. Scrive “Sono innocente” in alcuni biglietti che ha in tasca. La troveranno suo fratello e suo nipote, distesa per terra. Uccisa dal fumo. Quello denso, irrespirabile, del sospetto.

Von der Leyen a Roma il 2 agosto: previsto incontro con Conte

La nuovapresidente della Commissione europea Ursula von der Leyen sarà in visita in Italia il prossimo 2 agosto. L‘ex ministra tedesca incontrerà il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nell’ambito degli incontri con i capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Ue che sta avendo in questi giorni. L’obiettivo è quello di preparare il programma della sua Commissione e stabilire la composizione del suo collegio. Von der Leyen è già stata a Berlino, a Parigi e a Varsavia e mercoledì sarà a Madrid per un pranzo di lavoro con il premier spagnolo Pedro Sanchez e per un incontro con il ministro degli Esteri Josep Borrell, indicato come possibile prossimo Alto rappresentante per la politica estera europea. Nell’incontro con Conte si parlerà anche del portafoglio da assegnare all’Italia: il premier ha detto che Roma punta ad un ruolo di peso e che l’incarico migliore sarebbe la Concorrenza. Proprio ieri Conte ha anche sottolineato la necessità di una svolta europea di cui può farsi promotrice la von der Leyen: “ Il cambio di passo dell’Ue rimane incompiuto. Ma sempre più indispensabile. Di ciò appare essere apprezzabilmente consapevole la Presidente della commissione Europea Ursula von der Leyen”.

Caso Rubli, Meranda e Vannucci al Riesame contro i sequestri

Dopo Gianluca Savoini, anche Gianluca Meranda e Stefano Vannucci ricorrono al Riesame. Oggetto della richiesta è la revoca dei sequestri avvenuti durante le perquisizioni della Guardia di Finanza. Ma la mossa, come già avvenuto per Savoini, è anche un modo per ottenere il deposito di qualche atto “per capire quali siano gli elementi di prova che giustifichino perquisizione, sequestro e iscrizione nel registro degli indagati”, come aveva spiegato Lara Pellegrini, legale del primo degli italiani identificati tra i presenti al Metropol. Il nuovo materiale sarebbe quindi a disposizione dei difensori di Meranda e Vannucci, indagati per corruzione internazionale nell’inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega.Ieri intanto dalla Procura di Milano hanno fatto sapere di alcune “difficoltà tecniche” nel leggere “una parte dei contenuti ”del cellulare di Gianluca Savoini, che potrebbe aver utilizzato un sistema di difesa informatica per proteggere il proprio telefono. La situazione, comunque, non preoccupa più di tanto gli investigatori, secondo cui “potrebbe soltanto volerci più tempo”, ma non dovrebbero esserci problemi nel leggere i file in questione.

Ecco l’effetto Salvini: la Russia non è più una priorità degli 007

Qualche giorno fa l’agenzia Adnkronos ha rilanciato una vecchia leggenda metropolitana, di inizio anni Duemila: quella del “verme” del Sismi. Un agente segreto russo infiltrato nell’allora servizio segreto militare che, per oltre un decennio, avrebbe passato informazioni a Mosca. L’intelligence riuscì a sventare una operazione del “verme”, cioè “il tentativo russo di acquisire i segreti industriali di un’azienda fornitrice del ministero della Difesa”, scrive l’AdnKronos. Che avanza poi un dubbio: “Il verme è ancora tra noi?”. Nessuno ne ha mai scoperto l’identità.

In pochi credono che quelle storie siano vere. Ma come mai tornano in circolazione ora? Perché la vicenda dell’hotel Metropol e del negoziato sui presunti finanziamenti russi alla Lega hanno attirato l’attenzione sull’operato dell’intelligence italiana: possibile che non si sia accorta di nulla? Il 24 febbraio L’Espresso rivela il viaggio di Matteo Salvini a Mosca e le trattative del suo collaboratore Gianluca Savoini con i russi al Metropol, ma non succede niente fino a luglio. Quando Savoini è tra gli invitati accreditati da palazzo Chigi alla cena ufficiale con Vladimir Putin, organizzata dal premier Giuseppe Conte che pure ha la delega all’intelligence. Subito dopo BuzzFeed pubblica l’audio di Savoini al Metropol e Salvini si trova sotto accusa, cinque mesi dopo le prime notizie. Dov’è stata l’intelligence nel frattempo?

Nella sua audizione parlamentare, il 18 luglio, il generale Luciano Carta che guida l’Aise, il servizio segreto estero, si è concentrato su un aspetto apparentemente marginale: i prezzi e i quantitativi del petrolio oggetto della transazione che doveva generare la tangente da 65 milioni per la Lega non erano giudicati credibili dall’intelligence. Sembra una scusa per giustificare la mancata attenzione al tentativo di uno Stato estero di influenzare la politica italiana. Ma va ricordata una cosa rilevante: i servizi si muovono con la libertà di manovra richiesta dal loro lavoro soltanto su un preciso input dalle autorità titolate di legittimità democratica. Abbiamo visto negli anni Settanta cosa succede quando un servizio segreto “devia” e stabilisce una propria agenda, diversa da quella del governo che ne nomina i vertici. Si comincia con i dossier e si finisce con le bombe.

Morale: con quell’accenno alla scarsa credibilità della trattativa, Carta stava facendo capire che lui non ha avuto alcuna indicazione specifica di occuparsi di Russia oltre quello che legge sui giornali. E neppure di monitorare personaggi opachi come Savoini che pure – ci ha tenuto a sottolineare – erano ben noti agli 007. Poco dopo qualcuno dagli ambienti intorno ai servizi rievoca la leggenda del “verme” del Sismi, quasi a mandare un doppio messaggio: c’è stato un tempo in cui l’intelligence faceva controspionaggio per arginare i russi e, secondo malizioso segnale, il “verme” potrebbe essere ancora attivo e questa compromissione forse spiega una certa inerzia. Malignità che indicano però un problema reale.

Carta e l’Aise non possono fare la guerra alla Russia se nessuno glielo chiede. Nella relazione annuale sull’intelligence presentata a febbraio la Russia viene citata come un Paese attivo in Siria, in Sud America, nei Balcani, ma non come una minaccia in Italia. Non è sempre stato così. Ai tempi del governo Gentiloni, all’allora direttore dell’Aise Alberto Manenti erano arrivate indicazioni di verificare interferenze russe nella vita dei partiti italiani, a cominciare dai Cinque Stelle. Per le elezioni del 2018 erano calati a Roma anche gli analisti dell’Atlantic Council, un think tank di Washington legato al mondo dell’intelligence americana, proprio per monitorare i social e cercare tracce di possibili azioni di disturbo russe come quelle durante le presidenziali Usa 2016. Non avevano trovato nulla. Poi è arrivato il governo gialloverde. Salvini – pur senza deleghe formali – si è messo a occuparsi anche di intelligence: ha perorato un avvicendamento all’Aise, si è interessato di Libia, principale campo d’azione del servizio estero. Ha fatto sentire la sua influenza.

Il generale Carta viene dalla Guardia di Finanza, ha un suo percorso autonomo e una rete di relazioni che era solida prima di Salvini e gli sopravviverà, non è ostaggio della Lega. Ma per occuparsi di Russia e di legami con la Lega deve ricevere un preciso mandato. Che, ha fatto capire in Parlamento, non è mai arrivato. Neppure dopo l’uscita del pezzo dell’Espresso, secondo quanto risulta al Fatto, il titolare della delega all’intelligence, cioè il premier Conte, ha chiesto ai servizi di capire cosa fosse successo al Metropol. Il compito viene lasciato alla Procura di Milano. E così, le spie russe – vere o immaginarie come il “verme” – possono vivere senza troppi stress. Così come i loro mandanti. E i beneficiari del loro lavoro.

“Armando” a pranzo da Arata con Nicastri: ora i pm devono chiarire chi è che mente

La Procura di Roma dovrebbe andare a fondo sulla questione del presunto incontro a tre Siri-Nicastri-Arata. I pm romani che indagano sulla presunta corruzione dell’ex sottosegretario Armando Siri da parte di Paolo Arata, hanno ascoltato nell’incidente probatorio di giovedì due versioni inconciliabili su questo punto apparentemente laterale.

Da un lato Vito Nicastri, imprenditore del settore dell’energia eolica già arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa a marzo 2018, afferma di avere incontrato Armando Siri, quando lui era libero e Siri non era ancora un deputato, a casa di Arata a Roma. Dall’altro Arata ha negato tutto. I pm di Roma ora dovrebbero almeno tentare di accertare, mediante i tabulati telefonici, chi dice la verità.

Nicastri ricorda che Siri fu invitato da Arata al telefono prima dell’incontro. Nei tabulati si potrebbe verificare se i telefonini di Arata, Siri e Nicastri nell’anno 2017 e nei primi mesi del 2018 si siano mai trovati nello stesso momento a Roma nella cella di casa Arata, magari dopo una chiamata Siri-Arata.

La Dia ha intercettato una conversazione in cui Arata dice il 10 settembre 2018 a Manlio Nicastri, figlio di Vito: “Armando questo … l’ha conosciuto anche tuo papà è venuto a pranzo anche a casa mia”. Il Fatto ha pubblicato con risalto questo passaggio, ignorato dagli investigatori e dalla stampa, perché quell’Armando a noi sembrava potesse essere Siri. Nel dubbio avevamo titolato “Arata a Nicastri Jr: ‘Tuo padre conosce Armando’. È Siri?”. In udienza, come da noi auspicato nel pezzo, i pm hanno posto la domanda. Vito Nicastri ha confermato l’incontro a casa di Arata con Siri. Arata lo ha negato. Manlio Nicastri (che nella conversazione intercettata sulla pregressa conoscenza del padre con Armando, rispondeva: ‘sì lo so’ ad Arata) ha detto di non saperne nulla.

Ora i pm di Roma dovrebbero comportarsi come nell’inchiesta Consip: in quel caso grazie ai tabulati si è scoperto che Alfredo Romeo era andato a Firenze in treno il 16 luglio 2015 e che intorno alle 15 il suo cellulare aveva agganciato celle compatibili con un incontro (da tutti negato) con Carlo Russo e Tiziano Renzi.

I pm Palazzi e Ielo potrebbero ripercorrere quella strada: Siri allora non era un deputato quindi non c’è bisogno di autorizzazione del Parlamento. Se l’incontro ci fosse stato davvero, Siri e Arata almeno su questo punto sarebbero sbugiardati. Inoltre, sempre se l’incontro ci fosse stato, sarebbe importante capirne il contenuto. La domanda chiave è: nel presunto incontro si parlò degli affari di Arata e Nicastri nell’energia? E quando Siri presentò l’emendamento sulle centrali eoliche per Arata era consapevole dei rapporti di affari tra Arata e Nicastri?

Siri ha sempe detto di non conoscere Nicastri e Arata lo supporta in questa versione.

A prescindere se sia mai stata promessa la mazzetta da 30 mila euro a Siri, è importante capire chi dica il vero su questo incontro. L’imprenditore di Alcamo, pur non essendo mai stato condannato per mafia, aveva subìto un sequestro nel 2013 ed era stato anche un sorvegliato speciale, inizialmente per i suoi presunti rapporti con la mafia. Poi in appello l’aggravante di mafia era caduta ed era rimasta la confisca e la sorveglianza semplice. Però non si può dire che le accuse sui suoi affari nell’energia eolica e sui presunti legami con il boss Matteo Messina Denaro fossero ignoti. Nel 2010 il ministro dell’Interno Maroni e nel 2013 il suo successore Alfano avevano legato i sequestri miliardari degli impianti di Nicastri alla caccia al boss. Nicastri era pure stato intervistato nel 2014 dalla Rai sui suoi interessi nell’energia e i presunti rapporti con Messina Denaro. Insomma, se Siri ha incontrato Nicastri con Arata, nel 2017 aveva tutti gli elementi per sospettare qualcosa sui legami profondi di Arata con gli affari sull’eolico in Sicilia.

Siri, un altro prestito senza garanzie da San Marino

Due finanziamenti “senza le normali garanzie e al di fuori delle procedure” concessi da una banca di San Marino all’ex sottosegretario leghista Armando Siri e a un imprenditore a lui vicino. Se ne sta occupando l’Autorità di Informazione Finanziaria (Aif). Gli atti sono stati trasmessi alla Procura di Milano che ha aperto un fascicolo (senza indagati). In tutto fanno 1,3 milioni: 700mila destinati a Siri e circa 600mila all’imprenditore.

La storia è raccontata da Lirio Abbate e Paolo Biondani in un’inchiesta che comparirà domani su L’Espresso.

Tutto comincia nei mesi scorsi. A San Marino le autorità hanno deciso un giro di vite: finiti i tempi in cui la rocca del Titano era una sorta di paradiso finanziario nel cuore d’Italia. Il sistema scricchiola: dal 2015 ogni anno è uscito dalle banche sammarinesi tra il 10 e il 20% della raccolta. Nel 2018 la raccolta diretta delle banche si è fermata a meno di 4 miliardi (erano 13,8 miliardi nel 2008). I crediti malati delle 6 banche rimaste valgono oltre 1,4 miliardi su prestiti scesi a poco meno di 3 miliardi.

Insomma, bisogna ricostruirsi un’immagine. L’Aif e la Banca Centrale cominciano a svolgere controlli sui finanziamenti offerti dalle banche. Sulla scrivania dei dirigenti dell’Autorità finiscono due operazioni. Si parte nel gennaio scorso quando un notaio milanese – ne parlò Report – segnalò all’antiriciclaggio un’operazione immobiliare con cui Siri comprò per 585mila euro un palazzo di mille metri quadrati a Bresso, nell’hinterland milanese, per intestarlo alla figlia. Oggi si scopre che quell’acquisto (e soprattutto il mutuo che l’aveva permesso) erano finiti sotto la lente della Banca Centrale di San Marino. Che scavando era incappata in una “operazione correlata”.

Ma andiamo con ordine. La mediazione immobiliare per l’acquisto della casa di Bresso era stata realizzata da una società di Policarpo Perini, una vecchia conoscenza di Siri: nel 2013 era stato candidato a sindaco di Bresso per il Partito Nuova Italia (Pin) fondato da Siri prima di abbracciare la Lega e avere i favori di Matteo Salvini. I solai della palazzina sono acquistati dal padre dell’agente immobiliare, Marco Luca Perini, presidente dell’associazione Spazio Pin, che gestisce i corsi di formazione della Lega, oltre a essere attiva nel campo dei corsi di meditazione, ipnosi e massaggio.

Niente di strano, fin qui. A finanziare l’operazione è la Banca agricola commerciale di San Marino, diretta dal luglio scorso da Marco Perotti, uomo vicino a Siri. A suscitare gli interrogativi dell’Aif e della Banca Centrale sammarinese sono le condizioni del finanziamento: Siri ottiene un prestito di più di 700mila euro, mentre l’immobile nel costa 585mila. Gli restano oltre centomila euro. Non solo: la banca interessata – ricordano gli ispettori sammarinesi – non ha chiesto “nessuna garanzia, né reale né personale”. Ancora: l’appartamento viene intestato alla figlia di Siri. Un ‘dettaglio’ che renderebbe difficile per il creditore rivalersi sul bene se il debito non fosse onorato. Ma i tecnici dell’Aif si soffermano su altri elementi, come la durata del finanziamento: dieci anni, mentre il limite sarebbe cinque. Siri, è scritto, ottiene un tasso particolarmente vantaggioso (2,1 per cento).

Ma ecco che, rivela l’Espresso, compare il secondo finanziamento da 600mila euro, anch’esso concesso senza alcuna ipoteca. Destinataria è la società Tf Holding srl, che risulta controllata da due “baristi milanesi”. Ma che cosa legherebbe anche il secondo finanziamento a Siri? Sono gli stessi dirigenti della banca, sentiti dagli ispettori, a sostenere che la società è stata ‘presentata’ alla banca da “Marco Luca Perini”, che è anche “capo segreteria del sottosegretario e senatore Armando Siri”. Annotano gli ispettori: “Perini è figlio di Policarpo Perini, titolare dell’agenzia che ha gestito la vendita della palazzina di Bresso al senatore Siri”. Perini, interpellato dal cronista, ha risposto: “Preferisco non rilasciare dichiarazioni finché non avrò conosciuto con esattezza i termini della questione”.

Non è l’unico punto di contatto con l’ex sottosegretario: uno dei baristi che hanno ottenuto il finanziamento è stato candidato in “Italia Nuova”, una delle tante creature politiche cui Siri ha dato vita prima di finire nel Carroccio. Ce n’è abbastanza, secondo gli ispettori, per sottolineare che le due operazioni sono “in contrasto con i principi di sana e prudente gestione”. E per l’istituto si prospettato “un elevato rischio reputazionale oltre che di mancato recupero del credito”.