Contestare a Luigi Di Maio quell’infelice “abbiamo abolito la povertà” con cui a settembre festeggiò il varo del Def che conteneva lo stanziamento per il reddito di cittadinanza è sacrosanto. Lo è meno, però, se lo si fa usando dati che con l’operato del vice premier hanno poco a che fare. Ieri, per dire, Il Venerdì di Repubblica ha illustrato un pezzo sulle mancate promesse del leader 5Stelle abbinando alla frase incriminata gli ultimi dati pubblicati dall’Istat “il 18 giugno 2019” che mostrano come la povertà in Italia non sia diminuita. C’è però un’omissione che vanifica il ragionamento: quei dati, seppure diffusi a giugno scorso, sono relativi al 2018. E non possono ovviamente considerare l’impatto del reddito di cittadinanza, che è erogato da aprile 2019. Al massimo possono tenere conto del Rei, il primo intervento universale varato a fine 2017 dal governo Gentiloni. Non a caso, nel pezzo, dopo aver citato i numeri, si riconosce che “certo, questi non considerano ancora gli effetti del reddito”. Per vedere l’effetto della misura servirà attendere l’estate 2020. Il Rei, per dire, qualche effetto sembra averlo avuto, visto che la povertà assoluta è rimasta sostanzialmente stabile nel 2018, dopo anni di continuo aumento.
Il piano del Carroccio: gli 80 euro diventano una decontribuzione
Trasformare gli 80 euro di Matteo Renzi in uno sconto sui contributi a favore dei lavoratori. A illustrare la proposta della Lega Nord è stato il viceministro dell’Economia, Massimo Garavaglia, intervistato dal sito Formiche.net. “Abbiamo fatto un ragionamento semplice, prendendo spunto dalle indicazioni che sono arrivate in questi giorni dalle associazioni imprenditoriali. Tutti dicono di abbassare il cuneo fiscale e, se ci sono spazi, la contribuzione”. Il bonus introdotto dal governo Renzi “presenta una serie di problemi”. Il ragionamento dei leghisti è quindi di trasformarlo in un alleggerimento del costo del lavoro. Lo stato si farebbe carico di una parte dei contributi previdenziali a carico del lavoratore (che però è versata comunque dall’impresa, che quindi risparmierebbe). Con la decontribuzione, dice Garavaglia, “trasformiamo una spesa in una riduzione del costo del lavoro” e un aumento delle pensioni per gli attuali percettori degli ottanta euro. L’idea, spiega ancora il viceministro, è di alzare l’asticella portando il beneficio per i lavoratori a 100/120 euro. Per fare questo, però, servirà alzare la dotazione dagli attuali 10 miliardi.
La base dice sì al mandato zero, ma votano solo in 25 mila
Anche a non voler dar retta ai commenti – assai critici – lasciati in calce al post in cui annuncia i risultati del voto sulla nuova organizzazione del Movimento, il messaggio a Luigi Di Maio è arrivato piuttosto chiaro. Il “grande percorso partecipativo” che doveva contribuire alla trasformazione dei Cinque Stelle si è infranto sotto il muro delle 25 mila preferenze. Poche, pochissime: la metà degli iscritti che aveva votato sul caso Diciotti e sulla riconferma del capo politico, le altre due consultazioni importanti che si sono tenute negli ultimi sei mesi, entrambe chiuse sopra quota 50 mila.
I più sobri ricordano a Di Maio qual era il motto che Gianroberto Casaleggio tirava fuori quando gli dicevano che il Movimento era troppo rigido: “Ogni volta che deroghi a una regola praticamente la cancelli”. E, come noto, di deroghe in questa riorganizzazione ce ne sono almeno tre importanti. Le prime due riguardano il cosiddetto “mandato zero”, ovvero la possibilità per chi è stato eletto due volte consigliere comunale di considerare nullo il primo giro e di potersi candidare ad altro, perfino interrompendo il mandato in corso. L’altra è l’apertura alle alleanze con le liste civiche nelle elezioni locali, pur limitata a formazioni con cui ci siano già state forme di collaborazione “verificata”. Non è un caso che siano state le tre questioni – il voto era per parti separate – con la percentuale di Sì più bassa: solo in 15 mila, per dire, hanno approvato l’idea di permettere ai consiglieri comunali di mollare il posto per tentare la sorte in Regione, a Roma o al Parlamento europeo. Alla Casaleggio hanno comprensibilmente valorizzato il dato delle 123.755 preferenze espresse. Fa niente se sono i soliti 25 mila che hanno risposto a cinque domande.
Il Pd si finge unito, ma litiga sul dialogo coi Cinque Stelle
C’è chi, come Lorenzo Guerini di Base riformista, rimasto orfano di Luca Lotti, avrebbe voluto la ratifica di “un cambio della strategia fin qui costruita che ha scommesso su elezioni immediate che non ci saranno”. E chi come Luciano Nobili della corrente Sempre Avanti, che dalla direzione del Pd si sarebbe aspettato una vera e propria abiura all’ipotesi di un potenziale asse con i 5 Stelle ventilata qualche giorno fa da Dario Franceschini. Quest’ultimo, al termine della riunione, è visibilmente soddisfatto perché “finalmente si è avviata una riflessione collettiva sul rapporto tra noi e il Movimento 5 Stelle: il tema è entrato nel nostro dibattito e non è più un tabù”.
Un dibattito lungo e partecipato con applausi e battibecchi. Come quello tra il vicesegretario Andrea Orlando e Roberto Giachetti che si sono reciprocamente accusati di alimentare il correntismo interno. Ma al netto delle scintille, la mozione del segretario del Pd Nicola Zingaretti è passata liscia come l’olio pure se per qualcuno l’unità tanto invocata resta una necessità più che una virtù: nessun voto contrario, 24 astensioni e qualche assenza di peso (i due capigruppo di Camera e Senato Graziano Delrio e Andrea Marcucci). E Matteo Renzi che pochi minuti prima dell’inizio della relazione di Zingaretti prova a rubargli la scena con la sua e-news.
Il nuovo capo del partito del Nazareno, però, tira dritto: ha avviato il commissariamento del Pd in Sicilia dopo l’annullamento del congresso che ha eletto Davide Faraone. La decisione passa senza traumi, nonostante le proteste degli orfiniani in direzione e gli alti lai dei renziani siciliani che restano sugli scudi: “La Sicilia si prepara a essere il primo laboratorio politico dell’alleanza tra Pd e 5 stelle, come aveva detto Davide Faraone immediatamente dopo la sua epurazione. Zingaretti ha nominato il nuovo commissario del Pd Sicilia, è Alberto Losacco, deputato, uomo di Franceschini”.
Insomma i nodi politici restano sul tappeto: che fare con i Cinque Stelle, specie dopo che il sindaco di Milano Beppe Sala è tornato a profilare l’intesa col M5S dopo che la leadership di Luigi Di Maio sarà tramontata? E poi c’è chi si chiede a che gioco stia giocando Franceschini e quale sia il destino di chi si sente a rischio di marginalizzazione nel disegno di partito nuovo indicato dalla segreteria (subito dopo agosto verrà completata la squadra con l’indicazione dei responsabili dei forum tematici e dei dipartimenti).
Intanto Zingaretti ha avviato la “Costituente delle idee”, ossatura del manifesto programmatico che sarà elaborato nel dibattito pubblico previsto a Bologna tra l’8 e il 10 novembre. E in quest’ottica fa suo lo spirito dell’ordine del giorno su cui Carlo Calenda ha raccolto 25 mila firme online per chiedere un maggiore coordinamento di tutte le forze di opposizione. Nel frattempo, però, il segretario vara pure un gabinetto di guerra per le emergenze con presidente, tesoriere, capigruppo e vicesegretari che dovrà assumere “responsabilità, capacità di iniziativa e massima collaborazione nelle scelte se la situazione dovesse precipitare”.
Motivo: quando l’alleanza gialloverde franerà “la risposta sarà la spallata e l’indicazione dell’uomo forte come soluzione di tutti i problemi, se non ci sarà un’alternativa politica pronta”. L’uomo forte, il nemico, è uno solo: Matteo Salvini. Su cui il giudizio di Zingaretti è chiaro: “C’è una degenerazione quasi eversiva, quando un ministro degli Interni per due settimane non risponde neanche al telefono al presidente della Camera”, sottolinea parlando del “rubli-gate” e del gran rifiuto del capo del Carroccio di riferire in Parlamento. Lì il Pd ha intanto depositato una mozione di sfiducia per Salvini che realisticamente andrà al voto dopo l’estate.
“Sanità, serve la commissione d’inchiesta: il governo dia il via libera al finanziamento”
Di sprechi, inefficienze, buchi di bilancio, qualità delle prestazioni, disparità regionali, liste di attesa dovrebbe occuparsi la commissione d’inchiesta parlamentare sul Servizio sanitario nazionale. Un organo con poteri ispettivi e conoscitivi che dalla metà degli anni ‘90, con il primo governo Berlusconi, è stato istituito in ogni legislatura. A eccezione della penultima (2013-2018), perché si è temuto che l’attività investigativa dei parlamentari, con gli stessi poteri della magistratura, potesse portare a selezionare criticità legate più che altro ad antipatie territoriali, trasformando il sistema sanitario in un ring politico, col rischio che la commissione venisse usata soltanto per denigrare il Ssn. Un approccio che avrebbe velocemente spianato la strada agli interessi del privato nell’ottica del superamento di una sanità, la nostra, totalmente pubblica. Oggi, forse per motivi diversi, una commissione parlamentare d’inchiesta sulla sanità italiana è di nuovo assente. Eppure di richieste per istituirla ne sono arrivate parecchie, “quattro qui in Senato, di cui una anche mia che risale al 6 dicembre, e altre quattro alla Camera” assicura il senatore M5S Pierpaolo Sileri, a capo della commissione Sanità di Palazzo Madama. “Dopo oltre un anno di legislatura non si può più fare finta di niente, i tempi sono maturi, soprattutto alla luce del percorso di autonomia differenziata avviato da alcune regioni che avrà inevitabili ricadute sulla sanità nazionale”.
Se la volontà delle Camere c’è, per quale motivo non procedete a costituire la commissione?
Aspettiamo ancora l’ok del Governo. Ne ho parlato alla ministra della Salute e almeno lei è d’accordo. Ma fino adesso, nonostante le sollecitazioni, non abbiamo avuto garanzie sulle risorse. Serve un tetto massimo di 100mila euro l’anno per farla funzionare. La sanità troppo spesso è messa in coda a tutto il resto. Sebbene assorba i tre quarti della spesa di ogni regione.
Un ostacolo di tipo economico quindi?
Così sembra. Ma non solo: anche culturale. Forse non ci si rende abbastanza conto di quanto sia importante esercitare un controllo sui servizi sanitari al fine di tutelare il diritto alla cura per tutti, in ogni parte d’Italia. Senza che per forza ci sia una denuncia, condizione necessaria invece per il lavoro della magistratura. Capisco che ci siano richieste di commissioni d’inchiesta di tutti i tipi e se si dà retta a tutti diventa proibitivo per le casse statali. Ma in questo caso i vantaggi sarebbero superiori agli oneri. Si tratta di una risposta dovuta ai cittadini.
Perché è urgente?
Soprattutto per la minaccia dell’autonomia differenziata, che potrebbe aumentare notevolmente le disomogeneità dell’offerta sanitaria, e perché da ormai dieci anni ci sono 7 regioni ancora impegnate in un piano di rientro dal disavanzo sanitario: andrebbero analizzate le cause e monitorati gli standard di sicurezza e appropriatezza delle cure. Le disparità regionali sono la principale causa della mobilità dei pazienti, su cui tra l’altro c’è uno scarso controllo.
Quali altri compiti avrebbe la commissione?
Innanzitutto va superata la logica delle vecchie commissioni d’inchiesta che si sono occupate prevalentemente di errori medici. A parte quella presieduta da Ignazio Marino che ha denunciato le condizioni shock degli ospedali psichiatrici giudiziari portandoli poi alla chiusura. Al centro dell’esame oggi dobbiamo mettere, non il singolo errore, ma l’intero sistema organizzativo. Quindi le ragioni delle perdite di bilancio, i modelli di gestione, le gare per i dispositivi medici, i posti letto, le carenze di organico, le tariffe delle prestazioni di assistenza ospedaliera, il contenzioso medico-legale. Tutti elementi che determinano la qualità dei livelli essenziali di assistenza. E che possiamo valutare accedendo ai documenti delle varie strutture e attraverso sopralluoghi senza bisogno di essere autorizzati.
Il nuovo Di Maio responsabile: sta con Tria sul deficit e le tasse
I fatti, come spesso capita nella politica estiva, scarseggiano, ma le parole abbondano e sulla prossima manovra economica si assiste a interessanti riposizionamenti all’interno del governo: bizzarramente mentre persino Mario Draghi chiede politiche fiscali espansive a Germania e Italia, Luigi Di Maio decide di ammanettare il M5S a Giovanni Tria e alle sue promesse di “deficit contenuto” e appeasement con Bruxelles per marcare la distanza con l’alleato leghista, che spinge invece per un corposo taglio delle tasse al ceto medio.
Sembrerebbe una posizione inspiegabile per chi salutava “l’abolizione della povertà” grazie all’aumento del deficit programmato per il 2019, eppure la mossa del capo politico grillino si accorda in pieno con la nuova fase gialloverde: l’esecutivo dei tre partiti (M5S, Lega, Quirinale) ha oggi due soli azionisti visto che – con l’uno/due elezione di Ursula von der Leyen alla Commissione europea e il sì al Tav – Giuseppe Conte ha sostanzialmente annesso i 5 Stelle a una linea di moderato europeismo.
Linea, va detto, che Di Maio interpreta con l’entusiasmo del neofita: dalla lettera al Sole 24 Ore per annunciare che il M5S sponsorizza un taglio del cuneo fiscale da 4 miliardi (a favore delle imprese) all’esibita chiacchierata con l’ambasciatore Usa in Italia Lewis Eisenberg, dal probabile ingresso nel gruppo iper-europeista liberale Renew Europe all’appassionata difesa di ieri di Tria e delle “coperture”.
Il motivo del contendere – tagliare le tasse, a chi, come, quanto – ha il suo peso, ma non è il centro di questa vicenda. Il punto è che tipo di politica fiscale serve a un’Italia in stagnazione (e col suo principale partner commerciale, la Germania, in stagnazione). Mario Draghi giovedì l’ha messa così citando il manifatturiero in Germania e Italia: “Dove c’è un deciso peggioramento delle prospettive è indubitabile che una politica fiscale significativamente espansiva diventa essenziale. La politica monetaria ha fatto e fa molto per l’Eurozona, ma se le prospettive si deteriorano ancora la politica fiscale sarà essenziale”.
E qui veniamo al dibattito nel governo. Sempre giovedì il ministro dell’Economia ha in sostanza fissato il quadro generale della manovra: niente aumenti dell’Iva (“ci stiamo lavorando”), ma anche “un deficit molto contenuto, quello che serve all’economia italiana” (l’impegno con l’Ue è portarlo dal 2 all’1,8% del Pil nel 2020). Tradotto: niente manovra “espansiva” e per i sostanziosi tagli alle tasse cari a Matteo Salvini si farà quel che si può, cioè poco, e quel poco tagliando detrazioni e deduzioni in essere (nelle parole di Tria una riforma da fare “progressivamente, secondo gli spazi fiscali che si creano”).
La cosa ha fatto arrabbiare il leghista: “Se il ministro dell’Economia del mio governo dice che di taglio delle tasse non se ne parla, o il problema sono io o è lui. Se qualcuno ha dubbi o paure, basta dirlo: ma allora quel qualcuno è fuori posto. Faccio una manovra economica all’acqua di rose? L’Italia ha bisogno di uno choc fiscale”. E mentre Salvini lotta o fa finta di lottare per tagliare le tasse a chi guadagna fino a 50mila euro (misura comunque poco utile ai fini della crescita), Di Maio che fa? Propone sgravi per le imprese e difende la linea del rigore di Tria: “Sono ore in cui si dice che si sta perdendo fiducia nel ministro dell’Economia e nel premier. Questo non fa bene al Paese: hanno portato avanti trattative complesse con l’Ue, scongiurato procedure, abbiamo lo spread basso anche grazie al loro lavoro. Ho piena fiducia in Tria e Conte”. Replica di Salvini: “Ho un’enorme pazienza…”.
Tracciato il solco, gli eletti grillini hanno riscoperto in chiave anti-Lega le mitiche coperture: “La flat tax è un progetto affascinante ma deve avere coperture strutturali, senno è un boomerang” (il capogruppo alla Camera Francesco D’Uva); “Non vorremmo che i colleghi leghisti stiano incontrando un po’ di difficoltà nel trovare coperture adeguate alle loro faraoniche promesse” (Laura Bottici, questore in Senato). Di fatto, i 5 Stelle si sono ritrovati sulla linea dell’odiata (un tempo) Standard & Poor’s, il cui ultimo pizzino all’Italia è datato ieri: per l’agenzia di rating “non c’è oggi uno scenario da crisi del debito pubblico. Tuttavia in uno scenario alternativo in cui i decisori politici perseguano soluzioni non ortodosse – come l’introduzione di una valuta parallela (i minibot, ndr) o di misure di bilancio senza copertura per eludere i vincoli Ue – l’adesione dell’Italia all’area euro potrebbe essere messa in discussione” e “verificarsi una crisi di fiducia come quella greca del 2015”.
Le squadre in vista dell’autunno sono insomma queste: teoricamente è proprio la sessione di bilancio, se alla fine non si troverà un compromesso, il momento migliore per formare alle Camere una nuova maggioranza “responsabile”, ma se la Bce a settembre farà quel che ha annunciato (liquidità alle banche e nuovo Quantitative easing) sarà assai difficile strutturare un ricatto credibile per una nuova “unità nazionale” e a Di Maio resterà solo la parte scomoda di difensore dello status quo.
Il cardinale Parolin: “Cattolici in politica, un vuoto da riempire”
Una presenza “efficace della voce dei cattolici all’interno della politica”, per renderla “buona”: è quanto invoca il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano intervistato da Vatican News. Secondo il cardinale, “c’è un vuoto che deve essere riempito: i cattolici sono stati una parte fondamentale nel costruire l’Italia, soprattutto nel dopoguerra e, in un mondo complesso come quello attuale, continuano a esserlo”. Dunque Parolin ritiene che il mondo cattolica debba muoversi: “Occorre riflessione e, ovviamente, occorrono anche i valori del Vangelo. Per superare questa irrilevanza si deve trovare una nuova forma di collaborazione”. A spingere i cattolici ad un intervento diretto dovrebbe essere, ancora secondo il cardinale, anche un motivo storico: “C’è una esigenza fortissima che nasce dal fatto che l’Europa, in fondo, viene da un progetto di cristiani. I padri fondatori dell’Europa si sono tutti riferiti al Vangelo assumendolo come punto di partenza, come orientamento, come guida. E se oggi assistiamo ad una crisi dell’Europa è perché è venuta meno questa idealità”.
La Valsusa militarizzata si prepara al corteo
Si aspettano provocazioni, e per questo il loro leader storico, Alberto Perino, da giovedì sera si raccomanda: “Non dobbiamo fare un regalo alla polizia e a Matteo Salvini. Non dobbiamo cedere alle provocazioni, neanche tirare una castagna”. Per il movimento No Tav la giornata di oggi sarà un’altro appuntamento campale, l’occasione di dimostrare di non aver perso la battaglia, né la “vitalità” e la “determinazione”, nonostante martedì il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, abbia dato il via libera alla Torino-Lione.
A Venaus, località della Valle di Susa in cui il movimento No Tav nel 2005 riuscì a bloccare i mezzi arrivati per gli scavi preliminari (quelli necessari a studiare la conformazione del terreno), da alcuni anni si tiene il Festival dell’Alta felicità, una rassegna di musica e incontri totalmente gratuita nel corso del quale non mancano le passeggiate verso il cantiere di Chiomonte. “È una manifestazione programmata già da tempo – spiega Dana Lauriola, portavoce del centro sociale Askatasuna di Torino che fa parte dell’organizzazione del festival -. Adesso abbiamo un motivo in più per farla”. “Sarà una manifestazione tranquilla, tranquillissima – precisa Perino – anche anche se ci saranno provocazioni. La polizia cerca lo scontro”. Vorrebbe che il movimento non cedesse. “Farò di tutto perché sia come il 28 novembre 2011 – ricorda – quando tutti dicevano che sarebbe stata la fine del mondo e invece alla fine abbiamo tagliato soltanto le reti”. “La nostra sarà una manifestazione pacifica e determinata – ribadisce Guido Fissore, altro esponente storico del movimento -. Non abbiamo mai detto di voler prendere il Palazzo d’Inverno o di fare chissà cosa: vogliamo arrivare al cantiere. E se non vogliono farci arrivare, cercheremo di andarci lo stesso”. Si aspettano decine di migliaia di partecipanti, non soltanto dalla valle e da Torino, ma anche dal resto d’Italia, in particolare dai centri sociali, e dall’Europa. Assenti gli eletti M5s più legati al movimento No Tav, come la capogruppo al Consiglio regionale del Piemonte, Francesca Frediani, e il senatore Alberto Airola. Forse si faranno vedere alcuni consiglieri di Torino, anche se il prefetto Claudio Palomba ha raccomandato ai cinque stelle di evitare. L’attenzione di polizia e servizi segreti è puntata sugli anarchici dopo il sabotaggio dei giorni scorsi. Nelle stazioni ferroviarie i controlli sono già cominciati.
I timori di provocazioni sono sorti giovedì, giorno dell’apertura del festival in Val di Susa, quando il ministro Salvini ha twittato un messaggio: “Nessuna violenza sarà tollerata, né resterà impunita”. Il tweet arrivava non solo dopo il discorso di Conte, ma anche dopo le prime dimostrazioni della scorsa settimana, in occasione del campeggio studentesco a Venaus, coi cortei notturni e i fuochi d’artificio lanciati contro il cantiere (85 persone sono state denunciate per i disordini). Salvini annunciava anche l’impegno di 500 agenti di polizia in Val di Susa nel fine settimana e ieri ha ribadito che “se qualcuno cominciasse a fare casino, ad attaccare, bruciare, minacciare e insultare, nessuno resterà a guardare. Spero che ci sia tanta gente, mamme, papà bambini a volto scoperto e disarmati – ha aggiunto -, l’importante è manifestare le proprie idee cantando, fischiando e ballando, ma a volto scoperto e a mani nude”. A lui risponde Fissore: “A Salvini vanno bene le manifestazioni non violente? E allora perché ci sono blocchi a 2 km dall’area? Dopo tutto il cantiere è già ben presidiato e protetto da uomini in armi”.
Firenze, l’asse renziani-Salvini sul Tav “promosso” dai tecnici
Sul tavolo di Danilo Toninelli è arrivata una decina di giorni fa e il ministro non deve averla presa bene, vista la storica contrarietà del Movimento 5 Stelle: l’analisi costi-benefici sul Tav di Firenze è positiva. In sintesi: conviene di più completare l’opera (il tunnel di 6 km che dovrebbe sotto attraversare la città e la relativa stazione progettata dall’archistar Norman Foster) che fermarla. E così i renziani capitanati dal sindaco di Firenze, Dario Nardella, sono già partiti all’attacco del ministro delle Infrastrutture: “È un’opera fondamentale per il sistema dei trasporti nazionale e locale – ha detto il primo cittadino – Dopo il caso di Rovezzano ne ho parlato con il ministro Salvini, che era d’accordo, ma al governo stanno litigando sulle infrastrutture essenziali per il Paese”.
Come su altre opere – dal Terzo Valico alla Torino Lione – anche il Tav fiorentino un anno fa è stato sottoposto dal governo gialloverde all’analisi costi-benefici. A metà luglio il documento redatto dai tecnici del ministero è stato consegnato a Toninelli. Risultato? I benefici del Tav di Firenze superano i costi per circa il 20%. Un rapporto non molto ampio ma comunque “solido”, come viene definito al dicastero di Porta Pia. Il lavoro, che sarà pubblicato nei prossimi giorni, si concentra su due grandi effetti positivi dell’opera fiorentina contro uno negativo. In primo luogo, il tunnel sotterraneo permetterebbe ai viaggiatori dell’alta velocità di risparmiare circa 15 minuti per ogni tratta che passa da Firenze: la stazione di Santa Mara Novella è infatti “di testa” (i treni arrivano e da qui ripartono nel verso opposto) e passare sotto la città eviterebbe rallentamenti. Non solo: secondo gli esperti del ministero, il nuovo tunnel e la nuova stazione permetterebbero di decongestionare Santa Maria Novella dai treni ad alta velocità lasciando i binari solo ai convogli regionali e questo porterebbe da una parte ad un miglioramento dell’offerta (più viaggi e più veloci) e quindi anche della domanda con un possibile aumento dei passeggeri. Questi ultimi, quindi, preferirebbero i treni regionali all’auto con due effetti: minor inquinamento e meno traffico sulle strade. A questi due elementi positivi se ne contrappone uno negativo: la nuova stazione verrebbe costruita nel quartiere Belfiore, a nord-ovest della città, e quindi gli utenti fiorentini che lavorano o vivono in centro ci metterebbero più tempo rispetto all’attuale stazione a raggiungere il posto di lavoro o la propria abitazione. Nell’analisti costi-benefici viene considerato anche l’aspetto economico: 805 milioni degli 1,6 miliardi di costo totale sono già stati spesi e quindi, è il ragionamento, fermare l’opera costerebbe più che terminarla.
Nonostante questo e al netto delle richieste insistenti di “sbloccare” l’opera provenienti da Nardella e dal presidente della Regione, Enrico Rossi, non sarà facile far ripartire i lavori. Questi sono fermi a causa di ben tre inchieste ancora aperte (due a Firenze sulle terre di scavo e sull’assegnazione dell’appalto e una a Roma sulla prima fresa che avrebbe dovuto scavare il tunnel) e alla crisi delle imprese Condotte e Nodavia che aveva acquisito l’appalto da Coopsette. Nel 2013 era finita agli arresti domiciliari l’ex presidente della Regione Umbria Maria Rita Lorenzetti (Pd), ed erano stati indagati i dirigenti del Mit, Ercole Incalza e Giuseppe Mele (poi prosciolti). Lorenzetti ad oggi è imputata con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione del componente della commissione Via del ministero del- l’Ambiente, Gualtiero Bellomo. Poi c’è il nodo politico: anche in Toscana, come in Piemonte con la Torino-Lione, il Movimento 5 Stelle è da sempre contrario all’opera e il via libera potrebbe provocare una nuova crisi con la base toscana. La patata bollente adesso passa nelle mani del ministro Toninelli che a febbraio, proprio a proposito del Tav di Firenze, aveva detto: “È un grandissimo disastro, stiamo facendo l’analisi costi-benefici per capire come rimediare”. Ora inizia la vera battaglia.
Dopo la rissa in aula, ritirata proposta Lega per seppellire feti
Dopo la sospensione dei lavori del Consiglio regionale della Lombardia di giovedì, a causa di una rissa sfiorata tra Lega e del M5S, riprendono i lavori nell’Aula del Pirellone, in cui continua la discussione sull’assestamento di bilancio per il triennio 2019-2021. “Abbiamo dato prova di un brutto spettacolo”, ha detto il presidente del consiglio Alessandro Fermi chiarendo che “la presidenza si riserva di prendere provvedimenti disciplinari” dopo aver ricostruito con esattezza la vicenda e chiedendo a Massimiliano Bastoni (Lega) di ritirare l’emendamento sulla sepoltura dei feti da cui era nata la bagarre ieri sera. Un clima “mai visto in questo anno”, ha detto ancora Fermi.
Il consigliere del Carroccio Massimiliano Bastoni, pur rivendicando una “battaglia che ci vede convinti al 100%” e che “abbiamo presentato con grande onore e orgoglio”, ha accettato la proposta di ritirare l’emendamento per “un senso di responsabilità nei confronti di questa Aula”. Il comportamento del collega del M5S Dario Violi, ha poi aggiunto Bastoni, è stato “vergognoso” e “inaccettabile”. “Rimando al mittente le accuse”, ha risposto Violi. Questo “è un tema etico sicuramente di rilevanza, ci sono sensibilità diverse“.