Barconi affondati al largo di Al Khoms. La Libia ripesca migranti e 62 cadaveri

Donne, bambini, 62 corpi già recuperati, oltre 100 morti temuti: il naufragio al largo di Al Khoms, di fronte alla Libia, rischia di essere la tragedia più drammatica nel Mediterraneo nel 2019. Da due giorni la Guardia Costiera libica ripesca in mare i naufraghi dei barconi affondati. Tanti quelli portati in salvo, tanti i cadaveri.

A ieri sera erano 62 i morti, secondo quanto riferito da un responsabile delle autorità di Tripoli. 269 i migranti già intercettati e messi in salvo: 187 persone, tra le quali 9 donne e due bambini, sono stati soccorsi davanti a Gasr Garabuli, si trovavano a bordo di due gommoni, altre 87 persone sono state soccorse a largo di Tripoli.

L’incidente è avvenuto giovedì, al largo delle coste di Al Khoms, 100 chilometri dalla Capitale. I migranti erano partiti dalla Libia, dove si raccolgono migliaia di rifugiati, per raggiungere l’Europa. Secondo le prime testimonianze, uno dei barconi si è ribaltato a causa di un guasto al motore. Le motovedette libiche sono state le prime ad intervenire (anche le uniche nelle acque al largo della costa africana, per il divieto di soccorso in mare), a cui poi si sono aggiunte quelle maltesi. Un’equipe di Medici senza frontiere collabora ai soccorsi nella base militare di Al Khoms: “Abbiamo trovato circa 80 persone, provenienti in gran parte dall’Eritrea, dal Sudan, dall’Egitto e dal Bangladesh, tutti in pessime condizioni: alcuni avevano ingerito e respirato acqua di mare ed erano in crisi respiratoria”, ha raccontato la responsabile Anne-Cecilia Kjaer.

Le operazioni proseguono: secondo quanto dichiarato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), ci sarebbe circa un centinaio di dispersi. “Ogni vita persa è troppo”, ha detto una portavoce della Commissione Ue, Natasha Bertaud. “Non capisco perché ogni volta che succedono tragedie come queste, l’unico Paese che deve sentirsi in colpa è l’Italia. Ci sono anche Malta, Spagna, Grecia”, il commento di Luigi Di Maio. Per i dati dell’Unhcr dell’Onu 669 persone sono morte nel Mediterraneo dall’inizio del 2019. Col naufragio di ieri il bilancio è destinato a salire.

Salvini blocca pure la Guardia Costiera. Ma lo sbarco si farà

Dopo il caso Diciotti, è la volta della Gregoretti. Ma il Viminale ha deciso di non ripeterne lo schema che portò Salvini all’incriminazione per sequestro di persona. Al contrario, e nonostante i toni, per quanto risulta al Fatto Quotidiano, il ministro dell’Interno è pronto ad autorizzare lo sbarco già tra oggi e domani.

A differenza di quel che avvenne il 16 agosto 2018 con la nave Diciotti, il soccorso operato dalla Gregoretti, che ospita a bordo 135 naufraghi, non è stato deciso in autonomia: per il Viminale non ha rappresentato una sorpresa. Certo, Salvini continua a ribadire la linea dei “porti chiusi”, pur sapendo che chiudere i porti a una nave della Guardia costiera italiana è impossibile: “Ho dato disposizione che non venga assegnato nessun porto prima che ci sia sulla carta una redistribuzione in tutta Europa dei migranti a bordo”, ha dichiarato ieri, chiedendo “un impegno concreto ad accogliere tutti. Vedremo – ha aggiunto – se alle parole seguiranno i fatti. Io non mollo”.

In realtà, mentre il governo italiano invia a Bruxelles una lettera, con la quale chiede di coordinare le operazioni per ricollocare i naufraghi, a bordo della Gregoretti – per quanto risulta al Fatto – giungevano rassicurazioni sul via libera allo sbarco entro 24, massimo 48 ore. Se così fosse, l’ipotesi di un nuovo fascicolo per sequestro di persona, con Salvini nel ruolo d’indagato, non pare plausibile. E non soltanto per la diversa tempistica che toccò ai 190 naufraghi della Diciotti, sbarcati a Catania il 20 agosto, quindi ben 4 giorni dopo. Il punto è che il pattugliatore Diciotti stazionò a lungo di fronte a Lampedusa, consentendo alla procura di Agrigento l’apertura di un fascicolo, mentre ieri la Gregoretti s’è fermata al largo giusto il tempo di consentire l’evacuazione di 6 naufraghi in condizioni critiche. Poi s’è diretta verso Catania, dove l’orientamento del procuratore Carmelo Zuccaro è noto: fu lui a firmare la richiesta di archiviazione per Salvini, quando ereditò per competenza il fascicolo sul sequestro di persona, salvo vedersi ribaltare la situazione dal tribunale dei ministri, prima che Salvini venisse salvato in Parlamento con l’appoggio del M5S (niente autorizzazione a procedere). E quindi: se pure lo sbarco dovesse tardare, difficilmente Zuccaro contraddirà se stesso. E comunque, con la repentina virata verso Catania, la Gregoretti ha impedito alla procura di Agrigento di ipotizzare qualsiasi reato.

Resta il fatto che i migranti soccorsi dal peschereccio italiano “Accursio Giarratano” e da un peschereccio tunisino sono ancora a bordo della Gregoretti e che il loro sbarco ieri è stato impedito. La Ong Mediterranea ha deciso di devolvere 10 mila euro al comandante e all’equipaggio del peschereccio italiano: “Oggi più che mai – ha dichiarato il capo missione di Mediterranea, Luca Casarini – chi cerca di difendere questi principi che sono fondamenta della civiltà giuridica europea lo fa a suo rischio e pericolo, assumendosi da solo la responsabilità di difendere in primo luogo la nostra umanità. Le persone che ci hanno sostenuto economicamente lo hanno fatto per contribuire a salvare vite umane, e, anche se noi con due navi sequestrate e migliaia di euro di multe attraversiamo un momento di difficoltà economica, vogliamo riconoscere pubblicamente e concretamente l’impegno di chi in mare ogni giorno compie il suo dovere riconoscendo che ci sono valori che non si possono cancellare per decreto. Grazie Carlo Giarratano, grazie al suo equipaggio, grazie alla gente di mare. Navighiamo nello stesso mare, quello dell’umanità”. “Non li avremmo mai lasciati alla deriva, torneremo a casa dalle nostre famiglie dopo che avremo conosciuto la loro sorte”, ha commentato il comandante Carlo Giarratano ricordando che la nave porta il nome del figlio scomparso a 15 anni: “Lo facciamo anche per lui”. “Nemmeno noi, come voi, ci giriamo dall’altra parte”, ha concluso.

L’opposizione ha commentato duramente: “Siamo arrivati all’assurdità di un governo che chiude i porti anche alle navi della Guardia costiera italiana con 135 naufraghi a bordo e non solo di quelle delle Ong colpevoli di non lasciare che i profughi affoghino guardando dall’altra parte. Se non fosse una situazione drammatica, verrebbe da chiedersi se stiamo su ‘Scherzi a parte’”, ha dichiarato la senatrice di LeU, Loredana De Petris. “Capisco che Salvini debba trovare ogni giorno argomenti per non far parlare della vicenda dei rubli russi”, ha commentato Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana, “tuttavia ora si sta davvero esagerando: sta giocando sulla pelle di povera gente e mettendo in discussione serietà e professionalità della Guardia Costiera italiana”.

Blutec, il Gip di Torino rinnova il sequestro da 16 milioni di euro

Doveva riconvertire lo stabilmento ex Fiat di Termini Imerese e invece è nuovamente sotto sequestro. La Procura di Torino, a cui per competenza territoriale sono state trasferite le indagini, ha emesso un nuovo decreto di sequestro preventivo per la Blutec spa. L’accusa è di malversazione per l’uso improprio di 16 milioni di euro pubblici. La società di Cosimo Di Cursi e Roberto Ginatta, imprenditore assai vicino agli Agnelli e alla galassia Fca, rispettivamente amministratore delegato e presidente. A marzo i giudici di Termini Imerese avevano disposto l’arresto di entrambi e il sequestro dei beni personali. Il tribunale del Riesame di Palermo, pur convalidando i gravi reati di colpevolezza, aveva però annullato i provvedimenti, confermando solo il blocco dell’azienda e dichiarando l’incompetenza territoriale della Procura di Termini Imerese. L’inchiesta nel frattempo è passata ai pm di Torino, Laura Longo e Francesco Pelosi, che hanno emesso decreto di sequestro. La Blutec aveva chiesto allo Stato finanziamenti per oltre 71 milioni di euro e ne aveva ricevuti 21 a titolo di anticipazione. Almeno 16 di questi non sarebbero mai stati impiegati per i fini progettuali previsti dall’accordo di programma.

Bio-On risale in Borsa, i vertici comprano per sostenere il titolo

Con Bio-On non ci si annoia mai in questi giorni: dopo la quasi totale sospensione di mercoledì e giovedì, ieri il titolo è stato riammesso in Borsa. E ieri ha registrato un rialzo del 60 per cento, in una seduta comunque complicata, con le contrattazioni sospese più volte per eccesso di rialzo. A dare la spinta al titolo sono stati gli acquisti dei fondatori della società, il presidente Marco Astorri e il vice presidente Guido Cicognani che hanno investito 211.000 euro per dare u n segnale di fiducia. A 24 euro, le azioni di Bio-On restano comunque lontanissime dai 55 che valevano fino a martedì, quando il fondo americano Quintessential – come raccontato dal Fatto – ha pubblicato il risultato di mesi di indagini sui bilanci e i segreti di Bio-On e l’ha presentata come “la nuova Parmalat”.

I DUBBI. Quintessential ha il suo interesse, fa soldi scommettendo sul crollo di aziende che ritiene colpevoli di frodi contabili e con valori di Borsa gonfiati. Ma il management di Bio-On finora non è stato molto efficace nel rispondere alle accuse di avere millantato le sue mille partnership industriali, di non aver mai prodotto davvero la bioplastica PHA che dovrebbe rivoluzionare tutto, dalla medicina all’alimentare, e di vendere le proprie scoperte tecnologiche di fatto a se stessa (cioè a joint venture di cui ha maggioranza e che non sempre versano un reale corrispettivo).

IL CASO HAWAII. Ieri Bio-On, per la prima volta, ha di fatto ammesso di aver nascosto informazioni al pubblico e agli investitori. La questione riguarda Virdhi, una società basata alle Hawaii che, come raccontato ieri dal Fatto, nel 2013 viene presentata da Bio- On ora come “una start-up che sviluppa materiali avanzati per uso biomedicale”, ora come “il marchio dell’esperienza innovativa acquisita dal 2007 da sviluppare specificamente nel mercato Usa”. È una delle alleanze che Bio-On ha annunciato alla vigilia della quotazione in Borsa del 2014 e che hanno contribuito a dare l’impressione di una azienda dinamica e con una credibilità internazionale. Ieri, in un comunicato stampa, Bio-On ha ammesso quanto il fondo Quintessential aveva già scoperto: “Virdhi è una società fondata da Astorri e Cicognani nel 2013 con sede a Honolulu, luogo da cui è nata la tecnologia Bio-On, finalizzata a poter operare in alcune aree di ricerca della tecnologia direttamente attraverso una società con sede negli Usa, coerentemente con il forte interesse commerciale registrato dall’azienda su quel territorio”. All’epoca degli annunci e anche dopo, Bio-On non ha mai comunicato che dietro quella start-up delle Hawaii – che mai ha prodotto alcun risultato di ricerca divulgato – ci fossero gli stessi fondatori di Bio-On. Un dettaglio che avrebbe permesso ai futuri investitori al momento della quotazione di capire meglio di che si trattava: niente di male a tentare l’espansione negli Usa, ma è cosa ben diversa che fare una partnership con una azienda terza.

Oggi Bio-On spiega che “successivamente la proprietà ha deciso di non proseguire con il progetto, portando il cuore di questo ramo di ricerca in Italia all’interno di Bio-On nella business unit Cns (Cosmetica, Nanomedicina e Smart Material). Per questo motivo la società Virdhi non ha mai registrato alcuna transazione”. Ma finora Bio-On non aveva mai sentito il bisogno di fornire queste informazioni agli azionisti e di aggiornarli sul fatto che “Bio-On e Virdhi non hanno mai avuto alcun rapporto di tipo commerciale o finanziario”.

GLI INIZI MISTERIOSI. Quasi nessuno (va ricordata la lodevole eccezione di Business Insider) aveva mai dubitato delle prospettive di Bio-On, fino al report del fondo Quintessential. Eppure, rilette conla consapevolezza di oggi, le tante interviste del fondatore Marco Astorri dimostrano sicuramente un notevole talento narrativo ma una certa vaghezza scientifica. “Bio-On è nata per caso. Io ero un imprenditore impegnato nel campo dei microchip. Nel 2006 ci venne chiesto di sostituire la plastica delle tessere per gli skipass, di trovare un materiale che non inquinasse. Abbiamo scoperto i biomateriali: si è aperto un mondo. Ci siamo buttati totalmente nell’impresa, abbiamo investito tutto il nostro tempo e le nostre risorse e così nel giro di cinque anni siamo in grado di sostituire qualsiasi materiale con la nostra bioplastica”, diceva a Repubblica nel 2012.

Talento sorprendente o un bluff? I PHA, i polimeri di cui si occupa Bio-On, sono noti dal 1926. Ma soltanto Astorri sostiene di aver capito come valorizzarli e realizzare miracoli scientifici tipo ripulire il mare dal petrolio, costruire mobili biodegradabili, riparare le ossa umane o scoprire tumori.

BENETTON. Eppure Astorri è forse un genio, ma non ha un percorso pregresso nella chimica. Dopo un’esperienza nel marketing, nel 2002 fonda la società Lab-Id, crede in lui Mauro Benetton, della dinastia trevigiana. Si occupa di varie cose, ma soprattutto ccerca di inserire i chip Rfid (per identificazione a radiofrequenza) nell’abbigliamento. Una specie di etichetta digitale. Nel 2003 Benetton si allontana dal progetto: troppi problemi di privacy. E Astorri cerca di portare la sua rivoluzione negli skipass, lavora con Dolomiti Superski. Non va benissimo. Ma per fortuna lui e l’amico Guido Cicognani sono pieni di creatività, almeno stando a quanto racconta sempre a Repubblica: “Abbiamo chiuso con gli skipass. Ci siamo comprati un computer, un iMac, l’abbiamo collegato alla Rete e abbiamo iniziato a cercare qualcosa di nuovo”. Trovano alle Hawaii un gruppo di ricercatori che “sta sperimentando un modo per produrre la plastica con gli scarti della lavorazione delle zucchero”.

Cosa faccia davvero oggi Bio-On, quali siano i suoi clienti diversi da joint venture guidate da Astorri e Cicognani e quali tecnologie abbia davvero sviluppato è un mistero che neppure questi giorni di drammatica attenzione da parte della Borsa sono riusciti a dissipare. Ieri intanto la Procura di Bologna ha aperto un fascicolo, per ora contro ignoti, per manipolazione di mercato.

Omicidio Morganti, la sentenza: 16 anni ai tre assassini

Tre condanne e una assoluzione. C’è un primo verdetto per la morte di Emanuele Morganti dopo un pestaggio fuori da un locale ad Alatri, in provincia di Frosinone, un brutale assassinio di un giovane di 20 anni avvenuto il 26 marzo 2017, nella piazza del paese. Il ventenne di Tecchiena, aggredito dal branco in piazza Regina Margherita, morì a distanza di poche ore al policlinico Umberto I di Roma.

La Corte d’Assise del tribunale di Frosinone ha condannato il 26enne Michel Fortuna e i fratellastri Paolo Palmisani e Mario Castagnacci a sedici anni per omicidio preterintenzionale. Assolto, invece, Franco Castagnacci, padre di Mario. Per loro è caduta l’accusa di omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Più dure erano infatti le richieste dei pm: per Michel Fortuna avevano chiesto l’ergastolo, per Mario Castagnacci 28 anni, per Paolo Palmisani 26 anni e per Franco Castagnacci 24 anni. La sentenza è stata accolta con disappunto e urla dai presenti. Quelli che portarono alla morte di Emanuele Morganti furono 15 minuti di orrore, di violenza inaudita e gratuita, consumata davanti a decine di ragazzi che riempivano la piazza centrale di Alatri.

Mediaset come Sky: addio Roma Verso Milano 29 giornalisti

Un vero e proprio blitz, per spostare una parte della redazione da Roma a Milano. Proprio nei giorni in cui il gruppo annuncia un aumento degli utili del 155% nel primo semestre 2019. Dopo Sky, anche Mediaset lascia la Capitale: o almeno così vorrebbero i vertici. Via cronaca, esteri e sport, resteranno solo il servizio politico e vaticano: 29 giornalisti dovranno cambiare città.

Già nel 2017 si era parlato di un trasloco, allora per il Tg5. Non se ne fece nulla, per la rivolta interna e anche per il peso della testata, la più rappresentativa della rete. Stavolta l’azienda ci riprova con un altro pezzo, il più debole ma anche il più grande: dopo l’ultima riorganizzazione di giugno, con l’accorpamento di TgCom, Sport, Studio Aperto e Tg4, News Mediaset conta su 219 effettivi. “Quell’operazione era apparsa a tutti scriteriata: oggi abbiamo scoperto la sua logica”, spiegano voci interne, sempre più preoccupate per la prospettiva dell’esodo.

In particolare, il trasferimento dovrebbe coinvolgere 29 giornalisti, fra cui 2 vicedirettori e 8 caporedattori. La cronaca romana sarà coperta solo dal Tg5. Le ragioni ufficiali sono il sovrannumero della linea, a cui è stata contestata una “scarsa attività”: “Spesso si fa fatica a trovare lavoro”, è stato detto ai dipendenti. Il piano è stato subito contestato dal Cdr: l’assemblea ha proclamato lo stato d’agitazione e votato un pacchetto di 5 giorni di sciopero. L’azienda però non pare intenzionata a fermarsi, anzi chiede trasferimenti già ad ottobre.

Sembra di rivivere la stessa situazione di Sky, che un paio d’anni fa chiuse la sede romana. In questo caso si tratta di un provvedimento parziale. Per ora: in molti temono che sia solo l’inizio e che presto la stessa sorte possa riguardare anche il resto della redazione. Anche il Tg5, quando in futuro andrà in pensione il direttore Mimum, potrebbe non essere più al sicuro.

La news su Renzi sr. non piace. E i giornaloni la fanno sparire

Visto il periodo balneare, forse alcuni quotidiani avranno pensato bene di inserire tra le pagine una versione giornalistica del celebre “aguzzate la vista”. Ieri infatti la notizia del respingimento della richiesta di archiviazione per Tiziano Renzi per lo scandalo Consip ha messo a dura prova i lettori dei maggiori giornali, che si sono dovuti dotare di buona volontà – e di lente d’ingrandimento – per trovare un articolo sul tema. E dire che il 30 ottobre scorso, quando il pm aveva invece chiesto l’archiviazione per Renzi senior, la musica era tutt’altra: prime pagine, editoriali, grandi effetti grafici per raccontare “L’inchiesta Consip al capolinea” (Avvenire dixit) o che era stato “Archiviato Tiziano Renzi, non il fango” (Il Mattino). E poco importa se quella non fosse un’archiviazione, ma soltanto una richiesta.

La Repubblica è un caso di studio. Il 30 ottobre la notizia su Renzi merita un richiamo in prima: “Il pm: a processo Lotti e Del Sette, Tiziano Renzi è da archiviare”. All’interno del giornale il lettore ha a disposizione una doppia pagina con ben tre pezzi sull’argomento. Per i più esigenti, ecco che a pagina 32, riservata ai pareri delle firme del quotidiano, c’è anche l’editoriale di Gianluca De Feo, “Il contagio del malaffare”. Ce n’è fino a stufarsene, insomma, a differenza di ieri: nessun richiamo in prima e notizia affondata in un basso a pagina 17, sotto al blitz di Virginia Raggi sotto la sede di Casapound per far rimuovere l’insegna abusiva. Editoriali? Non pervenuti.

Anche il Corriere si dimostra appassionato di mimetismo. Il 30 ottobre 2018 il caso Consip è sparato a tutta pagina, con due articoli e corredo di foto di tutti i personaggi coinvolti: “Consip, i pm: archiviare Renzi senior. Rischiano il processo Lotti e Del Sette”. Con tanto di profezia dei legali del padre dell’ex premier: “Il tempo è galantuomo”. Ieri la notizia su papà Renzi è invece di tutt’altro ingombro grafico: un basso a pagina 6, sotto al caso Siri-Arata. Titolo scarno, due fotine appena (Renzi senior e Luca Lotti) e nessun richiamo in prima pagina.

Non è da meno il Messaggero. Il quotidiano romano il 30 ottobre dedica alla notizia della richiesta di archiviazione un’apertura di pagina: “Consip, Tiziano Renzi verso l’archiviazione. Ma i pm: non è credibile”. In questi mesi deve però essere successo qualcosa, perché il caso Consip pare non interessare niente a nessuno, tanto è vero che lo stesso Messaggero ieri cita il respingimento della richiesta in un impercettibile boxino nella pagina sul caso Siri, ben mascherato tra una colonna e l’altra di un altro articolo.

Lo stesso format scelto dalla testata Il Mattino, che fa parte dello stesso gruppo editoriale e che ricalca pari pari il box, nonostante nove mesi fa quello stesso giornale avesse dedicato alla vicenda un editoriale: “Si concludono le indagini dovendo prendere atto che non c’è nulla di penalmente rilevante, ma si inserisce qua e là qualche parola da dare in pasto a chi vorrà scrivere, pure in presenza di una richiesta d’archiviazione, che insomma, quel Tiziano Renzi uno stinco di santo non era. E l’idea non è che uno era innocente, ma che uno l’ha fatta franca. Non è una democrazia sana, questa”.

Avanti con La Stampa. Tanto per cambiare, notizia della richiesta data in apertura di pagina 7, con foto di Tiziano Renzi: “Consip, Lotti rischia il rinvio a giudizio. I pm: “Archiviazione per Tiziano Renzi”. Ieri, abracadabra: basso a pagina 6, senza alcuna illustrazione. Così, per non dare nell’occhio.

Partecipa al copione anche Il Giornale. Il 30 ottobre la notizia è in prima pagina: “Lotti a processo ma si salva babbo Renzi”. Dentro c’è la solita apertura ampia, almeno 4.000 battute. E ieri? Silenzio quasi tombale. Niente prima pagina, trafiletto nel taglio alto (altissimo) di pagina 8: 556 battute spazi inclusi. Sempre meglio del Foglio. Il quotidiano diretto da Claudio Cerasa il 30 ottobre è scatenato e sfodera Annalisa Chirico, una delle sue firme, in un editoriale che derubrica lo scandalo a una robetta mediatica. “Nuovo cinema Consip”, lo chiama, prima di rassicurarci tutti: “Senza il provvido intervento della Procura capitolina, con Pignatone e Ielo in testa, i cittadini avrebbero creduto a una fake inchiesta basata su prove letteralmente false”. La notizia di ieri, comunque, non deve aver sconvolto il Foglio: essendo una “fake inchiesta”, il giornale ha pensato bene di non dedicare neanche un rigo al respingimento della richiesta di archiviazione per Renzi senior. Con tanti saluti ai lettori.

Hansel e Gretel, il Miur ha sospeso l’associazione

L’associazioneHansel e Gretel, al centro dell’inchiesta guidiziaria “Angeli e demoni” sui presunti affidi illeciti di 10 minori presi in carico dai servizi sociali a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia, non è più riconosciuta dal Miur. L’associazione torinese è stata sospesa dalla piattaforma Sofia per la formazione degli insegnanti e dalla Carta del docente, che viene utilizzata anche per l’acquisto di corsi. L’istanza è stata presentata dall’associazione “Non si tocca la famiglia”, che difende la “famiglia naturale” contro la cultura lgbt. Il Miur il 17 luglio ha provveduto alla sospensione della Hansel e Gretel, l’onlus torinese per cui lavorano tre personaggi chiave dell’inchiesta giudiziaria sugli affidi in Val d’Enza, in cui sono indagate 29 persone: il direttore scientifico Claudio Foti, la sua compagna e psicoterapeuta, Nadia Bolognini, e la collega Sarah Testa. Foti è accusato di frode processuale e abuso d’ufficio. Per lui, le misure cautelari sono state revocate e sostituite con l’obbligo di dimora a Pinerolo, in provincia di Torino. Resta ai domiciliari, invece, la Bolognini, che avrebbe utilizzato la discussa “macchinetta dei ricordi” e risponde di accuse più gravi, tra cui violenza privata, falsa perizia, frode processuale e depistaggio.

“Formigoni potrebbe dire dove sono i soldi” (ma non gli conviene)

Altro che “collaborazione impossibile” stabilita dai giudici di Sorveglianza di Milano, che per questo gli hanno concesso i domiciliari. Roberto Formigoni, secondo la Procura di Milano, “certamente potrebbe contribuire” a fare giustizia, se lo volesse. Invece, è tornato a casa dopo 5 mesi di carcere, pur essendo stato condannato a 5 anni e 10 mesi per una corruzione colossale (casi San Raffaele- Maugeri), ai danni dei contribuenti: 61 milioni complessivi di cui 6 milioni tutti per lui.

Secondo la spazzacorrotti, anche i condannati definitivi per corruzione che hanno superato i 70 anni, come Formigoni, e non collaborano, possono restare in cacere. Il tribunale di Sorveglianza, però, ha concesso i domiciliari perché tutto è stato già riscontrato, la Procura non ha dato certezze sull’utilità della collaborazione, Formigoni ha riconosciuto “il disvalore” dei suoi comportamenti.

Ma la storia cambia completamente se si legge il parere negativo del procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio. Secondo la pm Formigoni, che mai ha collaborato, ancora oggi potrebbe farlo se è vero, come ha sostenuto con i giudici, che ha compreso in carcere i suoi errori, anche se la parola corruzione dalla sua bocca non è mai uscita.

Laura Pedio, ai giudici che chiedono “se un’eventuale collaborazione fornita ora possa essere considerata utile”, risponde: “Quest’Ufficio ritiene di non poter affatto escludere l’utilità”. In particolare, “Formigoni certamente potrebbe e può oggi collaborare proficuamente per consentire l’esecuzione delle cospicue confische per equivalente attraverso il recupero di denaro e beni” di cui l’autorità giudiziaria non è entrata in possesso “perché in paesi che non hanno collaborato (Panama, Seychelles, Bahamas, Malta), ovvero di beni tuttora nella sua disponibilità (come i quadri che gli sono stati confiscati) e rendere così possibile per lo Stato il recupero di parte dell’ingente danno patrimoniale”.

Il procuratore aggiunto prosegue specificando che l’ex governatore ed ex senatore, se volesse, potrebbe contribuire ad “accertare eventuali altri fatti di corruzione, ovvero di riciclaggio o autoriciclaggio. Questo, del resto, è nelle sue possibilità, in quanto, come evidenziato dal Tribunale nella vicenda del San Raffaele, la figura di Daccò (il faccendiere Pierangelo Daccò, che ha patteggiato, ndr) emerge chiaramente come quella di un mero collettore di tangenti in nome e per conto di Roberto Formigoni”. E sul punto Pedio cita uno stralcio della sentenza in cui si sottolinea che “in base agli accordi con i vertici del San Raffaele (Mario Cal e Don Verzè) Daccò agiva quale collettore di tangenti per Formigoni in cambio dell’ottenimento di provvedimenti in materia sanitaria favorevoli alla Fondazione”.

Pedio ricorda pure che “non vi sono elementi certi che consentano a quest’Ufficio di ritenere, ma neppure di escludere, che l’organizzazione criminale cui il condannato era legato o diramazioni della stessa siano, allo stato, ancora operanti. Il dato di cui questo Ufficio dispone è che: Pierangelo Daccò e Antonio Simone (l’ex assessore Dc che ha patteggiato, ndr), principali sodali di Formigoni sono liberi; Daccò ha ripreso a frequentare il Sud America; Giancarlo Grenci, fiduciario svizzero, ha patteggiato la pena ed è anch’egli libero; che vi è la prova in atti che esistono provviste illecite all’estero su conti correnti dei quali nulla si è potuto accertare in quanto in paesi che non hanno collaborato (Panama, Seychelles, Bahamas, Malta). Formigoni ha rivestito un ruolo decisivo e centrale nello svolgimento della vicenda corruttiva”, come hanno anche stabilito i giudici d’appello.

“È Formigoni-prosegue Pedio – ad accreditare (ed imporre) presso gli uffici tecnici della Direzione Generale Sanità Daccò. È ancora soltanto Formigoni a poter garantire il raggiungimento degli obiettivi criminali del sodalizio criminoso attraverso l’adesione ai patti corruttivi e l’esercizio illecito delle sue funzioni”. Per il procuratore aggiunto Formigoni è “l’assoluto protagonista” perché “senza il suo contributo il programma criminoso del sodalizio non avrebbe potuto trovare realizzazione”.

Tanto è vero che non gli sono state concesse le attenuanti generiche e in Appello gli è stato dato “il massimo della pena (7 anni e 6 mesi, ndr)”. Pedio, contraria ai domiciliari, fa pure un importante riferimento all’oggi: “Roberto Formigoni ben potrebbe collaborare anche nel processo che lo vede imputato a Cremona, insieme ad altri, per corruzione, trattandosi di fatti strettamente connessi a quelli oggetto del presente parere”. Si riferisce al processo in corso davanti ai giudici di Cremona che è, nella sostanza, la fotocopia di quello di Milano, diventato famoso nell’immaginario collettivo peri viaggi del “Celeste” sullo yacht di Daccò, rivelati, insieme ad altri episodi, dal Fatto nel 2012.

A Cremona, Formigoni è imputato perché si sarebbe fatto corrompere, attraverso l’ex consigliere di Forzaitalia Massimo Guarischi, per favorire la Hermex Italia, che voleva piazzare un’ apparecchiatura diagnostica, acquistata poi dall’Ospedale Maggiore cremonese.

Formigoni avrebbe ricevuto da Guarischi, già condannato a 5 anni, “complessivi 447.000 euro” tra cui “7.000 euro per festeggiare il Capodanno del 2012 in Sudafrica”; “11.900 euro e 17.910 euro per due vacanze in barca in Croazia”. E ancora viaggi in Oman, in Sardegna, noleggio di aerei privati per andare in Valtellina (costo 6.000 euro) e a Saint Moritz ( costo, 8.030 euro”) senza contare i “pranzi e le cene in ristoranti”. Il resto in contanti: avrebbe avuto 389 mila euro.

Trump e il bacio della morte

È in grande forma, Donald Trump. E il mezzo flop dell’audizione in Congresso di Robert Mueller, l’ex procuratore speciale del Russiagate, gli dà un po’ d’euforia: i democratici all’opposizione hanno giocato l’asso e hanno perso la mano, mentre il magnate presidente, giorno dopo giorno, ne sforna una nuova per tenere alto l’entusiasmo della sua base: i migranti, con l’escalation di misure, magari inefficaci, contro gli illegali; la difesa un po’ sguaiata di A$AP Rocky, il rapper arrestato e rinviato a giudizio in Svezia; e il ripristino della pena di morte con iniezione letale nelle carceri federali, dopo una moratoria di oltre 15 anni; l’ultima sentenza federale capitale eseguita risale al 2003.

Trump si sente la vittoria in tasca, nelle presidenziali 2020; e, in questo momento, ce l’ha. Tanto più che l’economia va bene anche quando rallenta: esempio, la crescita nel secondo trimestre è stata inferiore a quella del primo trimestre, ma comunque superiore alle previsioni. E quindi il dato suona un successo. Lo showman presidente sa poi scegliere sempre temi su cui i democratici, criticandolo, appaiono pericolosi sinistrorsi: dai commenti razzisti, che se li definisci tali fai sentire razzista più di mezza America bianca, alla pena di morte, che una maggioranza di americani continua ad approvare (anche se gli abolizionisti crescono). Giovedì, l’Amministrazione Trump ha annunciato la ripresa delle esecuzioni capitali pronunciate da tribunali federali. Il Dipartimento della Giustizia ha adottato un nuovo protocollo di iniezione letale – il blocco nasceva dalla crudeltà del metodo – e ha programmato cinque esecuzioni a Terre Haute, la prigione federale dell’Indiana dove, nel 2001, fu messo a morte Timothy McVeigh, un reduce della Guerra del Golfo del 1992, suprematista bianco, responsabile della strage di Oklahoma City (19 aprile 1995, 169 vittime, fra cui 19 bambini). La mossa di Trump non è un fulmine a ciel sereno, ma si colloca in controtendenza con le moratorie della pena di morte adottate da un numero di Stati crescente, spesso con il pretesto della disumanità dei metodi. La reazione di alcuni dei candidati di punta alla nomination democratica non s’è fatta attendere: “C’è abbastanza violenza nel mondo. Il governo non dovrebbe accrescerla. Quando sarò presidente, aboliremo la pena di morte”, scrive su Twitter il senatore Bernie Sanders. E altre due senatrici, Kamala Harris ed Elizabeth Warren, denunciano gli errori giudiziari legati alla pena di morte, molti e irreparabili.

“La pena capitale é immorale e profondamente fallace. Troppi innocenti sono stati giustiziati. Ci vuole una moratoria nazionale delle esecuzioni, non una loro ‘resurrezione’”, scrive Harris. “Il nostro sistema criminale ha una lunga storia di errori sulla pena capitale, specialmente quando si tratta di persone di colore… Io mi oppongo alla pena di morte”, afferma la Warren. Tace, invece, Joe Biden, l’attuale battistrada della corsa democratica, ma in perdita di consensi e forse timoroso di finire confuso con quei ‘socialisti’ dei suoi antagonisti.

In qualche misura, osserva The Hill, il giornale della ‘bolla’ di Washington, i democratici cadono nella trappola di Trump. Dopo l’audizione di Mueller, l’idea d’avviare una procedura d’impeachment contro il presidente s’è appannata e la consapevolezza che l’unico modo di sbarazzarsi del magnate è vincere le elezioni l’anno prossimo s’è rafforzata. Ma i candidati alla nomination, per distinguersi da Trump, rischiano di spaventare l’elettorato moderato.

I propositi di Sanders e delle sue colleghe senatrici hanno un’eco nell’Unione: gruppi che si battono per i diritti umani e contro la pena di morte intendono contestare in giustizia la decisione dell’Amministrazione. Un punto di forza dei ricorsi potrebbe essere che i contenziosi medico-legali sui cocktail di farmaci storicamente usati nelle esecuzioni con iniezione letale – quelle praticate nei carceri federali – non sono stati affatto superati. Ma ciò non ha impedito al magnate presidente di chiedere al Dipartimento della Giustizia di accelerare la pratica e di arrivare adesso all’annuncio della ripresa delle esecuzioni.

I condannati a morte federali hanno un mix etnico anomalo rispetto ai condannati dalla giustizia degli Stati. Secondo il Death Penalty Information Center, fra i 62 condannati attualmente detenuti nei bracci della morte federali, ci sono più bianchi (27) che neri (26) e i latini sono ‘appena’ il 10%, mentre uno solo è d’origine asiatica. Fra questi 62, il personaggio è Dzhokhar Tsarnaev, che piazzò la bomba alla Maratona di Boston nel 2013.